Di Gilberto M.
Erasmo usa la satira e il sarcasmo per mettere a nudo la decadenza morale del suo tempo e in particolare la corruzione della chiesa. Denuncia tutto quello che è in odore di formalismo: superstizione, culti esteriori, ipocrisie travestite da devozione che trasformano la filosofia dell’amore e della carità cristiane in un Galateo, in una sorta di precettistica vuota ed epidermica. Dunque si tratta di un libro di denuncia della corruzione mondana degli episcopos che ostentavano ricchezze materiali e sfruttavano le indulgenze (la cancellazione delle conseguenze del peccato tramite la confessione, o con l’oblatio, una elemosina, o con la questua, cioè l’offerta dell’indulgenza in cambio di donazioni con dei veri e propri tariffari). Per Erasmo, malvagi sono gli intolleranti... non gli atei. Il ritorno alla genuinità del messaggio evangelico presuppone un’opera di debunking (per usare la terminologia che abbiamo deciso di adottare), cioè occorre disincrostarlo dalle menzogne e dalle falsità che l’hanno degradato e gli hanno fatto perdere il suo impulso e la sua idealità originaria. Quindi ricostruzione filologica del testo, liberandolo dagli errori e dalle mistificazioni che ne hanno compromesso lo spirito autentico, come appunto nell’intenzione e nella pratica dell’umanesimo. Ma questo è solo un polo della pazzia erasmiana, come nel debunker la demistificazione è solo un aspetto di un’operazione che può nascondere il suo contrario. Il debunker come vedremo può essere non solo un demistificatore, ma anche esattamente il suo opposto, un demolitore al servizio della menzogna, un provocatore che indossa i panni di chi apparentemente smaschera le truffe, ma solo per meglio ingannare.
Cos’è dunque veramente l’oggetto della pazzia erasmiana? Si tratta di un termine polisemico abbiamo detto, un’accezione che traslittera dal polo positivo a quello negativo, un concetto che offre tutto il ventaglio di possibilità dall’ironia al sarcasmo, ma anche una maschera policroma che disvela la parte peggiore e migliore dell’uomo, come condanna e come esaltazione delle sue attitudini e delle sue azioni (siamo nel solco del rinascimento e del manifesto di Pico della Mirandola). La pazzia erasmiana è disvelamento delle maschere e degli inganni dei potenti, dei ruoli che impersonano fingendo sentimenti che non provano, dicendo cose che non pensano, attori che recitano semplicemente una parte. Anche la cronaca attuale ci mostra spesso quella retorica di regime con personaggi dediti a una adulazione compulsiva e a un conformismo esteriore. In questo senso la pazzia erasmiana è rivelatrice di verità, un modus ponens che smonta la retorica degli ipocriti, che denuncia le operazioni truffaldine e le disonestà intellettuali. La pazzia erasmiana è anche la pazzia dei filosofi: “venerandi per barba e mantello” che affermano di essere i soli sapienti e che non sapendo nulla, pensano di sapere tutto. La pazzia è anche quella dei teologi “dei quali sarebbe più conveniente non parlare, per non rimuovere una palude fangosa come quella di Camarina o di toccare un’erba puzzolente”. Si tratta di un discorso radicale di un’insania che parla usando il paradosso, in quanto la verità non può essere detta se non rompendo gli schemi di una saggezza esteriore, infrangendo tutto un mondo di perbenismo che si ammanta di ragionevolezza.
Ma attenzione a non lasciarci ingannare. Qui la pazzia è rivolta in senso moderno a coloro che si credono depositari della verità e ai loro epigoni che ne diventano servi e adulatori. La pazzia erasmiana è un ventaglio di possibilità, una scala cromatica che riguarda qualsiasi modalità acritica di conoscenza, qualsiasi forma indiscutibile di autorità (filosofica ma anche ‘scientifica’, perché anche la scienza può diventare una parola magica in bocca a chi vuol spacciare per vero e assodato quanto è soltanto opinabile). Anche lo scienziato può non essere immune da una visione magica della scienza quando la ritiene l’immagine vera del mondo e non semplicemente uno strumento con il quale cerchiamo di comprenderlo. Discorso molto attuale quello di una scienza che acquista consistenza di realtà, un’ipostasi, come se l’uomo ne diventasse il suo oggetto, e non già ne fosse l’artefice e l’ispiratore. In chiave attuale possiamo dire che ci sono debunker che perseguono lo scopo della chiarezza smascherando gli imbrogli, come la pazzia onesta e veramente folle in quanto è cercatrice di verità; e poi ci sono i presunti demolitori degli inganni, i debunker che non vogliono argomentare per cercare il vero ma solo distruggere, sviare, provocare, ridicolizzare, ridimensionare con il solo scopo di delegittimare chi cerca una verità oltre l’apparenza. La filosofia, per quanto possa diventare essa stessa uno strumento di potere, è quanto l’uomo ha concepito di più folle nel tentativo di comprendersi. Per questo la pazzia erasmiana è fondamentalmente un’operazione filosofica anche quando bolla le nefandezze e le contraddizioni dei filosofi (e dei teologi). Ci sono debunker che agiscono non in nome della ricerca del vero, ma vuoi per un interesse personale, vuoi per dimostrare la superiorità del proprio verbo, un po’ come i sofisti nelle dispute verbali, e vuoi in nome di qualche committente che si cela nell’ombra, agenti prezzolati per tutelare interessi occulti utilizzando proprio la maschera di chi vorrebbe essere al servizio del sapere e della verità.
