lunedì 6 agosto 2012

Annamaria Franzoni. Il delitto efferato? Una fantasia dei giudici del copia- incolla che reiterano gli sbagli di chi per condannare ha usato la monetina...


Ora capita che Annamaria Franzoni, secondo l'ultimo giudice che le ha negato quei piccoli benefici concessi anche a chi uccide più persone, abbia commesso un delitto efferato. Tanto efferato da non poter essere guardata con magnanimo per almeno altri quattro anni. Quindi la smetta di chiedere di uscire per andare dai figli per qualche ora, perché per lei alla Dozza le porte sono chiuse e lo saranno anche nel 2014, quando avrà superato la metà della pena e potrebbe, da legge scritta, chiedere un diverso trattamento carcerario. Purtroppo capita, a volte, ci sia anche da chiedersi come certi giudici valutino gli omicidi e quale delitto per loro sia o non sia efferato. Forse che, per chi è invaso dal potere di spargere la legge sull'uomo, il reo cambia l'ordine dei fattori a gioco in corso, se confessa, ed il delitto da efferato si trasforma in disgrazia? Ma la morte è morte in ogni caso, ed in ogni caso la violenza è sempre violenza. Chi spara alla vittima fra gli occhi, chi la uccide con un paio di forbici o un martello, chi le taglia la gola con un coltello, chi la avvelena col topicida o chi la tiene con la testa sotto l'acqua per cinque minuti, se confessa è dunque meno assassino di chi si è sempre dichiarato innocente, di chi i giudici hanno condannato senza sapere neppure con quale arma abbia ucciso? Un'arma fantasma che ancora oggi nessuno sa quale sia e dove sia?

Ora capita anche che dal 2008 ad oggi, dopo la condanna a sedici anni ridotta a tredici dall'indulto, la Franzoni sia stata esaminata e giudicata da altri giudici. Capita che questi abbiano tratto il convincimento sia più pericolosa di Renato Vallanzasca, che a sangue freddo uccise, oltre i tanti civili, anche quattro appartenenti alle forze dell'ordine, lasciando dietro sé schiere di vedove ed orfani, e di Totò Riina, che ordinava di far esplodere bombe per far saltare in aria magistrati. Capita che per la legge di quei giudici, e solo di quei giudici, la Franzoni sia da paragonare ai serial killer Donato Bilancia e Gianfranco Stevanin, ad esempio, ma non a Luigi Chiatti, il cosiddetto mostro di Foligno. Lui è diverso, e probabilmente i suoi delitti son stati considerati meno efferati dato che a metà pena scontata ha ottenuto un permesso premio. E' accaduto un paio di anni fa, anche se i media lo hanno in maggioranza taciuto perché distratti da altri casi, ed è trapelato solo dopo la gitarella concessa a chi aveva ucciso un bimbo di quattro anni ed uno di tredici. E stiamo parlando di un uomo che uccideva per essere al centro dell'attenzione, un uomo che aveva deriso e sfidato i Pm, in quel periodo concentrati su un altro ragazzo che si era autoaccusato, facendo loro ritrovare una lettera in cui era scritto: "L'omicidio di Simone è stato un omicidio perfetto. Certo, è dura ammettere che sia così da parte delle forze dell'ordine, ma analizziamo i fatti. Io sono ancora libero. Avete in mano un ragazzo che non ha nulla a che fare con l'omicidio. Non avete la mia voce registrata perché non ho effettuato nessuna chiamata. Quindi chi dice che ho telefonato al numero verde sbaglia. Le telecamere non mi hanno inquadrato durante il funerale di Simone perché non ci sono andato. Siete completamente fuori strada. Vi consiglio di sbrigarvi, evitando altre figuracce. Non poltrite. Muovetevi. Credete che basti una divisa e una pistola per arrestarmi? Usate il cervello, se ne avete uno ancora buono e non atrofizzato dal mancato uso. N.B. Perché ho detto che dovete sbrigarvi? Perché ho deciso di colpire di nuovo la prossima settimana. Volete saperne di più? Vi ho già detto troppo, ora tocca a voi evitare che succeda. Il Mostro.

