Illogica. Apodittica. Apparente. Stupefacente. Erronea. Fantasiosa. Fallace. Non risparmia aggettivi, il pm Stefania Cugge, per smontare la ricostruzione del delitto di Cogne ipotizzata dal Tribunale del riesame di Torino... ieri è stato rivelato il testo delle 50 pagine, firmate anche dal procuratore Maria Del Savio Bonaudo, inviate alla Corte di Cassazione per il suo giudizio definitivo. Tra i nove punti contestati dal pm, il più corposo riguarda gli alibi dei vicini di casa Lorenzi. I tre giudici del Riesame avevano spostato i sospetti su Daniela Ferrod e su suo suocero Ottino Guichardaz. Secondo Stefania Cugge è “decisiva” la telefonata delle 8.08 di Daniela Ferrod con il marito già al lavoro; una conversazione che, per la sua durata, “estende significativamente in avanti l'alibi della donna”. Dando per vera una testimonianza della difesa, il Riesame sostiene che la vicina spiava le abitudini dei Lorenzi; la procura smentisce definendola una “mera suggestione del collegio giudicante”. Ottino Guichardaz, sempre secondo il ricorso del pm di Aosta, è stato “inspiegabilmente sospettato dal Tribunale... mentre non si comprendono le ragioni per cui non credere a suo figlio Ulisse, sentito lo stesso pomeriggio del giorno dell'omicidio”. Si dovrebbe allora ipotizzare, ma il Tribunale non lo fa, che i due abbiano concertato una versione comune dei fatti e siano coinvolti nell'omicidio. Gli altri otto punti contestati riguardano l'attendibilità come testimone d'accusa del medico Ada Satragni, le macchie di sangue sugli zoccoli di Annamaria Lorenzi, quelle sul suo pigiama, la posizione del pigiama, l'approssimazione sull'ora dell'omicidio, il tipo di arma, il tempo in cui la mamma è rimasta sola con Samuele e l'assenza di reazioni del bambino davanti all'assassino. La procura critica duramente i criteri di valutazione del Riesame, che avrebbe potuto indicare “ulteriori atti da compiere ove si ritengano incompleti quelli svolti”; l'omessa indicazione di essi non conduce allora se non a una conclusione. Quella secondo cui “altri e diversi accertamenti seriamente possibili non sono prospettabili”. I magistrati definiscono “fantasiosa e stupefacente” la ricostruzione del Tribunale sulla possibilità di un assassino esterno; si tratta di “una mera ipotesi dell'estensore neppure supportata da un sospetto concreto, sia pure minimo”. Secondo la procura gli otto minuti di assenza di Annamaria dalla casa quella mattina sarebbero stati insufficienti a un estraneo; dice la Cugge: “Si immagini l'omicida sporco di sangue, con in pugno l'arma altrettanto sporca, che si avventura fuori dalla villa, in un tratto privo di vegetazione, ove i movimenti affrettati dell'omicida in fuga sarebbero stati avvistati da lontano e in particolare dalla Franzoni che stava rientrando. E tutto ciò in soli otto minuti”.
Questo è un articolo scritto a due mesi dall'omicidio. Si capisce subito e molto bene come gli occhi dei Pm non fossero propensi a guardare oltre la Franzoni. Nell'atto inviato ai giudici sono citati nove punti a conferma di quanto fosse buona la loro indagine. Otto li ho demoliti nei miei precedenti articoli, ora vediamo il nono e cerchiamo di capire se davvero i giudici del Riesame avevano scritto cose apocalittiche, fantasiose, e via dicendo, quando insistevano affinché si facessero verifiche su altre persone sospettabili. Loro parlarono di una famiglia in particolare, la famiglia Guichardaz. Ora, per poter fare in modo che qualcuno venga meglio controllato dagli investigatori, serve che esista un minimo di movente. Se questo esiste si deve valutare l'alibi che viene presentato, alibi che deve escludere la possibilità di una entrata in casa altrui. Se tutti i conti tornano la persona che appariva sospettabile va accantonata e non ha senso indagarla, questo asseriva di aver già fatto la Cugge, in caso contrario serve attenzionarla maggiormente. Ed allora verifichiamo, tramite i verbali e le testimonianze di dieci anni fa, se chi i giudici indicavano quali possibili sospetti dovevano o no essere verificati in maniera migliore.