Il rapporto tra informazione e disinformazione è davvero molto complesso. Proprio come la pazzia erasmiana si tratta di qualcosa di aggrovigliato, un nodo gordiano che però non può essere sciolto soltanto con un colpo di spada, per districarlo occorre sensibilità, intuizione e un po’ di follia. In gioco non c’è soltanto e banalmente un criterio di vero e falso, c’è il compenetrarsi dell’uno nell’altro, il gioco speculare, le apparenze, gli stratagemmi e gli illusionismi. Ma non si tratta tanto dei trucchi dei maghi e dei prestidigitatori (che non pretendono di essere altro di quello che dicono di essere e che è fin troppo facile smascherare), ma di quei giocolieri delle parole, venditori di fumo, incantatori che vendono una merce tanto immateriale quanto decettiva e truffaldina: false e mirabolanti promesse, lusinghe e adulazioni come se si trattasse non di giochi di prestigio ma di cose vere. Si tratta di interessi che si occultano tra le pieghe di un discorso che blandisce l’interlocutore, riguarda cose e realtà che si paludano con identità sostitutive per nascondere quello che sta dietro e che non si fa mai vedere. Non basta proclamarsi amanti della verità, smascheratori di menzogne o demistificatori di imbrogli per essere ciò che si dice di voler fare e per darsi una patente da saggi. Uno dei caratteri del falso debunker (o se si preferisce del vero debunker ingannatore) è l’utilizzo di universali che proclamano una verità che costa poca fatica, un passe-partout che di botto offre spiegazioni semplici, ricette che possono sciogliere qualsiasi enigma delegittimando tutti quelli che non rientrino in una ortodossia.
Non a caso in Erasmo c’è il disprezzo verso la pretesa di conoscere le idee, gli universali, le quiddità, le cause del mondo... le entelechie di comodo che vorrebbero racchiudere in un recinto e ridicolizzare tutti quelli che non si piegano ad un conformismo e a una razionalità di maniera. Si tratta di una denuncia di quei procedimenti intellettualmente scorretti e in malafede in quanto preventivamente asserviti alla logica del potere, accreditandosi di un metodo e di una conoscenza superiori, mettendo l’antagonista, e non già le sue idee, in cattiva luce. I debunkers in questo significato sono tutti quelli che cercano di rubare il tempo in diatribe inutili, che si attaccano alle parole dell’interlocutore per fargli perdere la pazienza, per confonderlo e umiliarlo. Insomma, non sono mossi dal motivo nobile di scavare sotto le apparenze delle cose, non cercano di mettere in luce gli errori e gli inganni di altri, ma semplicemente di affermare i propri inganni col pretesto di chiarire, dismagare, disingannare e disincantare. Per questo creano categorie di comodo, contenitori entro i quali poter con un sol colpo, un coup de theatre, confinare tutto quello ritenuto non conforme a un sapere codificato di cui solo loro sono detentori, interpreti e custodi.
La categoria complottisti, quella indicata dal nome complotto con un neologismo un po’ forzato, è sovente utilizzata come una sorta di etichetta da applicare in modo indifferenziato a tutti coloro che in qualche modo perseguono itinerari informativi diversi e alternativi, che vogliono cercar di capire se oltre le spiegazioni ufficiali che ci vengono date - vuoi dagli organi di informazione e vuoi dalle istituzioni - non esista un’altra verità, una verità nascosta e inconfessabile. Il termine viene coniato non tanto allo scopo di inquadrare un fenomeno o di trasformarlo in un concetto neutrale, quanto di annientare e delegittimare - con il semplice uso di una parola connotata negativamente - qualsiasi interlocutore che in quanto deviante si vuol mettere alla gogna.