Ma il Chiatti, dopo essersi fatto scoprire di proposito (non ce l'avrebbe fatta a vedere sotto i riflettori un altro ragazzo, le luci erano sue di diritto) partecipando alle ricerche del secondo bambino sgozzato ed indirizzando il nonno di questi nel fosso in cui lo aveva abbandonato (da lì partiva una striscia di sangue che arrivava direttamente ad una finestra di casa sua), confessò dicendosi malato (lo aveva già scritto in un'altra lettera fatta ritrovare dopo il primo omicidio)... ed ecco cosa accade in Italia a chi confessa più omicidi efferati: a metà pena ottiene i benefici previsti dalla legge. E non è ancora finita perché, fra l'indifferenza dei media, nei luoghi giuridici giusti già si sa che il mostro di Foligno non sconterà tutta la condanna. Però la Franzoni, al contrario del Chiatti, non ha mai confessato. Quindi la legge dei giudici per lei cambia e la fa diventare in automatico peggiore del peggior serial killer... per cui i permessi se li deve scordare. E se li deve scordare a causa dell'efferatezza del delitto che in tre processi farsa le è stato addossato. Ma solo per carenze investigative, dunque mancanza di indagati, per sopravalutazione dei periti e scelte difensive sbagliate. Infatti a guardare la condanna che deve espiare non si nota l'aggravante derivante dalla parola "efferatezza". La Franzoni è stata condannata a scontare tredici anni di carcere, sedici senza indulto, come chi truffa lo Stato e non come gli assassini efferati, quelli si beccano dai 21 in su, che al contrario di lei, per altri giudici, possono godere dei benefici. Se l'efferatezza fosse stata realmente provata, di anni ne avrebbe dovuti scontare trenta, quelli comminatigli al primo processo dal gup di Aosta dottor Eugenio Gramola.

Dopo di lui toccò ad altri emettere giudizi. In Cassazione fu il Severo Chieffi, oggi Presidente della prima sezione penale (guarda caso è stata proprio questa sezione ad emettere pochi giorni fa la sentenza che parla di efferatezza), a zigzagare fra lucciole e lanterne, ad accettare anche l'inaccettabile ed a modificare leggermente alcuni passaggi scritti da chi aveva motivato prima di lui. Così ebbe modo di seguire la scia colpevolista, di darle della lucida assassina e confermare la condanna. E la confermò nonostante nelle sue motivazioni smentisse quanto scritto dai giudici di secondo grado, che per scontarle 14 anni di galera usarono una malattia che il codice penale non prevedeva e non prevede. Il dottor Severo Chieffi, però, pur parlando di lucida assassina e pur smentendo i colleghi che prima di lui avevano giudicato, non fece rifare il processo in modo le aumentassero la pena inflitta dalla Corte d'Appello di Torino, poteva farlo perché di appigli ne aveva tanti, che aveva deciso di darle 16 anni sapendo bene che l'imputata avrebbe usufruito dell'indulto e, di conseguenza, si sarebbe scontata tre ulteriori anni. Per tutti fu facile capire che la sentenza contemplava nel suo insieme anche questo elemento di non poco conto, lo aveva capito di certo anche il dottor Chieffi che la condanna a sedici anni in effetti voleva essere una condanna a tredici. E questo dato è un punto fermo da considerare aldilà delle parole presenti nelle varie motivazioni, parole scritte per l'opinione pubblica "a cui in fondo dello scritto è l'ultimo fruitore" (quelle tra virgolette non sono parole mie ma del Chieffi stesso che le ha inserite nelle sue di motivazioni). Eppure dal 2008 ad oggi non c'è giudice che pare averlo capito, non c'è giudice che motivi le sentenze riguardanti la Franzoni con la sua mente e ragionando in base ai fatti reali ed alla legge, non c'è giudice che scriva di suo senza fare un "copia-incolla" di quanto scritto nei fogli di altri. Insomma, si potrebbe pensare che i nuovi giudizi siano figli dei vecchi e, quindi, di chi ha convinto i giudici, quasi convinto visto che i 30 anni di condanna in primo grado alla fine sono diventati 13, nei tre gradi di giudizio.

