venerdì 9 dicembre 2011

Bambini sfruttati fino alle lacrime ed al sangue perché quando a lavorare sono i minori le multinazionali dilatano i guadagni



Quando si parla di lavoro minorile non si può far a meno di pensare alla Cina. Ma non è l'unica realtà mondiale, anzi ce ne sono altre forse peggiori. Ed in fondo... è davvero solo la struttura della nazione che obbliga a sfruttare i suoi figli, o sono altre le cause scatenanti tale fenomeno? Arrivando a sommare i fattori col ragionamento, non si può fare a meno di capire che se un piccolo essere umano viene costretto a lavorare, spesso per più di 14 ore al giorno, la causa va ricercata anche del fabbisogno internazionale. Quindi una delle ragioni del fenomeno "sfruttamento minorile" deriva dalle multinazionali che necessitano di soddisfare le esigenze degli uomini, uomini che pretendono di indossare un determinato capo di abbigliamento o gioiello per credersi uguali o migliori di altri, e questo permette all'azienda di guadagnare per arricchire i soci proprietari ed i vari dirigenti senza scrupoli. In poche parole se tanti bimbi restano culturalmente sotto sviluppati, se tanti bimbi muoiono mentre lavorano per ingrassare i colossi mondiali, non è solo colpa delle multinazionali ma anche nostra che ne seguiamo la linea. Di noi esseri comuni che facciamo dell'apparenza il primo obiettivo in grado di darci quella sicurezza mentale che pare mancarci quando ci troviamo ad essere esternamente diversi dalla "massa". Capita così che mentre acquistiamo un paio di scarpe da 200 e più euro, di quelle tanto ben reclamizzate che i giovani bramano di indossare, non ci venga neppure in mente che siano state cucite da una ragazzina cinese di dodici anni e che questa abbia "guadagnato" circa 80 centesimi di euro per finirle a dovere.

E non è una cavolata quanto ho scritto perché "Nike", "Timberland" e "Puma", i marchi più gettonati degli Stati occidentali, sono le multinazionali che pagano dagli 80 ai 90 centesimi ai ragazzini che finiscono la loro scarpa. E' chiaro che ai dirigenti di questi colossi poco importa chi la incolla, chi la cuce, è chiaro che preferiscono pagare dai 6 agli 8 euro a paio ai campioni dello sport, del calcio, che invoglieranno i nostri ragazzi ad acquistarle. Ma non solo le scarpe di marca e non solo l'occidente viene coinvolto nel meccanismo macabro del lavoro minorile. Anni fa il quotidiano "La Repubblica" ci fece sapere come funzionavano gli affari in Asia. Nell'articolo venne inserito quanto visto da due giornalisti cinesi, Yan Liang e Lu Zheng, che erano riusciti ad infiltrarsi in un distretto dell'industria tessile della contea di Huahu dove il lavoro minorile era, ed è ancora oggi, la regola. Lì ebbero a che fare con Yang Hanhong, un piccolo imprenditore che reclutava operai dal suo villaggio natale. Allora aveva 12 minorenni alle sue dipendenze. Il suo investimento in capitale consisteva nell'acquistare forbici e aghi con cui i ragazzini tagliavano e cucivano le rifiniture dei vestiti. Ecco quanto scrissero: "La maggior parte di questi bambini soffrono di herpes per l'inquinamento dei coloranti industriali. Con gli occhi costretti sempre a fissare il lavoro degli aghi, tutti hanno malattie della vista. Alla luce del sole non possono tenere aperti gli occhi infiammati. Lamentano mal di testa cronici. Liu Yiluan, 13 anni, non può addormentarsi senza prendere 2 o 3 analgesici ogni sera, ed il suo padrone si lamenta perché dice che gli costa troppo in medicinali". 


Quanto accade in Cina accade in Vietnam, la nuova terra libera delle multinazionali, come in ogni altro paese asiatico. Ed il lavoro non finisce mai alla fine del turno perché una buona percentuale di ragazzini e ragazzine subiscono anche violenze sessuali all'interno delle fabbriche. La legge in quegli Stati non prevede altro che una multa di mille euro per le industrie che si scoprono far lavorare minorenni, ma tali industrie sono composte anche da trentamila, quarantamila dipendenti, ed il controllo dei minori, chiaramente in nero, non è la priorità delle istituzioni che lasciano il tutto in mano a funzionari corrotti. La stessa cosa capita in India ad esempio. Lì i bambini vengono mandati nei campi di cotone e costretti a lavorare dalle 12 alle 16 ore al giorno. Le aziende interessate dal fenomeno sono la "Unilever", la Bayer, la "Advanta" e altre ancora. Tutte sanno bene che nello Stato indiano ci sono almeno 450.000 ragazzine sfruttate per poter stare nel prezzo finale dalle stesse multinazionali stabilito, anche mille volte inferiore al prezzo che le stesse stabiliranno per la vendita, ma nessuno pone rimedio a questo massacro che costringe le bimbe indiane a non andare a scuola, a vivere nei soprusi, a crescere sapendo di non avere futuro.