Ovviamente qualsiasi procedimento di disvelamento non è esente da errori, la ricerca di verità alternative può in alcuni casi scaturire da un sospetto infondato, da una attitudine a diffidare e mettere tutto in discussione per una forma mentis troppo prevenuta e da un atteggiamento troppo incline al sospetto. Talvolta la diffidenza genera fantasmi. Ma altre volte la nostra intuizione che qualcosa non quadra è corretta, sentiamo che ci vien rifilata una verità di comodo, che l’informazione potrebbe nascondere la disinformazione e giustamente vogliamo indagare. Il complottista in altri termini potrebbe essere sia chi vede un complotto inesistente e che per questo viene ridicolizzato, ma anche un vero smascheratore che cerca di mettere a nudo gli inganni e le procedure decettivi di un potere che ha come fine il controllo e la manipolazione. Sicuramente ci sono complottisti ingenui e suggestionabili, ma quello che risulta sospetto è l’utilizzo di un termine che viene applicato come un’etichetta a qualcosa prima ancora di analizzarne il contenuto. L’uso del termine complottista, più che un tentativo di catalogare e spiegare un fenomeno sembra un modo per delegittimare preventivamente tutti quelli che la pensano in modo diverso creando un contenitore, una pattumiera, nel quale gettare tutto quello che è difforme rispetto al modo di pensare ritenuto ortodosso.
Il fenomeno è molto più antico di quanto si creda. In tutta la storia dell’uomo la pratica della delegittimazione degli avversari (politici, amorosi, scientifici) è costellata da agenti segreti che buttano scompiglio in campo avverso attraverso l’uso della mistificazione, della disinformazione, delle notizie false... o semplicemente mediante l’utilizzo di una autorità (scientifica, religiosa o ideologica) che per prestigio, ma soprattutto per impatto mediatico, sia in grado di distruggere la credibilità di tutto quello che minacci un ordine costituito, una consonanza cognitiva o comunque un sistema di interessi consolidati. Pensare a una informazione neutrale è illusorio, al di là della buona fede delle persone e delle agenzie interessate. Nessuna informazione, per quanto certificata, è neutrale. Già il fatto di scegliere, tra milioni di altre, alcune notizie da mandare in onda è una scelta che orienta un’audience e indica dei parametri di rilevanza in funzione di un orientamento dell’opinione pubblica. Il debunker in questo senso è parte passiva di un sistema massmediatico, commenta quello che altri hanno deciso essere rilevante, è più che altro un elemento marginale in quanto non propositivo. Il debunker diventa rilevante quando la sua azione non è solo demolitrice ma si fa proposta alternativa, indica una diversa scansione, una rilevanza difforme delle notizie, insomma non si limita a stare sulle barricate ma attacca, propone altre notizie e spiegazioni in alternativa a una verità ufficiale, argomentando con nozioni, idee e fatti non campati per aria.
Un passo dell’Elogio della Pazzia che sembra apparentemente assai lontano dal tema che si sta trattando, rappresenta proprio, in filigrana, la complessità del rapporto tra il vero e il falso, tra quanto appare in superficie e quanto si rivela ad un’analisi più attenta che colga i concetti e le idee più in profondità. Ecco la citazione, è la follia erasmiana che parla:
"Cæterum quoniam uiro administrandis rebus nato, plusculum de rationis unciola erat adspergendum, ut huic quoque pro uirili consuleret, me sicut in cæteris in consilium adhibuit, moxque consilium dedi me dignum: nempe uti mulierem adiungeret, animal, uidelicet, stultum quidem illud atque ineptum, uerum ridiculum et suaue, quo conuictu domestico, uirilis ingenii tristitiam, sua stultitia condiret atque edulcaret. Nam, quod Plato dubitare uidetur, utro in genere ponat mulierem, rationalium animantium, an brutorum, nihil aliud uoluit, quam insignem eius sexus stultitiam indicare. Quod si qua forte mulier sapiens haberi uoluit, ea nihil aliud agit quam ut bis stulta sit, perinde quasi bouem aliquis ducat ad ceroma, inuita reluctanteque, ut aiunt, Minerua. Conduplicat enim uitium, quisquis contra naturam, uirtutis fucum inducit, atque alio deflectit ingenium. Quemadmodum, iuxta Græcorum prouerbium, simia semper est simia, etiam si purpura uestiatur: Ita mulier semper mulier est, hoc est, stulta, quamcumque personam induxerit"
Trad. [Tuttavia, poiché l'uomo, nato per amministrare gli affari, doveva avere in dote un po' più di un'oncia di ragione, per provvedere opportunamente, (Giove) mi convocò per un consiglio, come su tutto il resto, anche a questo proposito; e il mio pronto consiglio fu degno di me: affiancare all'uomo la donna, animale stolto e sciocco, ma anche deliziosamente spassoso, che nella vita domestica addolcisce con un po’ di follia la malinconica gravità dell’ingegno maschile. Platone, infatti, quando sembra incerto circa la collocazione della donna, se fra gli animali razionali o fra le bestie, vuole solo sottolineare la straordinaria follia di questo genere sessuale. E, se per caso una donna vuole passare per saggia, ottiene solo di essere doppiamente folle, come se uno volesse, contro ogni ragionevole proposito, portare una mucca nell’arena. Infatti raddoppia il suo difetto chi, contro la propria natura, assume sembianza virtuosa. Come, secondo il proverbio greco, la scimmia è sempre una scimmia, anche se si veste di porpora, così la donna è sempre una donna, cioè folle, comunque si mascheri]
