Melania Rea. Un viaggio a passi leggeri per la paura di far rumore







Articolo di Rita V.


La strada è una tipica strada di montagna, tutta curve e qualche tornante. Mentre mi avvicino alla meta - mancheranno sì e no un paio di chilometri - la prima cosa che mi fa realizzare che non sto in una strada di montagna qualsiasi, sparse qua e là, appostate sotto la protezione di una bandiera rossa infilata sul terreno, vedo delle soldatesse intente a giocare alla guerra, con tanto di fucile puntato verso la strada che sto percorrendo. Sento subito un senso di agitazione. 

Dopo poco mi appare di fronte una specie di bivio: la strada che sto percorrendo procede verso sinistra, mentre sulla destra si apre una stradina sterrata in discesa dove un cartello di legno fatto a forma di freccia indica: Chiosco della Pineta, mt. 100.

Ecco, ci siamo. Giro a destra imboccando la stradina. Vedo subito il chiosco, pochi metri più avanti, proprio di fronte a me.

L’agitazione lascia il posto all'angoscia. Fermo l'auto, ma quasi non riesco ad aprire lo sportello per scendere. Le gambe mi tremano, così come il resto del corpo. 

Faccio un paio di respiri profondi, cerco di ritrovare la calma e molto lentamente scendo dalla macchina. 
Il silenzio è irreale. I raggi del sole di una limpida giornata di ottobre rischiarano il bosco a tratti. 
Fa caldo ed io mi sento gelare dentro. 
La prima sensazione che provo è quella di star a profanare qualcosa di sacro, di intimo, di privato. 

Faccio soltanto pochi passi, mi guardo intorno. Il chiosco è sulla mia sinistra, davanti a me il tronco di un grande albero pieno di fiori, la maggior parte finti, alcuni freschi. Me ne accorgo dal profumo che sale fino alle mie narici. Poggiati in terra un mazzo di lilium bianchi, freschi. Tantissime foto che ritraggono una bella ragazza mora, sorridente. Moltissimi biglietti, attaccati uno sull'altro senza un ordine preciso. 

Ma io non riesco neppure a leggere e volgo il mio guardo intorno.

Il posto è molto più piccolo e raccolto di quanto sembra in TV. L’albero, che sta a testimonianza di quanto atroce è successo lì, è soltanto a un paio di passi dalla casetta in legno il cui marciapiede in legno, posto tutto attorno, è tutto divelto.

A passi titubanti, leggeri, per la paura di fare rumore, mi affaccio dietro la casetta. Guardo in terra, guardo il muro, ma anche qui mi sembra di violare qualcosa di intimo, mi sembra di spiare qualcosa che non mi appartiene.

Mi volto di scatto e torno indietro a passi veloci. Voglio andare via in fretta da questo bosco. Salgo in macchina ma prima di partire prendo la mia macchinetta e scatto un paio di foto. A memoria. A memoria di una sensazione che non mi è piaciuta. Che mi ha fatto sentire in colpa. Neanche io so perché.

Imposto sul navigatore satellitare “Colle San Marco – Ascoli Piceno”. Devo proseguire per 12 Km.

La strada prosegue tortuosa, di tanto in tanto, quando la folta vegetazione si dirada, sulla mia destra, in lontananza, si vede il mare. 
La strada è abbastanza stretta, sotto c’è il dirupo dove continuano ininterrotti 12 chilometri di bosco. Penso a un coltello, gettato dal finestrino di una automobile dentro la fitta boscaglia sottostante come si fa a trovare? Forse soltanto in maniera del tutto occasionale, ma neanche tanto, perché a quanto pare il bosco al lato della strada non è in piano ma in forte pendenza. Sembra impossibile, almeno per me, potervi accedere a piedi. 

Percorro i 12 chilometri che dividono il chiosco da Colle San Marco e non incrocio neanche una macchina, in entrambe le direzioni. Sono circa le 11 di mattina di un giorno lavorativo. Per chi come me, abituata al traffico del GRA di Roma, è irreale anche questo.

Arrivo a Colle San Marco. La prima cosa che vedo, proprio dove il bosco finisce e si apre un’ampia radura, che mi trovo sulla destra, sono le porte, senza reti di un ipotetico campo di calcio. Subito dopo sulla mia sinistra vedo la casa gialla; di fronte alla casa, a pochi metri, le altalene e gli scivoli. Accidenti, penso, ma sta tutto così vicino. Dalle foto satellitari di Google gli spazi mi sembravano molto più ampi. No, sta tutto lì, tutto ravvicinato.

La casa gialla si trova sulla strada asfaltata che arriva da Ripe di Civitella, da dove provengo io.

Di fronte alla casa, sulla mia destra, la strada con cui si accede al Pianoro. 

Ci svolto. Proprio all'incrocio tra le due strade, alla mia sinistra vedo le altalene, a 10 metri dalle altalene un bagno prefabbricato, appresso il bar di Ranelli, di fronte al bar, sulla mia destra, il campo di pallone. 

Il breve tratto di strada sterrata è obliquo rispetto alla stradina che sto percorrendo, che porta alle altalene, ma sarà in tutto, chessò 20, massimo 30 metri. 

Non c’è nessuno in giro. Mi guardo intorno, vado avanti e torno indietro per guardare il pianoro da tutte le varie angolazioni. Tutto si vede da tutte le parti. 

Faccio qualche foto, risalgo in macchina e riprendo la via dalla quale sono arrivata, mi porterà verso Ascoli. Ma devo andare in bagno. Ci devo andare davvero e con urgenza. Però solo l’idea mi fa rabbrividire.
Subito sulla destra mi appare un bar. Leggo l’insegna. Bar del Cacciatore. 

Un po' indecisa sul da farsi decido comunque di entrare, anche se non avrei voluto. Fuori ai tavoli, abbastanza distante dall'entrata, un signore e una signora che parlano. E ci guardano.

Entro, chiedo dei caffè. Il signore è molto gentile e disponibile. Sono 57 anni che gestisce quel bar, racconta nei pochi minuti che siamo stati lì dentro. 
Quando mia figlia, molto semplicemente, chiede al signore anziano che serve al banco: “Scusi signore, che c’è un bagno?”. 

Il signore mi guarda e mi abbozza un sorriso. Le rispondo io, con la voce un po' strozzata dall'emozione: “Giulia, purtroppo, tutta l’Italia sa che qui dentro un bagno c'è!”.
L’unico accenno ai recenti fatti di cronaca.