domenica 9 febbraio 2014

Origine e Carattere dei Riti Processuali Accusatorio e Inquisitorio

Origine e Carattere dei Riti Processuali Accusatorio ed Inquisitorio 
(con osservazioni finali su una procedura logicamente e scientificamente fondata)
Saggio di Manlio Tummolo

Bertiolo (UD)


Come per ogni altra istituzione sociale, conoscere le fondamentali linee storiche dei procedimenti giudiziari è molto importante per capirne la maggiore o minore validità ed i problemi tuttora presenti; infine, è importante per proporre concretamente riforme che siano adeguati ai tempi, alle conoscenze scientifiche, ben diverse rispetto al passato, sia per le scienze naturali, sia per le scienze sull'uomo. Il procedimento giudiziario appare ai primordi della storia, in qualunque società appena civile, e nasce dall'esigenza di trovare una soluzione sia nei rapporti tra privati (Diritto civile o Diritto privato), spesso conflittuali anche se non direttamente violenti, sia nei rapporti del singolo con l'intera società in cui è inserito (Diritto amministrativo), sia nei rapporti violenti tra uomini in contrapposizione alle leggi della stessa società nel suo complesso, e poi dello Stato (quando questo cominciò a formarsi con i primi regni e le prime collettività gerarchicamente organizzate): si hanno così un Diritto Penale e un Diritto Processuale o procedurale penale, che è quello di cui in sostanza mi occupo qui.

Sulla base della tradizione del common law (letteralmente “legge comune”), che costituisce una forma procedurale molto antica, in parte di derivazione romana (importata in Britannia fin da Traiano ed Adriano), ma pregiustinianea, in parte dal Diritto germanico e celtico originario, noi siamo portati da films e romanzi polizieschi a ritenere che il rito processuale accusatorio sia molto più moderno ed adeguato, a mentalità democratiche, del rito processuale inquisitorio. Sicuramente può essere più “democratico” (vedremo il perché), ma non è affatto più moderno. Né bisogna lasciarsi prendere dal pregiudizio (sempre dovuto a films e romanzi), che il rito accusatorio non consenta distorsioni ed abusi, mentre viceversa quello inquisitorio faciliti l'abuso. Ciò è dovuto al fatto che il rito inquisitorio presuppone già l'esistenza di uno Stato fortemente gerarchizzato e con poteri molto forti sul cittadino, ma non lo è per sua natura, bensì per l'uso che ne viene fatto, finalizzato a trovare colpevoli, qualunque siano, come capri espiatori da destinare al sacrificio per placare gli Dèi offesi dal delitto, ed allo scopo di punire esemplarmente qualcuno per intimidire tutti gli altri. Va detto però, per ragioni di obiettività, che non necessariamente il sistema inquisitorio debba essere più repressivo del sistema accusatorio. Talvolta nella storia e anche nella cronaca attuale si vedono sistemi formalmente accusatori, ma non meno repressivi del sistema inquisitorio (un caso tipico è quello del Tribunale Criminale Straordinario, normalmente conosciuto come Tribunale Rivoluzionario, nel Terrore della fase più violenta della Rivoluzione Francese). 

Il Rito, o procedura accusatoria, precede storicamente la procedura inquisitoria, ed appare nelle società classiche più antiche (quella ebraica, quella greca e quella romana). Vediamo dunque di capire come nasce questo tipo di procedura che, logicamente, appare in una società organizzata da leggi, scritte od orali, consuetudinarie o mutevoli che siano. Non può esistere una procedura qualsivoglia se non con l'esistenza di determinate leggi. Immaginiamoci due uomini della proverbiale età della pietra: avevano insieme partecipato alla caccia, oppure avevano insieme catturato una femmina della loro specie. Ora si trattava di stabilire a chi dei due appartenesse la preda ed eventualmente come dividersela. La legge naturale, ovvero quella del più forte (il cosiddetto patto leonino previsto perfino nel nostro Codice Civile, sebbene proibito), fa sì che il più forte o il più astuto, pur essendosi servito dell'altro, decide o di non dargli nulla (quindi si tiene la preda per sé), oppure di farla in parti né quantitativamente, né qualitativamente, uguali. Se si tratta di spartirsi invece una donna, fatta prigioniera, la cosa era più complicata, perché, salvo cannibalismo, essa serviva ad altri scopi che non a quelli della nutrizione. I due, se il più debole non soccombeva di sua volontà, venivano alle mani e il più forte uccideva o feriva gravemente il più debole. Se fosse stato più astuto avrebbe cercato di ingannarlo attraverso false promesse, con la solida intenzione di non dargli nulla ugualmente. Ora questa situazione ipotetica, fondata sui puri rapporti di forza, è solo teorica. Nelle prime società c'era da immaginarsi, viceversa, che la preda catturata (animale o donna che fosse) dovesse essere consegnata all'intera collettività, che ne avrebbe poi deciso la destinazione. Chi decideva sul da farsi erano certamente i più anziani, autorevoli, autoritari e saggi, che erano anche capi della tribù. Essi, in buona o cattiva fede, si sarebbero rivolti alle divinità (personali o naturali), ne avrebbero sentito il parere per mezzo di riti magici, preghiere, fenomeni naturali osservati (volo degli uccelli, fulmini, scosse telluriche, eclissi, manifestazioni impreviste), quella serie di operazioni prefissate, chiamate divinazione, attraverso le quali avrebbero deciso l'uso e la ripartizione della preda di cui si è detto. In questa serie di azioni, noi vediamo già in luce tanto il rito processuale civile, quanto penale, che doveva decidere su un diritto da esercitare oppure su una punizione da infliggere a chi quel diritto avesse violato.

La nascita del Diritto, dovunque e sempre, ha un'origine religiosa, perché ha la pretesa di applicare la volontà divina in qualunque fatto della quotidiana vita umana. Se nella società, primitiva e nomade, la giustizia viene esercitata dallo stregone, generalmente vecchio ma incutente paura per il suo prestigio, le sue conoscenze e pure l'abilità a saper far passare per miracoli sue specifiche conoscenze pre-scientifihce, nella società organizzata nei primi Stati o Regni, tale potere risiede o nel capo supremo (re, condottiero, che è insieme pure sacerdote), o nella casta sacerdotale che, ad un certo livello di cultura, possiede informazioni e poteri magici ben superiori a quelle del sovrano stesso che deve poi eseguirle. In Grecia, in Etruria, a Roma, abbiamo caste di sacerdoti forniti di profetesse con poteri divinatori; tra gli Ebrei abbiamo prima i profeti, poi i giudici. Studiando tali origini troviamo dappertutto una classe di uomini che vantano conoscenze, rapporti e poteri di tipo religioso, con i quali possono determinare quale sia la volontà divina, ovvero quello che è considerato giusto e quello che è considerato ingiusto. Codificata in consuetudini pratiche oppure in leggi scritte (quando la scrittura verrà utilizzata), la Legge costituirà il Giusto, ovvero la volontà divina, e ciò che costituirà il suo opposto, ovvero il rifiuto, la non applicazione della volontà divina. Ovviamente si tratta di pretese, forse in origine pensate in buona fede, con convinzione assoluta, ma ben presto divenute solo funzioni strumentali allo scopo di tenere assoggettati gli altri a regole arbitrarie, decise da pochissime persone e tramandate nel tempo con gli usi, ma con i quali la divina volontà non c'entrava praticamente nulla. Con l'evoluzione storica poi, i teorici del Diritto distinsero questo in due branche: quello di derivazione divina (Diritto naturale o divino) e quello di derivazione puramente umana, il primo assolutamente Giusto (il Fas degli antichi Romani), il secondo molto relativo e puramente convenzionale, talvolta buono quando corrispondeva al Diritto naturale e divino, talvolta anche iniquo quando corrispondeva al puro arbirtrio se non capriccio di un singolo (Jus), a cui nondimeno bisognava obbedire, perché altrimenti avrebbe applicato punizioni anche spietate e quasi sempre non proporzionate alla violazione della Legge. Pure il termine Jus, etimologicamente, rimanda ad un'origine divina, ma si distingue dal Fas perché ne costituisce un’interpretazione (non sempre corretta) e non una pura e semplice applicazione, o attuazione. 