Il discorso erasmiano sembra un pochino contaminato da leggiera quanto deliziosa misoginia. Eppure a guardar bene il passo, quella che sembra una sorta di scanzonata presa in giro del gentil sesso, è l’esatto suo opposto - è davvero la follia che non conosce remore e peli sulla lingua - mostra il ribaltamento, il dissacrante giudizio di chi coglie nel vezzo serioso di certi discorsi impegnati e di certe tirate che vorrebbero mostrare assennatezza e prudenza, la malinconica gravità del temperamento maschile. Erasmo non vuol contraddire la follia femminile, perfino la sua stoltezza, sciocchezza e superficialità, ne fa invece dei punti di forza, dei talenti per il fatto che si tratta soltanto di nomi, di etichette dietro le quali c’è ben altro. E’ il rifiuto di quella compunta e tediosa gravità che rendono incapace l’uomo di ridere di sé stesso e dei propri pregiudizi. La follia insomma non ammanta di porpora una scimmia per il semplice fatto che è una scimmia (con il connesso pregiudizio riguardo alle scimmie), perché nel nome non esiste nessuna determinazione di valore o di giudizio, se non quella che si fonda su un pregiudizio radicato e ammantato. Allo stesso modo dire che una donna non è mai saggia, non significa dire qualcosa di diverso dal fatto che la saggezza non è altro che quella assenza di follia che invece spesso fa dell’uomo un essere pedante e insopportabile (con tutta la prosopopea che contraddistingue quell’atteggiamento assennato e miope di un genere che non è necessariamente di un sesso, ma per lo più di una forma mentis in prevalenza dell’universo maschile).
C’è insomma nel discorso erasmiano sulla follia, qualcosa che rompe tutti gli schemi, che provocatoriamente mostra l’inconsistenza dei giudizi fondati su una logica priva di elasticità e di fantasia. In senso moderno è il rifiuto di un’immagine della donna forgiata dalla cultura maschilista che condivide con l’uomo il potere e gli interessi in un processo di virilizzazione che annulla la sua specificità e i valori di cui è portatrice. C’è in Erasmo la ripresa dell’ispirazione delle origini del cristianesimo nelle parole di San Paolo “Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio”(Corinzi 1, 27-28). Si tratta dell’antico messaggio di Abramo a non pensare secondo la logica del mondo, la logica del più forte.
Le parole non hanno solo un significato denotativo, un loro significato letterale e pregiudiziale, ma connotano, evocano dell’altro, alludono e in ultima analisi rompono gli schemi mentali. Si tratta per l’appunto del linguaggio della follia, di quell’uso del discorso che parla per metafore, metonimie, iperboli, traslati… di tutte quelle figure retoriche che in ultima analisi sono soltanto stratagemmi e tentativi con i quali la parola cerca di superare quella “ignoranza contenta di sé”, di squarciare il velo delle menzogne, di spezzare l’involucro del significato per approdare a immagini dirompenti e allusive. I pazzi sono nelle parole di Erasmo “Coloro che, confidando in segni esteriori di devozione, in certe filastrocche, in certe orazioncelle inventate da qualche pio impostore, si ritengono sicuri di godere di inalterabile felicità e di occupare in paradiso un posto distinto”. Seguire il discorso erasmiano senza cadere nella menzogna contenta di sé richiede appunto di essere abbastanza folli da rompere con tutte le regole, perfino quelle dell’anticonformismo, se occorre, rendersi liberi da qualsiasi idea e nozione che ci impedisca di guardare il mondo senza infingimenti e paludamenti, con lo spirito di un fanciullo. Nelle parole della pazzia erasmiana:
"At quis non malit hic fatuus et insulsus esse, semper festiuus, semper pubescens, semper omnibus lusus ac uoluptatem adferens, quam uel agkulomêtis ille Iupiter omnibus formidabilis, uel Pan suis tumultibus omnia senio uitians, uel fauillis oppletus Vulcanus, ac semper of ficinæ laboribus squalidus, aut Pallas etiam ipsa, sua Gorgone et hasta terribilis kai æi enorôsa drimu. Cur semper puer Cupido? Cur? nisi quia nugator est, kai mêdev hugies neque facit, neque cogitat? Cur aureæ Veneri semper uornat sua forma? Nimirum, quia mecum habet affinitatem, unde et patris mei colorem uultu refert, atque hac de causa est apud Homerum, chrusê Aphroditê. Deinde perpetuo ridet, si quid modo Poetis credimus, aut horum æmulis Statuariis"
Trad. [Ma chi non preferirebbe essere questo Dio fatuo e dissennato, sempre allegro, sempre giovane, sempre generoso di svaghi e di piaceri per tutti, piuttosto che quel tortuoso Giove, temuto da tutti, o Pan, che tutto va devastando con i terrori che diffonde, o Vulcano, avvolto di scintille e sempre nero del fumo della sua fucina, o Pallade, medesima dallo sguardo sempre torvo, terribile con la Gorgone e la lancia? Perché Cupido è, invece, sempre fanciullo? Perché? Se non per la sua leggerezza, per la sua incapacità di fare o pensare qualcosa di assennato. Perché la bellezza dell'aurea Venere è sempre in fiore? Perché è mia parente e conserva nell'aspetto il colore di mio padre. Per questa ragione Omero la chiama "l'aurea Afrodite". Inoltre, stando ai poeti, o agli scultori loro emuli, ride sempre...]