Ed allora fermiamoci un attimo ad osservare, da esterni, a quali persone si siano affidati i giudici per emettere le loro sentenze e mandare in carcere la madre di Samuele Lorenzi. Per cui partiamo dalle otto e cinquanta del giorno dell'omicidio, quando grazie alle telefonate dei dottori dell'elisoccorso, che parlavano di una morte "strana" e non naturale, sulla scena del crimine sono entrati i carabinieri di Cogne che, anziché chiudere gli ingressi alla casa e controllare la Franzoni, hanno permesso che entrasse sul luogo della morte una mandria di scalmanati che ha lasciato le sue pedate e le sue impronte in ogni dove, che ha spostato oggetti e piumone, che ha usato il bagno ed ha percorso la scala interna ed esterna a suo piacimento. Non v'è dubbio che il loro comportamento abbia danneggiato la Difesa ed avvantaggiato l'assassino. Se avessero fatto quanto dovevano, se avessero trovato nello zaino della madre un oggetto insanguinato, il caso avrebbe trovato subito una facile soluzione. Non ci fosse stato nulla, nessuno a processo avrebbe potuto insinuare che l'arma poteva essere nascosta nello zaino. Se sulla maniglia dell'ingresso si fossero trovate impronte estranee alla famiglia, si sarebbe potuto dire che qualcun altro era entrato in quella casa in sua assenza... non ci fossero state la madre era l'unica da indagare e condannare. Ma non abbiate paura, quei carabinieri non faranno più disastri... nel 2003 la caserma fu smantellata.

Ora passiamo oltre ed arriviamo a quando le indagini finirono nelle mani della procura di Aosta, il cui procuratore capo era la dottoressa Del Savio Bonaudo. Fu lei che assieme ai carabinieri ed ai suoi Pm, addolorata dalle offese che sentiva dalla voce dei familiari della Franzoni ad ogni intercettazione (la consideravano inidonea ad indagare), già certa della colpevolezza della donna (come dalla stessa detto quando fu intervistata da Radio 24), non riuscì a decifrare l'ordine giusto degli orari in cui si svolsero le chiamate di aiuto: al 118, alla dottoressa Satragni ed all'ufficio del marito. Addirittura non riuscì neppure a cronometrare la telefonata più lunga. Tanto che negli atti, in tutti gli atti ed in tutti i processi, i giudici hanno giudicato in base ad una telefonata della durata di 77 secondi, fu accettata anche dal Taormina (l'avvocato che ora vuole 800.000 euro dalla Franzoni), quando è dimostrato che di secondi ne dura 100, ben 23 in più. E visto che il giudice Pettenati (Appello) ha scritto che non è credibile vi siano sfasature di troppi secondi fra una telefonata e l'altra, è facile capire quanto quei 23 secondi fossero importanti per far aumentare le sfasature ed aiutare la Corte a capire qualcosa in più sul castello diroccato propinatole dall'Accusa. Tutto fu davvero fatto in buonafede e per ignoranza aritmetica della procuratrice, dei suoi Pm e dei carabinieri? Forse è così, forse la matematica non serve quando si indaga, anche se informandosi sulla ex Pm Stefania Cugge, ed imparando ad apprezzare la sua intelligenza superiore alla media, pare impossibile non se ne sia accorta da subito. Come pare impossibile sia stata lei, in accordo col suo capo, giust'appunto la dottoressa Del Savio Bonaudo, a decidere di non toccare i vicini di casa perché provvisti di un alibi.

