I Saggi di Manlio Tummolo. L'illuminismo giuridico penale e la sua involuzione tra Cesare Beccaria e Maximilien Robespierre

                                   Manlio  Tummolo

                   Bertiolo,  UD,  agosto  -  ottobre 2016 )


                                                 PREMESSA



Nessuno, recentemente, pare essersi scandalizzato alla notizia che un avvocato si sia fatto fotografare su “fess-book” mentre baciava i piedi di un magistrato donna, né pare che altrettanto nessuno si sia scandalizzato, peggio ancora, che i due non siano stati espulsi, come avrebbero meritato, dai loro rispettivi Ordini. Non certo da oggi, ma ormai da oltre un decennio, sostengo che, prima della separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, si dovrebbe procedere alla netta separazione degli studi universitari tra futuri avvocati e notai, caratterizzati da un’impostazione privatistica del Diritto, e i futuri magistrati che dovrebbero essere caratterizzati da un’impostazione pubblicistica del Diritto, gli uni rivolti a tutelare gli interessi e i diritti dei singoli individui, i secondi i doveri e i diritti dello Stato. Né pare che ci si scandalizzi quando si viene a conoscere i livelli stipendiali dei magistrati stessi solo grazie ad un puro fatto di politica locale a Roma, fatto in cui si dimostra come i magistrati abbiano conservato, se non tutte, gran parte di quelle condizioni economiche tolte viceversa, dal 1993, alla gran parte dei lavoratori pubblici o privati (e, questo, perché i partitocrati cercano di proteggersi il lato posteriore da eventuali proteste popolari, tenendosi a mo’ di guardie del corpo personali le Forze dell’Ordine, i militari e gli interpreti della Legge…) [1].

Dall’interpretazione ed applicazione egualitaria della Legge, invece, restiamo ben lontani, come siamo assai lontani, più in generale, da una concezione razionalistica del Diritto, o meglio della Scienza della Legge, quale Dover Essere nei rapporti umani e quale punizione a chi la vìola, secondo criteri di rigorosa proporzione (quasi matematica), che escluda ogni forma di arbitrio personale, di vacua clemenza o di feroce vendetta .

Noi dobbiamo questa forte esigenza di razionalità all’Illuminismo giuridico, sia nelle forme civili private (rapporti tra singoli), sia civili amministrative (rapporti tra cittadino e Stato, e suoi distinti Organi centrali o locali), sia penali (violazione di norme e relative sanzioni): l’Illuminismo culturale giuridico nasce nel XVIII secolo, come sviluppo ed applicazione della Rivoluzione scientifica, manifestatasi già nel secolo precedente, come elaborazione - a sua volta - dell’Umanesimo, superata la fase del fanatismo religioso protestante e cattolico.

Non è mia intenzione qui affrontare l’intera tematica (perché il discorso diverrebbe lunghissimo), ma di limitarmi a trattare la questione penale, soprattutto nella sua applicazione alla lotta politica sviluppatasi in Francia alla fine del secolo (ovvero, la ben nota Rivoluzione Francese del 1789) .


                                                PARTE  PRIMA

            IL  DIBATTITO  TEORICO  DA  BECCARIA  A  KANT

Capitolo I:    Cesare Beccaria.

Generalmente si attribuisce a Cesare Beccaria, che era un economista di per sé e non propriamente un giurista o un filosofo del Diritto, per la sua opera “Dei delitti e delle pene”, il merito di aver criticato la condanna a morte in modo assoluto e di aver altrettanto combattuto la tortura come procedura di indagine giudiziaria: va detto, come dimostreremo, che, relativamente alla pena di morte, egli non la condannò in senso assoluto, e che, riguardo alla tortura, egli non fece che riprendere quanto abbiamo già visto in Quintiliano e che fu sostenuto dal tedesco Christian Thomasius e dall’italiano Giuseppe Valletta (ambedue del secolo precedente), ovvero che la tortura in quanto procedimento giudiziario è solo un’inutile crudeltà (e, in quanto inutile, assolutamente stolta), perché fa dire al torturato ciò che vuole sentirsi dire il torturatore, e che spesso il vero colpevole, se fisicamente robusto o dotato (diremmo noi oggi) di molte endorfine, riesce a sopportare il dolore oltre il limite richiesto in tali casi, per cui non confesserà mai di aver compiuto quel tale delitto. Altri, invece, non tollerando il dolore, confessano anche il falso o l’ignoto, pur di far cessare la propria sofferenza [2].

Il merito di Beccaria che, ripeto, non era un giurista ma tutt’altro, consiste nell’essere riuscito a rendere popolare e largamente diffuso ciò che, fino ad allora, si discuteva solo tra gli specialisti: ovvero, la sproporzionalità della pena di morte per qualsiasi reato, che non sia metter in pericolo l’intero Stato con la propria azione; e l’inutile e idiota ferocia della tortura come procedimento di indagine, ma solo sfogo alla libidine sadica dei torturatori. Ciò indubbiamente è suo merito per ragioni di stile, chiarezza e semplicità di esposizione, capacità di sintesi, evitando le tortuose fraseologie dei giuristi di professione. Ma soprattutto questo è merito dell’epoca, cioè la forte esigenza di razionalizzazione, non più solo a livelli di teoria scientifica (come avvenuto nel precedente secolo), bensì anche a livello di pratica attuazione istituzionale e politica .

Altra considerazione sul pensiero del Beccaria è che egli non fu un teorico del “buonismo” o del “perdonismo”, oggi tanto di moda: egli non invocava, come vedremo tra poco, la “misericordia”, bensì la razionale e proporzionale applicazione delle pene relativamente ad una scala gerarchica dei reati: questa formidabile esigenza in un Diritto, che voglia apparire come “scienza della legislazione” o come “nomologia” rigorosamente intese, è un obiettivo tuttora ben lontano di cui vedremo le cause proprio già in quest’epoca. L’ergastolo, che egli chiama “schiavitù perpetua” (il che fa supporre anche l’uso dei lavori forzati), è tutt’altro che una pena “buona”, ma un modo per far pagare pesantemente ai colpevoli di gravi reati di sangue, in modo da avere tutto il resto della loro vita naturale per rendersene coscienti. Beccaria sa perfettamente che il criminale ripetitivo o colui che compie crimini efferati non può essere quasi mai moralmente riscattato e dimostrare un reale pentimento (che è appunto anche consapevole accettazione di una pena meritata, e non furbesca recita per evitare la sanzione), mentre può esserlo chi compie reati per necessità (il classico ladro per fame) o perché una volta nella vita ha ceduto ad un impulso violento aggredendo o uccidendo qualcuno. Questa è, per i suoi tempi ed anche per i nostri, una profonda intuizione: va ben distinto chi compie reati, seppure gravi o gravissimi, una tantum, che si pente seriamente, sconta con lealtà la sua colpa e può riscattarsi onestamente, e il criminale congenito, di norma capo o esecutore di qualche banda organizzata, il serial killer, il violentatore ripetitivo, ecc., che quasi mai si pentono sinceramente (ma solo recitano), e sono sempre pronti a ricominciare la loro vita di delinquenti appena usciti dal carcere. La proporzione tra reato e pena consiste anche in questa evidente, ma spesso mal compresa, distinzione da farsi in sede penale. Oggi vediamo, in Italia almeno, la grande “generosità” giudiziaria nel distribuire ergastoli non in proporzione ad un determinato delitto, per quanto atroce, ma come pena esclusiva per il non dichiarato “pentimento”. Bisogna recitare l’atto di dolore e versare qualche lacrimuccia per essere considerati “pentiti”, chiedere scusa al morto e ai suoi parenti (come se la cosa potesse bastare), ed allora si hanno sconti pesanti. L’ergastolo diventa una detenzione trentennale, e questa a sua volta, per “buon comportamento” (come se in carcere si potessero fare cose turche), diventa una pena sempre più ridotta: grazie a questi irragionevoli procedimenti, uccidere qualcuno conviene sempre, e poi conviene assai di più uccidere 100 persone che una sola: l’importante è recitare la santa manfrina del “pentito”. Definiremo questo atteggiamento giudiziario come “fariseismo o gesuitismo giudiziario”.

Ed ora esaminiamo quanto Beccaria [3] scrisse a proposito di tortura e della pena di morte :



“ XVI. Della Tortura

Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia <o, finalmente per altri delitti di cui potrebbe essere reo, ma dei quali non è accusato>.

Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice [4], né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata [5]. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la potestà a un giudice di dare una pena a un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, e’ non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi [perfino quelle allora vigenti!] un uomo, i di cui delitti non sono provati. Ma io aggiungo di più, ch’egli è un voler confondere tutt’i rapporti l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato, che il dolore diventi il crociuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti 


[il neretto è mio, per sottolineare l’assurdità della tortura come metodologia di indagine o come pena aggiuntiva]…” [6].

Beccaria qualifica il sistema della tortura quale metodo da “cannibale”

, e critica il metodo anche quale punizione o “purgazione” del delitto. In ciò il nostro filosofo vede correttamente anche un abuso della procedura religiosa, considerata la confessione come sacramento e premessa di pentimento, il che è fuori da un Diritto penale effettivamente razionale, che non mira ad atteggiamenti esteriori o interiori, ma mira alla corretta decifrazione di indizi e di fatti. La sofferenza inflitta falsifica, mistifica comunque la realtà, perché dall’estorsione di confessioni non sapremo mai se una versione è reale, oppure semplicemente data al solo scopo di cessare la sofferenza. E questo vale così per la tortura fisica, quanto per quegli sporchi trucchetti di indagine poliziesca, fondati sulla minaccia, sulla falsità, su false testimonianze, su falsi documenti (metodi questi forse inevitabili in tempi in cui l’indagine andava avanti per semplici illazioni; assolutamente non oggi, quando -ripeto - il metodo scientifico rigorosamente svolto può consentire di raggiungere conoscenze precise ed irrefutabili : beninteso sempre in modo relativo, ma si sa che ogni dimostrazione può essere confutata solo da altra dimostrazione contraria, di maggior precisione ed efficacia). E nondimeno vediamo che, tuttora, le cattive, anzi pessime, abitudini sono tarde a morire e continuano per comodità ad essere utilizzate.

Relativamente alla pena di morte, dopo aver severamente considerato la pluralità dei tormenti che, ancora nel XVIII secolo si applicavano ai condannati e che abbiamo in parte esaminato in saggi precedenti, Beccaria osserva :




“§ XXVIII. Della Pena di morte 

Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai reso migliori gli uomini [il neretto è mio: semmai, aggiungiamo noi, li ha resi peggiori, come Babeuf notò con le prime grandi violenze popolari della Rivoluzione Francese, e l’impiccagione di de Launay, comandante della Bastiglia: Babeuf osservò che il cattivo esempio veniva dall’alto e da secoli di orrori perpetrati dal potere politico], mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi… Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo ? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera ?...[7] .

     Va detto qui che la specie umana, uno strano incrocio di altezza e di bassezza morale unico tra le specie viventi, ha innata in sé un’aggressività e una distruttività feroci, che vede sempre negli altri un pericolo da risolvere con la morte. Prima, ad es., interviene nei fenomeni naturali, inserendo una certa specie in un ambiente antropizzato (dove sono solo presenti animali domestici o, perlomeno, miti come gli erbivori), poi quando tale specie si moltiplica, propone come soluzione la caccia spietata ed il massacro. Se uno compie un delitto, istintivamente, senza badare a proporzioni, la plebaglia propone la sua morte, magari richiamando in uso vecchi e orribili supplizi a sfogo della sua orrenda fantasia (lo vediamo ogni volta c’è un atroce delitto): piuttosto che alla giustizia, pensa alla vendetta o alla rappresaglia. Ma poi unisce a tutto questo un irragionevole pietismo, molto vicino all’autodistruzione. Come aveva sottolineato Pico della Mirandola, l’essere umano ha qualcosa di mostruoso, di extrarazionale, che sale alle vette e precipita negli abissi, arriva al Massimo Bene e poi si tuffa nel Massimo Male: questo soprattutto come specie, ma talvolta anche individualmente. La pena di morte ? Ma tutti i viventi sono condannati o predestinati alla morte: la pena di morte perciò non potrà mai essere una ragionevole sanzione per un qualsivoglia delitto

anche se sembra la più semplice davanti al pericolo concentrato in un’esistenza qualunque. E non è detto che la pena di morte, pur inflitta con supplizi, sia necessariamente più dolorosa della morte dovuta ad una qualche malattia, specialmente in tempi in cui scarseggiavano metodi anestetici adeguati. Ma la pena di morte, inflitta dagli uomini, ha anche questo aspetto: è definitiva. E se, come nel celebre caso del fornareto di Venezia, si scopre subito dopo che il condannato era innocente, che si può fare per risarcirlo almeno in parte della pena iniquamente subìta ? Nulla. Un morto non può essere risarcito in alcun modo, e di certo non basterebbe risarcire i suoi eredi, se ci fossero. Un prigioniero che abbia dovuto ingiustamente subire molti anni di carcere può, almeno in parte, essere risarcito; può vedere riconosciuta pubblicamente la propria innocenza; può ricevere una cospicua somma di denaro che in parte ripaghi l’errore giudiziario. Ma il morto ? Non può certo godere nulla di tutto questo. Ecco i motivi fondamentali per cui essere contrari alla pena di morte. Meno credibile appare l’esigenza di un pentimento, di un riscatto morale del condannato. Né la società, né, a maggior ragione, un singolo individuo possono sentirsi giustificati di uccidere un altro per un motivo qualsiasi; quindi solo la legittima difesa, quando è in rischio la propria vita o quella dei familiari, può giustificare un atto estremo, se non altrimenti evitabile.

Ma vediamo ancora Beccaria :

“… Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità.

   La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia quando i disordini tengono luogo di leggi…”  [8].
     

Ciò che ho sottolineato è essenziale per comprendere come in Beccaria non si può parlare né di clemenza, né di buonismo, né di misericordia, o simile paccottiglia. Nei reati di sangue, come delitti comuni, la pena di morte va abrogata. Non altrettanto può dirsi per reati politici, per periodi di violenza particolari, come insurrezioni, colpi di stato, fasi anarchiche (intese come disordine generale). Altrettanto quando determinati personaggi (es., capimafia) hanno forti legami con l’esterno pur essendo incarcerati. In tali casi la pena di morte può, per Beccaria, essere giustificata, non essendovi evidentemente per lui altri mezzi di calmare una certa situazione. Questo punto è essenziale, perché ci spiega la logica rivoluzionaria francese, il largo uso della ghigliottina, la repressione dell’opposizione, in tempi nei quali vigevano leggi di guerra, sia tradizionale (contro Austria, Prussia, Gran Bretagna, Spagna, ecc.), sia civile (Vandea e, più tardi, rivolta degli Chouans). In effetti, come si vedrà, nella Francia rivoluzionaria la pena di morte non fu abolita nemmeno per i reati comuni, ma solo “addolcita” con l’uso della ghigliottina, appositamente inventata e prodotta (con un “correttivo” ideato dallo stesso Luigi XVI che avrebbe sperimentato per primo, se non erro, quello della lama obliqua) per troncare la vita senza sofferenze prolungate, come pur era la decapitazione normale, non sempre efficace (talvolta il boia non aveva forza sufficiente o colpiva solo in parte, ecc.: la lama della ghigliottina scendeva secca e non lasciava scampo, per il suo peso naturale).

