Di Gilberto Migliorini
Occorre dire che la giustizia
talvolta dimostra una originalità
tutta sua che ci riporta senz'altro al metodo inquisitorio, reso celebre dai
processi agli untori e in generale da quel sistema di indagine proprio della
controriforma. L’indizio risulta essere lo strumento d'eccellenza, non già
come occasione per orientare l'indagine e ricavare eventuali prove, ma tout
court un passepartout, un bel grimaldello che va bene per ogni chiave
interpretativa da inserire in scenari immaginifici e creativi. Metaforicamente un indizio non
è altro che un segno, più o meno rilevante, una traccia che potrebbe condurre a
seguire una pista che porti a raccogliere prove tangibili e deduzioni
pertinenti. Ovviamente un indizio può anche risultare solo un miraggio, una fata
morgana… Di per sé un indizio è carico di potenzialità, ma potrebbe risultare
solo un’orma sterile e illusoria se conduce in un vicolo cieco, solo
l’effetto del caso e di coincidenze fortuite, senza significato o con
significati così ridondanti da prefigurare molti scenari contraddittori. Un processo, in qualsiasi paese al mondo, almeno in
quelli considerati democratici, avviene sulla base di prove, non certo di indizi che servono semmai all'investigatore
come fili di Arianna che potrebbero sì portare a ricavare elementi consistenti,
ma anche costruire soltanto effimere tele di ragno.
D’altro canto immaginare scenari e metterli alla prova è il procedimento di qualsiasi indagine. Come la moderna epistemologia ci ha insegnato, il pregiudizio è un punto di partenza necessario. Senza pregiudizio non si va da nessuna parte. Mettere alla prova le nostre intuizioni costituisce il modo migliore, per tentativi ed errori, per procedere alla ricerca della ‘verità’. La supposizione (il pre-giudizio=giudizio di partenza) deve però poi essere messa al vaglio di riscontri oggettivi e di scenari dai quali ricavare prove concrete e non teoremi. È vero che senza ipotesi pregiudiziali non si potrebbe neppure avviare un’indagine scientifica o giudiziaria. Da un indizio si possono immaginare scenari, costruire ipotesi investigative, rappresentare un sistema di idee. Ma per avere consistenza di prova devono poi trovare riscontri non arbitrari, non fondati su nessi soggettivi, non dettati da preconcetti e opzioni scelte a piacimento come ipotesi senza veri riscontri fattuali. Collegare dei fatti con mere supposizioni è utile come esercizio speculativo, non come prova da portare a processo. In altri termini l’indizio riguarda il detective, l’investigatore o il magistrato nella veste di inquirente che cerca di mettere insieme le tessere di un puzzle utilizzando tutti gli elementi a disposizione per seguire un percorso deduttivo finalizzato ad ottenere inferenze inequivoche e obiettive (non idiosincrasiche) che istituiscano dei nessi precisi e circostanziati tra i fatti.
In questo senso dunque un fatto non è una prova. La foto di un
uomo con in mano un coltello sporco di sangue e la vittima che giace ai suoi
piedi è un fatto, non è una prova. Il fotogramma potrebbe avere
immortalato l’uomo che ha strappato il coltello dalla schiena dell’amico o del
congiunto nel tentativo di soccorrerlo. Allo stesso modo il Dna sul luogo del
delitto del signor kappa potrebbe
essere di natura puramente casuale, potrebbe trattarsi di un depistaggio, una
contaminazione, perfino di una interpretazione errata del codice genetico. Le prove
non sono fatti, sono relazioni tra fatti e relazioni tra relazioni tra fatti…
Le prove sono i nessi non arbitrari sotto forma di sillogismi deduttivi. Qui
però sorge un problema ermeneutico. Un nesso per non essere arbitrario deve
poter essere controllato fattualmente. Questo esclude qualsiasi formula
metafisica, comprese le premonizioni e le visioni di qualche sensitivo, e
qualsivoglia procedimento induttivo più o meno mascherato. Nell'epistemologia
popperiana (che ha approfondito il tema della prova scientifica) l’induzione
non esiste, è un errore bell'e buono.