Di Ulisse Guichardaz ad esempio, è il vicino poi additato dai Lorenzi e dal loro legale che portò la Franzoni ad essere indagata e condannata per calunnia, disse: "Non si capisce il motivo per cui non credergli"... "una telefonata lo scagiona e dimostra che era in casa dei genitori al momento del delitto". Non si capisce il motivo per cui non credergli? Una telefonata lo scagiona? A parte che la sua voce al telefono non l'ha ascoltata nessuno, quindi che abbia risposto davvero lui lo si può solo ipotzzare se di da per vero quanto dichiarato dal fratello, che lo ha chiamato al numero dei genitori e non al cellulare che usava in quei giorni... sapeva chi indagava che la durata di quella telefonata è di 17 secondi esatti? Quanto dalla procura affermato è una roba da Zelig che se raccontata e spiegata nella sua interezza farebbe ridere per diverse settimane l'Italia intera. Ma non c'è da ridere, perché quanto accaduto è una realtà. Nessuno ha fatto controlli davvero accurati su altri che non fossero la madre di Samuele, prima di inserire nel registro degli indagati il nome "Franzoni" (le indagini successive alla denuncia dei Lorenzi furono altrettanto leggere e poco invasive).

Quando i Pm chiesero di arrestare la donna, manco sapevano per certo se il vicino, quello additato, avesse trascorso la notte precedente l'omicidio girovagando per Cogne o fosse andato a casa del padre, dove, parole dello stesso vicino al Cogne bis, andava a dormire quando il suo appartamento era affittato ai turisti. Si fidarono della famiglia e gli unici accertamenti servirono a cronometrare gli spostamenti ammessi in fase di audizione. E per far capire come si sia lavorato, basta sapere che fra la casa dei suoi genitori e la villetta dei Lorenzi vi sono 1500 metri di strada, mentre negli Atti a processo figurano esservene 2000. La differenza risulta di cinquecento metri, che sono esattamente un quarto di duemila... non si può dire sia minima. Ed anche lo fosse ci farebbe comunque capire il pressapochismo usato nelle indagini. Inoltre: perché mettere i metri e non i minuti neccessari per arrivarvi? Li metto io. Fra una casa e l'altra vi è una distanza percorribile in tre minuti. Ma c'è dell'altro, c'è che il garage cantina con gli attrezzi da lavoro, posto a trenta metri dalla casa dei Lorenzi e di cui tutti i Guichardaz avevano le chiavi, fu controllato al meglio solo tredici giorni dopo il delitto. Inizialmente andarono nel locale caldaia della casa di suo fratello, dove c'era la lavanderia, come se davvero pensassero di trovarvi panni insanguinati. C'è anche che il furgoncino della famiglia non ha mai subito perquisizioni, eppure ad un certo punto lo si vide ad un passo dalla scena del crimine... senza sapere in realtà quando fosse arrivato. E l'unico che ammise di essersi cambiato gli abiti e le scarpe è il proprietario del suddetto furgoncino. Insomma, a Cogne in quel periodo è capitato un caos primordiale che non ha permesso si facessero le migliori indagini... forse chi indagava avrebbe dovuto, prima di scegliere l'indirizzo investigativo, partecipare ad un corso accellerato di matematica semplice che gli insegnasse a fare due più due.