Il Diritto umano, per quanto sempre ancora religioso, tende ulteriormente a dividersi in un Diritto Civile (ciò che si deve fare) e in un Diritto Penale (ciò che non si deve fare e le conseguenti punizioni, non sempre codificate, ma lasciate all'arbitrio dei giudici). Più tardi ancora si formarono due ulteriori Diritti, quello della procedura, per definire come le cose debbano essere eseguite di comune accordo, sulla base della Legge (processuale civile), e quello della procedura per definire se una legge sia stata violata, la responsabilità della violazione, le modalità della violazione, l'autore della violazione, ed infine la pena da applicare nello specifico caso (processuale penale). 

Generalmente si ritiene che solo i Romani seppero creare un Diritto sistematicamente organizzato, molto formale e molto complesso. Nondimeno la cosa non è del tutto esatta: gli antichi Ebrei seppero creare un Diritto non dissimile, ma come essi pure i Greci, e probabilmente altri popoli di grande civiltà [1], quali gli Egizi, i Sumeri, gli Ittiti, i Fenici, gli Assiri-Babilonesi, i Persiani; e fuori completamente dal nostro mondo occidentale, i Cinesi, gli Indiani, i Maya, gli Aztechi e gli Incas. Nondimeno, perché il Diritto romano prevale nel mondo al modo stesso in cui la filosofia e la scienza greca prevalgono? Questo è avvenuto per un motivo assai semplice: il Diritto romano fu non solo scritto e conservato, ma venne discusso, elaborato, complicato, da una classe di studiosi che poi lasciarono questo enorme patrimonio al resto del mondo (non si può dire altrettanto per il Diritto greco, per non dire di popoli preesistenti, ma forse per quello ebraico, con la distinzione che, mentre il primo si fece universale, quello ebraico rimase limitato ad un popolo non numeroso). Già verso la fine dell’Impero Romano vi furono ignoti giuristi (probabilmente Ebrei) che compararono i due Diritti, romano ed ebraico, per dimostrare che il Diritto romano derivava da quello di Mosè [2]. 

In una società piuttosto semplice, senza particolari Istituzioni, senza funzionari con poteri distinti, qualcosa di simile alla montesquieviana divisione dei poteri, il primo rito, sia civile, sia penale, fu accusatorio, anche per la ragione che la stessa distinzione tra civile e penale non era ben chiara, praticamente nelle società semplici ci si faceva giustizia in via privata. Come si è visto, nel saggio precedente (consultabile a fondo pagina), fin dall’VIII secolo a.C. esisteva un processo civile del tutto privato che richiedeva l'esistenza di “giudici” non istituzionalizzati, non tali da svolgere sempre questa attività, ma mediatori spesso occasionali e facilmente corruttibili. Così si può pensare che la vendetta ed altre forme violente fossero riconosciute come metodo di punizione per una violenza precedente subìta. In antico, compresa la Roma dei primordi e per alcuni secoli della Repubblica, il fatto di farsi giustizia da sé era ammesso. Il mito di Romolo e Remo, fratelli litigiosi, ce lo spiega. Il diritto di essere fondatori della nuova comunità (allora semplice e rozzo villaggio di capanne) veniva deciso dall'osservazione degli uccelli. Romolo ne vide di più, quindi cominciò a segnare con l'aratro i confini del villaggio, e Remo per sfregio, per offesa, saltò il solco: il gesto era simbolico, voleva significare che il nuovo centro urbano sarebbe stato indifendibile e facilmente invaso. Romolo gli dimostrò il contrario, uccidendolo, e questo a monito di chiunque avesse voluto imitarlo. Un altro mito spiega il contrasto tra due fratelli, Abele e Caino; il primo, pastore (nomade, quindi), il secondo agricoltore: essi vengono a diverbio che si conclude con l'assassinio di Abele. Tra i due miti c'è una differenza sostanziale: chi ha descritto il primo (probabilmente di derivazione etrusca), aveva mentalità “cittadina”, apparteneva ad una civiltà stanziale; chi ha descritto il secondo aveva una mentalità nomade, per cui Abele risulta buono e mite e Caìno l'uomo malvagio, che però non viene punito con la morte bensì con un perpetuo esilio in altra terra. L'elemento comune è che nessuno dei due viene condannato con pena molto grave per questo ma, nel secondo caso, solo allontanato dalla comunità; e non tanto per l'omicidio in sé quanto per il fratricidio, che la parte più antica della Bibbia considera un reato molto grave. 

Nella fase storica, oltre che ad Esiodo, pure esso parzialmente leggendario, possiamo rifarci ai processi contro Protagora e contro Socrate. Qui siamo ad un livello ben altrimenti complesso perché la polis greca, per quanto territorialmente limitata, aveva caratteri e complessità interna notevoli. Protagora e Socrate vengono accusati non da una casta sacerdotale, non dai politici del tempo, ma da privati. Del processo a Protagora sappiamo molto poco, salvo che era accusato di negare le divinità del tempo, per la sua celebre frase: “Non so se gli Dèi esistano o non esistano”. Negare o anche solo dubitare della divinità, considerata il pilastro del Diritto e dello Stato, appariva come atto di corruzione e, al tempo stesso, minaccia politica. Protagora fu cacciato in esilio, i suoi libri bruciati ed egli stesso morì nel naufragio mentre probabilmente navigava verso l’Italia. Dai Dialoghi di Platone e dai “Memorabili” di Senofonte, sappiamo molto di più sul processo a Socrate. Anito e Meleto, due semplici cittadini, accusano Socrate di corrompere i giovani ponendo loro domande che stimolano il loro senso critico: questo metteva tutto in discussione, dalla divinità in cui pur Socrate credeva, sebbene non in modo tradizionale, fino alla vita quotidiana, alle conoscenze del tempo, al metodo di insegnamento dei sofisti, ed ogni altra cosa. Per questo, essendo ritenuto una minaccia alla società, viene accusato da Anito e Meleto, e il suo discorso di autodifesa, così come riportato nella celebre “Apologia”, non solo sostiene l'esatto contrario dell'accusa (ovvero che sua intenzione era quella di educare i giovani, facendo trovare nel loro intimo la verità), ma anche prende in giro i giudici con la sua celebre, sottilissima ironia, e sostiene di meritare, invece della condanna minacciata, di essere mantenuto a spese dello Stato nel Pritaneo al posto degli atleti. Questa autodifesa, coraggiosa, lo portò alla morte, perché si sa che i giudici, ritenenendosi da sempre attuatori della volontà divina, non potevano accettare di essere beffeggiati pubblicamente: naturalmente il motivo reso pubblico non fu questo, ma confermò arbitrariamente le accuse di Anito e Meleto. Già il processo di Socrate dimostra come il rito accusatorio non sia di per sé una garanzia né di obiettività, né di applicazione della legge. 

Roma, come si è detto, non solo sviluppa un Diritto molto elaborato sul piano teorico, perché viene discusso su princìpi da applicare e su procedure, ma se ne scrive molto. E' proprio questa elaborazione che dura almeno 700 anni, ereditata poi dal resto d’Europa, che lo farà proprio, che rende la cultura romana così importante sul piano giuridico. I Greci, oltre a formulare quello che chiamiamo Diritto costituzionale, che potrebbe anche definirsi Diritto delle istituzioni politiche e dei loro princìpi (che i Romani imitarono ma non superarono), più che una teoria generale del Diritto (come venne chiamata nel '900, soprattutto dal giurista Kelsen in poi), elaborarono una forte filosofia del Diritto, presente già in discorsi di Pericle, in frammenti dei Sofisti e, soprattutto, nelle opere di Platone ed Aristotele: tanto per fare un esempio, i concetti di colpa e di dolo si trovano esposti già nella "Etica Nicomachea" di Aristotele. Ma è interessante sottolineare che proprio in una conversazione tra Protagora, Pericle ed un terzo personaggio, si esaminò in forma paradossale il concetto di causa in un omicidio, ovvero, se andava considerata responsabile della morte la volontà e coscienza dell'assassino o l'arma che aveva colpito la vittima. A noi la cosa può sembrare del tutto fittizia, ma è una sorta di esercizio mentale che contribuì, almeno indirettamente, alla formazione dei princìpi del Diritto penale romano, quando questo cominciò a laicizzarsi (ormai in età repubblicana avanzata e sicuramente con i primi contatti con la civiltà greca. "Guerre Tarantine" e contro Pirro, "Guerre Puniche e Macedoniche"). E' pure celebre la reazione della Roma conservatrice a questa cultura, che appariva devastante, rappresentata dai filosofi. Marco Porcio Catone, il maggiore, che pure era uomo di cultura, li fece cacciare da Roma, dopo aver udito parlare il celebre Carneade (grazie anche al Manzoni e al suo personaggio don Abbondio [3]). Costui, venuto a Roma come ambasciatore, si divertì il primo giorno ad esaltare la città e la sua formidabile potenza, il secondo rilevò che proprio tale potenza l'avrebbe un giorno condotta alla rovina: tutto questo poi, sostenuto con tutta l'abilità dialettica tipica dei Greci in generale e soprattutto dell'Accademia Platonica, a cui apparteneva. Questa giravolta, espressa in forme molto raffinate, come possiamo immaginarci, scandalizzò Catone e il Senato, che ne ordinarono per qualche tempo la cacciata. 