Attenzione però, la fanciullezza di cui parla Erasmo per metafora, non riguarda l’età anagrafica, si tratta di quell’eterna giovinezza dello spirito, di quella inossidabile vocazione a guardare il mondo con gli occhi dell’innocenza. L’oscillazione continua da un polo all’altro fa sì che la pazzia erasmiana non finisca per diventare succube di se stessa, per trasformarsi in quella saggezza che non è altro che conformismo e menzogna. L’arte del sospetto va esercitato prima ancora che sugli altri su noi stessi, sulle proprie idee e sui propri pregiudizi prima ancora che su quelli dei nostri antagonisti, quelli che ad esempio non la pensano come noi. Il vero debunker insomma, fa prima di tutto un lavoro su se stesso, applica la follia alla propria presunta saggezza e perfino a quell’estro e a quel genio scapestrato di cui ci si ritiene in possesso.
Da queste notazioni si evince che l’opera di demistificazione non è facile e non è esente da contraddizioni, da inganni e da frodi. La parola debunker conserva una ambiguità irrisolta perché presuppone un significato che in quanto autoreferenziale potrebbe applicarsi anche a sé stesso proprio nel senso erasmiano più profondo: smascherare i propri pregiudizi, gli autoinganni e gli ideologismi che ci sono propri, ma anche la malafede di cui spesso siamo portatori più o meno consapevolmente. L’operazione di debunking richiede cioè una onestà intellettuale e una disponibilità a capire la realtà in tutte le sue sfaccettature, in tutta la sua complessità. La decettività che il debunker vorrebbe smascherare richiede uno scetticismo radicale anche rispetto alle proprie posizioni e assunzioni ideologiche e ai propri interessi che potrebbero in qualsiasi modo interferire con l’operazione di smascheramento. Per demistificare occorre cioè demistificarsi, come nella pazzia erasmiana, sperimentare tutta la gamma delle fallacie con le quali deformiamo la realtà. Il vero debunker deve agire in primis su sé stesso, cogliere tutti gli effetti deformanti dei suoi pregiudizi. Solo un’operazione preliminare con la quale si smitizzano i propri idola (nell’accezione baconiana), la propria insolenza e il proprio arbitrio, può renderlo poi credibile quando pretende di smascherare gli inganni del mondo. La follia erasmiana è così folle da non risparmiare neppure se stessa, così radicale da svelare perfino l’autoinganno di cui è portatrice. Una posizione ben diversa da chi invece di operare sui fatti, invece di por mente locale, si ingegna a demolire senza una lettura preventiva delle cose, senza mettere al vaglio, ma solo con lo scopo di abbattere quello che non piace o semplicemente per darsi una autorità e una competenza che in realtà non possiede.
Ma veniamo al caso che aleggia come emblematico di tutto un discorso che sembra naufragare nelle astrattezze della filosofia: l’11 settembre. Cosa si può dire che ancora non sia stato detto circa uno dei fatti più incredibili e incongruenti della storia contemporanea e che dei sedicenti debunker, appiattendosi sulla versione ufficiale, considerano priva di qualsiasi risvolto e retroscena degno di una denuncia, di una demistificazione e di uno smascheramento. Non una versione ufficiale che non sta in piedi neppure usando i supporti più fantasiosi diviene oggetto di disamina della follia, ma al contrario chi solleva rilievi e mostra le contraddizioni di una ricostruzione senza logica e senza verità diviene oggetto di scherno e di ironia. Non una ricostruzione con i crismi di una ufficialità saggia e seriosa che sembra costruita su una brutta sceneggiatura hollywoodiana viene messa alla prova, non le molteplici e sistematiche incongruenze di fatti che tra loro non collimano, non la follia di eventi impossibili, non un film inverosimile e bislacco, una fiction improbabile ma con morti veri, un intruglio con tanti ingredienti male assortiti... ma una denuncia della pazzia di chi quella ‘verità’ denuncia come un colossale imbroglio ai danni della comunità internazionale.