Quindi, visto quanto capitato, forse ha ragione il detective Gelsomino (che su alcuni cogneins ha indagato). Lui l'ha detto a chiare lettere al "Cogne bis", pur se quasi irriso... c'erano molte probabilità che il ragazzo non si trovasse da suo padre quella notte, dato che questi dopo mezzanotte lo cercò al cellulare, ma fosse nei pressi della casa in costruzione situata accanto a quella del fratello, dove si trovava il garage cantina con tutti gli attrezzi, a trenta metri dalla villetta della famiglia Lorenzi-Franzoni. Il padre al Cogne bis ha asserito di non ricordare di aver chiamato, però la telefonata c'è stata perché è registrata sui tabulati (nei verbali stilati nel 2002 non risultano domande in tal senso... chiaro che nessuno durante le indagini ne ha chiesto conto), ed in ogni caso, l'avesse fatta, ha detto, di sicuro aveva l'intento di sapere dove il figlio sarebbe andato a dormire. Capperi! Questo può avere solamente due significati. Primo: che solitamente il padre chiamava il figlio, per avere informazioni sulle sue scelte notturne, sempre dopo la mezzanotte. Possibile che i tabulati confermino una simile sequenza di chiamate padre-figlio, antecedente e posteriormente il delitto? Voi credete davvero che un qualche Pm abbia trovato conferme controllando i tabulati dei giorni precedenti l'assassinio? Secondo: che la telefonata del fratello, fatta al fisso della casa dei genitori, non aveva motivo di esistere e di suffragare un alibi. Infatti è fuori luogo e contrasta completamente con le affermazioni di Ulisse Guichardaz, che ha dichiarato di non dormire sempre in quella casa, e con quelle del padre, che ogni notte lo chiamava per sapere dove fosse andato a dormire. Più credibile sarebbe stata una telefonata al cellulare del fratello, quella sì avrebbe avuto motivo di esistere...

Ora non vorrei si pensasse ad una mia antipatia verso i vicini della Franzoni. Come non conosco la madre di Samuele non conosco neppure i Guichardaz, quindi non è così. Io mi pongo solo domande, quelle che non si è posto chi ha indagato per poter capire quanto fosse credibile un alibi composto in famiglia. Perché è chiaro che gli alibi forniti, non solo quello di Ulisse, tutti aggiustati al secondo, terzo e passa verbale con dichiarazioni sempre diverse, sono a carattere familiare. E non c'è solo questo, ci sono tante altre cose che stonano. Un esempio viene da un'affermazione finalmente fatta anche in un tribunale di fronte ad un giudice, quello del Cogne bis che come gli altri giudici, come tradizione vuole quando si parla del caso Cogne, non si è posto e non ha posto domande credendo a scatola chiusa che la sera del 29 gennaio, quella prima dell'omicidio, il Guichardaz si fosse recato, come ogni settimana, alla discoteca "Divina" di Aosta (quindi non poteva trovarsi a zonzo per Cogne come asseriva il detective privato Gelsomino). Ma il 29 gennaio era un martedì, e la discoteca in questione, da che mi hanno detto e si sa in Valle, non ha mai aperto di martedì (a seconda della stagione, dieci anni fa ed anche dopo, apriva il mercoledì e il sabato o il sabato e la domenica). La procura della Bonaudo nel 2002 ha mandato un qualche carabiniere al locale, prima chiudesse definitivamente, per verificare se risultasse vero che quel martedì sera fosse aperto?

Non si sa, in nessun atto si parla di accertamenti del genere. Si sa però che gli inquirenti hanno dato per buone le testimonianze che parlavano di una notte trascorsa a dormire dai genitori e di una telefonata della durata di 17 secondi che confermava gli alibi. Telefonata ricevuta in un telefono fisso posto non in camera da letto, dove dormiva Ulisse, ma in un'altra stanza. Una telefonata che dire sospetta è dire poco viste le testimonianze in tema di alzate mattutine, visto che la persona non indagata per partito preso dalla procura, aveva tre sveglie in camera, tutte sistemate in punti diversi, parole sue scritte a verbale, altrimenti non sarebbe stato sicuro di svegliarsi. E visto che nessuno ha mai dissipato il fumo che ancora aleggia su questi particolari, c'è da chiedersi: "Ma a quella telefonata ha risposto davvero il figlio? Non è che ha risposto il padre o una stupida segreteria telefonica? Che verifiche si son fatte per capire chi avesse davvero alzato la cornetta?".