Nel nostro sistema giudiziario
sono ormai in uso due locuzioni paradossali: l’una è appunto quella di processo indiziario che richiama i
tribunali dell’inquisizione e della controriforma (ce ne ha dato una splendido
esempio il Manzoni nella sua Storia della
Colonna Infame). L’altra, ancor più sorprendente, secondo la quale la prova si forma nel corso del
dibattimento, che per quanto ne sappia non ha riscontri in nessun sistema
giuridico a livello mondiale. La prova in un sistema giuridico non inquisitorio
si porta in dibattimento e non
si forma in dibattimento (salvo poi eventualmente dimostrare che non
regge alle argomentazioni della controparte). Nel nostro paese sembra diventata
normalità procedurale che si porti qualcuno a processo non già con delle prove di
colpevolezza - della cui consistenza e attendibilità si formerà un giudizio
attraverso il contraddittorio tra accusa e difesa - ma per una sorta di ritualità
per la quale l’indizio dovrebbe
magicamente diventare nel corso del dibattimento una prova provata. Il
dibattimento in questo modo diventa una ruota della fortuna, un terno al Lotto dove l’indizio verrà valutato
a seconda del libero convincimento di una giuria, e non già attraverso un
sistema logico-deduttivo che metta alla prova gli elementi rappresentati da
accusa e difesa in quanto prove di
colpevolezza o, se inconsistenti, di innocenza.
Una giuria dovrebbe entrare nel
merito della validità delle prove (sul fatto che esse siano tali e non mere
speculazioni) e non già nel valutare se un indizio può trasformarsi in una
prova mediante una valutazione soggettiva. L’abilità dialettica e la capacità
retorica servono sì a rappresentare al meglio tutti gli elementi di prova sic et non, ma non certo a trasformare
in prova un indizio - o viceversa. Un semplice indizio rimane tale
indipendentemente dalla sua rappresentazione più o meno esteticamente appetibile. Nel nostro sistema giuridico
sembra invece che la magia sia possibile, che prove e indizi siano elementi
interscambiabili dove avvocato, giudice, giuria e influenza mediatica, sono in
grado di fare del processo una sorta di alchimia trasmutando sostanze vili in
oro (e viceversa), di trasformare un sistema teorematico in un dispositivo di
sillogismi deduttivi su base fattuale. Il paradosso è in quella sorta di magia
per la quale dibattendo intorno a degli indizi, questi, magicamente,
assumerebbero la consistenza di una prova. Le supposizioni e le ipotesi, per
quanto suggestive, rimangono soltanto un opinare se non hanno poi condotto nel
procedimento investigativo a istituire nessi attraverso una verifica fattuale
non ipotetica.
Come se molti indizi (e ritenuti tali con una certa latitudine
interpretativa) costituissero elemento di prova mediante un procedimento
induttivo con le solite formule: chi se
non lui? Chi altri se no? Oppure nei collegamenti ipotetici che fanno
riferimento a parole totipotenti come: compatibilità,
contraddizione, plausibile,
inverosimile, non plausibile, verosimile (in tutte le loro varianti); o
ancora ragionamenti circolari dove per
presupporre A occorre presupporre B e per presupporre B occorre presupporre A - costruendo ipotesi che trovano
fondamento su altre ipotesi date per acclarate sulla base di altre induzioni del tutto gratuite: una
ragnatela di nessi che si embricano a formare soltanto congetture. Spesso si tratta di un campionario di fallacie, pseudo-sillogismi
mascherati da veri ragionamenti deduttivi. In altri casi di abduzioni dove la premessa minore del
sillogismo è dubbia.
