venerdì 27 gennaio 2012

Annamaria Franzoni. Finalmente c'è un'arma davvero compatibile col delitto... come mai nessuno ci ha pensato prima?


Raschietto per togliere pellicole sci
Il 30 gennaio 2002 Samuele Lorenzi venne trovato moribondo sul letto dei suoi genitori, coperto col piumone fin sopra la testa, da sua madre tornata dall'aver accompagnato il figlio maggiore alla fermata dello scuolabus. In soli sette minuti, tanto durò l'assenza della donna, qualcuno fece scempio di un bimbo di tre anni colpendolo per ben diciassette volte, con un oggetto mai identificato, al capo ed alla fronte. Un oggetto che il patologo così descrisse: "Sulla base di quanto significato e discusso, in risposta ai proposti quesiti, ritengo si debba rispondere, in sintesi, nei termini seguenti: -Samuele Lorenzi venne a morte per trauma cranico aperto di vaste proporzioni con sfacelo traumatico fratturativi del neurocranio, perdita di sostanza cerebrale, imponente e rapida anemia meta emorragica, shock ipovolemico, edema cerebrale maligno -. Le lesioni sono da attribuirsi all’azione ripetuta di un corpo contundente che presenta le seguenti caratteristiche:
-facile ed agevole impugnabilità
-rigidità
-di buona consistenza
-dotato di margini acuti rettilinei e spigoli vivi. 


Ora notate la forma della piastra ramata e ditemi se non è compatibile con le ferite inferte al capo di Samuele. E' compatibile? Certo che è compatibile. Io credo proprio che questa sia l'arma del delitto. Chi di voi sa cos'è? Se non andate a sciare non potete conoscerla perché si usa nelle zone dove la neve è parte integrante del territorio. E la Val D'Aosta fa della neve la sua risorsa primaria.

Signori, questo è un «Raschietto riscaldante». A cosa serve è facile da dirsi; aiuta a togliere la colla usata per incollare le pellicole messe sulla parte inferiore degli sci. E’ riscaldante perché una volta collegato ad una presa elettrica rende incandescente, tramite una resistenza posta dentro il manico, una piastra in rame situata all'estremità di un tubo in acciaio inox rinforzato. Vediamo cosa consigliano le aziende produttrici di pelli adesive.
Rimozione della colla e re-incollaggio:

La sporcizia, l'invecchiamento della colla, una colla che rimane anche sullo sci o mal distribuita sulla superficie della pelle; sono tutti casi in cui occorre provvedere alla fastidiosa operazione di re-incollaggio. Come togliere la colla: «Per togliere la colla esistono diversi metodi, tutti efficaci ma con diversi pro e contro. Occorre anzitutto eseguire le operazioni in un locale ben areato, a causa delle esalazioni della colla sciolta. Un metodo professionale consiste nell'usare un apposito idoneo strumento (raschietto riscaldante), possibile anche l'auto-costruzione, costituito da un saldatore elettrico con una grossa spatola. La spatola scaldandosi permette di sciogliere la colla e staccarla dalla pelle».

Non è difficile supporre che in Val D'Aosta, «patria dello sci alpino», tanti ne posseggano uno. Lo avranno certamente gli albergatori (un vicino di casa dei Lorenzi era albergatore), per metterlo a disposizione dei clienti sciatori al ritorno da una giornata trascorsa sulla neve, certamente chi lavora come guarda-parco (un vicino di casa dei Lorenzi è guardaparco), perché in inverno deve usare per forza gli sci, ma anche i tanti sciatori normali. I valdostani, siano come siano, sciano. Ed allora come mai nessuno ha pensato quale arma del delitto, vista la zona in cui è avvenuto, ad un raschietto? Fra l'altro la maggior parte è stata venduta alla fine degli anni novanta ed all’inizio degli anni duemila, ora si trovano solo su ordinazione e solo in una catena di ipermercati... quale? La «Decathlon». Ad Aosta non c'era al tempo un negozio con questo marchio, ma in provincia di Torino, quindi a meno di un'ora di auto, ve n'erano ben due (uno a Grugliasco l'altro a Moncalieri). Perciò cosa pensare? E' più probabile che la madre, in un impeto di rabbia, abbia ucciso con un pentolino o con un mestolo... o che qualcun altro abbia usato un raschietto?