Però sbaglieremmo a pensare che solo L'Asia sia interessata a questo fenomeno perché non è vero. A leggere in modo corretto tutte le informazioni ci accorgiamo che l'America è stato il primo continente che sfruttava appieno il lavoro minorile. Il fenomeno è oggi largamente diffuso in Guatemala, dove i bambini sono grandi raccoglitori di caffè, in Ecuador, dove riempiono scatoloni di banane, ma anche in Argentina non si scherza ed i ragazzini tagliano mattoni, raccolgono uva e patate. Per far questo nella stagione dei raccolti abbandonano la scuola. Ma una fetta enorme di ragazzini è destinata a lavorare per strada. In Sud America solo i minori distribuiscono la guida telefonica, ed è la maggiore industria spagnola di telefonia che controlla il mercato argentino delle telecomunicazioni, e solo i minori fanno ancora i lustrascarpe e gli strilloni addetti a vendere i quotidiani di tutte le più importanti testate giornalistiche. E fino ai primi decenni del 1900 questo capitava anche nel nord degli Stati Uniti. Era una situazione talmente tollerata che venivano riprodotte scene identiche anche nei film di Hollywood; chi di voi non ricorda i bimbi che stazionavano agli angoli delle strade urlando di acquistare un determinato giornale? Ma non era la sola piaga perché i bambini in quegli anni erano impiegati anche nelle industrie. Poi una legge, appositamente creata per combatterla, invece di risolvere il problema lo spostò. Infatti le multinazionali cambiarono sede creando nuovi stabilimenti al sud, in quegli stessi Stati che avevano perso la "guerra di secessione", guerra voluta da Abraham Lincoln per abolire la schiavitù e per unire l'America in una unica confederazione, ed erano stati i promotori della "Tratta degli Schiavi", una "industria" florida che pagava spedizioni navali per "catturare" i negri dall'Africa e venderli a chi aveva i campi di cotone.

Ma ora anche la stessa Africa sfrutta i minori. A causa delle continue guerre il numero degli orfani aumenta ogni anno a dismisura, questo rende facile il reclutamento dei bambini che vengono inviati a legioni irregolari di soldati, armati e costretti a sparare. Ma non ci sono solo i bambini soldato e ne muoiono di più nelle miniere dove, in cunicoli stretti e non adatti agli uomini, i piccoli si inseriscono per scavare e raccogliere diamanti ed altri minerali. Oltre un milione di orfani africani si dividono l'onere della schiavitù ed ogni giorno cercano oro sui letti dei fiumi, sparano alla popolazione inerme o alle bande nemiche, vengono venduti a scopo sessuale, in Tanzania il 65% delle minorenni è avviato alla prostituzione. I più fortunati lavorano nei campi, i più sfortunati in miniera. In Sierra Leone a dieci anni i bambini sono già idonei per lavorare nelle cave e trasportano pesanti sacchi di ghiaia e sabbia sulla testa. I più piccoli e magri vengono mandati all'interno della terra a raccogliere diamanti, e guai se un minimo esemplare di queste pietre resta impigliato nelle loro tasche perché il rischio che comporterebbe alla loro vita sarebbe enorme. E tutte le "Gemme" raccolte in Sierra Leone ed in Tanzania arrivano sul mercato occidentale e sono destinate ad abbellire le mani ed il collo di donne facoltose. E mentre in Africa chi non muore nei cunicoli percepisce un salario di 2 dollari al mese, "Tiffany", la maggiore industria del settore che ha gioiellerie in ogni città del mondo con saloni di vendita extralusso a Parigi, New York e Londra, paga milioni di dollari affinché i diamanti provenienti dall'Africa vengano indossati, è la pubblicità che fa vendere, dai personaggi più famosi del mondo.