Ottino Guichardaz, padre di Carlo e di Ulisse, nonché suocero di Daniela Ferrod, abita a circa seicento metri da dove viveva Samuele; le case accanto alla villetta dei Lorenzi sono dei suoi figli, una al tempo era in fase avanzata di costruzione, ma è sempre stato lui che ha preso le decisioni per conto loro. Per capirlo leggiamo un articolo de La Repubblica: "Così racconta la storia di quelle due famiglie Vito Perret, un vicino di casa dei Lorenzi: - erano stati divisi dalla storia della strada comunale. Una storia piccola in fondo, che però a Cogne fino a ieri, prima dell'assassinio di Samuele, aveva avuto un certo rilievo. Quando i Lorenzi hanno costruito la casa l'unico raccordo tra la montagna e la strada asfaltata era un sentiero che passava davanti alle ville dei Guichardaz. Un sentiero che Anna Maria percorreva ogni giorno per portare Davide e Samuele allo scuolabus. Ma quel passaggio, utilizzato anche per portare il materiale di costruzione della casa, era diventato un elemento di attrito tra le famiglie, tanto che ad un certo punto i Guichardaz avevano proibito ad Anna Maria e Stefano di passare su quel sentiero; così la mamma di Samuele, ogni mattina, era costretta ad attraversare un pezzo della montagna. Dopo lunghe trattative, e forti pressioni da parte di Stefano Lorenzi, il Comune ha finalmente deciso di costruire, nella primavera scorsa, una strada che oggi collega la casa dei Lorenzi alla Provinciale. Un'operazione che è costata però l'esproprio di circa mille metri di terreno per diverse famiglie, tra cui anche i Guichardaz, ai quali il terrapieno ha anche reso cieche e prive di luce interne parti delle due case -".
Questo quanto tutti sapevano a Cogne, anche i carabinieri. Ma, dato che non possiamo dar per certo quanto afferma un vicino, dobbiamo dare voce anche all'interessato e sentire cosa dice del fatto in questione. Per far questo prendiamo un altro articolo di aprile 2002 e leggiamolo. E' stato pubblicato da "La Repubblica" a firma di Enrico Bonerandi: "Dei Guichardaz s'era subito parlato a causa di una antica controversia con i Lorenzi. Ottino aveva siglato un accordo il 2 febbraio del '95 con cui concedeva a Stefano e ad Anna Maria di utilizzare la propria strada privata. Dice Ottino: “Per i primi anni nessun problema. Loro hanno finito presto di costruire la baita ed è cominciato un viavai continuo. Gente che saliva a tutte le ore, signore imbranate che restavano impantanate di traverso nel fango; tutto sotto la nostra responsabilità. Allora abbiamo piazzato una catena con un lucchetto, dandone una chiave ai Lorenzi, col patto che la usassero solo loro. Finché un giorno sorprendo Anna Maria con le sue amiche ancora su quella strada che facevano i propri comodi. Ho messo le cose in chiaro. La stessa sera mi arriva a casa Stefano che mi fa: - ehi, non ti permettere di insultare mia moglie -. Allora ho perso la pazienza e gli ho detto: - arrangiatevi col vecchio sentiero! -. Beghe di paese che si sono ingigantite dopo l'uccisione di Samuele".