Così, nell'ottica della storia del Diritto, i Greci ne svilupparono gli aspetti di critica filosofica, i Romani il rigore e la complessità delle forme. Se mi è lecito dirlo, preferisco il lavoro degli antichi Greci, perché prelude alla riforma illuministica e alla trasformazione del Diritto da semplice metodologia formale in una valutazione di scienza critica (critica in senso kantiano, ovvero di ricerca e definizione dei princìpi), di ripudio delle consuetudini e degli inutili formalismi, di un criterio razionale e non abitudinario nella valutazione della Legge e delle sue violazioni. 

La civiltà romana, nel massimo del suo sviluppo, ripudiò da un lato l’antica religiosità quasi magica dei loro primi maestri, gli Etruschi, dall'altro il gusto per l'astrazione dei loro rivali Greci, e si sforzarono in tutti i casi, pur mantenendo addentellati sia con la religione, sia con la filosofia, a costruire alcunché di pratico, che potesse adattarsi di volta in volta alla varietà quotidiana. All'elasticità ed adattabilità naturali opposero una tassonomia o classificazione molto puntuale e specifica, ma assai artificiosa, una sorta di casistica, di cui quella celebre dei Gesuiti è uno sviluppo. 

Gli storici del Diritto sono soliti rifarsi all'immenso Corpus Juris di Giustiniano, e della sua corte di giuristi in cui campeggia Triboniano, per ritrovare anche i “relitti”, i frammenti del Diritto romano precedente, ma ciò non sembra corretto, in quanto tali frammenti vengono non solo reinterpretati, ma in parte modificati e manipolati, per essere adattati al Diritto vigente. Non va dimenticato che tale Corpus Juris, neppure esso, è veramente originale, ma in gran parte ricostruito nel Medioevo, dando origine al quel Diritto Comune, è il corrispondente del Common law britannico (largamente fondato, più che sulle leggi, sulle sentenze precedenti, il principio dello stare decisis, ovvero attenersi a quanto precedentemente sentenziato: è ovvio che un tale criterio è antiprogressista), con questa differenza che poi resterà nei secoli successivi, il Common Law non si rifà al Corpus Juris di Giustìniano, bensì ad un Diritto consuetudinario in parte celtico, in parte romano e infine germanico (anglosassone). E' proprio la base giuridica diversa delle due impostazioni, per quanto affini, a costituire poi la notevole diversità che si svilupperà tra il modello continentale codicistico con radici giustinianee, e il modello britannico, privo di tali radici. 

Ora, come dicevo, se si vuole capire con più esattezza storica l'origine romana dei metodi accusatorio ed inquisitorio, è opportuno rifarsi a fonti considerate letterarie e, soprattutto, ai discorsi di Cicerone (che sono gli unici rimastici praticamente integrali), all'opera di Sallustio sulla congiura di Catilina, al Vecchio Testamento (per il Diritto ebraico), al Nuovo [4] sia per l'ebraico che per il romano, all'Institutio Oratoria di Quintiliano, le lettere a Traiano di Plinio il Giovane, al "Apologetico" di Tertulliano o alla difesa di Apuleio contro l’'accusa di magia ed altro. Sono tutti testi di cui gli storici tradizionali del Diritto non si occupano, con l'eccezione di Cicerone. Va premesso che in Roma repubblicana, il potere giudiziario non era indipendente dal potere politico, non esisteva un'istituzione giudiziaria specifica. I discorsi, d'accusa o di difesa, sostenuti da Cicerone, si svolgono quasi sempre nel Senato. Per i contrasti di limitata entità, prima ci si rivolgeva ai pontefici, più tardi, con la laicizzazione del Diritto, al pretore. Per i reati di una certa gravità (soprattutto ribellioni, insurrezioni, peculato sulle popolazioni quale il crimen repetundarum, ovvero delitto che esige risarcimento: celebre in questo senso il processo di Verre sostenuto contro di lui da Cicerone quale avvocato dei Siciliani), la sede di giudizio era il Senato, che si costituiva, in certa misura, come Tribunale supremo, ma le cui procedure furono, per quanto accusatorie, assai poco regolari quando si trattava di minaccia allo Stato (cfr. l'eccidio di Tiberio e Caio Gracco, l'attacco a Catilina, la condanna di Lentulo, quello contro Marco Antonio). La difesa vi era spesso impedita e tutto finiva in tumulto, ovvero in un massacro o linciaggio effettuato senza vero giudizio, ovvero ancora con una condanna a morte per strangolamento nel celebre Carcere Tulliano (un'antica cisterna) come avvenne al gruppo di Lentulo che affiancava Catilina uscito da Roma (63 a.C). Gran parte delle insurrezioni e violenze in Roma, dalle guerre civili, alle proscrizioni, alle condanne a morte sommariamente eseguite (lo stesso Cicerone venne decapitato senza uno straccio di processo), erano effetti di riti accusatori, i quali però, impedendo la difesa, si trasformavano in riti di giudizio sommario. Teoricamente, se si segue la dottrina ricavata dai testi di Giustiniano, i processi per i soli cittadini romani avrebbero avuto quale garanzia definitiva, in caso di condanna a morte o esilio, la "provocatio ad populum", ovvero un appello davanti ai Comizi Tributi o ai Concilia plebis, ma dalle fonti letterarie del tempo nulla ci dimostra che fossero procedure effettivamente seguite, almeno non nei casi molto gravi rimasti nella storia. Di fatto, per quanto ci risulta da tali fonti, era nel Senato che si decideva della vita o della morte nei casi più rilevanti, e degli altri nulla si sa effettivamente. I reati più gravi, stanti leggi prima dei Gracchi, poi di Silla, costituirono le cosiddette quaestiones perpetuae, da tradursi - con una certa libertà - in procedimenti sul peculato, il tradimento, la lesa maestà, l'omicidio, il falso, l'usura (in sintesi, un piccolo Codice penale). Stanti le fonti di derivazione giustinianea, tali quaestiones sarebbero state affrontate in veri e propri processi regolari, dove veniva presentate un'accusa e vi era un “registro” dei reati e relativi autori. Ma di ciò, almeno nell'età repubblicana, non esiste alcun documento diretto e specifico (un discorso d'accusa o di difesa, a parte quelli celebri di Cicerone che, però, risulterebbero tutti pronunciati in Senato). Ciò è dovuto, sia alla distruzione delle fonti originarie, sia anche perché tali fonti non venivano considerate significative per essere tramandate nel tempo, a differenza delle narrazioni delle grandi lotte civili dell'ultima fase repubblicana. E' dunque assai probabile che molte di quelle procedure fossero state “reinventate” ben più tardi, in età pienamente imperiale, ma attribuite a tempi antichi per vantarne la consuetudinarietà (come è facile immaginare, l'esattezza filologica nella descrizione delle istituzioni è un'esigenza moderna, e risale alla critica umanistica di Lorenzo Valla, non certo ai tempi, abbastanza bui, di Giustiniano). 