Qualcuno manifesta meraviglia e sarcasmo dicendo che la pazzia è quella di un clown. Ma il clown rappresenta, insieme al matto shakespeariano (emblematicamente quello del Re Lear), la risata che svela e mette a nudo, scoperchia la menzogna. La comicità, come la follia erasmiana allude alla tragedia, al potere che ci vorrebbe tutti seriosi e impassibili di fronte alle frodi e alle menzogne come quella dell’11 settembre. La dignità del clown è fuori discussione, ma quello vero e non quello travestito da pagliaccio, perché in realtà ci sono due risate diverse a guardar bene. Una è quella irriverente, caustica e folle che vorrebbe davvero mettere a nudo e disvelare, provare a cambiare il mondo, renderlo a misura di una comicità che svela un’essenza diversa, che allude a rapporti più giusti e più umani. L’altra risata è quella diabolica di chi si fa beffe dell’onestà e della giustizia, quella di un potere che talvolta assume perfino le sembianze di arlecchino e pulcinella, che adotta i modi gigioneschi e inoffensivi di un burattino, come un pinocchietto dall’aria scanzonata e inoffensiva. Ma per inciso si tratta di un burattinaio che per meglio manovrare sui fili finge di far parte della comitiva delle sue marionette. Assume quell’aria da cantastorie fantasioso e sbarazzino e intanto se la suona e se la canta. Un monello scapestrato e burlone mentre orchestra le trame con i fili delle sue creature, un po’ pedine e un po’ fantoccini. Un Joker burlone ed eccentrico, talora grottesco e scherzoso, ma con giochi comici che sono armi letali, veleni che lasciano sul viso dei suoi interlocutori un ghigno stupefatto. Una mente strategica e manipolatrice, per certi versi geniale, con un volto di gomma attaccato con una spillatrice. Un fumetto grottesco e delirante di protervia e onnipotenza.
L’elogio della follia erasmiana è più attuale di certi pamphlet dall’aria datata e dall’argomentazione trita e ritrita, più caustico di una brillante dissertazione sulla psicologia di massa, più profondo di un trattato sull’argomentazione. La follia erasmiana è il guanto di sfida alla nostra accidia e alla nostra presunzione, la sollecitazione a spogliarci dai nostri abiti mentali e dalle nostre consonanze per guardarci veramente allo specchio. Gilberto M.
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16 commenti:
Bello questo articolo, Gilberto, l'ho molto gustato!
In sostanza condivido tutto l'impianto teorico, l'argomentazione e sono strenua sostenitrice della Follia erasmiana.
sull'11 settembre però...
il mio percorso è partito da un'elogio alla follia non secondo a quello di erasmo ed è però approdato ai lidi del debunking grazie soprattutto al documento che si può trovare googlando "CRONO911" e scaricando il testo (pdf o zip); un documento analitico e scientificamente referenziato alla fonte (nel senso di offerta di "references") "come piace a noi", il quale non per nulla contiene questa considerazione finale: "la gente tende a pensare che se una certa teoria è proposta con insistenza, qualcosa di buono deve pur esserci. Pochi hanno voglia e capacità di reperire e studiare la mole di documentazione disponibile"; e questa cosa mi è tanto...deja vu! ;-))
comunque la si pensi o la si speri, una lettura consigliata. :-)
Carissimo Gilberto come al solito non posso fare altro che complimentarmi per il tuo "folle"articolo,e cercando qualcosa su Erasmo ho trovato questo aforisma adatto a te. "Le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia".Non so, se sei un folle visionario,ma di sicuro sei un mostro di cultura,e per noi poveri mortali,dedico questo:
"Che altro è la vita dei mondiali se non una specie di commedia nella quale gli attori che si travestono con vari costumi e maschere entrano in scena e recitano la loro parte finché il regista li fa scendere dal palcoscenico".Carissimo Gilberto siamo tutti attori che recitano,siamo dei folli,oppure dei visionari,ma,la logica ci dice che: "La vita umana nel suo insieme, non è che un gioco, il gioco della pazzia".Ti abbraccio con tanto affetto caro Gilberto,e un caro saluto a Chiara.
Buongiorno Vito.
Hai ragione, il mondo è fatto di registi, palcoscenici, attori...ma cosa potrebbero mai tutti loro senza un valido "trovarobe"!
Un caro saluto a te.
Carissimi Vito e Chiara
Risponderò in modo folle come conviene, un po’ teatralmente come è d’uopo. Con il dire che la vita è un grande teatro o che la vita è sogno? No, troppo banalmente vero. Siamo qui a commentare e talvolta ci sfugge perfino di cosa si stava parlando. Vito cita un film emblematico e sembra un po’ preso dall’ombra di un dubbio (ho detto solo un’ombra). Vito lasciati andare a quel dubbio che apre quelle prospettive inedite alla nostra vita, sia pure un gioco folle e visionario. Chiara è talvolta un po’ amareggiata perché non si sente apprezzata come meriterebbe (ansia da protagonismo?), una pulsione che la spinge a ricercare dei punti limite con i suoi interlocutori. Non devi dimostrare nulla Chiara, che tu abbia talento è lampante. Prova a essere meno intransigente con te stessa, meno dura e inflessibile con i tuoi desideri. Saresti apprezzata ancora di più, saresti più umanamente imperfetta, quell’imperfezione che ci rende attraenti e anche un po’ misteriosi.