Beghe di paese, disse Ottino Guichardaz, ma le beghe di paese possono essere un buon movente per cercare di cacciare chi ti ha fatto espropriare dal Comune mille metri della tua terra ed ha reso prive di luce le finestre di una tua casa. Magari, ipotizzo basandomi sulle tante baite che bruciano ciclicamente in Val D'Aosta, se si fosse riusciti a bruciargli la villetta, facendo credere ad un corto circuito, i Lorenzi se ne sarebbero tornati in Emilia. Ma questa è un'ipotesi che per poter diventare investigativa abbisognava della mancanza di un alibi, ed il fatto che non la si sia seguita può solo significare che l'alibi esistesse e fosse davvero buono. Vediamo quindi l'alibi di Ottino Guichardaz. Nel primo interrogatorio, avvenuto alle quindici del trenta Gennaio (sette ore dopo l'omicidio), lui dichiarò di essersi alzato alle sette e di essere uscito alle otto e trenta. Nel secondo, avvenuto il primo Febbraio (due giorni dopo l'omicidio), ripetè quasi le stesse cose. Disse di essersi alzato alle sette e quindici e di essere uscito alle otto e quaranta. Il quattro Febbraio, sei giorni dopo l'omicidio, venne chiamato nuovamente dai carabinieri e questa volta, al contrario di quanto fatto nei primi due interrogatori, fu precisissimo. Dichiarò di essersi alzato alle sette e quindici e di essere uscito per andare al suo albergo, dove disse di essere rimasto dieci minuti per prelevare un furgone dal garage. Affermò di essersi successivamente recato in un altro suo garage, vicino al primo, per controllare se corresse l'acqua; poi asserì d'essere tornato a casa, di essersi cambiato e messo gli scarponi e di essere uscito nuovamente per recarsi alla casa in costruzione, quella a pochi metri dalla villetta dei Lorenzi, mentre suo figlio Ulisse si preparava per andare ad aprire il negozio del fratello Carlo ancora impegnato a Torino.
La domanda non può mancare: come mai tutti questi cambiamenti? Dopo che aveva, e per ben due volte, dichiarato di non essere uscito, dice ai carabinieri di aver girato avanti e indietro dalle sette e quindici in poi. L'altra cosa strana è che inserisce nel suo racconto tante precisazioni ed figlio Ulisse. Per quale motivo si sente in obbligo di precisare ciò che prima non aveva neppure menzionato? Che sia stato consigliato da un buon avvocato e dalla paura che qualcuno l'avesse visto andare a zonzo su quei monti? Perché dire di essere uscito con scarpe che l'avrebbero obbligato a tornare a casa per cambiarsi? Perché dire che il figlio era all'interno dell'abitazione al momento della sua ultima partenza? L'avvocato gli avrà anche detto di buttare là «quel nome», magari perché faceva comodo ad entrambi essersi visti in quegli orari. Nessun inquirente si pone domande, neppure la Pm Cugge dopo aver letto le dichiarazioni del figlio che nel primo interrogatorio disse di essersi svegliato alle otto e dieci e «precisò» di aver visto il padre in casa; poi asserì di essere uscito alle otto e quaranta dicendosi certo che il padre non fosse uscito prima delle otto e venti, otto e trenta. Alla fine fece mettere a verbale anche che mentre era a casa il genitore usciva ed entrava continuamente.