Proseguiamo ancora con Beccaria :

“… ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse più efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero e unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte [qui si nota una certa ambiguità, dovuta probabilmente alle opinioni prevalenti del tempo, in Beccaria: in effetti, la pena di morte non ha mai distolto nessuno dal ripetere il medesimo delitto, sia nella speranza di non essere individuato, sia perché chi compie delitti di sangue non lo fa certo misurando l’eventuale pena, ma a sfogo di propri impulsi selvaggi]…
Non è l’intensione [intensità] della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione [durata] di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere… l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse.  Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio [da questa cruda definizione si nota quanto poco “buonista” fosse stato il Beccaria !], ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti…
     La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano più l’animo degli spettatori che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate [nel senso di non sanguinose] e continue il sentimento dominante è l’ultimo perché è il solo…




… ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e perpetua [il neretto è mio: si parla di ergastolo e lavori forzati, come già accennato sopra] perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intensione [intensità] della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha di più: moltissimi riguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità…, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di sortir di miseria [quasi un suicidio, per mano altrui]; ma né il fanatismo né la vanità stanno fra i ceppi e le catene [si veda che Beccaria allude a ben altro che al nostro 41 bis, che tanto impressiona certuni !], sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia…

Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di più, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella [la morte] esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre…” [9].


E’, dunque, evidente che quello di Beccaria, nei confronti dell’atrocità delle pene, e soprattutto dei supplizi in quanto pene definitive non è un atteggiamento pietista, buonista o perdonista: anzi è un atteggiamento severamente rigoroso, ma che mira alla proporzionalità delle pene che caratterizza l’intero Illuminismo giuridico, e lo separa nettamente da ogni concezione precedente. Infatti, la proporzionalità delle pene nega anche la clemenza, la grazia, il perdono, tutta quella paccottiglia che le monarchie assolutiste hanno tramandato alle nostre pseudo-repubbliche e pseudo-democrazie. Uno Stato non deve conoscere altro che la Legge, ed una Legge che non sia l’arbitrio di uno o di pochi, bensì la decisione ponderata e quanto più giusta possibile di tutti, attraverso i propri rappresentanti appositamente eletti. Tutto ciò fu tradito nel tempo, non per impossibilità di attuare quanto sarebbe ovvio, ma per la comodità delle tradizionali mentalità che caratterizzano così i politici (partitocrati, con gazzettieri al seguito), quanto i giuristi (magistrati, avvocati, notai), che molto spesso costituiscono il nerbo della classe politica, o, comunque, dànno ad essa il la diapasonico, che poi l’orchestra esegue pedissequamente ed obbedientemente.

Così infatti conclude il suo sintetico lavoro Beccaria:


Ҥ XVII. Conclusione .

… la grandezza delle pene dev’essere relativa allo stato della nazione medesima. Più forti e sensibili devono essere le impressioni sugli animi induriti di un popolo appena uscito dallo stato selvaggio. Vi vuole il fucile per abbattere un feroce leone… Ma a misura che gli animi si ammolliscono nello stato di società cresce la sensibilità e, crescendo essa, deve scemarsi la forza della pena…

…può cavarsi un teorema generale molto utile, ma poco conforme all’uso… : perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi “. [10] .

     Come si è detto, e come è largamente noto, le osservazioni ben calibrate ed esposte di Beccaria ebbero un notevole successo di fama e di seguito teorico.  Ciò è dovuto, sia ai suoi meriti di stile (unire semplicità e profondità), sia soprattutto alla nuova atmosfera razionalista ed illuminata in cui viveva: in senso assoluto, non era originale, visto che le sue critiche contro la tortura, se non contro la pena di morte, non erano affatto nuove, ma anzi risalivano a tempi classici, ed avevano precursori immediati nel secolo precedente.  Beccaria trovava già una forte base teorica nella ben più vasta opera di Montesquieu “L’Esprit des lois (Lo Spirito delle leggi)”, di cui riparlerò più avanti a proposito dei poteri politici e del loro rapporto, come nella contemporanea opera di Voltaire “Trattato sulla Tolleranza”, opera destinata a criticare sia l’abuso dei supplizi, sia l’uso di questi per pretesi motivi religiosi (il caso di Jean Calas).  Beccaria servì anche verbalmente da modello anche ai regni dispotici “illuminati”, perfino a Caterina di Russia o agli Absburgo d’Austria (Giuseppe II, soprattutto, e Absburgo-Lorena  (Pietro Leopoldo), in Toscana.   In questi ultimi due Stati,  venne abolita la pena di morte in generale, ma non si può dire  che venne abolita la tortura in senso pieno, visto il largo uso della sferza (e non solo per la disciplina militare) e del bastone [11],  e nondimeno, come chiariscono gli storici del Diritto penale,  le misure che pure oggi consideriamo crudeli e offensive verso la dignità umana anche del criminale incallito, erano, rispetto alla barbarie precedente (presente perfino nella tanto ammirata imperatrice Maria Teresa e nei suoi regolamenti), già un notevole progresso, se non altro nell’impostazione teorica e nella forma,  che precedono sempre di necessità, e per i limiti della capacità umana di aggiornare la propria mentalità consuetudinaria,  le riforme effettive e l’umanizzazione [12] delle procedure punitive.   In sostanza, tra i canti di lode verso Beccaria, e i suoi successori e critici in suo sostegno, e le effettive esecuzioni, soprattutto – anche qui !! -  dallo “spirito” dello scritto del Beccaria alle pratiche penali,  il passo è lungo, ed è proprio qui in questa fase dal momento teorico a quello pratico che si scoprirà il processo involutivo, soprattutto in determinate fasi  -  ben notoriamente forti e difficili  -  che seguiranno il periodo pacifico  dell’Illuminismo a quello rivoluzionario e violento.
      Ma anche nel periodo più pacifico, non mancarono al Beccaria opposizioni, non sulla tortura che almeno a scopo inquisitorio viene formalmente abolita in gran parte degli Stati europei (mentre rimane come forma punitiva, come sopra e alla nota 11 ho ricordato), ma sulla pena di morte nel caso di crimini di sangue:  ci si limita quasi sempre ad adottare pene mortali che non comportino particolari ed eccezionali sofferenze, come nei supplizi adottati ancora nel pieno Settecento (cfr.  l’orrendo squartamento del tentato regicida  Robert-François  Damiéns  in Francia, o la fine  di Jean Calas [13],  giudicato, dopo l’esecuzione alla ruota, del tutto estraneo alla morte del figlio Marcantonio, dovuta a suicidio, e non ad una  punizione paterna per vietargli la conversione al cattolicesimo).   Quindi, taluni furono favorevoli all’abrogazione del supplizio (che è tortura e sofferenza fino alla morte), ma non di una rapida esecuzione che comporti comunque la morte (da questo concetto verrà ideata la ghigliottina), quale pena per un delitto di sangue (sembra essere un corrispettivo di tipo biblico:  morte per morte,  ma non lo è se non in apparenza.  Come fare a compensare l’assassinio multiplo con la morte di uno solo ? e come far capire che alla morte tutti, talvolta anche innocentissimi e giovanissimi esseri umani,  siamo condannati ?). 
     Bisogna comprendere una cosa:  nei tempi di cui parliamo, la libertà di pensiero, di parola, di stampa erano ancora ideali ben lontani dall’essere praticati fino in fondo.  Se ben guardiamo, ahinoi !!!, lo sono poco tuttora, sebbene proclamati a parole, in slogans,  nelle costituzioni e nelle leggi, e nondimeno, se qualcuno esprime idee non correnti tra i grandi poteri dominanti, pur non essendo arrestato, ammazzato, torturato, viene boicottato, isolato, non ascoltato:  l’effetto è forse ancora  maggiore.  Il disgraziato non può nemmeno lamentarsene e gli storici futuri  potranno al massimo  dire che i suoi contemporanei furono degli idioti a trascurare quelle critiche.  Ma è già una consolazione che non venga maltrattato, bastonato, ucciso, e quindi si passa oltre.  E’  un metodo ipocrita, subdolo, ma estremamente efficace. Possiamo ora meravigliarci se in secoli di dispotismo, di tirannide,  gli scrittori pubblicavano spesso con pseudonimi o in forma anonima i propri scritti, in tipografie alla macchia, senza editori pubblici o ufficiali, e, malgrado ciò,  rischiando la vita ?   Possiamo forse criticarli o condannarli se esprimevano il loro pensiero in forme tortuose, talvolta contraddittorie o variamente interpretabili, per evitare censure e violenze ?   Ad essere onesti, cercando di capire i tempi, non solo non possiamo e non dobbiamo farlo,  ma dobbiamo guardare ai nostri, di tempi, per capire che, violenze a parte,  non siamo in condizioni granché diverse.    Resta pertanto il fatto che è difficile capire fino in fondo  quanto sinceri siano determinati pensatori a criticare determinate espressioni e convinzioni del tutto nuove, se non perfino rivoluzionarie, per cui erano costretti ad andare con i piedi di piombo  nell’esprimersi a favore di questa o di quella teoria, rigettata invece dalle somme autorità del tempo.  Una strada era aperta, certo:  ma era lunga e non sempre con tratti larghi e rettilinei.  Il Settecento, come l’Ottocento,  è un grande periodo che noi giustamente vediamo dominati da giganti, ma non possiamo dire, come di sé dissero i monaci di Chartres ,  “siamo nani sulle spalle dei giganti:  più piccoli di loro però, grazie alla loro statura  vediamo più lontano”.  Il secolo XX e, forse peggio sebbene iniziato da nemmeno due decenni, il XXI secolo,  rappresentano la visione, non di nani “sulle spalle dei giganti”,  bensì di virus e di prioni sotto le suole dei giganti [14].


Capitolo II:    Il dibattito contemporaneo e successivo sull’opera di Beccaria.