Ma in fondo che importava ai Pm di verificare al meglio, dato che già avevano una colpevole bella che confezionata? La Del Savio Bonaudo si è detta soddisfatta dell'ultima condanna, quella motivata dal Chieffi, che ha parlato di una lucida assassina ed ha sancito l'entrata in carcere della Franzoni, perché ha restituito alla sua procura la credibilità perduta. Procura che di lì a poco si è rinnovata ed ha fatto senza di lei che, non gradendo i luoghi in cui la si voleva trasferire, piccole località che somigliavano più ad una bocciatura che ad una promozione, decise di rinunciare alla carriera e tornare a fare il suo antico lavoro. Ora è un avvocato in quel di Torino e quando un giornalista la avvicina, sempre e solo nelle ricorrenze della morte di Samuele, non perde occasione per vantarsi del "fantastico lavoro" svolto contro la Franzoni.

Fra l'altro sia lei che la sua Pm Stefania Cugge, al tempo una 35enne enfant prodige che prima di entrare in magistratura aveva vinto concorsi su concorsi, che aveva lavorato in banca e da un notaio ma che fino al 2002, quale Pm, non si era mai occupata di omicidi, per cui la sua esperienza in quel settore era minima, stranamente non furono rimosse dalle indagini, come la stessa Cugge onestamente chiese. Perché avrebbero dovuto far indagare altri e mettersi da parte? Perché a maggio 2002 querelarono il legale che in televisione derise polemicamente loro ed i carabinieri accusandoli di essere incapaci di indagare. Perché le stesse cercarono di ritirare la querela ma si videro impossibilitate a farlo dato che lui respinse il ritiro chiedendo di andare avanti. Forse sarebbe stato il caso che la procura generale di Torino, che aveva il compito di decidere, scomodasse davvero l'incompatibilità fra l'Accusa e la Difesa. Può non avere motivi di astio chi prima viene deriso in televisione e, dopo aver chiesto addirittura scusa ritirando la querela (come avesse avuto ragione la controparte), si vede nuovamente irriso dall'impossibilità di ritirarla? Davvero un Pm, che per legge ha l'obbligo di cercare la verità, quindi lavora anche in favore del sospettato e se ci sono altri da indagare li deve indagare, si comporterà in maniera neutrale e darà ascolto anche a chi l'ha trattato "a pesci in faccia", tanto da fargli sporgere una querela?

Sopra ho scritto solo una minima parte di quanto fatto e non fatto nel 2002 dalla procura e dai carabinieri, diciamo che ho parlato dell'uno per cento di una indagine nata ferita e finita in stampelle, di alcuni retroscena che i più non sapevano esistere. Ora cambiamo visione e vediamo sommariamente i processi farsa in cui la madre di Samuele fu dichiarata colpevole. Il primo ad occuparsi di lei fu il Gup di Aosta Eugenio Gramola, da tutti considerato uno duro da scorticare e convincere. Lui partì bene perché prima di arrivare ad un processo ordinò una superperizia. La divise in quattro parti ed affidò la più complicata, quella che doveva stabilire se il pigiama fosse o meno indossato al momento dell'omicidio, ad un perito tedesco... peccato non gli abbiano detto che il perito non fosse, ed ancora oggi non sia, un vero esperto di Blood Pattern Analisys, la branchia che analizza le gocce di sangue che si spargono durante un omicidio, ma un normalissimo biologo. Ultraqualificato nella sua categoria, è vero, ma pur sempre un biologo al pari del suo collega italiano, allora capo del Ris e contemporaneamente consulente che affiancava ai processi la procura di Aosta, quindi dell'Accusa (strano che chi ha un compito super-partes si schieri con una parte, in questo caso l'Accusa, non pare anche a voi?), Luciano Garofano. Ma il Gramola, duro o non duro, in quel periodo storico non pareva essere un giudice tranquillo d'animo, pareva sempre sotto pressione tanto che faticava a dar ragione sia all'una che all'altra parte...