Quindi gli scheletri ora sono all'aperto, basterà smettere di acquistare scarpe abiti e gioielli dalle maggiori multinazionali mondiali per eliminare una piaga che non si riesce a debellare? Forse sì o forse no, di certo qualcosa anche ognuno di noi può fare, può sensibilizzare gli amici e i conoscenti denunciando quanto capita a milioni di bimbi. Non servono molte parole, a volte anche una foto fatta a modo può bastare e farci riflettere. Tanti sono i fotografi che girano il mondo e denunciano con le immagini. Uno è Steve Mc Curry, a Roma fino al prossimo aprile è in programma una sua mostra, che ha immortalato in quadri d'autore i bambini costretti a lavorare. Ed a guardarli vien voglia di dire "basta!". Ma facile è il dirlo e difficile è il cercare di convincere i tanti che sulla loro pelle creano ed ammassano milioni di dollari... in fin dei conti, mancando la volontà degli Stati, solo loro possono far qualcosa per quei bimbi.


9 commenti:

Anonimo ha detto...

smettere di acquistare quei prodotti. Hai fatto bene a scrivere queste cose sotto Natale.

Tabula

Anonimo ha detto...

E' una piaga non facilmente sanabile. Solo un accordo politico internazionale otterrebbe dei risultati positivi.
Ma è utopia sperarlo.
PINO

Manlio Tummolo ha detto...

Caro Massimo,

dimostri sempre un alto grado di coraggio, e non solo per vicende italiane. Lo sfuttamento dell'uomo, da parte dell'uomo, è sempre una cosa orribile da combattere in ogni lecito modo. Ma lo sfruttamento sui minori, nel lavoro, nella salute (trapianti), come per sporchi fatti sessuali, grida vendetta al cielo, e ciò non deve essere solo espressione retorica, ma proprio un criterio d'azione. Tutto ciò segna e dimostra lo spaventevole e disumano regresso che la popolazione planetaria sta subendo per il più bieco egoismo materialista di pochi: qualcosa, che sembrava segno di culture arretrate di tempi lontani, è ritornato in pieno vigore anche in Paesi considerati civili e socialmente avanzati. Tutto ciò è intollerabile e va colpito con ogni mezzo, risalendo non alla sola manovalanza (rapitori di bambini), ma ai mandanti, alle grandi organizzazioni criminali, verso le quali bisogna comportarsi con rigore terribile, e contro chi ne usufruisce tanto eccezionalmente quanto consuetudinariamente.

Sira Fonzi ha detto...

Un giorno Massimo, entrò in negozio una cliente e mi chiese una tuta sportiva ed una scarpa, ma ci tenne a precisare che voleva fossero made in Italia.
Io, ancora ignara di quanto fosse esteso il problema, le dissi: "Certo signora, venga che troviamo un articolo che, oltre a piacerle, abbia i requisiti che lei richiede".
Dopo circa mezz'ora la cliente si dirigeva verso l'uscita a mani vuote scuotendo la testa, perché non ero riuscita ad accontentarla.
Il problema Massimo non era solo per i prodotti stranieri made in Tailandia, India, C, hina Giappone etc… ma anche per quelli italiani.
Alcune ditte italiane avevano parte dei prodotti, con le stesse identiche etichette.

Ma la cosa più scoraggiante è quello che lessi successivamente, quando mi andai a documentare per evitare di fare un ulteriore figuraccia e per essere un po’ più informata.

Trovai un articolo, che non è quello che ti posto ma il contenuto era identico:

Secondo l’articolo 24 del codice doganale europeo (Reg. EEC 2913/1992), un prodotto che è stato realizzato in due o più paesi è considerato comunque originario del paese in cui l’ultima trasformazione o lavoro sostanziale ha avuto luogo.

Ciò significa che se un articolo viene prodotto per il 70% all’estero e per il 30% in Italia (nel caso di una borsa, il 30% corrisponderebbe all’incirca all’assemblaggio dei manici e dell’etichetta con la borsa in sé), quel medesimo articolo può essere etichettato come Made in Italy. Ancor più sconvolgente è che un articolo che è stato addirittura completamente prodotto all’estero potrebbe recare il marchio Made in Italy se commissionato da un’azienda con sede in Italia.

Cosa implica tutto ciò?

Alcune imprese italiane, tra cui molti prestigiosi marchi della moda, scelgono di spostare una gran parte della loro produzione all’estero, dove il lavoro è sicuramente più economico in quanto lo stesso numero di personale impiegato per la realizzazione di un articolo ha un costo di gran lunga inferiore, consentendo alle aziende di aumentare sostanzialmente il margine di profitto ma, allo stesso tempo, essendo il personale molto meno qualificato, si abbassa notevolmente anche la qualità dei beni prodotti.