Perciò nella prima testimonianza che fornisce Ulisse Guichardaz suo padre è in casa, a conferma delle prime due deposizioni del padre stesso, anche se c'è la variante del fatto che va avanti e indietro ed esce verso le otto e venti, otto e trenta. Le versioni non combaciano perfettamente, ed in particolar modo quella fornita inizialmente dal figlio si differenzia in maniera rilevante da quella fornita dal padre il quattro febbraio. Ed allora viene richiamato in caserma l'otto febbraio (a nove giorni dalla sua prima e quattro giorni dopo l'ultima del padre). In questa è precisissimo e quasi rasenta la perfezione nei particolari. C'è da credere sia entrato in ballo un buon avvocato? Da come Ottino Guichardaz ha ricordato i fatti il quattro Febbraio sembrerebbe di sì. Ed allora vediamo se anche suo figlio modifica la testimonianza resa al primo interrogatorio, quello in cui aveva dato per certa la presenza del padre nell'abitazione. Ulisse Guichardaz l'otto febbraio dice di essere stato a dormire a casa dei suoi genitori; dice di essersi svegliato a causa della telefonata fattagli dal fratello che voleva andasse ad aprire il negozio. Ricorda gli orari alla perfezione perché in camera ha tre “sveglie”, “sveglie” che tiene a diverse distanze in modo da farlo alzare per spegnerle, altrimenti non sarebbe sicuro di riuscire a svegliarsi. Comunque quella più vicina al letto segnava le otto e dieci. Qui inserisco un inciso per farvi sapere che nella sua stanza non c’è il telefono e che in base a questo, dato che per svegliarsi gli servono tre sveglie, gli inquirenti si sarebbero dovuti far spiegare come ha fatto a sentire squillare un telefono situato in un altro locale della casa. Lui dice che tiene le tre sveglie a diverse distanze, solo una accanto al letto, in modo da essere obbligato ad alzarsi per spegnerle; quindi se ne tiene tre è certo che la prima e la seconda non bastino a fargli aprire gli occhi. Se non bastano quelle, presenti all'interno della camera dove dorme, può riuscirci il suono di un telefono posto in un'altra stanza? Ma proseguiamo nella sua testimonianza per scoprire che in questa occasione afferma di aver visto il padre rientrare in casa alle otto e quindici e che si dice sicuro dell'orario in quanto ha guardato l'orologio che teneva al polso.
Un nuovo inciso serve per sottolineare come ci sia un'enorme differenza fra la sua prima dichiarazione, quella in cui si disse certo che il padre non fosse uscito prima delle otto e venti, otto e trenta, e questa seconda in cui afferma di averlo visto rientrare alle otto e quindici. Come mai il trenta Gennaio non disse di averlo visto rientrare in quell'orario ma disse di averlo visto uscire? Perché nel primo interrogatorio non parlò dell'orologio al polso? Comunque finisce dicendo di aver riassettato la stanza e dopo aver fatto colazione, sulle le otto e quarantacinque, d'essere uscito in concomitanza con l'arrivo dell'elicottero del 118 (arrivato alle 8.52). Questo è l'alibi fornito da Ulisse Guichardaz per sé che in parte conferma quello di suo padre. Non dice più che Ottino era in casa, come testimoniato nella prima deposizione, ma che torna alle otto e un quarto, inoltre ha una sicurezza accertata degli orari comprovandoli con la presenza di sveglie ed orologi. Però comparando le dichiarazioni si evince che c'è qualcosa di poco chiaro e logico... è palese. Perché improvvisamente il padre sparisce dalla casa? Come mai non vi resta all'interno, pur andando avanti e indietro come dichiarato nel primo interrogatorio? Come mai viene visto con certezza, perché dice di aver guardato l’orologio che tiene al polso, solo alle otto e quindici? Quale inquirente ha accettato tali alibi?
E' chiaro che l'avvocato in gamba esisteva ed aveva notato il grosso problema, poi in parte corretto. Quale problema? E' semplice e ve lo spiego. La logica vuole che se in casa c'è qualcuno già sveglio sia lui ad alzare la cornetta di un telefono che squilla, non di certo chi si dice addormentato e nonostante tre sveglie fatica a svegliarsi. Quindi la prima testimonianza, nella quale il padre era in casa, non forniva al figlio alcun alibi. Per fargliene avere uno almeno decente, quando arriva la telefonata il padre dev'essere all'esterno, solo così si può supporre che abbia risposto il figlio alla chiamata del fratello. Però quell'uomo non può restare fuori per troppo tempo, altrimenti si rischia di ammettere la possibilità di una sua intromissione in uno chalet altrui. Onde evitare questi due grossi rischi, e nel contempo avvallare l'alibi fornito dal padre, occorre farlo rientrare subito, diciamo sulle otto e quindici, guarda caso proprio nello stesso momento in cui Annamaria Franzoni sta per uscire di casa. Per rendere il tutto più credibile si inserisce un orologio da polso, meglio un particolare in più che uno in meno. Pertanto, per creare una sorta di alibi familiare a chi l'alibi non l'avrebbe mai avuto, è bastato incastrare in maniera «giusta» le «entrate» e le «uscite». Davvero bravo quell'avvocato.