Un esempio ci viene dalla condanna inflitta ad un ragazzo dimenticatosi (?) di riconsegnare due videocassette al negozio in cui le aveva noleggiate. Il Pm che aveva coordinato le indagini, per l'imputato chiese 15 giorni di reclusione e la sospensione condizionale della pena. Il giudice Gramola, invece, lo condannò a sei mesi senza sospensione ed a 1500 euro di risarcimento. Così fece anche quando giudicò Antonio Spanò, un camionista che aveva ucciso la direttrice di un supermercato (poi si scoprì che già aveva ucciso un'altra donna a Torino) che, non riuscendo a convincere la moglie e il figlio a fornirgli un alibi, confessò raccontando favole su favole. Il Pm chiese per lui 20 anni di carcere, il giudice li aumentò a 21. Dopo questo aggiustamento condannò a 6 mesi, per favoreggiamento, anche Tyndara Molino, sorella di Catena Molino, una donna uccisa ad Aosta dal serial killer delle prostitute Roberto Spinetti. L'accusa? La sorella non era stata coerente nel rendere le sue testimonianze. Insomma, secondo il giudice non aveva avuto cattivi ricordi nel verbalizzare quanto sapeva, ma cambiando ogni volta testimonianza voleva aiutare l'assassino... a questo punto c'è da chiedersi cosa avrebbe pensato dei vicini della Franzoni, quelli mai indagati che ad ogni interrogatorio raccontarono cose diverse.

Non lo sapremo mai e ce ne faremo una ragione. Ciò che sappiamo è che ha calcato la mano sulla Franzoni e, credendo alla procura, ha scritto di conseguenza motivazioni che riportavano passaggi non veri (avranno condizionato il suo giudizio?). Ad esempio ha scritto che la madre vestì il fratello di Samuele in camera da letto, dove il piccolo dormiva. Ipotizzando quindi fosse stata quella la causa del risveglio anticipato e dando della bugiarda all'imputata che a verbale aveva testimoniato di averlo vestito in cucina. Ma le carte poi cambiarono, ed in Appello si scoprì che il pigiama era davvero in cucina (in procura si erano confusi e non se ne accorsero subito...) e che in quell'ambiente fu vestito il bimbo. Forse, visto il gup con cui si aveva a che fare (sconosciuto alla Difesa che lo incontrò per la prima volta a ridosso del processo), l'unico modo per scagionare la Franzoni era il chiedergli di mandarla in carcere a vita... chissà quale sarebbe stata la sua reazione, magari l'avrebbe davvero assolta. E sempre a proposito del giudice Gramola, c'è da dire che a poco tempo dalla sentenza mollò il penale per andare a giudicare cause di lavoro (ancora oggi si occupa di queste). Come per la Bonaudo, quindi, non si può certamente dire sia stato promosso.

Ma alla fin fine la colpa non può ricadere neppure tutta su chi ha giudicato nei processi aperti a causa di una procura poco preparata. In fondo i tredici anni che le hanno affibiato, che coi benefici di legge si riducono, anche scontandoli tutti in carcere, a nove, non sono la giusta pena da dare a chi ha commesso un omicidio efferato. In effetti sono stati il risultato del lancio di una monetina, testa o croce, che ha premiato una procura dopo vari processi finiti in parità (?) per mancanza di prove e di un giusto teorema difensivo. Lasciando perdere gli strafalcioni dell'Accusa, se il Taormina non avesse scelto il rito abbreviato ed invece di puntare tutto sulle macchie di sangue del pigiama fosse partito dalla logica di una ricostruzione inoppugnabile, a cominciare dagli orari iniziali giusti, le inesattezze sarebbero uscite. Ed in questo caso, non concordando sugli orari altrui, come invece dallo stesso fatto in Appello, e ricostruendo al minuto esatto i movimenti della sua assistita senza lasciare che le false ricostruzioni dei Pm lasciassero buchi aperti, forse qualcosa sarebbe cambiato nel destino di Annamaria Franzoni e di altri (e non parlo solo dei vicini additati, che ho citato solo per esemplificare e far capire gli errori commessi da chi indagava)...


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