Shakerando una sorta di
zibaldone e osservazioni più o meno pertinenti, e assemblando sotto forma di
teorema una serie di dati slegati o linkati secondo ghiribizzo, salterebbe fuori
qualcosa di più di una ricostruzione del tutto soggettiva e arbitraria, ne
uscirebbe una ricostruzione di un delitto in cui la prova non è fornita da
riscontri obiettivi ma semplicemente dai nessi istituiti da una narrazione
tanto suggestiva quanto fondata su ipotesi senza riscontri. La disposizione dei
fatti, del tutto opinabile, in una delle tante configurazioni possibili - senza
che questa possa riuscire ad escludere tante altre narrazioni altrettanto
plausibili - acquista il valore di prova. L’indizio viene ritenuto condizione
necessaria e sufficiente per uno scenario ritenuto probabile in quanto piace e ci si innamora.
Senza togliere nulla al fiuto dell’inquirente, che in qualche
caso può davvero seguire la pista giusta e subodorare dove occorre andare a
parare, occorre dire che in fatto di olfatto talvolta la cantonata è davvero
dietro l’angolo. Fidarsi troppo del proprie intuizioni può portare fuori strada.
Seguire pervicacemente un’unica traccia può impedire di vedere altri elementi ben
più interessanti…
L’uso del termine teorema
richiama un sistema con un solido impianto logico-deduttivo, anche se poi in
realtà il riferimento è a un sistema capzioso e decettivo, un procedimento dove
la deduzione è soltanto apparente come appunto in uno pseudo-sillogismo. Il
termine narrazione invece ci riporta alla dimensione di un romanzo nel quale - come nel calviniano castello dei destini
incrociati - esiste una pluralità di possibili itinerari narrativi lasciati
all'estro e alla fantasia del lettore... Cartomanzia e linguaggio degli
emblemi, i tarocchi, non solo come intrecci di simboli ma anche come intrecci
di storie. Dalle carte (i tarocchi) accostate a caso (gli indizi), si possono
incrociare storie e narrazioni che il lettore
(o l’inquirente) può assemblare a piacere con un mero criterio di
verosimiglianza. Ci sono storie che non appassionano, specialmente quando sono
senza capo e né coda. Allora basta aggiungere quegli ingredienti che sono come
il prezzemolo: il sesso, la pornografia,
la gelosia, la rivalità, il tradimento, l’insania… ingredienti che vanno
sempre bene, che si possono amalgamare a tutte le salse e possono agevolmente trasformare anche
una storia senza trama, senza movente e senza logica, in una sceneggiatura
avvincente e perfino credibile per un
pubblico abituato ai romanzi assemblati con il taglia e incolla.
Si tratta di ricostruzioni
piuttosto fantasiose sulla base del possibile e non del necessario, dove fa la
sua comparsa, lupus in fabula, una sorta di elemento intermedio, il caso indiziario, dove il possibile diventa necessario (ma anche al contrario). È un
po’ come l’arte sofistica della
dialettica e della retorica: l’homo
mensura (manifesto del relativismo e del soggettivismo. Non a caso i
sofisti vennero assoldati dalle aristocrazie. L’arte della retorica e della
dialettica, ma soprattutto l’eristica (finalizzata a far prevalere la propria
tesi, anche in sintonia con il senso comune) costituivano un sistema non
finalizzato alla ricerca della verità ma semplicemente a dominare il lato
pratico della vita in rapporto a chi li assoldava nei tribunali per rafforzare
le arringhe con una migliore formulazione e presentazione.
Il clima nel quale ormai da
molti anni viviamo è quello di un sistema giudiziario che ha fatto dell’indizio
una sorta di elemento eclettico e totipotente in grado di sfornare qualsiasi pietanza:
un po’ innocente, piuttosto innocente,
completamente innocente, forse colpevole ma non è detto, un po’ e un po’,
colpevole ma con riserva, colpevole senza se e senza ma, colpevolissimo… sia
colpevole e sia innocente. Tradotto ovviamente in pene più o meno severe,
sconti di pena, assoluzioni per insufficienza di prove, decadenza… o condanne a
tambur battente sull'onda mediatica. Dobbiamo però aggiungere che il rapporto
tra colpevolezza e innocenza è asimmetrico, non solo nel senso che qualcuno è
innocente fino a prova contraria, ma anche nel senso che è corretto dire che un
milione di indizi non fanno una prova. Anche se in genere di fronte ai processi
mediatici dove il malcapitato non ha santi in paradiso e non è un politico con
avvocati di fama, il giudizio è sempre stato favorevole a quell'opinione
pubblica alla ricerca del lupo cattivo
e che ha bisogno che ci sia un colpevole (che sia quello vero sembra importare davvero
poco). Segno che ai giudici l’impopolarità non piace proprio e che in certi
casi occorre soprassedere e fare di necessità virtù?