Gilberto
Gilberto:
non ho capito niente, spiegami meglio il concetto...perchè protagonismo?...mi sento stupida, credimi, non ho proprio capito....era per il riferimento al volume? era un semplice contributo a chi fosse interessato al tema dell'11 settembre.
O era per il trovarobe? quello era riferito a te...nel senso: nella (modesta e amatoriale) esperienza teatrale che ho fatto ho imparato ad apprezzare infinitamente l'opera di questa figura professionale (fondamentale e dirimente in rappresentazioni "povere" come quelle cui ho partecipato) che considero anche uno dei ruolo più eccitanti e difficili della scena teatrale (forse perchè con mezzi limitati, fare un buon lavoro di trovarobe deununcia grande abilità, fantasia concretante...follia erasmiana!): colui che che riesce a concretizzare un'idea, dalla cui abilità dipende la credibilità della rappresentazione, la possibilità dello spettatore di percepire la verosimiglianza e farsi coinvolgere, l'agio con cui si muovono gli attori, la possibilità del regista di spaziare nell'ideazione originaria dell'autore...è quel sale che non vedi, non appare, ma che da il sapore definitivo alla pietanza e può renderla da eventualmente insipida, maggiormente gradevole o sgradevole al palato a seconda della sua abilità. Ecco, in questo senso che vuol essere elogiativo e non certo sminuente, io ti vedo come il nostro trovarobe. Ispiratore per la regia, concretizzatore per gli attori ma soprattutto colui che con un pizzico di "folle" iniziativa può determinare la messa in scena di dettagli non preventivati e che costituiscono una felice aggiunta ad un insieme che pareva già completo e che, solo dopo, ci si accorge poteva essere migliorato.
...o ancora non ho capito a cosa ti riferivi?? help me! :-)
Chiara
Non mi riferivo al tuo commento. L'ho apprezzato moltissimo e l'ho capito. L'esordio era "Risponderò in modo folle come conviene, un po' teatralmente come è d'uopo." La mia era una affettuosa provocazione a lasciarti andare, a non essere sempre puntigliosa e sospettosa come in qualche altra occasione. Solo un gioco benevolo e allusivo, e un ringraziamento per il tuo apprezzamento.
Gilberto
Ok, capito.
mania di protagonismo? possibile, d'altronde l'astrologia mi fa leonessa.
ma soprattutto affamata di "capibilità": con me conviene far vedere che si è capito e non si concorda piuttosto che far finta di non capire: lì scatta il puntiglio...difetto di fabbrica! chissà se c'è il reso... ;-)
@ Chiara
Perfetto. Ci siamo intesi anche senza intenderci. Potenza delle parole tra le righe e... della erasmiana follia.
Con simpatia
Gilberto
Caro Gilberto è sempre un piacere leggerti, anche se, a dire il vero, faccio spesso fatica a causa della non conoscenza di alcuni termini da te usati e di alcuni riferimenti a testi, a me sconosciuti.
Tutto ciò non mi impedisce però, con un po' di sforzo in più, di afferrare l'essenza del tuo pensiero.
Credo umilmente che la Psicologia scolastica, dalla scuola materna a quella d'obbligo, darebbe un contributo importantissimo alla formazione del bambino prima, e del ragazzo poi.
Gestire le proprie emozioni, le proprie paure, interagire con il prossimo, usare più chiavi di lettura per interpretare se stesso e il mondo che ci circonda, non è cosa facile, se non si è cresciuti "dentro".
A volte le maschere e i paraocchi indossati da molti, rimangono gli unici accessori che sappiano indossare.
Credo anche che la psicologia scolastica preverrebbe tanti casi di bullismo, rivelerebbe un maggior numero di violenze nelle mura domestiche, avvisterebbe importanti segnali che nascondono patologie serie, che troppo spesso non vengono curate perché non capite.
Invece diamo in mano il futuro degli uomini di domani ad insegnanti, a cui a volte nulla sembra abbiano insegnato, ed a quelli più in gamba li carichiamo di classi con 28/30 bimbi, ma siamo moderni, non facciamo mancare loro di tanto in tanto, dei corsi che osano chiamare di aggiornamento.
Nel frattempo i bimbi crescono, ed i più fortunati, oltre che la poesia di Pascoli a cantilena, imparano ad amare ed amarsi, mentre altri, più sfortunati, si vantano poi a distanza di anni di ricordare ancora a memoria tutta, ma proprio tutta la Cavallina Storna.
Con stima
Sira
Cara Sira
Affronti un discorso complesso che coinvolge ogni aspetto della società moderna. Confesso di non avere ricette, purtroppo. La stessa psicologia è sovente messa sotto accusa come strumento di potere. In realtà tutto può essere usato a vantaggio dell’uomo o contro l’uomo. I classici della letteratura e della filosofia sono il nostro patrimonio, una miniera di conoscenza e di saggezza. Sta a noi non disperderli. La cultura per dirla alla tedesca non è la kultur (che puzza di stantio) ma la bildung (il processo educativo, la formazione culturale) che rende la cultura qualcosa di vivo ed attuale. Grazie per la tua stima.