Articoli prodotti per pochi euro, in molti laboratori cinesi dove è frequente l’uso di clandestini, manodopera a basso costo costretta a lavorare di notte e in condizioni scandalosamente disumane e non igieniche, senza alcuna assistenza sociale o una remunerazione adeguata, possono poi essere importati in Italia, dove viene aggiunto il cartellino per cui sono stati effettuati questi articoli e venduti poi nelle migliori boutique e negozi a prezzi davvero esorbitanti.

Con l’adozione di queste politiche le imprese riescono a ottenere rendimenti annui eccellenti, le vendite rimangono elevate perché il prodotto continua a risultare fatto in Italia, ma i costi di produzione sono di molto più bassi. In questo modo è inoltre possibile abbassare i prezzi di vendita rendendo il prodotto più commerciale e concorrenziale rispetto ad altri diventando accessibile anche ad una più ampia parte di mercato.
Segue

Sira Fonzi ha detto...

Sira segue
Quindi Massimo, il problema è come individuare un prodotto interamente italiano (ma qui si apre un altro spaccato perché il lavoro minorile c'è anche da noi, e non solo nel sud o centrosud, dove c'è più povertà, ma in tutta Italia, e ai nostri minorenni si devono aggiungere i, sempre più numerosi, minorenni figli di immigrati)
L'unica certezza è acquistare nella piccola azienda o in un azienda artigianale, ma il costo a prodotto finito, alla fine risulta più elevato.

Ciao Sira

Anonimo ha detto...

Il problema è che non c'è lavoro, la gente ha bisogno comunque di certi beni, e tende a risparmiare comperando il meno caro.
Certo, è più scandaloso pagare cifre consistenti per prodotti comunemente ritenuti di alto livello e andare comunque a creare sia un disequilibrio nel mercato che queste situazioni aberranti di schiavitù.

Anonimo ha detto...

Tabula

Manlio Tummolo ha detto...

Il problema è di politica sociale ed economica: finché permarranno certi rapporti sociali e certi rapporti economici, sulla base di teorie liberiste che credono a "mani invisibili" che regolano i risultati dei molteplici egoismi contrapposti, la conclusione sarà sempre quella dello sfruttamento. In termini più semplici, finché vi è chi vuol guadagnare 1000, mentre il suo dipendente guadagna 5 o 1, difficilmente usciremo da questo cerchio. Il problema dello sfuttamento del lavoro nasce perché lo Stato, pur emanando leggi anche severe sulla carta, però poi non le esegue: si preoccupa della quantità prodotta, mai della qualità, e neppure delle modalità di lavoro. Insomma, è un discorso complesso, ma le osservazioni di Massimo servono da stimolo critico: non possiamo scandalizzarci del fatto che esista lo sfuttamento, una volta che accettiamo l'idea della sproporzione tra chi fa produrre agli altri e chi lavora per produrre. Già Rousseau, in pieno XVIII secolo, aveva segnalato: "Nessuno deve essere così ricco da comprare un altro, nessuno tanto povero da doversi vendere ad un altro". Sono passati due secoli e mezzo, e nondimeno ci ritroviamo ancora in queste situazioni aberranti, e, come ha ben sottolineato Sira, non occorre andare in Asia o in America, ma basta vedere molte situazioni italiane. Anche l'immigrazione di massa in Italia è finalizzata non certo ad umanitarismo (come per mistificazione si vorrebbe far credere), ma a pura drastica riduzione del "costo del lavoro". Più disoccupati vi sono e più si possono imporre condizioni invivibili di lavoro e di sfuttamento.

Anonimo ha detto...

Affinché un prodotto sia considerato made in Italy è sufficiente che la progettazione (il design) sia italiano, la produzione può essere fatta totalmente all'estero, specialmente in Cina, e poi l'etichettatura viene fatta in Italia. Molti famosi marchi di borse, ad esempio, le fanno produrre in Cina. Ho un amico che lavora in porto, e vede normalmente scaricare container di prodotti che devono solo ottenere l'etichettatura italiana. Nei documenti di accompagnamento c'è anche l'indicazione del valore del prodotto, che ovviamente è un'inezia rispetto a ciò che si paga il prodotto etichettato.
Questi stessi prodotti, mi dicono altri amici che sono stati in Cina, li trovate anche (ovviamente senza l'etichetta made in Italy) sul mercato cinese, a costi irrisori.
Non tutti coloro che hanno attività produttive in Cina, comunque, assumono manodopera minorile. O almeno così si dice. Da molti anni circolano documenti che invitano a non acquistare alcuni marchi, che sicuramente impiegano bambini. Alcuni di questi marchi sono quelli indicati da Massimo.
Tiziana