Ma andiamo con ordine e cerchiamo di capire il motivo per cui non si è mai giunti ad identificare un'arma appropriata. Chi doveva dare un responso significativo era, di logica, il patologo. Ma il patologo incaricato fu il dottor Francesco Viglino, lo stesso che ha cambiato tre volte l'ora della morte, fino a riuscire nell'intento di aiutare la procura dichiarando che non si poteva stabilire un'orario certo (perché non presente al momento dei soccorsi, scrisse un giudice... burlone), lo stesso che parlando di Glasgow Come Scale dichiarò che il bimbo era a livello 3 del punteggio, per lui quindi in coma definitivo, e cioè morto, quando le testimonianze dei primi soccorritori lo inserivano a livello 5, quindi moribondo ma ancora vivo e non in coma. Il Viglino fu lo stesso che partecipò alla prima perizia psichiatrica della Franzoni, sempre per conto della procura (perizia favorevole alla Franzoni ma contestata dai consulenti dei Pm, quindi anche dal Viglino), e lo stesso che fece sorridere tanti patologi italiani perché riferendosi alle ferite riscontrate sulla testa di Samuele scrisse:

"L'esperienza medico legale mi permette di affermare che l'aspetto morfologico delle ferite solo raramente riproduce in modo attendibile il tipo o il disegno dello strumento contundente; il mezzo contundente non può quindi essere identificato con precisione ma può essere solamente definito con caratteristiche".

Mi permetta il dottor Viglino di dissentire ancora una volta con la sua tesi, fra l'altro oasi nel deserto; non si può dire che un'arma non lascia la stessa impronta che lascia un dito sul vetro. E' chiaro che il ragionamento gli è stato dettato dall'impossibilità di avere qualcosa di «razionale» da confrontare alle ferite, visto che il pentolino ed il mestolo non erano sicuramente compatibili (eppure i giudici hanno accettato di condannare in base al pentolino). Ci fosse stata una ferita da arma da taglio sarebbe certamente risalito al tipo di coltello usato (a serramanico, da cucina, a lama ricurva, a doppia lama, ecc...), ci fossero stati colpi inferti con un martello avrebbe potuto comprendere a quale mestiere fosse collegato (se a un carpentiere, a un falegname, a un fabbro, a un muratore, a un alpinista, a un carrozziere, a un giudice, ecc...). Se fosse stato usato veramente un pentolino avrebbe potuto calcolarne il diametro, partendo da una qualsiasi ferita semi-circolare, ed avrebbe potuto ricavarne lo spessore del bordo e capire a che tipo appartenesse (da latte, da the, da cioccolata, da bagno maria ecc...); avrebbe potuto, avendo anche solo una vaga idea dell'oggetto usato, fare tanto. Di certo non avrebbe mai scritto che l'aspetto morfologico delle ferite raramente riproduce il tipo o il disegno dello strumento contundente.

Ma nonostante tutto il dottore in questione, come abbiamo visto ad inizio articolo, ha scritto alcune cose sensate che possono portare ad un oggetto da analizzare. Lui descrive l'arma usata in questo modo:

«Di facile ed agevole impugnabilità, di rigidità, di discreta pesantezza, di buona consistenza, con margini acuti rettilinei e spigoli vivi...»

Il pentolino non ci sta dentro, come fa ad avere margini acuti e rettilinei, ma il raschietto con la punta ramata rispetta al 100% tali caratteristiche. Ma c'è di più. C'è che all'altezza dell'occhio destro di Samuele si trovò una ferita ad angolo, quasi a forma di sette. Se avete osservato bene la punta del raschietto avete capito che può lasciarla. Ed inoltre, passando oltre, c'è da considerare che la testa di Samuele venne lavata e rilavata con acqua e con liquidi disinfettanti. Ora leggete.