Riguardo ai delitti comuni, anche se di sangue, una fonte più precisa ed interessante rappresenta la ”Institutio Oratoria”, di Marco Fabio Quintiliano (I secolo d. C.). E' pur curioso e significativo che quest'opera, assai spesso, venga considerata semplicemente retorica, il che non era affatto, leggendola come vanno lette tutte le opere, da cima a fondo. Quintiliano è forse il primo che studia la formazione dell'oratore forense (quello che poi si chiamerà avvocato) fin dalla fanciullezza e la sua prima educazione, per arrivare al massimo della professione. Ivi dunque viene delineato in modo chiaro, non solo il fondamento culturale assai ampio che doveva essere tipico, secondo l'Autore, del futuro avvocato, ma anche la sua metodologia d'indagine da effettuare esattamente nel processo. Si delinea così la caratteristica di ogni impostazione accusatoria che è appunto quella dove le prove si formano in processo, attraverso il dibattito e l'interrogazione di imputati, parti lese e testimoni. Ovviamente le parti contrapposte o si difendevano da se stesse (con una memoria detta appunto apologetica, ovvero di difesa), o si facevano difendere dall'oratore forense che cominciava a presentarsi come un professionista vero e proprio, e non un semplice cittadino eletto che svolga una certa funzione (come fu Cicerone). Dalla parte del giudice, a sua volta, si comincia quindi nella prima età imperiale a caratterizzarsi quale figura professionale distinta, e non semplicemente prestata, com'era stato il pretore. Viceversa, non esiste ancora, almeno fino alla prima burocratizzazione imperiale (durante il cosiddetto Dominato, da Diocleziano, III secolo d. C., in poi), una figura di pubblico ministero con funzione di indagine e di accusa. Formalmente il rito accusatorio, per quanto burocratizzato, perdura per larga parte nell'Impero Romano, almeno per quanto riguarda i reati comuni 

Torniamo a Quintiliano: egli, erroneamente, è molto trascurato dagli specialisti della storia del Diritto romano, invece dovrebbe essere letto con attenzione. E' vero che si sofferma, sulla scia della tradizione retorica, sull'abilità e doti estetiche del discorso, ma non è ciò che veramente importa del suo pensiero, semmai due elementi vanno rilevati: la formazione professionale, che parte dalla prima educazione del futuro avvocato, e il metodo di indagine. Ovviamente a quei tempi ben pochi potevano essere gli elementi di prova. Egli critica anche la tortura, allora applicata solo agli schiavi, e prelude ben 1600 anni prima alle osservazioni di Beccaria, o a quelle ancora precedenti del Valletta e del Thomasius: la tortura è del tutto inutile, in quanto uomini forti (noi diremmo dotati di molte endorfine) riescono a sopportare dolori acutissimi, e non confessano seppure colpevoli, uomini deboli, ovvero con scarsa produzione di endorfine, non sopportano il dolore e confessano anche ciò che non sanno. Un insegnamento di questo tipo, date le tendenze sadiche dei successivi inquisitori, non venne mai appreso, ed è forse uno dei motivi del rigetto di Quintiliano come teorico di un Diritto razionale; quanto ad altri elementi, più che un'arma da taglio, una tunica o una toga insanguinate, non si potevano dare, ed è chiaro che, senza possibilità di analisi delle tracce, tali elementi a poco potevano servire, ma Quintiliano esamina un altro sistema nel metodo di interrogatorio, da utilizzare tanto col presunto colpevole, quanto con la vittima (se sopravvissuta, ovviamente), quanto con i testimoni del fatto, che deve fondarsi sul dialogo socratico, L'interrogante deve saper interrogare, non suggerendo ma approfondendo quanto viene detto, analizzando e criticando le descrizioni, sottolineando le eventuali contraddizioni, tutto ciò con l'aria più innocua del mondo, fino a metter l'eventuale colpevole con le spalle al muro e ricavarne la confessione, senza torture, senza minacce, senza intimidazioni, ma con un metodo tuttora valido che oggi possiamo corroborare con elementi di osservazione scientifica, ma che allora era l'unica metodologia (da qui la necessità della massima accuratezza nello svolgerlo), onde riuscire a far riconoscere al colpevole, in modo dialogicamente incontrovertibile, la sua colpa o la sua versione dei fatti. Lo stesso procedimento, con fini completamente inversi, è quello della difesa che, sempre interrogando, deve mettere in evidenza le contraddizioni o le insufficienze accusatorie. 

Questo è, dunque, il grande, ma del tutto trascurato, insegnamento di Marco Fabio Quintiliano, che non era un puro teorico, ma persona che esercitò per molti anni professionalmente l'attività di avvocato. 

Anche l'Apologetico di Tertulliano (II secolo d. C) risulta un interessante documento, dove tuttavia troviamo, per la prima volta, anche i segni di un'imposizione inquisitoria. Anche Tertulliano era giurista, quindi le sue argomentazioni non sono solo di carattere retorico applicato alla difesa religiosa, ma sottolinea pure la violazione di alcuni princìpi del Diritto penale del tempo, come, ad esempio, quando rimprovera gli accusatori, la finalità, non di ottenere confessioni con l'uso della tortura, bensì ritrattazioni della fede cristiana, allora periodicamente perseguitata in modi spesso atroci. Chi non dichiarava di rinunciare alla fede cristiana e non sacrificava alla statua dell'imperatore, agli Dèi, ai simboli religiosi o militari, doveva subìre l'atroce morte nei circhi, divorati dalle belve o bruciati o crocifissi. Il primo esempio se ne ha con le persecuzioni di Nerone, e successivamente altre con la celebre lettera di Plinio a Traiano che gli dà disposizioni proprio nel merito delle persecuzioni a Cristiani. 

Di diversa natura, in parte civile in parte penale, è la sarcastica risposta di Lucio Apuleio alle accuse di un tale Sicinio Emiliano, non altrimenti noto, che lo accusava di magia ed altri illeciti, in parte civili ed in parte penali. Il testo "Sulla magia" probabilmente è solo letterario, perché è difficile immaginare l'irrisione fatta all'accusatore e ai sui avvocati apertamente e in sede pubblica. Tuttavia è interessante perché svela come, in situazioni normali, si poteva svolgere una discussione processuale. 

E' a questo punto che il sistema da accusatorio, per ragioni politiche o religiose, si fa progressivamente inquisitorio attraverso le cosiddette procedure extra ordinem (ovvero, come usiamo dire anche noi oggi, "straordinarie"), che cominciano anche metodi di natura persecutoria. Se noi osserviamo i due riti, che riguardano tanto la fase di indagine, quanto la fase processuale vera e propria, il metodo inquisitorio sul piano tecnico risulta notevolmente "perfezionato" perché si creano funzionari appositi, si crea una Polizia o comunque un'organizzazione di agenti stipendiati per raccogliere informazioni agendo segretamente. Potrebbe, sul piano puramente teorico, rivelarsi assai più raffinato e preciso, che non il metodo accusatorio, come confrontare un metodo sperimentale ad un metodo empirico, cioè l'osservazione sistematica rispetto all'osservazione casuale dei fenomeni. Nondimeno, si deve tener conto che la burocratizzazione delle indagini e del processo crea una gerarchia di poteri e, soprattutto se presente in un regime assolutista o tirannico, consente poi tutti gli abusi dovuti all'arbitrio, al sadismo, allo spirito di sopraffazione. 

Si può supporre, ma manca una vera documentazione, che anche i grandi Imperi assoluti dell'Antico Oriente fossero forniti, chi più chi meno, di un apparato inquisitorio abbastanza complesso che presupponeva un'organizzazione politica ed amministrativa altamente gerarchica e fondata sulla cieca obbedienza, apparato mirante a colpire ogni eventuale tentativo di ribellione, individuale e collettiva, piuttosto che la criminalità comune. Il primo esempio, storicamente conosciuto, di metodo inquisitorio, lo troviamo, non a caso, nella tirannide di Dionisio o Dionigi il Vecchio a Siracusa, nelle sue celebri prigioni dette Latomìe. Precedendo tecniche modernissime, ma con mezzi molto semplici, tali prigioni sotterranee erano collegate al piano superiore attraverso cunicoli o lunghe fessurazioni nella pietra, che consentivano di ascoltare comodamente ciò che i prigionieri dicevano tra loro senza sapere di essere ascoltati, e bastava mandarvi il classico provocatore per far dire al prigioniero politico ed antirannico quanto bastava per far condannare a morte lui e i suoi complici. Il sistema di ascolto era chiamato l'orecchio di Dionisio, un sistema tanto semplice quanto efficace. Dionigi è anche quello famoso che indicò al suo ammiratore Damocle quella celebre spada che gli pendeva sulla testa. Era talmente sospettoso da farsi non tagliare ma bruciare la barba da una delle sue figlie. Queste procedure gli evitarono una triste fine, ma incrementarono l'odio verso di lui, odio che potè poi sfogarsi contro il figlio. Il metodo inquisitorio presuppone dunque la creazione di funzionari sia per scopi di indagine e spionaggio, sia con scopi processuali veri e propri [5]. La figura del pubblico ministero, o pubblico accusatore, apparirà molto più tardi. Come si è accennato, solo con l'Impero Romano comincia a stabilirsi un vero servizio organizzato: Roma dimostra fin quasi dalle origini un alto senso organizzativo che prepara e facilita poi la nascita di quello che chiamiamo Stato in senso moderno, ovvero un potere articolato e gerarchico che dipende da uno o da pochi, e questo si può dire fin dalla Repubblica. La vera forza di Roma sta appunto nella disciplina e nello spirito organizzativo, che le consentiranno di sconfiggere anche rivali ben più potenti . 