All'opinione pubblica
assuefatta alla corruzione e abituata al malgoverno (e lì sì che le prove non mancano, salvo quella solita provvidenziale prescrizione,
patteggiamento e soccorso legislativo) bisogna ben dare qualche surrogato, un
contentino che la risarcisca di tanti potentati che invece la fanno franca anche
grazie alle cervellotiche regole giuridiche, a quel lento e farraginoso sistema
di procedure atto a tutelare chi può disporre di giureconsulti reclutati per
cercare scappatoie e liberatorie in un apparato legislativo elefantiaco e contraddittorio.
Il sistema inquisitorio, a
differenza di quanto si crede, storicamente aveva il suo fondamento non tanto
nel giudizio dell’inquisitore quanto nella pressione popolare che fungeva da
legittimazione anche in quelle società dove il potere era dall'alto (che adesso
sia dal basso è solo questione di punti di vista…). Il complesso gioco di
equilibri tra i gruppi sociali non poteva non tener conto della pressione
popolare e di quel consenso che si manifesta in qualsiasi società sotto forma
di controllo emotivo e di interscambio tra il potere e una massa più o meno
amorfa. Pesi e contrappesi, negoziazioni e concessioni si realizzano attraverso
valvole di sfogo e surrogati in grado di allentare tensioni e abreagire pericolosi
impulsi eversivi. Il processo mediatico
storicamente è servito al potere da un lato a mascherare le incongruenze e le malefatte
del sistema politico, dall'altro a trasformare l’opinione pubblica in una massa
di manovra dominata dall'emotività e dal si
dice, in una dimensione acritica, ma con la forza propulsiva della passione
e spesso con la predilezione di trovare piacere nel mettere qualcuno alla gogna.
Passando in rassegna le
modalità di interrogatorio, i sistemi di indagine e gli strumenti fisici
utilizzati nel corso della storia moderna, non possiamo non rilevare che le
trasformazioni hanno riguardato più che altro la veste esteriore, sia pure eliminando
gli aspetti più cruenti. Concettualmente il sistema ha mantenuto tutti i suoi
canoni metodologici. La proibizione della tortura non ha impedito che
surrettiziamente essa abbia mantenuto (pensiamo alle lunghe carcerazioni
preventive su base indiziaria) un carattere sfumato e invisibile, come tortura
dell’anima (strumento di umiliazione e di incertezza per estorcere all'imputato
una confessione).
Oggi si parla metaforicamente
di gogna mediatica intendendo che il suo carattere è metaforico e l’analogia è
puramente immaginifica. Nella realtà quello che un tempo era il ceppo (El Cepo in spagnolo e The Stocks or Pillory in inglese) con il
quale mani e piedi venivano imprigionati e la vittima esposta nella piazza, non
era soltanto una punizione esemplare, si trattava di una vera tortura. La
vittima veniva cosparsa di escrementi, sostanze provenienti dagli orinali e dai
pozzi neri che andavano a riempire tutti gli orifizi del malcapitato. Il
carattere umoristico con il quale spesso viene presentata la tortura della
gogna, ha per così dire la sua corrispondenza esemplare in certi programmi
televisivi o in certe pubblicazioni. La
gogna mediatica, nei confronti peraltro di persone il più delle volte neppure
ancora giudicate, assume il carattere di un vero e proprio supplizio dove agli
escrementi fisici vengono sostituiti da una sorta di letame virtuale - attraverso
illazioni, pettegolezzi e dicerie.