        Dunque ad essere esatti, dobbiamo cercare di comprendere come il pensiero di quei critici successivi di Beccaria, ma suoi contemporanei, erano costretti a sminuire la validità di quanto asserito dal Beccaria (il quale a sua volta non era del tutto un eroe, infatti la prima edizione del suo scritto era appunto anonima, e solo in un secondo momento venne pubblicato  il nome dell’autore:  d’altro canto egli stesso era al servizio del regime absburgico del tempo, che se ne servì quale consulente in materia economica), per timore di misure penali contro di loro.  Altri,  come pensatori inglesi [15], privi in parte dei condizionamenti politici subìti dai “continentali” europei, nondimeno  non erano del tutto sfavorevoli alla tortura come pena (e non come metodo di indagine, ma per chi deve sopportarla, non è che la cosa cambi di parecchio,  e che tale motivazione possa averli confortati).  Eppure il problema, in un senso o nell’altro venne discusso ed esaminato a fondo, come oggi non avviene: oggi si procede per motti pubblicitari,  twitters,  interventi istintivi, più che ragionamenti,  reazioni del momento, frasi fatte.  Molti contrari in generale alla pena di morte, alle torture e alle violenze,  di fronte a casi di cronaca particolarmente cruenti o truculenti  si scatenano nel proporre torture,  e supplizi straordinari:  ci si deve preoccupare limitatamente, perché il più  delle volte sono sfoghi verbali ed emotivi.  Invitati a fare essi stessi i boia, cercherebbero di fare gli assenteisti:  ma è pure un segno che l’essere umano ha in sé qualcosa di brutale, e solo accorgendosene di volta in volta, può controllare questi suoi impulsi maligni .
     Torniamo a Beccaria e ai suoi tempi:  ebbe molto sostegno oltre che da Voltaire,  anche da Denis Diderot [16],  d’Holbach, e da Helvétius.   Non meno complesso fu il lavoro critico degli Illuministi italiani.  Va ricordato tanto Pietro Verri, per le sue “Osservazioni sulla tortura”, in sostegno  a quanto scritto dall’amico Beccaria, dove qualifica il buon Giustiniano “un imbecille principe greco” [17]:  oggi una cosa del genere, in nome della politically correct,  susciterebbe scandalo.  Cesare Beccaria si era limitato a criticarne l’opera senza farne il nome;  Verri va ben oltre, a torto o a ragione non discuto, anche se il senso storiografico del Verri  non è quello di uno storicista, che cerchi di comprendere mentalità e tempi, pur criticandoli (non si può pretendere da un pitecantropo e neppure da un neardentalense di dettare  una “critica della ragion pura”  o di fare buone e sante leggi…).   Probabilmente il Nostro,  più che contro la mancata intelligenza di Giustiniano, non storicamente deprecabile (in fin dei conti, ciò che egli tentò, sull’esempio di Teodosio II,  fu il riordinamento e la razionalizzazione,  temi illuministi !!!,  della legislazione romana dalle XII Tavole fino ai suoi tempi),  volle rivolgersi indirettamente contro coloro che perpetuavano una mentalità arcaica, ricopiando i giuristi di Giustiniano, come se non fossero trascorsi circa 1200 anni e una valanga di eventi.   Pensare che vi sono tuttora alcuni, che, nel XXI secolo, non solo conservano una mentalità vecchia di 1500 anni, ma vorrebbero addirittura mantenere lo stesso modo di concepire, formulare ed applicare la legge, contro lo spirito codicistico e razionalizzatore.
       Oltre a Pietro andrebbe ricordato il fratello Alessandro sempre in materia di filosofia del Diritto penale.
     Approfondisco  in tali materie  due autori,  il grande Jean-Jacques Rousseau  e il nostro Gaetano Filangieri.   Rousseau, a quanto risulta nei testi per me disponibili (l’edizione  Sansoni delle sue Opere del 1972, in traduzione italiana),  non pare essersi occupato direttamente o esplicitamente di Beccaria, anche se vive   fino al 1778, quindi ben 14 anni dalla pubblicazione “Dei Delitti e delle Pene” e delle conseguenti discussioni, ma ugualmente il suo pensiero, quantunque complesso, sull’argomento  può essere stato a favore di un rinnovamento critico del Diritto [18].   Vediamo ad esempio nel suo celebre “Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza” del 1753/54, indirizzato  ai dirigenti dell’allora indipendente Repubblica di Ginevra,  la nota XIX con cui egli conclude le sue lunghe osservazioni:
“ La giustizia distributiva si opporrebbe anche a questa uguaglianza rigorosa dello stato di natura, quando fosse praticabile nella società civile;  e siccome tutti i membri dello Stato debbono a questo servigi proporzionati alle loro capacità e forze, i cittadini a loro volta debbono venir distinti e favoriti in proporzione ai loro servigi…   Ma in primo luogo, non è mai esistita società, qualsiasi grado di corruzione avesse potuto raggiungere, nella quale non si facesse alcuna differenza fra i malvagi e gli uomini dabbene;  e in fatto di costumi, in cui la legge non può fissare una misura abbastanza esatta da servir di regola al magistrato, molto saggiamente, per non lasciare la sorte o la classe dei cittadini a sua discrezione, essa gli interdice il giudizio sulle persone [in se stesse], per non lasciargli che quello sulle azioni…  Spetta alla stima pubblica di differenziare  i malvagi dagli uomini dabbene.  Il magistrato non è giudice che del diritto rigoroso[formale, positivo];  ma il popolo è il vero giudice dei costumi, giudice integro e anche illuminato su questo punto, che viene talvolta ingannato, ma non si lascia mai corrompere [qui sentiamo il fondamentale “ottimismo” di Rousseau:   in realtà anche il popolo, nella sua grande maggioranza, può essere corrotto dalla propaganda o dalle usanze di regime;  ma lo è sempre meno  che non i suoi governanti].  Le classi dei cittadini devono dunque essere regolate, non sul loro merito personale, ciò che sarebbe un lasciare al magistrato il modo di fare un’applicazione quasi arbitraria della legge, ma sui servizi reali che rendono allo Stato,  che sono suscettibili di una valutazione più esatta “ [19] .
     A Voltaire il 18 agosto 1756, parlando del terremoto di Lisbona e dell’ottimismo di Leibniz, che Voltaire aveva deriso nel suo “Candide” [20], risponde :
“… Da parte mia, noto ovunque che i mali cui la natura ci assoggetta sono assai meno crudeli di quelli che le attribuiamo.
    Tuttavia, per quanto ingegno possiamo impiegare per aggravare le nostre miserie a forza di belle istituzioni, non siamo riusciti, sino ad ora, a perfezionarci al punto da renderci insopportabile la vita, e da farci preferire all’esistenza il nulla.  Altrimenti lo scoraggiamento e la disperazione si sarebbero ben presto impossessati della maggior parte di noi, e il genere umano non sarebbe sopravvissuto a lungo.  Ora, se è meglio per noi esistere che non esistere, basterebbe questo a giustificare la nostra esistenza, anche se non ricevessimo alcun risarcimento dall’attesa dei mali che dobbiamo soffrire, e anche se questi mali fossero così grandi come li descrivete…  costoro [ossia, esseri umani e filosofi], quando confrontano i beni e i mali, dimenticano sempre il dolce sentimento dell’esistenza…,  mentre la vanagloria di disprezzare spinge gli altri a calunniare la vita…
…   In altri termini, ciò significa che per chi sente la propria esistenza è meglio esistere  che non esistere.  Ma questa regola bisogna applicarla alla durata reale di ogni essere sensibile, e non ad alcuni istanti particolari della sua durata, quali la vita umana…
    FRAMMENTO….
… Il dogma è nulla, la morale è  tutto, Dio non esige affatto da noi di credere giacché non ce ne dà il potere, ma esige la pratica della virtù poiché ognuno è padrone delle proprie azioni.  In breve, se qualcosa potesse provarmi l’esistenza del Diavolo, questo sarebbe rappresentato dall’orribile dogma dell’intolleranza…
…  L’autorità di ogni governo umano si limita per sua natura ai doveri civili, e nonostante … Hobbes, quando una persona serve bene lo Stato, non deve rendere conto a nessuno del modo in cui serve Dio” [21] .
        Le osservazioni di Rousseau a Voltaire, qui riportate,  indicano implicitamente la convinzione che chi vive, in quanto vive, ha diritto di vivere finché  madre Natura non lo tolga di mezzo.  La vita, di per sé,  è un bene insopprimibile, e non c’è ragione  che essa venga soppressa dall’uomo .
       Uno dei motivi per apprezzare il Settecento è anche il fatto che, forse per la prima volta nella storia,  si formulano progetti  per la pace perpetua, dopo le devastazioni del secolo precedente e quello del secolo allora corrente. Uno di questi progetti, che sarà poi riesaminato anche da Kant,  fu quello dell’abate di Saint-Pierre, ricevuto e diffuso dallo stesso Rousseau, il quale ne scrisse un estratto e un commento nel 1760.  Ora non mi occupo qui del tema, che pure sarebbe interessantissimo anche per la questione penale (una società in pace perpetua, esterna ed interna, non avrebbe neppure bisogno di codici penali, in quanto vi si dovrebbe vivere senza crimini, almeno non cruenti),  ma desidero citare le osservazioni di Rousseau espresse come riassunto e commento del lavoro di Saint-Pierre :
“… Se volessi approfondire la nozione di stato di guerra dimostrerei agevolmente come esso non può risultare che dal libero consenso delle parti belligeranti;  come, se l’una vuole attaccare e l’altra non vuole difendersi, non esiste stato di guerra [non guerra dichiarata, ci sarebbe da aggiungere, come si usò fino alla Seconda Guerra Mondiale], ma soltanto violenza e aggressione;…  questo libero consenso reciproco è necessario anche per ristabilire la pace …  Potrei mettere in questione se le promesse strappate con la forza e per evitare la morte siano vincolanti nello stato di libertà, e se tutte quelle fatte dal prigioniero al suo padrone possa significare altro da questo:  ‘Mi impegno a obbedirvi per tutto il tempo che essendo il più forte voi non attenterete alla mia vita’ [questo sarebbe valido sia per i prigionieri, schiavizzati, di guerra,  sia per persone sottoposte a prigionia come pena].
    Vi è di più….  Il preteso diritto di schiavitù al quale sono soggetti i prigionieri di guerra è senza limiti,  I giureconsulti [da sempre adoratori della forza e della sopraffazione] lo hanno formalmente deciso.  Non vi è niente, dice Grozio, che non si possa impunemente far patire a simili schiavi.  Non vi è alcuna azione che non possa loro essere comandata o alla quale non possano essere costretti con qualsiasi mezzo.  E se, facendo loro grazia di mille tormenti, ci si accontenta di esigere che portino le armi contro il loro paese, io chiedo a che cosa debbano adempiere:…  Disubbidiranno ai loro padroni o massacreranno i loro cittadini ?....”[22] .
    Nel celebre “Contratto Sociale”,  pubblicato nel 1762,  riprende il tema del rapporto tra diritto di vita e quello dello Stato di toglierla o limitarla :
“ Si domanda come i privati, non avendo diritto  di disporre della propria vita, possano trasmettere al sovrano questo stesso diritto, che essi non hanno.  Questo problema… è posto male.  Ogni uomo ha diritto di rischiare la propria vita per conservarla.  Ha mai detto nessuno che chi si getta da una finestra per sfuggire a un incendio sia colpevole di suicidio [23] ?...
    Il trattato sociale ha per fine la conservazione dei contraenti…  Chi vuol conservare la sua vita a spese degli altri, deve anche darla per essi quando occorra…
    La pena di morte, inflitta ai criminali, può essere considerata press’a poco sotto lo stesso angolo visuale:  per non essere vittima di un assassino si consente a morire se tale si diventi.  In questo trattato, lungi dal disporre della propria vita,  non si pensa che a garantirla…
     D’altra parte ogni malfattore, attaccando il diritto sociale, diventa, pei suoi misfatti, ribelle e traditore verso la patria; egli cessa di esserne membro, violandone le leggi;  anzi le fa guerra.  Allora la conservazione dello Stato è incompatibile con la sua;  bisogna che uno dei due perisca; e quando si fa morire il colpevole, lo si uccide non tanto come cittadino, quanto come nemico. Le procedure, il giudizio sono le prove e la dichiarazione che egli ha rotto il trattato sociale, e, per conseguenza, non è più membro dello Stato…  egli deve esserne tagliato fuori con l’esilio come violatore del patto, o con la morte, come nemico pubblico…
   Del resto, la frequenza dei supplizi è sempre un segno di debolezza o di pigrizia nel governo. Non c’è malvagio che non si potesse rendere buono a qualcosa. Non si ha il diritto di far morire se  non chi non possa essere conservato senza pericolo [il neretto mio.  Qui Rousseau usa un’argomentazione molto vicina a quella di Beccaria -   24] …”.
      Il pensiero di Rousseau, all’inizio del capitolo, sembrerebbe quasi orientato a sostenere la pena di morte:  in realtà egli prima delinea mentalità giudiziaria e sistema vigenti,  poi  espone il proprio pensiero.  Come Beccaria, che pubblica il suo saggio due anni dopo ma non so se conoscesse il lavoro di Rousseau,  quest’ultimo sostiene che solo un’estrema pericolosità, tale da impedire la sopravvivenza degli altri  (implicitamente, vi si esprime il principio della legittima difesa dell’individuo,  come dello Stato),  consentirebbe di uccidere qualcuno.  Ora, se questo è comprensibile nella lotta fisica tra due o più persone o in guerra tra eserciti che si scontrano,  molto più difficile è sostenerlo nel caso di uno o pochi individui contrapposti alla potenza di uno Stato intero, che ha ogni mezzo per rendere innocui ed impotenti pochi individui.
Nel successivo capitolo, egli poi fa interessanti osservazioni sulla nascita dello Stato, in quanto  fondato sulla Legge, e la Legge stessa ha, o dovrebbe avere,  a fondamento la Giustizia:
“….
     Ciò che è bene e conforme all’ordine, è tale per la natura stessa delle cose e indipendentemente dalle convenzioni umane.  Ogni giustizia vien da Dio [il neretto è mio].  Egli solo ne è la fonte:  ma se noi sapessimo riceverla così dall’alto, non avremmo bisogno né di governo,  né di leggi [è, in certa misura, la giustificazione dell’anarchia, per cui non c’è bisogno nell’uomo e nell’umanità di un potere che imponga la giustizia la quale, essendo innata nell’uomo, non ha altro che l’uomo e l’umanità nella loro essenziale natura a cui obbedire.   La tesi di Rousseau non giunge esplicitamente a questo, in quanto riconosce la corruttibilità dell’uomo, e l’esigenza quindi di un’entità superiore che lo diriga].  Senza dubbio vi è una giustizia universale, emanata dalla sola ragione;  ma questa giustizia, per essere ammessa fra noi, deve essere reciproca. Per considerare le cose umanamente, in mancanza di sanzione naturale le leggi della giustizia sono vane tra gli uomini;  esse non fanno che il bene del malvagio e il male del giusto, quando questi le osservi con tutti quanti, senza che nessuno le osservi con lui. Occorron dunque convenzioni e leggi, per unire i diritti ai doveri, e ricondurre la giustizia al suo oggetto…” [25].