E' nell'età imperiale, come si è accennato, e soprattutto con le prime persecuzioni neroniane, che Roma costruisce un sistema inquisitorio ben strutturato nella “cognitio extra ordinem”. Il termine “cognitio” , tuttora nell'uso giuridico soprattutto in sede civile, e che letteralmente vale "cognizione", "conoscenza", deve essere, nel caso specifico, tradotto con "indagine criminale o penale straordinaria", la quale supera i procedimenti precedenti, di tipo accusatorio, come le "quaestiones perpetuae". Si configura per la prima volta sia la funzione di indagine, tramite un organismo di polizia che a sua volta utilizza i "delatores" (spie, informatori, traditori vari) allo scopo di raccogliere preventivamente informazioni; non si basa più su una denuncia pubblica di qualcuno, registrata e verificabile, bensì su informazioni segrete; e il segreto procedurale, ma in parte anche processuale, lo caratterizza fin da allora. Viene dunque creato un apparato gerarchico destinato soprattutto a colpire i crimini politici (anche la semplice lamentela contro un capo, un funzionario, un sovrano, che miri a sgretolare la fedeltà e l'ordine prestabilito o che venga ritenuta minacciosa per il sovrano stesso). Con Giustiniano, ispiratore e animatore non solo di un Corpo civile di leggi ma anche delle "leges terribiles", ovvero un sistema di leggi penali e procedurali penali, vi troviamo un termine che avrà triste fortuna nel millennio successivo [6], perché tali apparati, attraverso metodologie persecutorie anche preventive, devono incutere terrore sia con funzione intimidatoria e preventiva rispetto alla possibilità del crimine, sia verso chi ha compiuto il crimine e al quale non resta che affidarsi alla clemenza del potere, confessando le proprie colpe e soprattutto dicendo i nomi veri, o anche falsi ma estorti, di presunti o reali complici. Questo avviene già con Nerone, ma il sistema va affinandosi col tempo, soprattutto con Diocleziano e Giustiniano. Tra Diocleziano e Giustiniano vi sono eventi di essenziale importanza, come la cristianizzazione dell'Impero (cristianizzazione che perde del tutto il suo carattere di mansuetudine, di non giudizio e di perdono, ma diventa anche macchina spietata di repressione delle cosiddette eresie, i cui rappresentanti o vengono eliminati o costretti a fuggire in territori estranei al dominio di Roma (soprattutto ariani e nestoriani), e soprattutto il crollo dell'Impero Romano d'Occidente. La macchina inquisitoria romana continua anche come repressione religiosa sia interna alla gerarchia ecclesiastica, sia esterna verso la popolazione civile o laica, nella Chiesa cattolica, raggiungendo poi quei massimi livelli, più che nel Medioevo, nella fase della Controriforma (secoli XVI, XVII e parte del XVIII). 

Nei Regni romano-barbarici e nei primi Regni feudali dell'Europa occidentale, l'organizzazione romana finisce per dissolversi, ma il sistema inquisitorio è uno dei pochi che si salva. Il feudatario (più che il sovrano, assai debole nell'Alto Medioevo) concentra nelle mani tutti i poteri: anche in sede giudiziaria egli è giudice, pubblico ministero, parte lesa; non conosce leggi, se non quelle del suo arbitrio e dei suoi capricci: se vuole può rapire impunemente una giovane donna e, se qualcuno viene a protestare (che non sia eventualmente un potente quanto lui, soprattutto un ecclesiastico di alto rango), è capace di fare arrestare anche quello, imprigionarlo in celle orribili e tenerlo lì o processarlo a suo piacimento. L'uso della tortura non ha altro limite che la capacità di resistenza del torturato, il quale, finché non ha detto (vero o falso che sia, non importa) ciò che il torturatore vuole, resterà in quelle condizioni fino alla morte. Regole vengono stabilite solo più tardi, ma è difficile capire quanto fossero applicate, in quanto date mani libere a qualcuno, soprattutto se con tendenze sadiche, questo non si fermerà davanti a nulla e nessuno, sfogando le sue aberranti tendenze spesso anche di natura sessuale (seppure, ma non sempre, inconscia). La presenza di avvocati difensori non sussiste ovviamente, ed è anche per questo che la formazione basilare dell'avvocato ha, tradizionalmente, più carattere civile che non penale. Per arrivare ad un affinamento penale degli avvocati bisognerà aspettare l'età contemporanea. Chi può si difende da sé, chi non può deve sottoporsi all'uso sfrenato della violenza . 

Il sistema organizzato, gerarchico e in parte formalizzato, del rito inquisitorio viene gradualmente a ricostituirsi con la formazione dello Stato moderno. Tuttavia se si pensa che, ancora in pieno Illuminismo, in Francia bastava una lettera del sovrano [7], o suo ministro e funzionario, per arrestare una qualche persona e tenerla a vita in carcere senza nemmeno una parvenza di processo, possiamo renderci conto di quanto arbitrario possa diventare il sistema inquisitorio che, se tecnicamente è ben più raffinato (potendo svolgere indagini su qualcuno senza che questo lo sappia, onde lasciarlo primo o poi scoprirsi se è effettivamente un criminale o attentatore) e raccogliere prove effettive dell'attività illegale di qualcuno utilizzando informatori, spie, traditori, infiltrati, seminando zizzania tra i componenti di una banda o di un gruppo, si facilita altresì ogni arbitrio ed abuso, si formano prove false, documenti falsi, lettere false, testimonianze predisposte, ed arrivano, sulla base del principio machiavellico (anche se non teorizzato dal Machiavelli, ma semmai dai suoi imitatori e più tardi da Giovanni Botero, con la sua “ragion di stato”) del fine che giustifica qualunque mezzo, la tortura sia fisica che psicologica, mai ignorando che ogni tortura fisica è comunque sempre insieme psicologica, e tutto ciò partendo dal presupposto della colpevolezza, piuttosto che da quello dell'innocenza, come dovrebbe essere nella tradizione giuridica secondo il rito accusatorio puro. Così l'onere della prova ricade sull'indagato che, non avendone i mezzi, finisce per essere pre-condannato quale colpevole. 

Qualche breve nota va fatta in merito al sistema inglese, il quale, come si è detto, si ispirava ad una tradizione giuridica romana pregiustinianea e in parte a tradizioni barbariche. Nella lunga lotta tra monarchia, aristocrazia e borghesia (le due Rivoluzioni inglesi, inframmezzate dalla dittatura di Oliver Cromwell), il metodo inquisitorio, soprattutto rivolto alla repressione politica, viene esercitato, anche se in forma accusatorie. Di tipo accusatorio è il celebre processo al filosofo cattolico Thomas More, condannato a morte da Enrico VIII, accusatori sono i processi contro Carlo I Stuart, svolto dalla Camera dei Comuni istituita come Corte Suprema, o quello contro gli stessi regicidi processati poi con la restaurazione di Carlo II Stuart dalla Camera dei Lords, e nondimeno questi processi si rivelano persecutori non meno del rito inquisitorio vigente nei Regni del continente. In Inghilterra, non va dimenticato, vigeva un documento garantista che era la celebre Magna Charta , risalente addirittura al XIII secolo, ma essa era stata imposta dai feudatari e valeva solo per tali classi elevate. Le garanzie non valevano né per mercanti ed artigiani, né tantomeno per il comune suddito. Si dovette attendere l'Habeas Corpus (1679), proprio alla fine delle Rivoluzioni e con l'affermazione del Regno costituzionale e liberale di Guglielmo d'Orange, per avere una procedura più garantista per tutti. Tale "Habeas Corpus Act" prevedeva la cauzione per la libertà provvisoria, e perfino un risarcimento di 100 sterline qualora si venisse detenuti oltre i limiti o in modo ingiusto, nonché la perdita del suo ruolo per il funzionario che abusava del proprio potere. Quel documento, ormai vecchio di oltre tre secoli, costituisce la base dell'ordinamento penale anglosassone e anche, con alcune varianti, di quello degli USA, ed è quello che offre le garanzie minime per l'arresto e la detenzione di un qualunque accusato. Dieci anni dopo, col Bill of Rights si vietano anche cauzioni e pene eccessive. 