Ma c'è un'altra «cosa» molto sospetta che stride e fa sentire un odore «infinito» di bruciato, un odore che si sente anche a Porto Recanati. Una «cosa» che l'avvocato non poteva cambiare perché ancora non conosceva, la durata della telefonata. Mi spiego meglio. La chiamata fatta da Carlo Guichardaz al fratello Ulisse, diretta in realtà al telefono di casa, dura diciassette secondi. Avete letto bene, ho scritto 17 secondi. Non è facile per uno che fatica a svegliarsi sentire il suono del telefono proveniente da un’altra stanza... però proviamo ad ammettere abbia sentito gli squilli e facendo uno sforzo si sia alzato per rispondere, in questo caso che tono avrebbe avuto la conversazione? "Ciao sono Carlo... faccio tardi vai tu ad aprire il negozio". "Sì... sì... ho capito... va bene, ciao..." Otto, nove secondi al massimo? Dando per buona la sua testimonianza ci staremmo troppo larghi e comodi, aumentandola invece con i convenevoli del tipo: "come stai oggi, hai da fare, il babbo è in casa, hai sentito la mamma (da giorni a Lecco)... e così via, sarebbero serviti minuti e non secondi. Ma anche se avesse risposto il padre, anziché lui, non ci staremmo dentro; questo perché in 17 secondi non sarebbe neppure riuscito ad andare a svegliare il figlio. Gli inquirenti ci devono delle risposte dato che la durata di quella telefonata toglie le già poche certezze dagli alibi, familiari, accettati. Ed in fondo per quale motivo il fratello l’avrebbe dovuto chiamare? Per dirgli di andare ad aprire il negozio? Poteva farlo il giorno precedente visto che erano entrambi a Cogne. Che l'abbia chiamato a causa di un contrattempo? Nessun verbale ne parla e si presume non ci sia stato. Pertanto se non c'è stato questa telefonata appare alquanto strana.
E la sua stranezza fa capire quanto sia stato bravo l'avvocato e scarsi gli investigatori. Voglio fare una «prova» per verificare la credibilità mia e della mia famiglia. Mettiamo che alle otto e venti di mattina io uccida un mio vicino di casa, che tutti sanno avere avuto dissapori forti con me (anche i carabinieri), e mettiamo io dica che in quel momento mi trovavo a letto. Mettiamo che mio padre confermi le mie affermazioni dichiarando di aver controllato l'orologio da polso al momento del suo rientro, avvenuto proprio alle otto e venti; mettiamo che dichiari la sua certezza di avermi visto dormire e che suffraghi l'ora dichiarandosi certo della stessa in quanto in casa abbiamo tre sveglie posizionate in luoghi diversi. Se io e mio padre dichiarassimo questo agli investigatori della nostra città, fra l'altro non al primo ma al secondo e al terzo interrogatorio (ed in fondo sarebbero dichiarazioni simili a quelle portate dai Guichardaz agli inquirenti di Aosta) saremmo davvero creduti? Conoscendo alcuni poliziotti della criminale qualche dubbio mi sorge...
Ma andiamo avanti e parliamo di Daniela Ferrod, moglie di Carlo; lei non ha un vero alibi perché dice di essere rimasta in casa coi figli. Va da sé che se non fosse aiutata da qualcosa o qualcuno ci sarebbe da sospettare. Ed allora le viene in aiuto la «provvidenza». Non sotto le sembianze di Sant'Orso, protettore di Cogne, ma sotto quelle di suo marito, San Carlo Guichardaz, protettore dei «centralinisti», che prima di telefonare al fratello, e fornirgli così una sorta di alibi, la chiama per ricordarle di dover preparare il figlio grande per la materna; forse aveva poca memoria o forse non aveva tre sveglie in camera. La telefonata le viene inviata sul cellulare. Quindi alle otto e otto minuti chiama la moglie al telefonino e qualche minuto dopo i suoi genitori al fisso. Ed ecco che grazie ad un quarto familiare, secondo la Procura, gli alibi di tutta la famiglia sono confermati e la Pm Cugge attacca i giudici che le avevano consigliato di indagare meglio. Io fossi stato in lei qualche domanda me la sarei posta, ad esempio mi sarei chiesto perché Carlo Guichardaz proprio la mattina del delitto di Samuele ha chiesto a suo fratello di aprire il negozio. Perché ha tardato proprio il giorno in cui si è consumato un delitto accanto a casa sua?