      Proprio per definire  lo Stato,  egli giunge a quella “volontà generale”, che tanto ha fatto penare gli interpreti, soprattutto per la distinzione e contrapposizione con la “volontà di tutti”:  ora, mentre la seconda è la volontà che si determina sommando voti ed opinioni di ciascuno nel metodo democratico formale e quantitativo,  volontà  generale è qualcosa di più indeterminato. Potrebbe, anche se difficilmente, essere espressa da uno solo (un re, un dittatore), oppure da un singolo gruppo e dall’intero popolo.  Come dice nella nota (con asterisco),  il governo deve essere “guidato dalla volontà generale,  che è la legge…” [26].  Ma la Legge, in quanto tale, è ciò che più si avvicina al principio della Giustizia.  L’analisi poi che Rousseau fa della Legge, in quanto volontà generale  del popolo  che deve esprimerla ed eseguirla,  è abbastanza complessa:  egli si rende ben conto che un popolo rincretinito, corrotto o puramente passivo, che esegue le cose come l’asino bendato alla mola (povera bestia !),  non esprime né tantomeno esegue una “volontà generale”.   La democrazia, diretta o indiretta, se è tale deve essere espressa da un popolo moralmente, civilmente, politicamente colto. Un popolo non può governare se non ha gli strumenti morali, civili, intellettuali per farlo:  altrimenti, votare che cosa, per chi, a quali scopi ?  Le false democrazie, oggi il sistema dominante nel pianeta,  lasciano al popolo il solo diritto di voto, che poi è un “vuoto”, un nulla, una penosa ricerca del meno peggiore, persona o cosa che sia.  Ecco quindi il principio, che sarà poi presente con tanta insistenza anche in Mazzini,  “educarsi”, che non vuol dire semplicemente leggere o applicare un galateo o qualche manuale di igiene o fare sport:  vuol dire sapere di essere uomo, di avere il dovere di dimostrarlo a sé e agli altri, compiere i propri doveri di cittadino, conoscere i princìpi di funzionamento della società e dello Stato:  rispettare e farsi rispettare.  L’elenco sarebbe lunghissimo, ma penso che il concetto di Rousseau, e dei democratici che ne svilupparono il pensiero nel XVIII e XIX secolo,  sia abbastanza comprensibile.  Tale educazione è una conditio sine qua non”, ineliminabile e fondamentale,  se si vuole istituire una democrazia, che è lo stesso che dire “repubblica”, nel senso originario del termine latino [27],  ovvero governo del popolo, per il popolo, con il popolo,  nella dizione sia di Lincoln (che,  vedi caso !,  è tra i fondatori del Partito Repubblicano, ed antischiavista, degli USA),  sia di Mazzini .    E non è neppure un caso che, forse, la sua opera quantitativamente e qualitativamente più importante di Rousseau, abbia natura pedagogica, ovvero l’”Emilio o Dell’Educazione” (1758 – 1761):  perché solo l’educazione forma il cittadino, prevenendo per quanto possibile anche l’abuso e il delitto.  A differenza di quanto sostenne Seneca e i suoi seguaci,  la funzione della pena, di qualunque genere, sia pure proporzionata, ha ben scarso valore di prevenzione del delitto.    Se un uomo si forma lasciando dominare i propri istinti, non controllati dalla coscienza logica e morale, dalla Ragione teoretica e pratica (per dirla con Kant), nessuna pena lo farà desistere dai suoi abusi, sperando sempre di sfuggirvi, magari versando lacrime coccodrillesche:  solo un’educazione, che agisca nel profondo,  che si sviluppi dalla nascita e prosegua fino alla morte,  può veramente  spingere l’uomo ad agire per il bene, privato e pubblico,  ad evitare  il male e il delitto.   Ridotta la questione ai minimi termini, si può dire che, mentre la giurisprudenza e il Diritto mirano all’uomo com’è e come non dovrebbe essere,  la pedagogia e la scienza dell’educazione mirano a ciò che l’uomo deve essere e diventare .
    Vediamo ora il “Progetto di costituzione per la Corsica” (meditato e pubblicato tra il 1764 e il 1765,  su richiesta del capitano Matteo Buttafuoco, aiutante maggiore del Reggimento Reale Italiano  - è pur curiosa questa denominazione, considerato che allora, durante la celebre rivolta di Pasquale Paoli,  i Còrsi  combattevano contro i Genovesi per la propria indipendenza.  Com’è  noto, la Corsica venne allora venduta letteralmente dalla Repubblica di Genova alla Francia, non potendo riconquistare l’isola.  Napoleone nacque francese per un solo anno di differenza),  che Rousseau  propone agli indipendentisti còrsi,  e in cui delinea  le istituzioni politiche ed economiche che li rendano, non solo liberi e capaci di autogoverno, ma anche sufficientemente e proporzionatamente agiati.  Bisogna evitare la contrapposizione tra pochi grandi ricchi e i molti miserabili e morti di fame.  Occorre un equilibrio sociale, e tale equilibrio previene quindi il delitto:  al III capitolo, dei frammenti sull’argomento, egli sostiene:
“Nessuno potrà essere messo in prigione per debiti, e anche negli eventuali sequestri in casa di un debitore gli si lasceranno, oltre agli abiti per coprirsi, il suo aratro, i suoi buoi, il suo letto e i suoi mobili più indispensabili…” [28],
dal che si deduce che ancora nel ‘700 avanzato si poteva finire in carcere per i debiti e perdere ogni bene, compresi i vestiti !   A prova del suo egualitarismo e dell’esigenza che ogni cittadino sia in grado di assolvere agli incarichi  pubblici,  annota:
“  Nessuno deve essere magistrato per stato o soldato per stato [ovvero, quale condizione sociale], ma tutti devono essere indistintamente pronti ad adempiere le funzioni che la patria gli impone.  Non vi può essere nell’isola nessuno stato permanente che non sia quello di cittadino…” [sempre nota 28] .
    Ancora:
“ Ogni litigante che avrà rifiutato l’arbitraggio degli anziani o che, pur avendolo accettato, si rifiuti di attenersi al loro giudizio, se perde il suo processo fatto secondo giustizia, verrà segnato e non potrà esercitare per cinque anni nessun impiego pubblico” [29] .
      Quindi, solo un’interdizione dai pubblici uffici, anche se non è ben chiaro il livello eventuale di gravità del contenzioso a cui si accenna, mentre è chiaro che Rousseau  non ha l’animo di un giurista.   Altre osservazioni si potrebbero trovare in testi ulteriori, ma, anche per l’economia del presente lavoro,  penso che le citazioni siano sufficienti a dimostrare che Rousseau  deplora il sistema penale vigente in Francia e nell’intera Europa;  ascrive la causa dei delitti a ragioni essenzialmente sociali, all’ignoranza e alla corruzione determinate proprio  da un cattivo sistema politico, e che questo si possa fortemente ridurre, se non evitare del tutto,  con un sistema democratico inteso nella sua accezione non puramente formale, numerica, ma sostanziale e profonda .
    Certamente, non meno interessante  è il pensiero giuridico di Gaetano Filangieri,  di quella Scuola napoletana che, partendo da Vico,  finirà per confluire in tutto il moto pre-risorgimentale (cosiddetto “giacobino”, dove di “giacobino” esisteva ben poco, essendosi costituito apertamente solo con la Prima Campagna d’Italia di Napoleone 1796 – 98, quando dei giacobini  francesi non restava pressoché nulla…) e risorgimentale vero e proprio.  Qui non è il caso di dilungarsi nella questione, si rinvìa  il tutto ai testi “Letteratura Italiana Laterza”, particolarmente i voll. 35, 38, 39, 40, 44, 45, 48, 49 e 50;  oppure  sul medesimo argomento i notevoli  volumi dell’editrice Bompiani.    Mi piace però qui rilevare, ancora una volta,  di quale alto livello fosse il pensiero italiano, anche in un secolo come il Seicento o la prima metà del Settecento, in cui l’Italia sembra arretrata.   Per quanto spesso costretti ad esprimersi in forme “barocche”,  gli scrittori del Seicento preparano la strada all’Illuminismo: lo stesso Vico, se vien letto nelle due versioni della “Scienza Nuova” (1725 e 1744),  mostra un’evoluzione notevole, che dimostra quanto falsa fosse la tesi di un’Italia chiusa in sé, isolata o, tutt’al più, completamente subordinata alla Spagna.  Molte infatti sono le analogie tra il pensiero di Leibniz e quello di Vico (sui punti metafisici,  alias monadi;  su una nuova valutazione della storia, ecc.),  nonché  il confronto del Vico con Samuel Pufendorf in materia di Diritto.  Celebre la critica serrata all’”io penso” di Cartesio.  Vari sarebbero i temi e i momenti in cui si dimostra come il pensiero italiano dell’epoca, sebbene durasse ancora per qualche tempo il dominio spagnolo, era tutt’altro che chiuso ai temi europei.  Così a seguito  di Vico, e di un altro ma meno celebre pensatore, il friulano Jacopo Stellini,  si pongono le basi di un Illuminismo italiano che è tutt’altro che copia servile del’Illuminismo francese, e non meno rilevante di questo, come di quello tedesco o inglese.   Vediamo  un Sigismondo Gerdil,  che critica Rousseau sull’educazione di Emilio,  e viene apprezzato  dallo stesso Rousseau;  vediamo Giuseppe Baretti che, in ottimo francese, critica Voltaire difendendo l’arte di Shakespeare, preludendo alla rivalutazione romantica  del grande drammaturgo inglese;  e vediamo la notevole serie di economisti  italiani, apprezzati e citati all’estero, tra cui lo stesso Beccaria, “nato”  economista, piuttosto che filosofo del Diritto.
      Dunque, Gaetano Filangieri:  filosofo napoletano, nobile, morto molto giovane (35 anni !!), e già celebre internazionalmente:  le sue opere vennero tradotte in francese, tedesco ed inglese.  Egli si pone come critico di Montesquieu,  in quanto questo grandissimo  pensatore francese, più che proporre un nuovo sistema di legislazione, si limita ad esporre e a criticare (moderatamente, per forza di cose e di tempi !)  i sistemi giuridici pubblici e privati dell’Europa occidentale (Francia e Gran Bretagna soprattutto, ma anche in parte gli Stati italiani), ad esporne princìpi comuni e diversi.  Si capisce bene che Montesquieu combatte quei sistemi arcaici, ma lo fa in modo velato.  Ne riparleremo trattando della Francia rivoluzionaria, soprattutto nei rapporti tra  potere legislativo ed esecutivo. Gaetano Filangieri ha l’audacia del giovane,  ma pensiero e cultura molto maturi.  La sua opera principale  è  “La Scienza della Legislazione” [30], che vuol essere una proposta, non sempre congrua è vero, ma pur tuttavia molto interessante, di slegarsi dalla tradizione teorica e metodologica del vecchio Diritto “comune”  (ovvero, giustinianeo) sentito sempre più come arcaico e superato (e nondimeno tuttora persistente come mentalità di base nelle Facoltà mondiali di giurisprudenza…) dagli Illuministi creando una “Scienza della Legislazione”  più idonea alla Rivoluzione scientifica del Seicento e del Settecento:  una legislazione di natura pubblica e privata, non più fondata sulle irragionevoli  consuetudini alto- e basso medioevali, ma sulla Ragione pura, sulla Logica vera e propria, sulla Scienza, così per i contenuti, come per i metodi.  C’era riuscito almeno in teoria ?  Non lo si può affermare con pienezza, ma non dobbiamo dimenticare che alla sola età di 35 anni, dopo aver scritto un’opera così vasta e dettagliata il grande Filangieri morì, lasciando ai suoi eredi ideali, cosiddetti “giacobini”,  come Francesco Mario Pagano e Vincenzio Russo,  il compito di proseguire il suo lavoro [31].
     Così scrive nell’ “Introduzione”“…  Non si è pensato a premiare l’agricoltore che ha tirato due solchi nel mentre che gli altri ne tirano che un solo:  ma si è raddoppiato il soldo all’artigliere che ha avuto l’arte di caricare un cannone fra lo spazio di 4 secondi.  Noi ci siamo addestrati tanto in un mestiere così distruttore, che noi siamo in stato di distruggere ventimila uomini fra lo spazio di pochi minuti [siamo nel XVIII secolo:  le guerre nazionali, che cominciano proprio con la Rivoluzione Francese,  non erano ancora arrivate e, nondimeno, i soliti furbacchioni ritengono di poter attribuire al “nazionalismo”  la colpa delle guerre.  A Canne (II secolo a C.),  secondo quanto riportato  da Tito Livio, erano morti in feroce battaglia 50.000 uomini, fra Romani,  Cartaginesi e loro alleati !    E’  significativo che un Filangieri, quantunque non antimilitarista (anzi, fa del servizio militare una forma di educazione civica),  condanni  le guerre e l’arte militare con l’unica funzione di conquista e di sopraffazione,  e veda negativamente il preferire l’arte della morte a quella della vita.  Jonathan Swift, nei famosi “Viaggi di Gulliver”, sempre nel XVIII secolo analogamente elogiava con sarcasmo un nuovo esplosivo britannico capace di far saltare in una volta 25.000 uomini.  La specie umana, dai tempi  dell’homo neandertalensis e dell’homo sapiens sapiens (!!!),  si è sempre specializzata in stragi e massacri]. La perfezione dell’arte la più funesta all’umanità ci fa vedere senza dubbio un vizio nel sistema universale de’  governi.
    E’  più d’un mezzo secolo che la filosofia declama contro questa manìa militare…
   Gli errori della giurisprudenza ci circondano:  ogni scrittore procura di rilevarli
[il neretto è mio];  e da un’estremità dell’Europa all’altra non si sente altro che una voce, la quale ci dice che le leggi del Lazio non giovano più all’Europa…
… questa uniformità [delle leggi] non si può più ritrovare in una legislazione fatta tra lo spazio di ventidue secoli, emanata da diversi legislatori in diversi governi a nazioni diverse, e che partecipa di tutta la grandezza de’  Romani, e di tutta la barbarie de’  Longobardi.
…  La legislazione doveva dunque essere un oggetto troppo sublime, e troppo complicata per un’anima avvezza a non confondere altro cielo, se non quello  che l’aveva veduto nascere né altra specie di governo, né altri interessi, se non quelli di un tiranno che la opprimeva.  In questo stato di cose non sarebbe nato né un Montesquieu, né un Locke…
 …  L’utilità pubblica richiedeva che si estirpasse tutto quello che si opponeva a’  progressi de’  lumi e delle cognizioni, senza de’  quali ogni riforma e particolarmente quella delle leggi, sarebbe stata difettosa e funesta… Per ottener questo fine la filosofia è venuta in soccorso de’ governi, ed ha prodotto gli effetti più salutari…
…  se finalmente per ottenere una riforma nella legislazione, bisognava prima d’ogni altro scagliarsi contro l’inopportunità delle leggi antiche [il neretto è mio.  Filangieri quindi sottolinea l’esigenza di spezzare i legami con i sistemi consuetudinari ormai superati.  Come si vedrà, però il problema  andava e va tuttora oltre:  ciò che va combattuta è una mentalità arcaica, primitiva, tuttora sussistente nel Diritto in ogni suo settore, e che inficiava ed inficia ogni tentativo di creare non tanto una legislazione “nuova”,  quanto una legislazione effettivamente migliore, diremmo più razionale e scientifica,  più idonea ad applicare metodologie più precise per determinare cause, fatti e scopi in sede giudiziaria.  Proprio per non essere stati capaci di ciò,  gli Illuministi verranno traditi: si applicherà il sistema del “gattopardo”, cambiare l’apparenza, per mantenere la sostanza], contro i mali che un’amministrazione difettosa e imbecille [torna l’attributo che Verri applicò al sistema giustinianeo, più che a Giustiniano in quanto tale] ha cagionato alle nazioni, non è stato un picciolo ostacolo quello che noi abbiamo superato, arrogandoci il dritto di pensare e di scrivere con una libertà che fa… onore a’  Principi… [ovviamente, quelli che la consentono, e finché la consentirono, come noi, posteri rispetto a Filangieri,  sappiamo anche troppo bene]…” [32] .
      Ecco ora il riferimento critico a Montesquieu :
“… non prendendo di mira che una sola parte di questo immenso edificio, chi, come Montesquieu,  ha ragionato piuttosto sopra quello che si è fatto che sopra quello che si dovrebbe fare [per Filangieri, Montesquieu  si era limitato ad esporre una descrizione, seppure in parte critica,  dei sistemi vigenti, soprattutto occidentali,  e non a proporre nuovi e più razionali sistemi con cui sostituire i vecchi]; ma niuno ci ha dato ancora un sistema compiuto e ragionato di legislazione, niuno ha ancora ridotto questa materia ad una scienza sicura e ordinata, unendo i mezzi alle regole, e la teoria alla pratica… La Scienza della Legislazione…”[33].
      Ecco dunque la profonda intuizione, non nuova in senso assoluto, ma rimasta del tutto allo stato potenziale,  che Filangieri  esprime nello spirito progressivo e progressista dell’Illuminismo autentico:  non basta criticare formalmente, non basta raccogliere le leggi in “codici” o compilazioni più o meno ordinate,  non bastano  riforme  più o meno positive, se non si giunge allo spirito, alla sostanza della questione.  Bisogna che il Diritto, da pura formulazione di norme variamente interpretabili e variamente applicate, diventi un rigoroso sistema scientifico, che adotti metodi scientifici,  che si trasformi in una Scienza della Legislazione  di natura non unilaterale e monodisciplinare,  abitudinaria,  ma multilaterale,  multidisciplinare ed interdisciplinare,  capace di recepire, assorbire, criticare  le esigenze individuali e sociali, le metodologie opportune, l’incontraddittorietà  delle norme, la loro semplificazione  nella misura idonea ai tempi e alle situazioni storiche,  e così via.  Un ideale insomma tuttora ben lontano dall’essere realizzato.  Ciò a cui Filangieri, e forse nessuno, non arriva,  è l’esigenza prima ancora di rideterminare la formazione e la mentalità del giurista che resta abbarbicato ad una cultura,  spesso ridipinta,  spesso re-intonacata,  ma mai radicalmente modificata, né tanto meno migliorata [34] .