Sebbene quello anglosassone sia il più vicino al rito accusatorio, va ricordato che l'esistenza di pubblici ministeri, ovvero di rappresentanti del Re (teoricamente il giudice supremo, da cui le Corti regie), impedisce che si possa dire che ieri od oggi si tratti di un accusatorio puro, bensì già di forma ibrida tra accusatorio ed inquisitorio. Altro aspetto che riduce la natura accusatoria, piuttosto che inquisitoria o persecutoria vera e propria, è la tradizionale prassi, non solo in sede civile ma anche in sede penale, nel riferirsi quasi obbligatoriamente alle sentenze precedenti (lo stare decisis, ovvero attenersi appunto alle cose già decise), piuttosto che ad un solido sistema codificato di norme penali. Contro questo sistema di giudizio su esempi sentenziari fin dal XVII secolo protestò Thomas Hobbes (che nondimeno era favorevole alla tortura) e nel XVIII secolo Jeremy Bentham, grande teorico di una riforma del sistema giudiziario e penitenziario su modelli continentali ed anche più moderni (è il primo a studiare un carcere un tantino più umano, anche se controllato dalla guardia penitenziaria, carcere che egli chiamò Panopticon: non essendovi allora telecamenre, il guardiano del carcere si trovava al centro di un cerchio, dalle cui finestre poteva vigilare sul comportamento dei carcerati in ogni momento). Lo stare decisis lascia largo spazio all'arbitrarietà del giudice di non studiare il singolo caso nel quadro della fattispecie generale, ma di osservarlo in quello di altri casi, per cui finisce per condannare al di fuori da leggi precise. L'unico possibile appello può essere fatto all'Alta Corte del Re. In antico i giudici potevano anche essere itineranti, solo poi vennero affiancati da giurie. L'interrogatorio processuale viene effettuato dalle due parti, come l'examination in chief, la cross-examination (esame e controesame svolto da pubblico ministero ed avvocati delle parti) e la re-examination, le quali vengono condotte in modo tale da dover rispondere con un "sì" e con un "no", a cominciare dalla ridicola richiesta se uno si ritenga innocente oppure colpevole, domanda che a dir retorica è dir poco [8]. E' facile comprendere come un tale sistema potesse essere considerato garantista finché l'Europa era dominata da monarchie assolute e con un Diritto anch'esso giurisprudenziale e sentenziario, ma non più quando, dopo la Rivoluzione Francese, si creano sistemi giudiziari fondati su precisi Codici penali e procedurali. Malgrado alcune riforme, dall'Ottocento ad oggi, il sistema anglosassone rimane abbastanza confusionario ed arbitrario. Il recente processo a Danilo Restivo (prescindo del tutto da valutazioni sul merito), con cui lo si è condannato all'ergastolo senza una difesa valida e sulla base di convinzioni pregiudiziali e predeterminate, dimostra largamente che si tratta di procedure a tutt'oggi arcaiche, superate, sostanzialmente medioevali. L'immagine, che noi ricaviamo dai celebri telefilms o dai romanzi dell'avvocato Perry Mason, è una pura mistificazione propagandista.

Per arrivare ad una prima conclusione, vi è da osservare, intanto, che i sistemi accusatorio ed inquisitorio sono ormai superati ambedue, e ambedue ibridati fra loro. L'accusatorio originale, quello greco e romano, oppure ebraico (biblico), non sussistono più. Gli odierni sistemi presuppongono organi di Polizia e di indagine, nonché di accusa pubblica, che li rendono prossimi all'inquisitorio. Se l'accusatorio può velarsi di ipocrisia (con la presunzione formale, ma non sostanziale, di innocenza, che tale poi non appare, una volta che scatti un'accusa qualunque), il secondo si vela di mistero e di segreto di cui spesso si abusa (con una presunzione di colpevolezza, contro la quale l'onere della prova spetta al colpevolizzato). In ambedue i casi, l'accusa o l'inquisizione possono trasformarsi in persecuzione, se le regole minime previste e prescritte vengono trascurate. Ma la chiave di volta della regolarità e legittimità di ogni sistema di indagine e processuale è data dall'esplicazione piena ed intera del diritto di difesa, che sia esercitata da una parte tecnica (avvocato), oppure direttamente dall'imputato, se ne fosse professionalmente in grado, solo se tale diritto svolge il suo ruolo completo che è, in primo luogo, quello di dimostrare l'estraneità nei fatti, in secondo luogo, l'aver operato con motivi giustificanti (o esimenti), in terzo luogo con giustificazioni di carattere psicologico (non essere in grado di intendere e volere, almeno all'atto del delitto, oppure gravi provocazioni), se non viene sistematicamente boicottato o del tutto impedito dalle parti accusatrici, pubblica e private, solo allora, indipendentemente dal merito e dalle conclusioni, il procedimento può dirsi costituzionalmente regolare e proceduralmente legittimo. Così pure la presenza di un giudice, monocratico o collegiale, del tutto imparziale, ovvero indipendente dalle tesi e dagli interessi di ciascuna delle parti, è un'altra garanzia fondamentale di correttezza procedurale (non necessariamente di giustizia che concerne il merito, oltre che il metodo). 

Tutto ciò, in una società moderna altamente complessa e fondata su criteri di scienza, l'accento nelle indagini e nelle procedure di giudizio, piuttosto che su tradizioni arcaiche, deve porsi su un metodo logico e scientifico (la logica è lo scheletro o il fondamento di ogni scienza, anche se poi cambia la metodologia e i contenuti in ogni diverso settore di indagine). Il delitto va considerato quale fenomeno di cui la causa e la serie di condizioni è ignota, ma deve essere conosciuta. Facciamo un esempio: se appare un morbo epidemico mortale, lo scienziato, biologo e medico, deve individuare il fattore scatenante e le condizioni nelle quali tale fattore prospera. Poniamo sia un virus. Se tale virus è sconosciuto occorrerà tutta una serie di osservazioni sistematiche e di sperimentazioni prima per capire di che tipo di virus si tratti: una volta individuato, tale virus dovrà essere studiato al fine di determinarne i punti deboli; quindi andranno studiate le idonee terapie per renderlo innocuo o per distruggerlo. Il procedimento, con ovvie distinzioni (si procede per analogie, ma con metodo uguale), si rivolge anche al crimine ed al suo o a suoi autori. Occorre procedere con pazienza (guai a pensare di risolverlo i pochi giorni), analizzare le situazioni, confrontare i vari dati, indagare sui possibili autori lavorando sull'ambiente della vittima (ovviamente anche qui va distinto se parliano di un crimine concluso con la morte della vittima o viceversa se questa ha subìto soltanto lesioni di vario tipo), sentendone la versione se è sopravvissuta, o cercando di capirla osservando come il delitto sia avvenuto. Come lo scienziato deve regolarsi basandosi su leggi naturali, così chi indaga deve basarsi sulle leggi naturali e sociali, né deve o può uscirne. Una volta individuato il possibile autore, deve sottoporlo ad interrogatori svolti secondo a legge e tendenti a capire se abbia o non abbia delle giustificazioni a suo favore; se neghi del tutto e se queste negazioni corrispondano ad una possibile verità o siano intrinsecamente false. Il diritto al silenzio, in un sistema razionalmente fondato di indagine, non dovrebbe sussistere: il silenzio è una garanzia nei sistemi accusatorio ed inquisitorio, date le presunzioni dei due sistemi e data la potenzialità persecutoria negli indaganti. Ma dove tale persecuzione viene impedita di diritto e di fatto, decadrebbe pure la garanzia data dalla possibilità del silenzio [9]. Una volta, acquisiti gli elementi necessari, allora l'autore o gli autori vanno rinviati a giudizio. Cadrebbe così anche la presunzione di innocenza o di colpevolezza, ambedue mistificanti, in quanto nel primo caso ci si comporta lasciando tutto l'onere della prova alla vittima o ai suoi familiari (se questa è morta) mentre, viceversa, nel secondo l'onere ricade tutto sul preteso colpevole, che potrebbe non esserlo. O l'una o l'altra parte vengono così danneggiate. 