Probabilmente non credeva di far tardi. Il magazzino in cui era diretto apre alle sei e trenta e dista un'ora poco più da casa sua (tre quarti di viaggio si fa in autostrada), e dato che è partito alle cinque e quarantacinque aveva tutto il tempo che gli occorreva per andare e tornare prima delle nove, orario previsto per l'apertura del negozio. Ma c'è un particolare strano, c'è che al momento delle chiamate il suo cellulare aggancia due celle diverse come fosse ancora in viaggio. Una alle otto e otto minuti quando chiama la moglie, ed una alle otto e undici minuti quando chiama il fisso dei genitori (e quest'ultima è più vicina al magazzino in cui doveva approvigionarsi di verdura). Qualcosa non è andato per il verso giusto? Cosa? Perché non glielo hanno mai chiesto? Fossi stato in chi ha indagato mi sarei posto diverse domande. A me sembra sospetta sia la prima telefonata, fatta stranamente al cellulare della moglie, sia la seconda diretta all'abitazione del padre. Ulisse Guichardaz dichiara di aver dormito a casa dei suoi genitori quella notte, facendo intendere che non dormiva tutte le notti in quel letto, quindi, in base a questo, come faceva il fratello a sapere che l'avrebbe trovato lì? Sarebbe stato più logico avere un comportamento contrario, telefonare alla moglie al telefono di casa ed al fratello al cellulare. Se io fossi stato un investigatore della Procura di Aosta non avrei valutato gli alibi di quella famiglia dei buoni alibi e mi sarei posto mille domande e, ad esempio, sarei andato a verificare l'eventuale presenza di una segreteria telefonica... e me ne sarei poste ancora di più dopo aver ascoltato le parole di Daniela Ferrod ed aver letto la sua unica intervista. Ma questo punto lo vagliano la prossima settimana...
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Annamaria Franzoni Cap 10 (la vera arma del delitto...)
Annamaria Franzoni Cap 11 (una condanna nata dalle chiacchiere di paese)
Annamaria Franzoni Cap.12 (le intercettazioni)
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4 commenti:
bravissimo come sempre.
Bea.
Massimo, bravissimo. Tutto ciò è allucinante. Ed è incredibile come chi fa informazione (media e stampa) non abbiano mai (tranne qualche articolo da te citato) posto simili questioni. E ancora più incredibile l'ottusità di certe procure. Sarebbe preoccupante e tragico se la Franzoni fosse veramente innocente e oltre a pagare per la scomparsa di un figlio (il peggior dolore che un genitore possa provare) dovesse anche sopportare l'incuba di una detenzione ingiusta per un accusa tremenda.
sono cose che mettono i brivid. purtroppo c'è gente che ha ucciso per molto meno. bisognerebbe sapere se c'era stato un ulteriore recentissimo litigio.
Mi accodo, spunti veramente interessanti, e' chiaro che siamo a distanza di un decennio e che tanti fili sono fisiologicamente sottili, labili.
Ad esempio, esiste un motivo perche' uno non chiami la moglie al fisso ma si intestardisca sul cellulare??? Bella domanda Massimo, ci si potrebbe anche chiedere che caso temporale strano porti la vicina a stendere i panni sul terrazzo prospiciente la villetta dei Lorenzi proprio nei minuti in cui capita che la Sig.ra Franzoni la chiami in cerca di aiuto.
Sono tutti, forse insignificanti o no, fili casuali, labili, consumati dal tempo, vi era poi la dichiarazione della Franzoni sui figli dei vicini che piu' volte diceva di aver trovato in casa sua, chiaro che li non possono non essersi scatenate prevedibili scintille.
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