      Egli si propone di determinare:  “… in quali circostanze si dovrebbe esigere la confessione del reo, ed in quale maniera cercarla da lui;  se sarebbe finalmente più giusto, più conseguente il trascurarla, che di strapparla dalle sue labbra col soccorso de’  tormenti…” [35].
      Il nostro Autore è quindi nettamente contro l’uso dei tormenti, dalla tortura, ma anche di quei furbeschi trucchi polizieschi  per far dire ciò che si vuole l’interrogato dica (pratiche “suggestive”,  dal suggerire, e non dalla “suggestione” come emozione):  qui è molto vicino a Beccaria.  Ma  va anche oltre quando nega che la minaccia della pena riduca il compimento dei delitti,  e qui è prossimo a Rousseau:
“ Se le leggi criminali impediscono i delitti, spaventando il cittadino colla minaccia delle pene, esse non possono sicuramente far germogliare le virtù.  Quella specie di onestà negativa che deriva dal timore delle pene, si risente sempre della sua origine.  Essa è pusillanima, è vile… incapace di quegli sforzi che richiede la virtù ardita e libera, allorché è ispirata dalle grandi passioni.
    Il timore potrà dunque diminuire il numero de’ delinquenti, ma non farà mai nascere degli eroi…
    L’educazione, considerata come prima di queste forze, richiamerà le prime nostre cure …”  [36] .
      La sola, vera, prevenzione per Filangieri (e, diciamolo pure, per ogni persona ragionevole)  non è data dalla minaccia di sanzioni, le quali sono inevitabili compiuto un qualche reato, proprio perché compiuto;  ma lo è dato da un regime politico ordinato, in cui vigano libertà, eguaglianza, solidarietà,  buone leggi ulteriormente perfezionabili col tempo, ed una formazione culturale del cittadino, che non sia semplice istruzione professionale, anche profonda:  la cultura professionale può avere importanza economica, ma non necessariamente previene la violazione della stessa legge;  se unilaterale, talvolta addirittura facilita le violazioni.  Ciò  che previene ogni tipo di delitto è l’educazione  profonda,  morale, soprattutto, quella che entra nell’animo di ciascuno e fa sì  che miri al Bene piuttosto che al male, all’interesse generale (che è anche proprio),  piuttosto che al solo interesse egoistico, al comodo.   Di qui, l’essenzialità  di un vero sistema scolastico e anche familiare (perché la prima formazione si ha proprio nella famiglia, e non tanto dai predicozzi, quanto dal quotidiano esempio dei familiari:  è  più educativa una famiglia di onesti lavoratori, ancorché eventualmente analfabeti,  che non una famiglia di  professori o di giuristi e scienziati, eventualmente corrotti) .
     Addentrandosi nel tema della legificazione (modo di produrre e scrivere le leggi),  Filangieri riprende Beccaria e Verri e vi aggiunge del suo sulla legislazione ancora vigente  e risalente a Giustiniano:
“…  Lo stato informe della legislazione della maggior parte delle nazioni Europee è stato dipinto co’  colori più vivi.  Composta dalle leggi d’un popolo prima libero…, compilate da un Giureconsulto perverso sotto un Imperatore imbecille, accoppiate ad un immenso numero di leggi particolari che si contradicono, di decisioni del foro che le eludono…capricci dell’ignoranza e della stupidezza nella notte dell’anarchia feudale…
…  non basta persuadere il pubblico contro l’antica legislazione;  bisogna prevenirlo in favore della nuova…”[37] .
     Filangieri propone una cosa allora del tutto nuova,  quella del ”censore delle leggi”, ovvero qualcosa di simile alle moderne Corti Costituzionali,  un Organo  che valutasse la legge sul piano della moralità e logicità, nonché congruità con le esigenze dei tempi. Infatti il Libro I  è soprattutto rivolto a formulare  un Diritto costituzionale, come lo chiameremmo oggi,  con relative Istituzioni, argomento che qui sfioro, ma che non approfondisco.   Interessante rilevare che, analogamente a Rousseau,  egli considera migliore la forma democratica, quanto più diretta possibile,  perché  un popolo è sempre meno corruttibile di un gruppo ristretto (pochi individui, un governo, un Senato)  [38] .
     Nel Libro III  si occupa delle Leggi criminali, partendo dalla procedura, dove approfondisce i princìpi asseriti nell’Introduzione e nelle tracce del lavoro, in essa delineate:
“…  La speranza, o il timore sono i due sostegni delle Leggi. La legislazione criminale non deve maneggiare che l’ultima di  queste due  passioni.  Le pene ch’essa minaccia, spaventano l’uomo che vorrebbe disubbidire alle Leggi, e difendono con questo mezzo la tranquillità degli altri cittadini… libertà civile;  vera e unica libertà, che possa conciliarsi collo stato sociale.
      Ma non sono le sole pene… quelle, che rendono la legislazione criminale atta ad inspirare questa preziosa tranquillità… Se essa non garantisce l’innocente dalle calunnie, se nel tempo istesso, che toglie ogni speranza d’impunità…, non assicura l’innocenza dalle accuse [a questo esattamente servono le garanzie al cittadino nell’investigazione , che tanto infastidiscono la follaccia sanguinaria] mendaci ali di un impostore avveduto,  essa diverrà una spada egualmente spaventevole al cittadino che desidera di violare la legge, ed all’onesto uomo che religiosamente l’osserva.  Le pene… lasceranno sempre un dubbio sulla loro  giustizia [il neretto è mio]…
    Lo spavento dunque del malvagio deve esser combinato colla sicurezza dell’innocente…
     Funestamente per l’Europa, le leggi criminali non ottengono… né l’uno né l’altro di questi due oggetti [ahinoi,  e oggi a distanza di oltre due secoli da queste opere, così lungimiranti, siamo ancora in attesa che le leggi penali colpiscano adeguatamente il criminale, proteggendo le vittime e gli ingiustamente accusati…]. I vizj quasi universali della criminale procedura;  il miscuglio mostruoso de’  principj della Romana giurisprudenza con quelli… del sistema feudale e delle leggi canoniche [leggi della Chiesa che allora influivano notevolmente  sulle leggi “laiche” dello Stato], alcune massime contrarie alla libertà dell’uomo…, adottate quindi come tanti canoni di giudicatura ne’  nostri tribunali, dove con stupida venerazione gli antichi errori e i vecchi pregiudizi si tramandano…;  la dialettica finalmente delle scuole [giuridiche], ... sacrificando la realtà delle cose ad una puerile nomenclatura, fece che la Divinità non meno che la legislazione passasse pe’  fili sottilissimi delle logiche distinzioni, e delle metafisiche sottigliezze…”[39] .
     Si vede dunque che la critica del Filangieri si esercita a 360 gradi  sull’intera formazione giuridica.  Al Capo III egli passa poi ad esaminare la procedura giudiziaria antica (rito accusatorio)  e moderna (rito inquisitorio):   egli dimostra  di apprezzare il primo e a rigettare il secondo per ragioni di segretezza.  Ma, come si vedrà più avanti e come ho già tentato di dimostrare nei precedenti saggi,  anche la procedura accusatoria può subire deviazioni e trasformarsi in calunniatoria e diffamatoria:  su  questa deviazione si fonda il Terrore  del periodo 1793 – 1795  nella Francia rivoluzionaria.  Ma già  ad Atene e nell’antica Roma o nella Palestina ebraica, la procedura  accusatoria  poteva ben assumere questa connotazione, come ho segnalato nei precedenti saggi.  Il difetto, più che nella procedura in sé,  sta nella brama di sopraffazione, di abuso del potere che caratterizza chi deve esercitare tali procedure (e torniamo così alla mentalità umana).
“…  Se se n’eccettui l’Inghilterra…, in tutte le altre nazioni un misterioso e arbitrario segreto accompagna i primi e i più interessanti passi della nostra procedura…  Il cittadino, sul quale cade o l’accusa della parte [lesa e civile], o la dinunzia…, o il sospetto del giudice, ignora ciò che si trama contra di lui;  e se è innocente, non può neppure sospettare della tempesta che si prepara sul suo capo.
… Una mano armata va a sorprenderlo, ad oltraggiarlo ed a condurlo in un carcere, dove ogni comunicazione gli è interdetta… egli ignora ancora… ciò che si è tramato contra di lui.  Debbono passare più settimane, e qualche volta anche de’  mesi, prima che la sua curiosità sia in parte soddisfatta.  La molteplicità degli affari non permette a’  giudici [poveri giudici,  quanta fatica, allora e sempre !  sarà  proprio la Rivoluzione francese a fissare in 24 ore perfino (noi ne abbiamo almeno 48, ripetibili,  come termine per il primo interrogatorio e l’eventuale libertà provvisoria)  questo però solo per il criminale comune, non certo per chi  - secondo l’accusa  - attentava alla sicurezza dello Stato] di farli così presto comparire in giudizio…
     Lo stato dell’accusato, durante questo tempo [e di certo le carceri del XVIII secolo non erano quelle, così lamentate,  dei nostri tempi,  ma alquanto peggiori…], è uno stato di violenza e di tormento…” [40] .
   Seguono poi alcune considerazioni sull’opera del Montesquieu, in merito alle due procedure:  in effetti, Montesquieu  intuisce la possibilità della calunnia nel rito accusatorio, mentre il Filangieri  auspica un sistema che riduca al minimo tale possibilità:  sarà il Terrore  a  smentire il secondo e a dar ragione al primo [41] .
    Ancora, il Filangieri tratta della prescrizione delle denunce, e osserva che potrebbe accadere che vengano presentate dopo vent’anni dal fatto:  nel leggere la cosa, annotai sui miei appunti che difficilmente ciò potrebbe succedere, ma è pur vero che certe denunce su fatti di pedofilìa avvennero molti anni dopo  tali episodi.  Si dovrebbe fissare quindi un periodo di prescrizione non eccessivamente lungo, come quello degli antichi Romani, e non troppo  corto:  l’Autore si orienta sui tre anni della legislazione inglese [41].  Interessante poi quanto segue :
“…  si assolve poi il Magistrato che calunnia ?...
La calunnia è sempre un delitto, e, se è un delitto, deve esser sempre punita [va detto che denunciare di calunnia un giudice,  oltre che un rischio,  tuttora si conclude con silenziose archiviazioni, ad oltre due secoli dall’opera di Filangieri].   L’unico sfogo, che potrebbe concedersi alla parte offesa, sarebbe permetterle di ricorrere al giudice, di querelarsi dell’offesa…, e di obbligarlo a cercarne l’autore…  Quando il delitto è dunque sicuro, e l’autore … ignoto…;  allora dovrebbe essere cura del governo, di scoprirne … il delinquente…”[42] .
      E’  pure d’estremo interesse ciò che poi  la Rivoluzione Francese formalizzerà in forma scritta e che la nostra legge attuale pure prevede sulla custodia cautelare:  ovvero la creazione di istituti diversi per chi deve concludere un determinato iter processuale e chi invece ha subìto una condanna definitiva.  Eppure ancora oggi, malgrado varie attenuazioni,  lo stesso carcere contiene l’accusato ma non definitivamente condannato, e il condannato in via definitiva, con le ben note conseguenze sul piano della diffusione della mentalità criminale:  il carcere, anziché  servire a “riabilitare”,  finisce per trasformare un iniziale criminale in un criminale iterativo: 
“… non ricorrere nella citazione alla cattura, che in que’  soli casi, ne’  quali o si può sospettare della fuga dell’accusato, o si ha ragion di punire il suo  disprezzo per la legittima autorità;  lasciar libera la sua persona sulla parola di un fideiussore [garante], sempre che la natura del delitto, e la gravezza della pena… non ricerchi una sicurezza maggiore;  procurare che anche in questi casi la custodia dell’accusato non sia indegna di un innocente.
… Un’altra cosa andrebbe aggiunta a questa riforma:  la distinzione delle carceri degli accusati da quelle de’ convinti [ovvero, condannati in via definitiva  e da ciò siamo ben lontani ancora nel 2016 !!!  -  il neretto è mio]
    E’  molto facile dunque che l’accusato,  ch’era un innocente prima di entrare nelle carceri, divenga un mostro nell’uscirne…” [43] .    Come ben si può constatare, quelle che sembrano conquiste  del nostro modernissimo sistema, in realtà  furono proposte o previste fin dal XVIII  secolo.
    Ancora,  Filangieri critica che la contumacia (ovvero, celarsi per evitare l’arresto) venga considerata un reato di per sé e quindi considerato prova di colpevolezza (Capo VIII).  Critica, come Beccaria,  la consuetudine inquisitoriale di procedere, nei casi atrocissimi, anche con congetture leggere, ovvero indizi ipotetici, piuttosto che indizi accertati   (Capo IX  - qui ricordo che, con questo sistema inquisitorio,  si è esattamente proceduto ad Avetrana, dove appunto si è andati avanti con indizi ipotetici, congetture, piuttosto che con indizi accertati).
       Vediamo ancora :
“Capo X   Delle pruove e degl’indizj de’  delitti.
    In niuna parte della legislazione si manifesta tanto la contradizione, l’imbecillità, e la poca logica de’  nostri legislatori e degl’interpetri delle nostre leggi, quanto in quella che regola le pruove e gl’indizj…
… assurda e mal digerita combinazione d una parte delle Romane leggi con alcuni principj legali del dritto canonico, mescolati colla legislazione de’  tempi barbari ed alterati mostruosamente dalle opinioni de’  dottori [professori universitari di Diritto], a’  delirj de’  quali un’antica pratica ha dato pur troppo ne’  nostri tribunali vigore di legge…
….stabilire quindi su’ fondamenti inalterabili della ragione e della filosofia le regole, e i principj co’ quali deve essere diretta…
…  Allorché si tratta di pruove e di argomenti de’  delitti, si truova nel corpo del Romano dritto una modulazione continua tra la misericordia e la ferocia [in questo miserabile ondeggiamento tra misericordia e ferocia, non si trova mai l’esecuzione di una razionale giustizia]…” [44].
      Segue  la considerazione delle confessioni libere ed estorte :
“  … la natura, io dico, è quella che chiude la bocca al reo, allorché il giudice l’interroga sulla verità dell’accusa… La confessione del delitto… richiede o uno  sforzo superiore al contrario  impulso della natura, o un’illusione che gli faccia vedere… l’acquisto di un bene più grande  [cita, a questo proposito, l’assioma del giurista Paolo “nessuno (è) testimone contro se stesso”: in latino giudiziario :  “nemo tenetur se detegere”,  e qui ancora ricordo il caso di Avetrana, dove l’unico preteso testimone sarebbe lo stesso omicida che accusa sé, e giuridicamente non potrebbe farlo,  e la figlia, anche questo vietato per legge, salvo che il parente stretto denunciante non sia vittima in quel delitto]
     L’uso barbaro e feroce di ricorrere a’ tormenti, per strappare dalla bocca de’ rei la confessione de’  delitti, non è dovuto alla legislazione delle nazioni  barbare,  come alcuni han preteso, ma noi lo ritroviamo nella culta Roma,  subito dopo la perdita della sua libertà…”[45].
     Prosegue poi con un parallelo tra i “giudizi di Dio”, altomedioevali, ma usati ancora contro Gerolamo Savonarola, nel XV secolo,  e la tortura, riconoscendo che i primi sono perlomeno coerenti con l’idea di divina provvidenza (Capo XI), e più vanti ribadisce:
“… il magistrato ha egli il dritto di  pretendere dal reo la confessione del suo delitto?  Ogni dritto suppone un’obbligazione. Se il magistrato avesse questo dritto, il reo avrebbe dunque il dovere di palesargli il suo reato.  Ma un dovere ch’è contrario alla prima legge della natura [la sopravvivenza, l’autodifesa], può mai essere un dovere ?
     Se il reo non ha il dovere di confessare il proprio delitto, come si è provato [qui Filangieri è alquanto sofistico:  preso alla lettera, la confessione non sarebbe mai possibile:  va tuttavia rilevato che, in contrasto con la giurisprudenza consuetudinaria, che fa della confessione la “prova regina”, occorrerebbe rilevare che, senza ulteriori prove che affianchino e suffraghino la confessione (es.: altre testimonianze, elementi scientificamente verificabili),  essa non può avere alcun reale valore:  e, lo ribadisco a sazietà,  il caso di Avetrana è  tipico della violazione di ogni coerente principio giuridico];  il magistrato non può dunque avere il dritto di esiger da lui questa confessione…”  [46] .