"Di nessun aiuto tecnico per l'identificazione del mezzo era stata la ricerca di tracce condotta sulle ferite con l'ausilio del SEM e l'annessa microanalisi; i dati rilevati erano di scarsa significatività probatoria in quanto le ferite erano state più volte lavate. Le lesioni avevano subito marcato inquinamento ambientale in corso di elitrasporto; l'esame microanalitico non aveva dato luogo a rilievi significativi in merito a materiali atti ad indirizzare circa la natura del mezzo; in un solo caso si era rilevata la presenza di una piccola particella di rame, ma il reperto non era significativo in quanto eccezionale e non ripetuto in sede di altre ferite, oltre la ferita numero12".

Pertanto il fatto che tutti si siano dannati a cercare un oggetto in rame, o placcato rame, è stato dettato da qualche mistica intuizione della Procura? Sia come sia, in tutti i casi, la punta del raschietto è placcata in rame, quindi intuizione o meno, si siano trovati residui oppure no, quest'oggetto ha anche la caratteristica ricercata dai Pm e dal Pg che hanno sempre parlato di pentolini o mestoli in rame.

Ma la descrizione più chiara e completa è quella del RIS di Parma (non credetemi).

"Il R.I.S., sin dalla prima relazione, aveva sostenuto trattarsi di oggetto di media pesantezza, provvisto di manico (relazione 28.2.02); nella relazione finale aveva riferito gli esiti di esperimenti atti ad individuare la possibile arma del delitto, tenuto conto delle caratteristiche delle ferite della vittima e della possibilità di produrre una analoga distribuzione di sangue. L'arma, si legge, è un utensile da giardinaggio lungo circa 28 cm., con manico e dotato da un lato di una testa con due punte a sezione triangolare, e dall'altro di una punta a cucchiaio".

Un oggetto dal doppio, anzi triplo uso visto i diversi lati, un oggetto di quelli che i giardinieri valdostani tengono a portata di mano quando necessitano di fare uno spuntino o quant'altro. Il riferimento ai giardinieri non fu casuale; anche qui si tendette a portare gli indizi verso la Franzoni che, come detto dai testimoni e dagli amici, era solita ordinare il giardino e piantare fiori per abbellirlo. Dunque gli uomini dell'ex Tenente Colonnello Garofano descrissero l'arma certa nei minimi particolari. Dissero che da un lato aveva un manico, da un lato una testa con due punte triangolari, da un lato un cucchiaio... ma si potrebbe andare oltre ed affermare che avesse da un lato anche una forchetta, da un altro un frullatore, da un altro un macina-caffè, da un altro uno scolapasta, da un altro ancora un bicchiere, da un altro ennesimo lato una bottiglia di grappa, e chi più lati ha più oggetti ci metta.

Come si può immaginare l'arma in questione in quel periodo accese la fervida fantasia degli inquirenti che si sbizzarrirono nel cercare di trovarle una adeguata collocazione all'interno dell'assassinio. Vista però la difficoltà di reperire un oggetto con tanti lati si tornò a parlare del vecchio e caro «pentolino». Ma lasciamo perdere l'ironia e diamo a Cesare «Garofano» quel che è suo. Parte della perizia del RIS è stata azzeccata. Infatti la lunghezza è compatibile, le due punte a sezione triangolare ci sono, la lama del raschietto può lasciare questi calchi dove colpisce, se poi chi picchia colpisce la testa con la parte tonda del tubo in acciaio, l'impronta che rimane impressa può dare l’idea di un colpo dato con un cucchiaio.

Quindi, per tornare ai fatti, non sarebbe stato poi così complicato trovare un'arma per l'omicidio di Samuele. Ma questo non è stato fatto ed il dottor Vittorio Corsi, Pg in Appello, quando in aula parlò di un pentolino sembrò camminare sul ghiaccio aostano con le scarpe bianche della «Prima Comunione». Leggiamolo:

«...il far ricadere la scelta, per commettere un omicidio, su di uno strumento che solo impropriamente viene utilizzato come arma, è condotta tipica di chi solo, come l'odierna ricorrente, può aver agito in virtù di una condotta aggressiva d'impeto che ha determinato una individuazione casuale e repentina di un oggetto idoneo ad uccidere fra quelli a portata di mano; è chiaro che un eventuale aggressore esterno non potrebbe essersi armato di uno strumento casualmente prelevato all'interno dell'abitazione dei Lorenzi dal momento che, in tal caso, questi ultimi avrebbero apertamente evidenziato detta sottrazione agli inquirenti".