Induzioni gratuite e mere speculazioni anche
senza riscontri determinano sempre un buon successo editoriale. Il procedimento
che nella gogna portava alla morte (la persona veniva anche picchiata, lapidata,
ustionata e mutilata) nella realtà attuale può continuare anche per anni nei
confronti di imputati che alla fine magari poi risultano innocenti, ma portano con
sé una patina di sospetto e nell’anima i segni invisibili di un lungo calvario,
di una vera e propria tortura… La gogna
in botte con la possibilità per la vittima di deambulare costituiva quella
che oggi è quel processo mediatico ubiquo, un giornalismo invasivo che ruba
continuamente la privacy delle persone, scavando senza ritegno nella vita
privata alla ricerca di scoop sensazionalistici).
La gogna per certi versi era
una tortura ancora più pervasiva e agonica di tanti altri supplizi, più
dolorosa di tutte quelle forme di esecuzione che portavano alla morte più o
meno velocemente: come la scure o la spada, la garrota o la ghigliottina. Perfino
la vedova di Norimberga - un sarcofago antropomorfo, al suo interno irta di
chiodi che penetravano al chiudersi delle sue porte nel corpo della vittima -
era esecuzione forse preferibile rispetto alla gogna che anche quando non portava
alla morte (procrastinata per giorni o addirittura settimane) lasciava tracce
indelebili nel corpo e nella mente della vittima, distruggendola fisicamente e
moralmente. Quelle stesse tracce indelebili la moderna gogna applica nei
confronti di molti che subiscono interminabili processi sulla base di indizi
spesso fantasiosi (e gonfiati dal sistema mediatico) fino magari al
riconoscimento della loro innocenza.
Il sistema giustizia nel
nostro paese avrebbe bisogno di una profonda riforma che però nessuno vuole
veramente. Non la vuole il mondo politico, che non sembra avere alcun interesse
che essa funzioni per ovvi motivi che lo riguardano. Non la vogliono molti magistrati che considerano
il loro potere come assoluto e guai a sentir parlare di controlli. Non la
vogliono gli operatori del settore che con un sistema più efficiente si
vedrebbero ridotti di numero (basti pensare che in Italia ci sono 230.000
avvocati e in Francia 10.000) e vedrebbero scemare il loro potere economico e
politico. Infine, non la vuole la stessa opinione pubblica che sembra essersi masochisticamente
affezionata a un sistema giudiziario lento e inefficiente.
Un'opinione pubblica poco propensa a
riflettere, che si accontenta del piacere di pancia prodotto dai processi mediatici, somiglia molto (se non è uguale) a quelle plebi che accorrevano giulive sotto il patibolo per assistere al meraviglioso spettacolo della tortura e dell'esecuzione del condannato...
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2 commenti:
Ciao Gilberto,
sono tendenzialmente in linea con i contenuti di questo interessante articolo soprattutto quando "affonda" sul lato giustizia e sulla effettiva necessità di riforma che nessuno vuole.
Sugli indizi e sulla prova che si forma in dibattimento però vorrei porti una domanda:
La foto di un uomo con in mano un coltello sporco di sangue e la vittima che giace ai suoi piedi è un fatto
ma se poi venisse a galla una vecchia foto di 1 anno prima in cui quell'uomo sta tagliando, mentre festeggia il suo compleanno a casa sua, la torta con un coltello da cui e' visibile solo il logo sul manico identico a quello sul manico del coltello sporco di sangue e se dopo una perquisizione si appurasse che quel coltello non e' più in casa dell'uomo e che quel logo rimanda ad una ditta artigianale di Ankara non più in attività e che la mamma dell'uomo, decessa, era nata ad Istambul.................secondo te cosa dovrebbe accadere?
Ottimo articolo! Io sono tra le persone che vogliono una seria riforma della giustizia...ma ho dei dubbi riguardo alla serietà.
Massimo M la risposta alla tua domanda l'hai già data, quello che poi emerge è frutto dell'indagine. L'importante è non trarre conclusioni affrettate se ti trovi davanti quella situazione.
Kris
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