    Nessuna confessione dunque ?  Non esattamente,  Filangieri  ammette, per fatto morale, la confessione,  spontanea e mai estorta (una confessione estorta non può avere nessun valore giudiziario),  quando si tratta di  discolpare un innocente accusato di quel delitto.  Ma resta il punto metodologico che la confessione non è prova, ma dichiarazione che deve essere suffragata da altre prove,  perché ci si può incolpare solo per discolpare qualcuno o perché minacciati da un colpevole, e così via  (non solo i giudici minacciano, ovviamente).  Ancora,  l’Autore accetta l’argomentazione, di Beccaria ed altri, che la tortura insopportabile per innocenti deboli, può essere sopportata da colpevoli robusti, anche perché già allenati.  Come metodo della ricerca della verità, è fallimentare di per sé.
     “Buonista”, dunque  il Filangieri ?  Per nulla, come per nulla lo è il Beccaria.   Per non dilungarmi eccessivamente, arrivo al dunque:  Filangieri,   a differenza del Beccaria, non è sfavorevole alla pena di morte:  egli anzi considera, come farà Kant, “sofistico”  il ragionamento beccariano contro la pena di morte, anche se non ammette come lui, come Montesquieu e Voltaire e l’intera schiera dei grandi illuministi, l’uso  di atroci supplizi per eliminare qualcuno.   Ecco dunque l’argomentazione di Filangieri:
“… In questo stato di naturale indipendenza ho io il dritto d’uccidere l’ingiusto aggressore?  Niuno ne dubita.  Se io dunque ho questo dritto sulla sua morte, egli ha perduto il dritto alla sua vita,  giacché sarebbe contraddittorio che due dritti opposti esistessero nel tempo istesso [chi attenta alla vita altrui, dice il Filangieri, perde il diritto alla vita]… vi sono de’  casi, ne’ quali un uomo può perdere il dritto alla vita ed altri può acquistare quello di torgliela, senza ché alcun contratto sia passato tra questi due.
    Ma si domanda;  questo caso, è soltanto quello dell’aggressione o della difesa?... se l’infelice, ch’egli ha assalito, cade morto sotto i colpi della sua mano omicida;  in questo caso, il dritto, che aveva questi acquistato sulla vita dell’aggressore, resta forse estinto… o si diffonde sul resto degli uomini, ciascheduno de’  quali è vindice e custode delle naturali leggi?  Dovremo noi supporre, che l’aggressore che aveva perduto il dritto alla vita… lo riacquisti dopo che il delitto è consumato?...”[47] .
     Filangieri, nell’accusare  - come farà Kant  -  di “sofisma” sulla diversa argomentazione di Beccaria  (il diritto alla vita è intangibile nell’individuo, come per i suoi giudici, salvo estrema pericolosità  per il criminale),  ma è sicuramente ben più sofistico, giustificabile tutto sommato in quanto l’Autore era abbastanza giovane.  Si appella ad un ragionamento di Locke (“Secondo Trattato del Governo Civile”, cap. 21, § 7)  sulla trasmissibilità del diritto di punire, di per sé già discutibile (il diritto della società di punire non deriva da una trasmissibilità privatistica di una prerogativa dell’individuo, ma del fatto che la società è già preordinata sulla base della legge:  la società punisce ogni violazione della propria legge anteriormente a che avvenga quel delitto,  come già sostenevano i giuristi tedeschi Pufendorf e Thomasius:  nessuna pena senza che vi sia una legge precedente al reato da punire, ovvero principio dell’irretroattività della legge penale.  Se la legge non punisse anteriormente l’omicidio, un omicidio non potrebbe essere legalmente condannato).  Ma si confonde poi un semplice fatto (diritto all’esistenza, istinto di conservazione, cura dei familiari, ecc.), ovvero quello che, nel solo caso  di tutelare la propria vita o quella dei propri cari o di persone più deboli senza un’alternativa,  possa o debba uccidere chi minaccia la mia ed altrui esistenza (non un semplice ladro, ma almeno un rapinatore o un sadico, ecc.),  perché non ho altri mezzi per impedirglielo, perché non si fermerebbe né davanti a preghiere, né davanti ad una modica difesa.   Questo avviene quando si contrappongano forze pressoché equivalenti.   Ma lo Stato è sempre ben più forte di singoli individui, o di gruppi ristretti, e ha ben altri mezzi per rendere impotente o innocuo un  individuo, ancorché robusto  ed aggressivo (lo stesso dicasi  per il gruppo ristretto). Il discorso cambia invece, quando è lo Stato ad essere aggredito da altro Stato o da gruppi  molto potenti, tali da metter a rischio la sua stessa esistenza.  Da qui il diritto di guerra, come fatto difensivo, per cui alla forza si contrappone la forza, alla morte si contrappone la morte. Ma questo non è propriamente in sé  una questione giuridica,  quanto  un puro fatto di contrapposizione tra forze pressoché equivalenti.  Tornando a singoli reati, lo Stato può punire con la detenzione prolungata chi abbia commesso un delitto cruento, al fine di impedire il ripetersi di questo, e per rendere innocuo ed impotente tale individuo. Quanto alla sua rieducazione e riabilitazione, il discorso sarebbe ulteriormente complesso:  se il criminale è occasionalmente tale, è un conto;  se lo è iterativamente e in forme crudeli,  poco si può ricavare sul piano rieducativo.  E’  proprio per la confusione (in cui cade lo stesso Filangieri) tra la dimensione giuridica  (rapporto tra regole e comportamenti) e quella puramente fattuale  (scontro fisico)  dell’uso della forza,  classica  nel Diritto tradizionale a-logico,  che prima, allora e poi la lotta politica può deviare in abusi di natura violenta.   Facciamo un esempio per chiarire meglio questa differenza.  Uno Stato farebbe ridere se emanasse leggi nelle quali vieti i terremoti, gli uragani,  l’aggressione di belve feroci:  in tal caso, ci si trova davanti a semplici fenomeni della natura, particolarmente pericolosi, ma non evitabili con norme specifiche.  Occorre che, nel caso dei fenomeni tellurici o meteorologici  disponga per legge determinati modi di costruire,  ma non può punire una faglia perché scatena terremoti o l’atmosfera perché scatena uragani, né  una tigre perché  mangia  un bambino, ecc. (follìe del genere furono espresse da sovrani assoluti e loro servitori) .  Altra cosa è il comportamento umano che, abitualmente, si dà per razionale, ragionevole, e regolabile da norme che prevedano sanzioni, poco importa qui se a scopo preventivo, punitivo o rieducativo.    Quando è un  intero Stato ad essere minacciato da un altro Stato, se può si difende, altrimenti tratta le condizioni o si arrende (ma anche qui siamo fuori dal Diritto in senso proprio, bensì in un rapporto naturalistico tra forze fisiche, ancorché solo umane) .
    Filangieri ed altri sbagliano sostenendo un parallelo tra violenze di singoli individui e la forza che lo Stato intero può esercitare su quelli, non essendovi una proporzione adeguata tra i due:  lo Stato agisce con la propria legge (che contempla anche la punizione per la violazione della stessa), agisce in senso pubblicistico e giuridico;  mentre due che lottano fra loro, un aggressore e un aggredito,  agiscono per puro fatto, uno per uccidere, l’altro per sopravvivere,  e vince il più “forte”  (non necessariamente in senso fisico, ma perché è più armato, o perché più astuto, o perché si fa aiutare da altri, ecc.).  La forza non è mai fondamento del Diritto, ma ne è semplice mezzo di attuazione.  Lo  ripeterò verso la conclusione del presente lavoro, per far capire come mai la Rivoluzione Francese, partendo da una netta razionalizzazione del Diritto, degeneri poi nell’ esaltare la forza repressiva dello Stato sui suoi oppositori, e come mai dalla democrazia si finisca in una dittatura, espressa o latente.   L’uso della forza inteso come mezzo di prevenzione, repressione e  punizione  dei delitti, e non come Fondamento del tutto,  viene così ad essere concepito in modo proporzionato alle singole situazioni, limitando, se non altro concettualmente,  ogni possibilità d’abuso, mentre come Fondamento finisce per essere sempre sproporzionato alle singole situazioni .
       Per concludere su questo punto col pensiero di Filangieri, va tuttavia segnalato che egli nel successivo Capo XXX auspica un uso moderato della pena di morte, in casi gravissimi, con un valore di punizione severa ed esemplare, ma senza degenerare mai nei supplizi,  come si è detto.   Si può dire che la Rivoluzione Francese applicherà quasi alla lettera questi auspici, sennonché  nel periodo del Terrore venne applicata più frequentemente per scopi di repressione politica, piuttosto che per crimini cruenti, ma ordinari .
        Passerò ora a Condorcet, riguardo alla pena di morte .
       M. J. A. Nicolas  Caritat de Condorcet , di origine nobile,  nasce nel 1743 e muore in modo non ben chiaro in carcere (forse avvelenato, suicida o ucciso?) nel 1794 durante il Terrore:  fu  uno dei più anziani deputati della Convenzione,  vicino alle posizioni dei Girondini e in opposizione al gruppo estremista dei Montagnardi  (per queste definizioni dei raggruppamenti politici, spiegherò più avanti, trattando della fase rivoluzionaria).  Per ora qui basti sapere che era tra i maggiori intellettuali del tempo, vicino ai grandi illuministi di cui fu “allievo”, autore di varie opere, anche di natura economica.  Come deputato all’Assemblea Legislativa (1790 – 1792) e alla Convenzione (1792 – 1793) ebbe l’importante compito di presentare un progetto di totale fondazione di una Scuola pubblica  e di una Costituzione repubblicana, che però non fu accettata dalla maggioranza, preferendo questa il progetto montagnardo (il gruppo di Robespierre), che però, pur approvato, non venne mai applicato, come si vedrà più avanti.  Messo  in stato d’accusa da Saint-Just (l’ ”Arcangelo della morte” come lo chiamò lo storico Michelet), il grande e giovane sostenitore di Robespierre, ma l’unico intellettuale vero del gruppo montagnardo,  Condorcet visse tra il 1793 e il 1794 in clandestinità, ma individuato, fu arrestato e in prigione venne poi trovato morto, come si è detto.  Fu proprio nel periodo della clandestinità che egli scrisse un testo celebre, che può essere considerato la “bibbia” dell’idea del Progresso, che poi il Romanticismo e il Positivismo svilupperanno al massimo.  Tale lavoro non è molto esteso, e avrebbe meritato di essere sviluppato tranquillamente, ma i tempi non erano certo pacifici:  malgrado ciò, come disse l’ex-girondino Daunou, poi termidoriano, “Condorcet proscritto volle per un momento indirizzare ai suoi concittadini un’esposizione dei suoi princìpi e della sua condotta come uomo pubblico…  rinunciò ad una giustificazione inutile…  in una continua e sublime dimenticanza di se stesso, consacrò ad un’opera di utilità generale e durevole il breve intervallo che lo separava dalla morte…
… E’  questo il solo omaggio degno del saggio che, sotto la spada della morte, meditava in pace il miglioramento dei propri simili…” [48] .
   Il Condorcet  vede la storia segnata da dieci grandi epoche: un concetto che sarà poi largamente utilizzato dal Romanticismo e dal Positivismo (in specie Saint-Simon distingueva le epoche in critiche e organiche, intendendo con ciò che in alcune l’umanità distrugge le  tradizioni e le istituzioni, in altre ne costruisce di nuove).  Non approfondisco il tema, ma segnalo che, per lui, l’epoca che stava attraversando  era la IX, mentre quella successiva, per lui futura,  era la X.   Nella descrizione della nona epoca e dei progressi sociali, economici, scientifici da essa raggiunti, egli molto sinteticamente fa un riferimento positivo proprio al Beccaria, approvandone dunque le indicazioni contro tortura e pena di morte :
“… I filosofi dell’Inghilterra e della Francia si onoravano di prendere il nome, di adempiere ai doveri di amici di quegli stessi negri che i loro stupidi tiranni disdegnavano di annoverare tra gli uomini.  Gli elogi degli scrittori francesi erano il premio della tolleranza accordata in Russia e in Svezia,  mentre Beccaria confutava in Italia le barbare massime della giurisprudenza francese [il neretto qui è mio]…”[49].
       Per la X Epoca,  egli prevedeva, non solo l’uguaglianza giuridica e politica delle donne (tema largamente diffuso nel gruppo girondino e ovviamente dalla donne del tempo come madame Roland, Charlotte Corday, Olympe de Gouges, Teroigne de Méricourt),  l’alleanza e pacificazione tra i popoli, l’abolizione delle contrapposizioni di classe e delle Chiese, la diffusione e l’eguaglianza nell’istruzione,  ma ne vede anche le conseguenze positive in sede giuridica e giudiziaria :
“… Gli uomini non potranno acquisire lumi sulla natura e sullo sviluppo dei loro sentimenti morali, sui princìpi della morale. Sui motivi naturali di conformarvi le loro azioni, sui loro interessi sia come individui sia come membri di una società, senza compiere al tempo stesso nella morale pratica progressi altrettanto reali quanto quelli della scienza stessa.  L’interesse male inteso non è forse la causa più frequente delle azioni contrarie al bene generale ?   La violenza delle passioni non è forse spesso effetto di abitudini, alle quali ci si abbandona soltanto per un cattivo calcolo, o dell’ignoranza dei mezzi per resistere ai loro primi moti, per mitigarle, per stornarne e dirigerne l’azione ?
    L’abitudine a riflettere sulla propria condotta, ad interrogare su di essa la propria ragione e la propria coscienza, quella dei dolci sentimenti che confondono la nostra felicità con l’altrui, non sono forse una conseguenza necessaria dello studio della morale ben indirizzata, di una maggiore uguaglianza nel condizioni del patto sociale?   Questa coscienza della propria dignità che appartiene all’uomo libero, un’educazione fondata su una conoscenza approfondita della nostra costituzione morale, non debbono forse rendere comuni a tutti gli uomini quei princìpi di una giustizia rigorosa e pura [il neretto è mio], quei moti consueti di una benevolenza attiva, illuminata, di una sensibilità delicata e generosa, il cui germe la natura ha posto in tutti i cuori [risentiamo qui Rousseau], e che per svilupparsi attendono soltanto il dolce influsso dei lumi e della libertà ?...  non rientra forse ugualmente nell’ordine necessario della natura che i progressi delle scienze morali e politiche esercitino la stessa azione sui motivi che dirigono i nostri sentimenti e le nostre azioni ?
    Il perfezionamento delle leggi, delle istituzioni pubbliche, conseguenza dei progressi di quelle scienze, non ha forse per effetto  di avvicinare, di identificare l’interesse comune di ogni uomo con l’interesse comune di tutti ?...  E il paese la cui costituzione e le cui leggi si conformeranno più esattamente al voto della ragione e della natura, non è forse quello in cui la virtù sarà più facile, in cui le tentazioni di allontanarsene saranno più rare e più deboli ?
    Qual è l’abitudine viziosa,   qual  è l’uso contrario alla buona fede, qual è perfino il delitto di cui non si possa mostrare l’origine, la causa prima, nella legislazione, nelle istituzioni, nei pregiudizi del paese in cui si segue quell’usanza, quell’abitudine, in cui è stato commesso quel delitto ?
     Insomma, il benessere che segue i progressi che compiono le arti utili fondandosi su una sana teoria, o quelli d’una giusta legislazione, che si fondi sulle verità delle scienze politiche, non dispone forse gli uomini all’umanità, alla benevolenza, alla giustizia ?...” [50] .
    Ottimismo ingenuo ?   Eppure, colui che scriveva queste ottimistiche (tuttora, ahinoi, a oltre due secoli di distanza…)  era in quel momento clandestino o agli arresti, con rischio di decapitazione.  La sua visione, oltre al voler rappresentare un manifesto d’azione per le generazioni future,  una spinta al perfezionamento umano (lo stesso, più o meno in quei decenni, tentarono, con qualche differenza Kant, e soprattutto Herder e Lessing in Germania,  quindi gli idealisti tedeschi da Fichte ad Hegel, i romantici come Schiller),  fondato soprattutto sul fattore spirituale interiore, piuttosto  che sul fattore materiale e tecnico (come avverrà per i positivisti).  La sua non era un’auto-consolazione, quanto la consapevolezza che solo attraverso il perfezionamento individuale e sociale  i problemi del comportamento dell’uomo sarebbero stati avviati, almeno, a soluzione .