Ora è chiaro perché un eventuale aggressore esterno non poteva esserci. Chi mai girerebbe per la valle con un pentolino in mano? Ed allora mi chiedo il motivo per cui Stefano Lorenzi non è stato condannato per favoreggiamento. Se fosse mancato un oggetto dalla casa i familiari lo avrebbero apertamente evidenziato, disse il Pg, quindi se fosse mancato un pentolino Stefano Lorenzi avrebbe dovuto dirlo... ma non l'ha detto. Però la Franzoni, per l'Accusa e la Corte, agì d'impeto e ne prese uno, individuato casualmente, facendolo poi sparire... pertanto mancava un pentolino. Ma suo marito non ha mai detto che qualcosa mancasse. Però la Franzoni è stata condannata, perciò il pentolino mancava e Stefano Lorenzi ha mentito. In questo caso i giudici avrebbero dovuto considerarlo colpevole quanto la moglie. Per quale motivo l'uomo è libero dato che ha omesso di parlare del pentolino mancante? Vediamo, forse il Pg sapeva qualcosa in più, leggiamolo.

"Quanto poi alla questione sollevata dalla difesa circa il mancato ritrovamento dell'arma, se è vero che gli operanti hanno compiuto una accurata indagine in tal senso, il che sembrerebbe all'apparenza favorire l'assunto difensivo dell'allontanamento da parte di un presunto aggressore esterno in possesso dell'arma sporca di sangue, il dubbio avanzato dal difensore non è tale da svilire la portata accusatoria dell'elemento indiziario in esame, a fronte della concreta possibilità avuta dalla Franzoni di provvedere all'occultamento del mezzo impiegato per uccidere il figlio; basti pensare al lasso temporale avuto a sua disposizione al momento del rientro in casa, dopo aver accompagnato Davide alla fermata dell'autobus, ovvero tra le ore 8.24/25 e le 8.27, lasso temporale che se non è stato verosimilmente congruo per attuare l'azione omicida assume rilievo per una mera attività di occultamento di un oggetto, magari già precedentemente lavato o avvolto in qualche indumento per evitare che lasciasse tracce". L'occasione per la Franzoni, effettivamente esistita nella fase successiva ai soccorsi, di allontanarsi dalla propria abitazione, azzera il valore di un'affermazione, che rimane solo teorica, dell'impossibilità materiale da parte della prevenuta di aver proceduto a far sparire l'arma, tanto più che risponde ad una regola di comune esperienza il fatto che una donna, allorché esca di casa, porti con sé una borsa che, nella specie, doveva identificarsi con lo zainetto di cui l'indagata ha ripetutamente parlato nelle proprie dichiarazioni".

Allora la poca professionalità dei carabinieri di Cogne c'è stata per colpa della Franzoni. Doveva essere lei a dir loro di non far entrare nessuno in casa per mantenere congelata la scena del delitto, doveva essere lei a dir loro di farla accomodare in caserma con lo zainetto al seguito. Mi pare giusto che paghi viste queste mancanze. Perché non ha ricordato ai carabinieri come ci si comporta di solito dopo un ritrovamento del genere? D'altronde una mente lucida, fredda e spietata come la sua, non si fa condizionare dagli eventi, in fondo le avevano ucciso «solo» un figlio, e che sarà mai? Il pregiudizio nato contro la donna non ha mai conosciuto vergogna, tanto che anche le mancanze degli inquirenti vennero addossate a lei, all'unico indagato portato a processo. C'è da chiedersi se sia un italico malcostume o una prassi giuridica consolidata nel tempo. Ma torniamo ad occuparci di quanto è stato affermato in quell'Aula; per parlarci chiaro l'imputata avrebbe occultato il pentolino dentro lo zainetto, quindi, allontanatasi dalla casa, si sarebbe disfatta della prova principale gettandola. Questo in sintesi quanto portato dall'Accusa ed accettato dai giudici. La Franzoni per la procura aveva gettato il pentolino... già, ma dove? Nel parcheggio dell'ospedale? In un fosso?