Gilberto
"La stessa psicologia è sovente messa sotto accusa come strumento di potere."
Mi hai fatto venire in mente un pensiero di Seneca:"Più potente è colui che ha se stesso in proprio potere"
Usare la psicologia a svantaggio dell'uomo è cosa assai più difficile da realizzare se si è prima usata la stessa a beneficio
dell'uomo stesso.
Sira
@ Sira
Sì, nel senso dello "Scito Te Ipsum", "Conosci te stesso". Al riguardo visto che si parla di classici, un'opera tra le più profonde del pensiero filosofico di tutti i tempi. Un'opera medioevale di Pietro Abelardo. E naturalmente la "Historia Calamitatum" ("Storia delle mie disgrazie - lettere di Abelardo ad Eloisa" dello stesso autore.
Gilberto
Sira,
Conosco persone che sanno a memoria molti versi della Cavallina storna e di molte altre poesie o poemi. Divina commedia, Gerusalemme liberata, Orlando furioso, il 5 maggio, marzo 1821, il primo e secondo coro dell'Adelchi: dagli atri muscosi, sparsa le trecce morbide e chi più ne ha più ne metta, I Sepolcri, All'amica risanata, A Zacinto, A Silvia, il Canto notturno di un pastore errante nell'Asia: dimmi tu luna in ciel, dimmi che fai...
E non mi pare proprio che questo spontaneo e positivo esercizio della memoria sia preclusivo ad un umanesimo compiutamente inteso.
Non vedo perché mettere in contrapposizione le due cose.
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Come al solito l'articolo di Gilberto è superlativo. Però poi applicare i concetti di Erasmo alla dietrologia che si fa sugli avvenimenti tragici di grande risonanza mi sembra un po' una forzatura. C'è la Cia dietro l'11 settembre e l'assassinio di Kennedy. Gli americani non sono mai arrivati sulla luna. Piuttosto, a me queste ultime "demifisticazioni" mi sanno tanto di leggende metropolitane e quindi a loro volta sembrano delle mistificazioni.
Parere personale, beninteso.
Comunque, complimenti a Gilberto e auguri di Buona Pasqua a tutti.
Giacomo
Preciso meglio il concetto. Bisogna distinguere l'informazione che circola nei paesi in cui c'è libertà di stampa da quelli in cui tale libertà non esiste. Mentre nel primo caso può succedere che le notizie subiscano qualche mistificazione ed in tal caso è proprio la libertà di stampa che consente di smascherarla o, quanto meno, di metterla in discussione, nel secondo caso è CERTO CHE TUTTE LE NOTIZIE SONO MISTIFICATE e funzionali al potere che tiene la stampa sotto controllo, comprendendo nella mistificazione anche la censura di notizie vere che non vengono pubblicate.
Concludo applicando i concetti della mistificazione al caso di Avetrana. Da che cosa si deduce che il caso è stato mistificato? Proprio dall'unanimismo con cui la "libera stampa" lo ha trattato, martellando in un'unica direzione.
E i pochi "dissidenti" sono stati considerati i "nemici della Patria".
Tipico da paese totalitario.
Di nuovo auguri a tutti.
Giacomo
Amo la poesia Giacomo, e credo che sia la massima espressione dell'animo, un patrimonio da tramandare di generazione in generazione, ma costringere alunni della scuola primaria, ad imparare a memoria decine e decine di strofe, di cui a volte non comprendono nemmeno il significato, può generare disamore verso la poesia stessa.
Credo che l'esercizio mnemonico a quell'età si possa fare su filastrocche gradite ai bimbi, che abbiano comunque un messaggio comprensibile a loro.
Di contro credo che la presenza di uno psicologo nei 5 anni di studio sia fondamentale per quanto detto nel post precedente e per moltissime altre cose.
Altra cosa è studiare letteratura dalla scuola d'obbligo in poi.
Quanto sopra per spiegare la frase:
"Nel frattempo i bimbi crescono, ed i più fortunati, oltre che la poesia di Pascoli a cantilena, imparano ad amare ed amarsi, mentre altri, più sfortunati, si vantano poi a distanza di anni di ricordare ancora a memoria tutta, ma proprio tutta la Cavallina Storna."
Di uomini sfortunati, che conoscono la Cavallina Storna a memoria, ma che non hanno imparato ad amarsi, ad amare, ad aver fiducia nel prossimo, ne conosco molti, e tanto per rimanere in tema mi auguro che quella giuria popolare che deciderà della vita delle Misseri, non conosca la Cavallina Storna, ma abbia sviluppato la capacità di discernere il vero dal mistificato.
Ciao Sira
Carissimo Gilberto,colgo l'occasione per farti i miei più sentiti auguri di una felice e serena BUONA PASQUA.Con affetto Vito Vignera e famiglia.
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