Capitolo III:  L’Illuminismo Tedesco  e  Immanuel Kant .

      Il periodo illuministico in Germania, che comincia con due autori principali,  Christian Wolff ed Ehrefried Walter von Tschirnhaus,  ha almeno due fasi nei confronti dell’Illuminismo francese:  la prima è quella che è caratterizzata da piena ammirazione  verso la Francia e la sua stessa rivoluzione (malgrado i due Stati allora principali del mondo germanico,  Austria e Prussia, fossero in guerra con la Francia), la seconda è quella critica e spesso di rigetto, quando le armate napoleoniche entrano in Germania e vi spadroneggiano per lungo tempo (grosso modo nel primo quindicennio del XIX secolo).  In effetti, sotto molti aspetti siamo già nell’età romantica, ma il suo primo movimento letterario e culturale,  lo Sturm und Drang (Assalto e tempesta, o viceversa, perché  i termini sono intercambiabili:  Drang significa anche “spinta, marcia”), nasce in effetti nel Settecento.  Se ben si guarda, nell’intero quadro europeo, l’Illuminismo ha due diramazioni nel secolo successivo:  il Romanticismo – Idealismo (che ha forme razionaliste)  e il Positivismo, che ha soprattutto forme scientifiche e scientiste. Comune denominatore, l’idea condorcettiana ed herderiana del costante progresso dell’umanità, come moto generale,  mentre in questa o quella fase possono esserci periodi di stasi e di retrocessione.  E’  un po’  la lotta interna della filosofia della storia, che ha radici nel pensiero di Machiavelli,  come serie ciclica oppure come moto continuo:  infatti, se noi guardiamo, come Vico, alla storia delle singole Nazioni vediamo un succedersi di fasi di sviluppo e di decadenza;  se guardiamo il moto ampliato all’umanità intera, vediamo (o vedevano in quell’epoca)  un progresso continuo, o per ampliamento territoriale o per approfondimento della civiltà dove sviluppata .
    Non è il caso di approfondire oltre, perché non si finirebbe più, dovendo riesaminare qualcosa come 5000 anni di storia:  il nostro secolo è, ad esempio, un grande avanzamento tecnologico, peraltro semplice sviluppo del precedente lavoro tecno-scientifico,  ma una decadenza sfrenata sotto tutti gli altri aspetti (dal culturale al morale, dal politico al sociale ed economico).
     Torniamo alla Germania del tempo:  un primo esame critico dell’epoca si ha con Immanuel Kant nel suo saggio “Was ist Illuminismus ?”  (Che cos’è l’Illuminismo?) del 1784, mancano cinque anni alla Rivoluzione francese, ma quella americana era già  esplosa:  in tedesco, il termine “Illuminismo”  è reso anche col termine Klarheit, chiarezza. luminosità).   Kant ne dà fin dall’inizio una definizione positiva:
L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità  è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro.  Sapere aude ! [Osa sapere, conoscere, capire !] Abbi il coraggio di servirti della  tua propria intelligenza !  E’  questo il motto dell’Illuminismo…” [51].
       Questo scritto, che può apparire come un lungo, ma soprattutto denso, articolo, appare già ambiguo:  siamo per l’Europa quasi in un’età di pace che, però sarà di breve durata (nel 1792 comincia la guerra rivoluzionaria tra la Francia e le varie coalizioni).  Comincia con la netta esaltazione del coraggio di conoscere, pensare, criticare, e nondimeno indica nella frase di Federico II di Prussia “Ragionate quanto volete, ma ubbidite !”  i limiti di questo coraggio:  siamo nell’età politica del dispotismo illuminato:  tutto, anche i progressi tecnici e scientifici devono essere sotto il controllo del despota, del sovrano, del re, del capo per “diritto divino”: Dunque,  “paternalismo”, da cui le “concessioni”  da dare.  Malgrado già nel Gran Bretagna ed Olanda del XVII secolo, malgrado l’insurrezione vittoriosa delle colonie americane e la nascita dell’Unione degli Stati (repubblicani)  d’America, nondimeno i re europei sono ben lontani dal cedere le briglie, dal rinunciare al loro comando e all’obbedienza del popolo.  Kant, professore universitario, un grande rinnovatore del pensiero, è nondimeno assoggettato ad un sistema dispotico, che durerà ben oltre la sua morte nel 1804  (siamo nella fase del predominio napoleonico).   Sarà appunto la Rivoluzione Francese ad affermare il superamento della sovranità del monarca assoluto  da parte della sovranità della Nazione, del Popolo (quello che i gazzettieri, trombettieri, tamburini e banditori del nostro tempo, con la confusione mentale loro tipica,  chiamano “populismo”).  Ma di ciò  più avanti.
       Affrontare il pensiero di Kant, estremamente complesso, estremamente grande, di estremo interesse, non è qui il caso:  certo, non basterebbe un saggio.   Qui desidero soffermarmi sulla valutazione che egli fece di Beccaria nell’opera “Die Metaphisik  der Sitten” (La Metafisica dei Costumi), un’approfondita analisi delle concezioni vigenti del Diritto, della Morale e del Costume, o Usanza tradizionale [52].  L’opera del 1797  (la guerra tra Prussia, di cui era cittadino e docente,  era già  in corso da cinque anni)  risente sia delle imposizioni politiche del monarca, sia delle delusioni subìte  dall’Illuminismo, soprattutto francese.  E questo si può  dire intaccherà l’espressione delle sue convinzioni profonde, che dovrà  celare in un dichiarato lealismo (lo scontro maggiore avverrà sulla questione religiosa, tanto da impedirgli di trattare il tema “Dio”  in piena libertà).  E’, dunque,  difficile capire se la critica  a Beccaria è dovuta a questo, o ad una sincera adesione a posizioni che diremmo “filangeriane”  (ignoro se ne conoscesse l’opera,  ma il rimprovero di sofismi a Beccaria è analogo a quello dell’illuminista italiano):
“…[un criminale] Ma se ha commesso un omicidio,  deve morire.  In questo caso non c’è alcun surrogato che possa soddisfare la giustizia.  Non c’è alcuna comparazione possibile fra una vita, per quanto tormentata, e la morte;  quindi non vi è nemmeno uguaglianza fra il delitto e il guidrigildo [istituzione di derivazione barbarica e altomedioevale  per cui si paga in denaro o beni materiali  per un omicidio] se non la morte comminata dal tribunale al malfattore,  una morte comunque libera da tutti quei maltrattamenti che potrebbero rendere un orrore l’umanità della persona che li patisce [il neretto è mio:  Kant, dunque,  è favorevole alla pena di morte, ma come tutti gli illuministi aborre dai supplizi e dalle torture:  l’abolizione dei supplizi  è la conquista effettiva del periodo storico, anche se la “misericordiosa”  Chiesa Cattolica nello Stato Pontificio ne farà  uso ancora per larga parte dell’Ottocento].  Persino se la società civile con tutti i suoi membri si sciogliesse di comune accordo…, prima dovrebbe venire giustiziato anche l’ultimo assassino che si trova in carcere, affinché ciascuno abbia ciò che le sue azioni hanno meritato e la colpa del sangue non ricada sul popolo  che non ha sollecitato quella punizione [qui risentiamo espressioni del Vangelo e della tradizione ebraica:  “colpa del sangue,  il sangue ricada su di noi e sui nostri figli”], perché il popolo può essere considerato complice di questa violazione pubblica della giustizia.
    Questa uguaglianza delle pene, che nel diritto di guidrigildo in senso stretto  è possibile soltanto attraverso una sentenza di morte emessa dal giudice, si manifesta nel fatto che soltanto in questo modo la pena di morte viene inflitta a tutti i criminali in modo proporzionale alla loro malvagità interiore (anche quando non si tratta di un omicidio ma di un altro crimine di Stato [es.,  ribellione, insubordinazione, spionaggio, sabotaggio:  quando Kant scrive questo, si era in guerra, non dimentichiamolo:  torna in lui, ma già distorta dai fatti, quella  “proporzionalità”  tra pena e delitto, tipica dell’Illuminismo] punibile soltanto con la pena di morte)…  Supponiamo che [cita le guerre civili inglesi] il tribunale supremo avesse emesso una sentenza in base alla quale  ognuno avesse avuto la libertà di scegliere fra la morte e i lavori forzati.  Ora io dico che l’uomo d’onore avrebbe preferito la morte, mentre il mascalzone i lavori forzati [il neretto è mio:   con un ragionamento, questo sì sofistico,  Kant sostiene che la pena di morte è proporzionale perché  l’uomo d’onore (!!!)  preferisce la morte ad una vita da schiavo; l’altro preferirebbe la vita da schiavo, e quindi sente la morte come una pena maggiore.  La valutazione, che vorrebbe essere psicologica, in realtà si fonda sul nulla. E a chi ha molti assassini sulla coscienza, che cosa gli daremo ?  Pare che Kant  non si ponga questo problema.  Sfugge pure a Kant, ed era Kant !,  il problema di una successiva eventuale scoperta dell’innocenza di un condannato a morte]…  Dunque anche nel caso di un complotto ordito da un gruppo di criminali [esempio:  rivoluzionari alla francese ?],  la morte risulta il migliore risarcimento nei confronti della giustizia pubblica.  Oltre a ciò, non si è mai sentito che un condannato a morte si sia mai lamentato della sproporzione e dell’ingiustizia della pena [ahinoi ! qui Kant sfiora il ridicolo:  se è già morto non può lamentarsi;  se attende l’esecuzione, si lamenta bene, ma non serve a nulla, perché nessuno lo ascolta, ed ancor meno si commuove];  verrebbe deriso da tutti se lo facesse…
    Tutti gli assassini, per quanti siano, che hanno commesso o anche soltanto ordinato un omicidio o ne sono stati complici, dovrebbero essere condannati a morte.  Questo è ciò che vuole la giustizia intesa come idea del potere giuridico esercitato in base a leggi universale fondate a priori [ma dov’è finita quella meravigliosa  Seconda Formula dell’imperativo categorico, riportata tanto nei “Fondamenti della metafisica dei costumi”, quanto nella “Critica della Ragione pratica”“Considera l’umanità in te, come negli altri,  sempre come fine e mai come semplice mezzo” ?].  Ma se tuttavia il numero dei complici (correi) di un tale misfatto è così  grande che lo Stato, per eliminare tutti i criminali [qui evidentemente Kant si pone implicitamente la situazione di un intero popolo in rivolta, come nel caso della Francia di quegli anni], si ritroverebbe senza più sudditi, ma non volesse sciogliersi…, allora deve essere in potere del sovrano… di farsi egli  stesso giudice (rappresentarlo) ed emettere una sentenza che condanni i delinquenti non alla pena di morte ma a un’altra punizione che garantisca la conservazione del popolo, come per esempio la deportazione;  questo però non in forza di una legge pubblica ma mediante un verdetto superiore, ossia un atto del diritto legale che può essere esercitato, come la grazia, sempre soltanto in casi particolari. [l’esempio estremo che Kant si pone è astruso:  infatti, o la banda dei criminali è relativamente ristretta (mettiamo lo 0,1% della popolazione), ed allora si può anche parlare di deportazione o di imprigionamento:  o la massa dei “criminali”, in realtà rivoltosi, è tale da impedire un fatto del genere, in quanto sia sterminarla, sia deportarla diverrebbe materialmente impossibile proprio per l’alto numero dei “criminali”, tale da dover dimezzare la popolazione:  e basterebbero le forze militari a disposizione per farlo ?  Kant, evidentemente, ha come fatto contemporaneo l’esempio del Direttorio che faceva deportare nella Guyana francese gli avversari politici (la ghigliottina secca), invece di farli ghigliottinare pubblicamente  come durante il Terrore robespierriano e termidoriano;  ma ha anche esempi storici, che risalgono almeno ai Bizantini e ai Turchi.    Sappiamo poi che il tardo secolo XIX e soprattutto il XX applicò su larga scala  questa misura.  La deportazione, di per sé, comporta il rischio, per le difficoltà ambientali del luogo di deportazione e per le lunghe marce a piedi a cui i deportati erano costretti, a molti casi di morte per fame, affaticamento, malattie, a veri e propri
genocidi:  ma, ancora una volta, dove finisce qui la splendida Seconda Formula dell’Imperativo categorico ?].
    Al contrario il marchese Beccaria,  muovendo da un sentimento compassionevole di affettata umanità [!!!  -  il neretto è mio.  Qui Beccaria è visto come un sofista, per giunta ipocrita] (compassibilitas),  ha affermato l’illegittimità di qualsiasi condanna a morte [non di qualsiasi, ma di quelle che potrebbero essere eliminate o sostituite per scarsa pericolosità del soggetto], perché essa non potrebbe essere contemplata nel contratto civile originario, altrimenti ognuno nel popolo avrebbe dovuto dare il proprio consenso a perdere la vita se avesse ucciso un altro (nel popolo), ma questo consenso non sarebbe possibile, perché nessuno può disporre della propria vita.  Tutti sofismi e cavilli giuridici [il neretto è mio: torna qui aggravato il pensiero del Filangieri di nove anni prima:  Beccaria non solo “sofista”, ma addirittura ipocrita e cavilloso !].
     Nessuno subisce una pena perché l’ha voluta, ma perché ha voluto un’azione punibile, poiché infatti non è una punizione il fare ciò che si vuole, ed è impossibile voler essere puniti [qui il sofista è proprio Kant:  infatti, se qualcuno ha commesso consapevolmente  un qualunque delitto, di  cui successivamente si penta sul serio, desidera essere punito proprio per scontare la sua colpa nei modi previsti dalla legge, e non va in cerca di scusanti e di pretesti per evitare una pena meritata:  lo stesso Kant, uno o due capoversi prima, aveva pur asserito che il condannato a morte non si ritiene ingiustamente condannato, e “accetta “  la sua pena.   Ed allora ?  Perché sarebbe “impossibile”  voler essere puniti ?  Difficile certo, ma non “impossibile”]…” [53] .
   Più avanti Kant ammette due casi, in cui eccepire alla pena di morte, e sarebbero per causa d’onore (siamo in Prussia e in guerra, non dimentichiamolo):  l’onore militare e  l’onore della donna, ad esempio il duello fra militari e l’infanticidio per tutelare l’onorabilità di donna.  Ebbene, qui siamo proprio al punto cruciale dell’involuzione che subisce l’Illuminismo  in un decennio.  Che in nome dell’ “onore”  si possa uccidere, ovvero per un “diritto” di origine arcaica, medioevale o addirittura barbarico, non è certo una tesi “illuminista”.  Sarebbe comprensibile se Kant avesse parlato di “legittima difesa”, così per il militare, come per la donna a rischio di violenza sessuale ovvero stupro:  ma come si giustifica un “onore”  in quel modo ?  Come si può giustificare o attenuare un infanticidio ?  Ha colpa il bambino di essere stato concepito e di nascere senza essere desiderato ?   Come si spiega che Kant,  nei suoi fondamenti etici, ponga come essenziale il rispetto della personalità umana (Seconda Formula dell’Imperativo Categorico), e poi ammetta simili consuetudini barbariche ?  Non va dimenticato, come ho più volte accennato,  che questi pensatori, pur grandissimi, erano condizionati sia dal dispotismo ed assolutismo dei loro monarchi, sia  dalla necessità di lavorare ed insegnare per vivere.   Ma su certe cose si potrebbe tacere (come per altre ragioni disse Wittgenstein:  “di ciò di cui non si può parlare,  occorre tacere”),  non ripetere cose di cui non si è convinti  solo per far contenti i padroni del momento.  Certo, non tutti furono e sono come Gottlieb Fichte che, pur di sostenere le proprie tesi sull’uomo e su Dio, perdette la cattedra universitaria e visse poi con difficoltà economiche .