Proviamo a ragionare con logica ripartendo dall'inizio. Un pentolino lungo 28 centimetri, questa la misura considerata dal Ris, porta via spazio e si nota in uno zainetto. Pertanto è facile pensare che se i carabinieri avessero visto sporgenze o rigonfiamenti lo avrebbero perquisito. Al limite nei giorni successivi avrebbero ricordato per certo di averlo notato «pieno» o con sporgenze; quella mattina sono rimasti con la Franzoni troppo tempo per pensare non si siano accorti di quanto fosse o non fosse «gonfio». Inoltre, se questa è la teoria accusatoria, anche Stefano Lorenzi doveva, per logica conseguenza, essere, come detto in precedenza, indagato. E non solo per «favoreggiamento» ma anche, e soprattutto, per «concorso in omicidio e occultamento». Lo è stato?

Non tutti sanno che da Cogne all'ospedale di Aosta ci sono meno di trenta chilometri e che la strada è praticamente dritta. Come mai nessuno l'ha percorsa a bassissima velocità, o a piedi, cercando di vedere se in un fosso vi fosse un pentolino? Come mai nessuno ha passato al setaccio il reparto dell'ospedale ed il piazzale dello stesso? Come mai nessuno, neppure gli «operatori ecologici», hanno rinvenuto una simile arma? Eppure in quel maledetto periodo si parlava solo di quanto accaduto a Cogne e del pentolino. Se qualche operatore ecologico della Val D’Aosta ne avesse trovato uno ne avrebbe di certo parlato. Perché non ci sono stati avvistamenti? Perché quelli del RIS, che hanno setacciato le discariche portando via oltre trenta sacchi di materiale da analizzare, non hanno mai dichiarato di aver rinvenuto un simile oggetto? Se Annamaria lo avesse buttato in qualche cassonetto l'avrebbero dovuto trovare, Cogne ed Aosta sono piccolissime come località, non stiamo parlando di Milano, di Roma, di Napoli.

E ragionando con la malizia di un buon avvocato, se l'arma non era un pentolino o un mestolo, e non lo era di certo, che svantaggi aveva la Franzoni a non dire: "mi è sparito un utensile da giardino ramato?". Se avesse ucciso suo figlio era la cosa più logica da fare. Ma non la si è fatta e la Difesa disse: "non c'è arma in casa e lei non è colpevole". L'accusa invece affermò che "un'arma mancante non era indizio di innocenza, che l'aveva fatta sparire". Praticamente la Franzoni è stata considerata alla stregua di Silvan, in grado con un "sim sala bim" di far sparire gli oggetti non solo dalla casa ma anche dalla regione (sarà finito in Svizzera?).

Il tutto è parso quasi una questine d'onore; Annamaria Franzoni non ha ammesso di essere colpevole perché altrimenti «perdeva la faccia». Ma davvero è lei che ha perso la faccia? Io credo di no. Lei si è assestata su una posizione e l'ha seguita fino in fondo, fino alla galera. Ma se le indagini avessero seguito un iter logico, gli inquirenti si sarebbero accorti, al pari dei primi giudici che hanno preso in mano le carte della procura, che c'erano anche altre strade da seguire. Strade che ben si intrecciavano con un'arma quale il "raschietto riscaldante". Strade che descriverò nel prossimo articolo.

Annamaria Franzoni Cap. 9 (gli errori del Ris e le anticipazioni rilevanti...)
Annamaria Franzoni Cap.11 (solo le chiacchiere la fanno colpevole)
Annamaria Franzoni. Cap.12 (Le intercettazioni spacciate dai media e dalla procura...)
Annamaria Franzoni. Cap.13 (Ed il Pm disse che gli alibi dei vicini erano buoni alibi...)
Annamaria Franzoni. Cap.14 (L'alibi della vicina e i movimenti alquanto particolari...)
Annamaria Franzoni. Cap.15 (Il delitto efferato? Una fantasia dei giudici copia-incolla)

1 commento:

Anonimo ha detto...

bravo massimo.Aspetto sempre i tuoi articoli su questo caso.Sei formidabile.
Bea.