Nel sistema logico e scientifico di indagine, nessuno deve essere privilegiato rispetto all'altro: in questo sistema, che chiamo critico-dimostrativo o confutatorio-probatorio, ciascuna delle parti, per quanto gli spetta, ha l'onere della prova o, più esattamente visto che la prova si determina alla fine non all'inizio o nel mezzo del procedimento, l'onere di fornire tutti gli elementi a proprio favore o a favore della propria tesi. Sarà poi il giudice, sempre collegiale (è assurdo che uno solo possa o debba decidere il futuro di altre persone, in sede civile, amministrativa o penale che sia), comparati obiettivamente ed imparzialmente tutti questi elementi, che egli non deve scegliere in quanto devono potergli essere dati integralmente dalle parti senza selezioni preventive [10], ad assumere la decisione finale, da esprimere con sentenza motivata nel momento stesso in cui viene emanata, con un'udienza destinata a tale unico scopo. Sembra anche qui irragionevole che prima si condanni e poi si spieghi, con motivazioni depositate a distanza di almeno 30 giorni, perché si è condannato. Potrà, pertanto, giudicare non ad arbitrio suo ma sulla base di elementi completi presentati dalle parti interessate, ovvero dal pubblico ministero in riferimento alla legge violata e agli interessi generali, dalla parte indagata o imputata per quanto concerne la confutazione delle accuse rivoltegli o delle modalità di tali accuse, dalle parti lese e civili per i propri diritti soggettivi ed interessi legittimi eventualmente violati [11]. 

Un procedimento, svolto integralmente e approfonditamente su tutti gli elementi, potrebbe ridurre di molto la necessità di appelli, riesami e di tutte quelle forme artificiose di garantismo, necessarie viceversa negli altri due sistemi. Inoltre, verrebbe a saltare ogni altra forma processuale abbreviata, accorciata o elusiva, oggi previste da vari Codici di procedura penale. 

Infine un'osservazione sulla custodia cautelare, un tempio denominata "detenzione preventiva", ovvero pre-processuale. La chiusura in un carcere dovrebbe, intanto, essere effettuata solo per persone considerate pericolose sul piano della violenza fisica (violentatori, aggressori, violatori di domicilio, rapitori, rapinatori, assassini, cosiddetti pedofili - più correttamente definibili come pedomani -, sfruttatori di donne o di bambini ai fini di un mercato sessuale). Assurdo utilizzarla per reati di natura solo amministrativa (ad es., questioni fiscali, anche per cifre consistenti: dovrebbero esser costretti a pagare, eventualmente con confische dei beni, o fatti lavorare in modo forzoso). Inoltre, come perfino le leggi della Rivoluzione Francese prevedevano, si dovrebbe distinguere il luogo di detenzione pre-processuale da quelli di detenzione definitiva, anche per evitare che un criminale occasionale finisca per diventare duraturo, grazie a rapporti troppo stretti in celle comuni. Questo luogo potrebbe consentire al custodito un certo libero movimento all'interno dell’ambiente (come un'ex-caserma adattata allo scopo), mentre ciò non avverrebbe nel carcere vero e proprio. Ma ciò che è fondamentale, è necessario accorciare al minimo possibile i tempi pre-processuali e, oltre alla proporzionalità prefissata di tale custodia, già prevista per legge, secondo il tipo e gravità del presunto reato darne una durata precisa, alla fine della quale scatti il processo, ovvero la libertà provvisoria o gli arresti domiciliari, sempre secondo la proporzione della gravità del fatto e la potenzialità di rischio da verificare. A tale fine è necessario evitare ogni abuso o elusione della legge da parte dei poteri dello Stato. 


NOTE: 
[1] Confronta Claudio Saporetti “Antiche Leggi” ed. Rusconi (Milano, 1998). 
[2] La “Mosaicarum et Romanorum legum collatio” , raccolta e comparazione delle leggi mosaiche e romane, detta anche Lex Dei, del III – IV secolo d. C. 
[3] Manzoni descrive don Abbondio, il quale, per evitare il celebre matrimonio tra Renzo e Lucia, sottoposta, oggi diremmo, allo stalking di don Rodrigo, si fingeva malato, e si faceva prestare dei libri. Ad un certo punto, leggendone uno, probabilmente di filosofia, si chiese: “Carneade, chi era costui ?”, ricordando tuttavia che doveva essere un filosofone del tempo antico, 
[4] Per la Bibbia sono significativi, sul piano giuridico e giudiziario, i libri dell’Esodo (capitoli 20 – 23), del Deuteronomio, di Daniele, in specie il racconto di Susanna e i perfidi anziani (cap. 13), non canonico: Susanna è una moglie fedele accusata da tre vecchi di adulterio, il che comportava la lapidazione, ingiustamente in quanto non aveva ceduto alle loro voglie: Daniele, con un procedimento che sembrerebbe modernissimo, ovvero il confronto separato delle versioni, dimostra che dicono il falso, per cui sono essi a venire lapidati; il libro dei Re (molto rilevante è il giudizio di Salomone sulle due madri); i quattro Evangeli per la parte concernente il processo e la morte di Gesù, dove, sia pure in sintesi, si confrontano il metodo ebraico e quello romano ambedue accusatori, ma non necessariamente garantisti; in Atti, il processo a Stefano, primo martire, capp. 6 – 7. Sui primi Cristiani, potrebbe ricordarsi di Paolo “Prima lettera ai Corinzi”, cap,.3 (versetti 18 – 21) di cui andrebbe ricordato che: “Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio…”; e il Cap. 4 : “ Ognuno ci consideri come ministri di Cristo re amministratori dei misteri di Dio… A me, però, poco importa di venir giudicato da voi o da un consesso umano; anzi, neppure io giudico me stesso… Il mio giudice è il Signore! Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore…” . Sempre di Paolo, importanti sono i capp. 21 – 23 (giudizio presso i Giudei) e 28 (per il giudizio presso i Romani, dove si salva da morte immediata con la formula celebre “civis Romanus sum”, il che comportava diritto alla difesa e ad un regolare processo).
[5] La vita di Dionigi di Siracusa, il Vecchio, per distinguerlo dal figlio, è in parte descritta nella biografia dedicata da Plutarco a Platone nelle sue “Vite Parallele”. Platone, per un certo periodo, si era illuso di fare di Siracusa una “repubblica”, come da lui immaginata. 
[6] Basti ricordare quella fase di repressione politica nella Rivoluzione francese, chimata “Terrore” e “Grande Terrore”, che mise in crisi completamente il garantismo giuridico e penale pur previsto come tale dalle varie Costituzioni e dalle leggi procedurali allora vigenti, sebbene modernissime sul piano teorico. Soprattutto la celeberrima “legge dei sospetti” (intesi come tutti coloro che potevano agire contro la Convenzione, il Comitato di Salute Pubblica, e la Repubblica o il popolo in generale) Questa fase è segnata soprattutto, da una dittatura piuttosto morale che politica, di Robespierre (il quale per agire, aveva sempre necessità di sottoporre tutto al voto, ancorché solo formale, della Convenzione, ovvero la Costituente repubblicana istituita nel settembre 1792). Ma quando la maggioranza (Pianura o Palude, come allora chiamata, ma che noi diremmo Centro moderato) se ne stancò perché minacciata, allora fu spazzato via nei giorni del Termidoro dell’Anno II (1793/1794). 
[7] Le lettres de cachet, ovvero lettere sigillate, chiuse sì, ma anche col sigillo del sovrano, era veri e propri mandati d’arresto di chiunque, senza alcun verifica immediata e successiva sulle ragioni dell’ordine, che consentivano la prigionìa anche a vita: soprattutto la Bastiglia fu la prigione storicamente più importante di queste detenzioni arbitrarie, e proprio per questo così odiata da essere rasa al suolo dopo il 14 luglio 1789 (oggi, in Place de la Concorde, già Piazza della Rivoluzione, possono essere reperite solo le fondazioni di tale fortezza). 
[8] Il modello anglosassone, nel suo sviluppo storico, viene descritto accuratamente da Adriano Cavanna nella II Sezione della Parte II di “Storia del Diritto Moderno in Europa” (ed. Giuffrè, Milano 1982, pagg. 479 - 610). 
[9] La formula, tipica dei films americani e recepita nella nostra procedura penale, nella quale si avverte l’arrestato che ha diritto al silenzio perché “ogni affermazione può essere usata contro di Lei”, è tipica di un sistema luridamente ipocrita. Le affermazioni dell’indagato/imputato devono far parte del materiale probatorio, ma non necessariamente interpretate contro l’imputato stesso, che deve sempre mantenere il diritto non tanto ad una ritrattazione, quanto alla re-interpretazione, o al chiarimento, o alla motivazione di ciò che dice. Se è in condizioni di irritazione potrebbe, ad esempio, insultare coloro che lo arrestano. Ciò non va usato oltre i limiti necessari, se l’imputato spiega di aver detto tali cose solo per reazione o rabbia momentanea, senza convinzione profonda. Altrimenti si ricadrebbe in sistemi persecutori, poco importa poi che la forma sia accusatoria o inquisitoria. 
[10] Il giudice non dovrebbe avere la discrezione di poter scegliere a proprio arbitrio gli elementi di prova da analizzare e comparare, ma dovrebbe lasciare alle parti l’onere di fornire tutti gli elementi che tali parti, fissando solo termini ragionevoli di tempo, dovrebbero consegnare e l’elenco dei testimoni utili. La questione del tempo generalmente obiettata, deve esser rigettata, in quanto al giudice spetta di individuare, in termini logico-scientifici, e non di comodo personale o di comodo altrui, la verità dei fatti, per quanto nei limiti delle possibilità concrete dell’uomo, che non è onnipotente ed onnisciente. Chi ha esperienza processuale, anche come semplice osservatore pur non occasionale, sa che il tempo è perso non nella somma delle udienze effettive, ma nelle pause tra le udienze, spesso rinviate di mesi. Così se il colpevole presenta 100 testimoni e mille pagine di documentazione, il giudice collegiale esaminerà tutti i testimoni e tutti i documenti. Nel caso che si veda che il numero di elementi sia presentato a puri scopi dilatori per arrivare alla prescrizione del reato, allora il giudice o chi per lui potrebbe procedere in via disciplinare e penale contro l’avvocato che mira visibilmente a tale obiettivo dilatorio. Basterebbe, tuttavia, eliminare l’idea di prescrizione del reato, eccettuata ovvamente la morte del reo, per rendere vano ogni tentativo di dilazione. Inoltre, se alla Suprema Corte di Cassazione, ovvero Organo similare, si desse anche il compito di una valutazione finale, non soltanto sulla logicità nella descrizione dei fatti, bensì anche nel merito dei fatti stessi, si potrebbe sia eliminare l’appello di II grado, sia tutti quei rinvii e controrinvii al giudice di partenza, tipici della sua politica ponzio-pilatesca, di cui già si è parlato in altro saggio . 
[11] La parte lesa è la vittima di un qualunque reato, sia che si presenti come tale con regolare denuncia, sia che non lo faccia. La parte civile è la vittima del reato, o suo parente se la vittima è deceduta, che si presenta come tale formalmente, chiedendo un risarcimento in termini finanziari per il reato subìto. In un procedimento, di tipo critico-dimostrativo o confutatorio-probatorio (logicamente destinato alla determinazione della verità dei fatti), la distinzione cadrebbe, perché ogni parte lesa avrebbe diritto al risarcimento pecuniario d’ufficio, salvo viceversa esplicita rinuncia da parte sua. In tale ottica critico-dimostrativa, sulla base del principio di uguaglianza di fronte alla Legge, qualunque reato, anche non denunciato dalla parte lesa, ma venuto a conoscenza degli Organi inquirenti, dovrebbe essere fatto oggetto di indagine ed, eventualmente, di processo, in quanto violazione della Legge nel suo complesso, e pertanto perseguibile (cadrebbe così la distinzione tra reati a querela di parte e reali procedibili d’ufficio). Se non vi è parte civile, vi deve comunque restare la parte dello Stato che difende i singoli e la società da ogni forma di crimine. 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 

Sul Diritto antico dei popoli mediterranei e sul Diritto ebraico. 

Bibbia, Antico Testamento, specialmente Libri dell’Esodo, Deuteronomio; Nuovo Testamento: I Quattro Vangeli, Atti degli Apostoli; 
Giuseppe Flavio, “Antichità Giudaiche” (una sorta di Antico Testamento da insegnare ai non-Ebrei o Gentili), ed. UTET (Torino, 2006), 2 voll., a cura di Luigi Moraldi. 
Claudio Saporetti, “Antiche Leggi”, ed. Rusconi (Milano, 1998). 

Sul Diritto greco. 

Platone “Apologia di Socrate”, “Critone”, “Fedone”, “La Repubblica”, “Le Leggi, “Il Politico”; 
Aristotele, “Etica Nicomachea”, “Costituzione di Atene”, “Politica”; 
Plutarco, “Vite Parallele”, che in alcuni episodi costituisce una comparazione tra mentalità greca e mentalità romana, anche in sede di Diritto. 
Moses Finley, “Uso e abuso della storia”, saggi sul Diritto greco, ed, Einaudi (Torino, 1981). 

Sul Diritto etrusco. 

Da non farsi fuorviare dal titolo, ad uso editoriale propagandistico: l’argomento è prevalentemente di carattere giuridico: Giulio M. Facchetti (avvocato), “L’enigma svelato della lingua etrusca”, ed. Newton Compton (Roma, 2000). Il Facchetti è anche autore di un’opera sul Diritto privato etrusco (per quanto si ricava da fonti antiche e dall’archeologia, visto che opere dirette non ci sono rimaste). 

Sul Diritto romano. 

Marco Tullio Cicerone, “Orazioni”, soprattutto le Verrine, Catilinarie, A favore di Milone, Filippiche. 
Crispo Sallustio, “La Congiura di Catilina”. 
Marco Fabio Quintiliano, “Istituzione oratoria”, ed. BUR (Milano, 2001), 3 voll. 
Cornelio Tacito, “Annali”. 
Svetonio Tranquillo, “Le Vite dei Dodici Cesari”, particolarmente Caligola, Nerone e Domiziano. 
Plinio il Giovane, “Panegirico di Traiano” e “Lettere a Traiano”. 
Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, “Apologetico”. 
Lucio Apuleio, “Sulla magia”. 

OPERE E MANUALI 

Gian Battista Vico, oltre a parte della “Scienza Nuova”, “Sull’unico principio e fine del Diritto Universale” e “Sulla coerenza del giurisprudente” , ed. Sansoni (Firenze, 1974) . 
Vincenzo Arangio-Ruiz, “Storia del Diritto Romano”. Ed. Jovene (Napoli, 1998); 
Matteo Marrone “Istituzioni di Diritto Romano” (parti destinate al Diritto penale e alla procedura), ed. Palumbo (Palermo, 2002); 
Aldo Schiavone ( acura di), “Storia del Diritto Romano” ed. Giappichelli (Torino, 2001). 

SUGLI SVILUPPI SUCCESSIVI DEL DIRITTO PENALE ROMANISTICO 

Adriano Cavanna, “Storia del Diritto Moderno in Europa”, ed. Giuffrè (Milano, 1982). 

SULLA NATURA MAGICO-RELIGIOSA DEL DIRITTO ROMANO ARCAICO (età repubblicana) 

Carla Faralli, “Diritto e Magia”, ed. CLUEB (Bologna, 1992), saggi sul pensiero di Haegerstroem ed altri. 

Sui sistemi inquisitori e l’uso della tortura 

Aldo Migliorini, “Tortura, Inquisizione, Pena di morte”, ed. Lalli (Poggibonsi, 2001). Oltre a varie stampe, vi è pubblicato anche il formulario procedurale della tortura, operata dall’Inquisizione nel XVIII secolo.

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