giovedì 12 febbraio 2015

Un’Italia che canta - e si suona - la solita canzone…

Di Gilberto Migliorini



Il festival è emblematico di un Bel Paese che canta "no non cambio mai". La canzone è sempre quella. Ma quale? Quella delle leggi ad personam, della corruzione, del consociativismo, delle mafie e delle consorterie? Quelli sono solo gli effetti, non le cause. La radiografia del paese non riesce mai ad andare oltre lo strato epidermico di conclusioni che hanno il sapore del déjà vu, quelle disamine sociologiche che lasciano l’amaro in bocca per il loro carattere tautologico. Sono le solite denunce del tutto giuste e pertinenti che dipingono quadretti vibranti di sdegno e di commiserazione per le istituzioni, per l’apatia e l’ignavia dell’italica gente, per il nostro retaggio storico non sempre esaltante. Avviliti perché il destino ci ha dato una classe dirigente non proprio illuminata, ci consoliamo annualmente con una bella rimpatriata ad ascoltare e rivedere i personaggi che ci danno una identità ideale nelle armonie tonali.

E trallallà trallallà - il Bel Paese trascorre gli anni e i lustri sul palco di Sanremo cantando con cadenza orchestrale e timbro assonante la solita canzone che tapum tapum ci fa sentire patrioti e italiani. L’immagine tra le rose rosse e i non ti scordar di me ci offre l’identità tanto agognata di popolo che zum zum zum sa emozionarsi, fibrillare e intonare la canzone con sentimento e ardore nazional-popolare. No, non siam fatti di legno! Sappiamo ancora vibrare di passione… consapevoli dei nostri talenti artistici espressi così bene in una disfida canora di alto valore simbolico e di altrettanto sentimento commerciale… La nostra idealità di santi poeti e navigatori è tutta lì a darci consolazione, in quei lustrini e paillette, qualche battuta da rabbrividire, vestibilità da stilista di moda e tanta poetica anima e core. C’è magari anche la canzone di denuncia che risveglia nell'audience - assopita in nostalgiche emozioni - quell'improvviso orgoglio sociale, lo sdegno e la protesta declinati con cipiglio fiero e tono vibrante. Suvvia, qui si fa sociologia spinta, in quattro strofe si delinea come va il mondo, con un distillato di psicologia sociale e uno spaccato di bei luoghi comuni, con tonalità che elevano la canzone a poema epico. E se poi è un madrigale o un sonetto d’amore sono vette di sublime poesia.

Sì, una canzone può davvero spiegare e decrittare più di un saggio sul sesso degli angeli, è più profonda di una Lectio Magistralis e più efficace di un antidepressivo nel rincuorare un paese sull'orlo di una crisi esistenziale, un farmaco che risolleva il core. La pubblicità in dosi rilevanti fortunatamente attenua quell'impatto musicale che preso tutto di botto potrebbe causare un ingorgo emotivo, una sovradosaggio di anfetamine mediatiche in un target non più abituato a tanto ardore e tanta idealità assunta tutta in una volta. Si rischia un’indigestione di strofe appassionate e di sublimi perifrasi canore. I consigli per gli acquisti servono ad attenuare e diluire un format troppo denso e corposo perché l’audience possa reggerne l’impatto emozionale e assimilarne la dovizia creativa. Tutto quel bendidio profuso senza un minimo di precauzione potrebbe compromettere la stabilità cognitiva di un target sensibile all'amore e alla prolusione concettuale espressi in ritornelli pregnanti, distillati di un olfattorio corale, insieme al profumo di ginestre e lillà.

Ci si chiede quale festival della canzone nella storia patria sia stato il migliore? Di quale anno ha il miglior abboccato? All'occhio disattento sembrerebbero più o meno sempre le stesse performance, pur nella metamorfosi di presentatori e veline, ospiti, ugole canterine, suonatori ed orchestrali, guitti e giocolieri, predicatori e affabulatori. In certo senso nemmeno la musica cambia, orecchiabile e melodiosa, talvolta un po’ sniff, cadenzata, rap, pop, cult… insomma quella che ti aspetti per non tradire le attese della vasta platea televisiva.

Qualcosa solo un po’ minimalista o trasgressivo? Magari stonato ma di un naturalismo dal vero? Potrebbe traumatizzare vecchi e bambini e suscitare scandalo negli aficionados del bel canto e della morale corrente?

L’Italia si fotocopia annualmente in una gara canora che è davvero l’emblema delle sue istituzioni: stabilmente acquartierata nei suoi insediamenti culturali, un palcoscenico di scale, dipinti, scenografie ed arredi che fanno del Bel Paese un expo sfarzoso e luccicante, la fiera del belvedere, la vetrina dell’apparire… l’affresco secondo il verbo mediatico. È una narrazione alla De Amicis con il libro cuore aggiornato ai nuovi canoni estetici e al galateo riveduto e corretto secondo l’etica sentimentale e il gusto popolare. È il luogo della narrazione dove si ritorna sempre, il labirinto della nostra cultura dove si intona il partiam partiam e non ci si schioda mai, incapaci di uscir fuori dal conformismo culturale dove soggiorniamo da sempre.

Il festival di Sanremo è davvero l’emblema della nostra cultura, inossidabile, inalterabile e indefettibile, mummificata tra i bei fiori e una musica suadente e talvolta perfino orecchiabile. L’imbalsamatore però non si sa chi sia. O forse si sa e non si osa dire. Non è un personaggio e neppure un evento, per quanto sia la metafora di un paese che è sempre bambino, che non solo crede alle favole, ma se le racconta, se la suona e se la canta… la canzone. L’homo italicus affezionato alle sue bambole, ai suoi giochi e al profumo dei fiori, si mantiene ben stretto alle suggestioni puerili. Qualcuno vuole che l’italiano rimanga eternamente fanciullo, che si balocchi di filastrocche, tiritere e litanie, che non stia troppo a pensare, che lasci andare la barca finché va…

È quel campionario di verità standardizzate e preconfezionate per le quali non occorre argomentare, basta la parola, lo slogan, quel mondo di emozioni e di certezze secondo un timbro canoro. Il problema dell'Italia è la sua cultura e la sua mentalità, la testa dove risuona quella musica che fa pepé-pepé perepepé-perepepé. La trombetta di un popolo infante sa ripetere pedissequamente la canzone, la poesia, perfino l’ideologia che ha assimilato da piccino, una fede senza ratio e un amore plastificato e incelofanato in accordi musical-popolari. L’enfant prodige sa suonare senza errori, senza dubbi o incertezze, con l’assolo musicale o la coralità del gruppo che lo sostiene. 

Pensare davvero è cosa troppo impegnativa, troppo trasgressiva per un popolo che rimane abbarbicato ai suoi balocchi, che ancora non sa leggere, non sa scrivere, non sa vedere… non sa crescere mai. Però sa ascoltare quella melodia che lo fa addormentare sereno nel suo lettino con il suo inseparabile orsacchiotto di peluche…


Nessun commento: