L’ANIMA DI PONZIO PILATO ALEGGIA
SUL LUNGOTEVERE
Di Manlio Tummolo
A partire da Esiodo (VIII sec. a. C.), la letteratura di tutti i popoli, non ha mai visto di buon occhio, i giuristi e i giudici in modo particolare. Esiodo, in “Le Opere e i Giorni” li qualificò “divoratori di doni” [*]. Vero che, allora, i giudici erano puramente dei mediatori privati scelti dalle parti, ma la situazione non è poi granché modificata neppure dopo. Le valutazioni di Platone ne “L’Apologia di Socrate” non furono granché diverse. Molti forse trascurano che i Vangeli sono un’ottima descrizione, ancorché sintetica, di un processo penale di tipo accusatorio, in uso all’inizio dell’ Impero Romano. Più tardi, cominciò a trasformarsi in rito inquisitorio, da Nerone in poi, soprattutto relativamente a processi di natura politica o religiosa. Riporto come Luca, dopo aver descritto il primo dibattimento al Sinedrio, per l’accusa di bestemmia (dichiararsi “figlio di Dio”, per farisei e sadducei era appunto un tale peccato-reato), passa al procedimento davanti a Ponzio Pilato, al quale delle bestemmie contro la fede monoteistica ebraica nulla interessava, ma rilevava, viceversa, l’accusa, rivolta a Gesù detto il Cristo, di attentare al potere romano, e pure la problematica delle competenze territoriali e politiche nella Palestina di allora.