                                               PARTE  SECONDA

      LA  RIVOLUZIONE FRANCESE,  COME SERIE  DI  EVENTI,  E  NEI 
              SUOI ASPETTI GIURIDICI,  COSTITUZIONALI E PENALI .

Premessa  storica .

     Proprio  in quest’ottica di strisciante, surrettizia involuzione,  va compresa la Rivoluzione Francese, che pure fu e resta tuttora il maggior fenomeno del sorgere di un popolo, o di gran parte d’esso,  contro un vecchio regime integralmente abusivo, fondato essenzialmente, se non esclusivamente, sulla sopraffazione di due classi sociali  rispetto a tutte le altre.   A differenza delle Rivoluzioni Olandese, le due Inglesi, e l’Americana,  la Rivoluzione Francese  ha  un valore, non solo continentale, ma planetario:  il fatto stesso che il suo Inno, tuttora ufficiale,  la “Marseillaise”,  fu considerato fino agli inizi del XX secolo come Inno rivoluzionario dei popoli e delle Nazioni, finché   non fu sostituito in questo senso dal marxista canto dell’Internazionale, che invece rappresenta la celebrazione dell’unità planetaria dei proletari, soprattutto operai, secondo il ben noto motto “Lavoratori di tutto il mondo, unitevi !” .
      E, anche qui, la Rivoluzione Francese del 1789 – 1794 (il successivo periodo termidoriano, direttoriale e consolare  napoleonico rappresenta la fase morente e morta del principio rivoluzionario,  che ormai si assesta con l’affermazione di una classe borghese, del “Terzo Stato”, ricco o benestante,  alla detenzione della sovranità effettiva e del potere politico), passando da una fase monarchico-liberale, tendenzialmente democratica, alla fase repubblicana e democratica diretta, per finire alla fase terroristica e dittatoriale: c’è dunque un ciclo evolutivo che poi si involve:  una sorta di parabola in cui il punto di partenza è quasi il nuovo punto di arrivo.  Per capire questo processo metamorfico, piuttosto che evolutivo pieno ed intero, occorre tracciare alcuni passaggi fondamentali, i quali del resto trovano la loro radice teoretica nell’Illuminismo giuridico, attraverso il pensiero di Montesquieu  e di Rousseau .

Capitolo I:  Correnti  Storiografiche sulla Rivoluzione Francese. Concetto di Rivoluzione in generale.

      Intanto un breve cenno alle correnti storiografiche sulla Rivoluzione Francese, che dimostrano come, ideologicamente parlando,  la storia contemporanea cominci proprio con la Rivoluzione Francese.  Infatti,  gli orientamenti non solo si contrappongono tra positivi e negativi verso di essa (liberali, democratici, monarchici liberali, repubblicani e le varie scuole socialiste tendono ad una valutazione positiva, malgrado le violenze e gli abusi, tipici di un grande fenomeno di rinnovamento drastico;  mentre invece personaggi d’estrema destra, monarchici assolutisti  sono del tutto avversari),  ma anche nello stesso ambito di positività,  i liberali-monarchici apprezzano maggiormente il primo periodo (1789 – 1791);  i  repubblicani  preferiscono il periodo della Convenzione (1792 – 1794);  alcuni (soprattutto di formazione marxista)  apprezzano particolarmente Robespierre e i Giacobini estremi;  altri ammirano Danton;  pochi invece (tra i quali mi annovero io) apprezzano i Girondini;  altri ancora elogiano il periodo termidoriano e il Direttorio (1794 -  1799);  ancora altri vedono l’assestarsi rivoluzionario in istituzioni borghesi stabili con Napoleone console, oppure addirittura con la Restaurazione.  Vi è pure la corrente anarchica (ad es.  Kropotkin)  che apprezza l’elemento più violento e, appunto, anarchico,  come Marat e Hébert,  fino a esaltare Babeuf  (siamo ormai nella fase direttoriale).  In effetti, la Rivoluzione Francese  viene poco studiata come un grande fenomeno “tellurico” della psicologia collettiva o sociale,  che ha una preparazione sotterranea (addirittura pre-illuminista e clandestina), poi culturalmente pubblica (Illuminismo), quindi finalmente di insurrezione politica con accentuazione della violenza (quasi il colossale sfogo di un popolo oppresso da almeno 1000 anni),  infine per  ridurre sempre di più la propria virulenza ed assestarsi su situazioni di relativa, molto relativa tranquillità:  tanto è vero che nell’800 le insurrezioni e le rivoluzioni stesse non mancheranno (anche nella sola Francia vi furono quelle del 1830, del 1848 e del 1870 / 71), ma nessuna può  reggere il confronto con la prima.  Ed è pure interessante notare che la Rivoluzione Francese suscita ancora appassionati dibattiti,  mentre la stessa Rivoluzione Russa del 1917/  20,  prima democratica, poi bolscevica,  finita come ben sappiamo senza quasi lasciar traccia di sé e che pure sotto tanti aspetti aveva molte analogie per la dimensione planetaria dell’evento,  ora suscita un puro interesse di carattere storico (vedremo il prossimo anno quanti ne tratteranno in testi ormai ripetitivi).   E’  tipico di altre grandi  Rivoluzioni, precedenti e successive, di seguire una certa parabola, ma appunto con l’eccezione della Rivoluzione russa,  non hanno né  risonanza né effetti mondiali.  Questo, va detto con chiarezza, anche perché la Rivoluzione Francese  aveva già prima avuto una gestazione, uno sviluppo,  che al contrario sono del tutto scarsi o inesistenti nel periodo precedente, né  ad esempio il marxismo,  pur con tutta la  varietà interpretativa ed attuativa e pur con tutta l’ampiezza di diffusione, non ha certo avuto quella complessità di carattere, multiformità di aspetti, ed approfondimenti di singoli pensatori o in singole Nazioni,  tali da sviscerare a fondo le problematiche da risolvere in un certo tempo.  La fragilità ed unilateralità ideologica del marxismo spiega  al contempo il suo “successo”, ma anche la rapidità  del suo crollo .
     E un’altra questione deve valere da premessa:  che cos’è  esattamente una Rivoluzione, nel senso politico-istituzionale del termine ?  Non solo persone comuni, ma anche pensatori e studiosi non colgono il profondo senso del termine:  molti infatti si limitano a credere che “rivoluzione”  sia semplicemente una serie di atti violenti che toglie il potere ad alcuni e lo affida ad altri,  che il decantato  “monopolio della forza”  passi dal gruppo A al gruppo B, dalla classe C  alla classe D, ecc.   Ritengono altresì che “rivoluzione” sia semplicemente un rivolgimento violento, dove può cambiare qualcosa o anche non cambiare, e magari peggiorare.   Se così fosse,  sarebbe “rivoluzione” una qualunque guerra esterna o interna, un colpo di stato, un’occupazione militare di un territorio non proprio, e così avanti.  Si  perde in tal modo il senso profondo del termine, così come dato soprattutto dai grandi rivoluzionari del XVIII e XIX secolo.  Per chi studia la storia delle Rivoluzioni (quelle autentiche, non quelle tali di nome o per pura intenzione…),  a cominciare  dalla Rivoluzione Svizzera, la prima che riesce vittoriosa,  contro il dominio absburgico (per intenderci, la storia di Guglielmo Tell), che è insieme guerra di indipendenza e appunto rivoluzione repubblicana e democratica, per seguire quella Olandese, altrettanto guerra d’indipendenza dal dominio spagnolo e instaurazione di una repubblica che poi diventerà monarchia liberale, alle due Inglesi, per seguire con quella Americana, e la serie di Rivoluzioni Francesi, dal 1789 al 1870,  la stessa Rivoluzione russa soprattutto tra il febbraio e l’ottobre 1917,  nota che  la Rivoluzione in quanto tale è estensione, formale e sostanziale,  della sovranità  da uno a pochi, dai pochi ai molti, ai tutti.  Non necessariamente è violenta, in quanto non è la violenza che caratterizza propriamente la Rivoluzione:  generalmente comincia quasi pacificamente,  in proporzione al grado di resistenza presentato dai gruppi in quei momenti dominanti.   La violenza, l’uso e l’abuso della forza non caratterizzano la Rivoluzione in quanto tale:  in linea teorica, oggi una Rivoluzione potrebbe avvenire per mezzo di votazioni, senza il benché minimo atto di forza fisica:  se la classe o gruppo, prima dominante, cedesse il potere senza resistenza alcuna, accettasse le conclusioni del voto, e si ritirasse senza chiasso, la Rivoluzione potrebbe essere del tutto pacifica.  Storicamente ciò non è, perché nessuno cede il potere senza un minimo almeno di resistenza materiale  (la caduta dell’URSS  fu una Rivoluzione, sotto certi aspetti, in cui la violenza si ridusse al minimo), sempre in nome  del “monopolio della forza” .
     La grande Rivoluzione Francese è stata a tutti gli effetti una Rivoluzione, non perché ha mandato alla ghigliottina  un certo numero di persone,  non perché  ha soffocato i moti controrivoluzionari, non perché ha assalito la Bastiglia demolendola fino alla fondamenta, non perché  ha scatenato una guerra europea di  tipo moderno (ovvero, per ragioni ideologiche, e non più per ambizioni dinastiche), ma perché ha ampliato nella forma (le sue tre Costituzioni e relative leggi) e nella sostanza (dai due primi Stati, aristocrazia, alto clero, oltre al monarca, alle classi borghesi e artigiane e, in certo momento, anche alle classi più povere, ma questo in linea più teorica che pratica)  la  sovranità al popolo,  contrapponendo così alla majestas regis la  majestas populi.  Ha, se non abolito realmente, almeno affermato il principio dell’abolizione della schiavitù, vigente in Europa fin circa il 1815, affermato l’esigenza  di un’educazione ed istruzione per tutti (dando teoricamente gli strumenti culturali minimi alla popolazione per governare), ecc.   Certo, gli obiettivi in tal senso furono raggiunti più a parole che nei  fatti, ma anche questo è tutt’altro secondario, quando viceversa le forze reazionarie e conservatrici volevano l’esatto contrario, e la prova è che, malgrado la Restaurazione post-napoleonica,  nemmeno Luigi XVIII prese misure spietate contro i regicidi, come pur avvenne nell’Inghilterra di Carlo II Stuart e di Giacomo II, o come sarebbe avvenuto se si fosse pienamente ristabilita la mentalità dell’assolutismo monarchico, che vede nell’uccisione di un re un vero sacrilegio.  Nemmeno i reazionari più spinti potevano far a meno di tener conto del grandioso balzo in avanti che l’Illuminismo prima, la Rivoluzione Francese poi avevano fatto fare all’intera Europa e da questa al mondo intero.
       Se  con sedicenti “riforme”, invece di andare avanti si torna indietro, se  - ad es., nel caso italiano – ad un Senato elettivo si sostituisce un Senato di nomina “regia”  o governativa, non si fa una “rivoluzione”, ma una controrivoluzione, una controriforma,  una retrocessione storica di notevole portata.  E’  quindi essenziale guardarsi bene  dal prendere per “riformatrici”, o ancor meno “rivoluzionarie”,  determinate proposte, che restringono e non ampliano la sovranità del Popolo e della Nazione .

Capitolo II:    Il pensiero costituzionalista di Montesquieu, come base del pensiero rivoluzionario.

       Date sommariamente queste indicazioni, vediamo ora il modello di istituzioni politico-giuridiche che si erano costituite più di fatto che formalmente.    Per capirle meglio, ritorniamo a quanto Montesquieu aveva analizzato ed esposto nella sua opera:  “Lo Spirito delle Leggi”.   Le versioni manualistiche rappresentano generalmente il Montesquieu come un sostenitore del liberalismo monarchico di modello inglese.  Veramente, la sua intenzione era quella di un’esposizione critico-descrittiva delle varie forme di governo e di leggi, e non tanto di esprimere opinioni personali di favore  o contro determinati regimi (salvo i dispotismi orientali).  Non dimentichiamo mai che a quei tempi (e, se vogliamo, neppure oggi) non si era veramente liberi di esprimere il proprio pensiero:  nessuno dei filosofi della politica e del Diritto era mai riuscito a farlo.  Spesso si dovevano esprimere in forme larvate, simboliche.  Montesquieu non è da meno, e nondimeno si capisce che il suo orientamento  non è affatto così filo-britannico come si ritiene spesso.
“ DELLA  COSTITUZIONE DEL’INGHILTERRA.
     In ogni Stato vi sono tre generi di poteri:  il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile.
    In forza del primo, il principe o il magistrato, fa le leggi per un certo tempo o per sempre, e corregge o abroga quelle che sono già state fatte. In forza del secondo, fa la pace o la guerra, invìa o riceve ambasciate, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni [oggi, infatti, in questo campo non si fa nulla].  In forza del terzo, punisce i delitti o giudica le controversie dei privati.  Chiameremo quest’ultimo il potere giudiziario, e l’altro semplicemente il potere esecutivo dello Stato.
   La libertà politica per un cittadino consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dall’opinione che ciascuno ha della propria sicurezza;  e perché si  abbia questa libertà, bisogna che il governo sia tale che un cittadino non possa temere un altro cittadino [in effetti, esattamente l’opposto di quel che avviene ai nostri giorni, dove tutti devono temere di tutti].
    Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura [qui non va intesa come Organo giudiziario, bensì come carica politica ed amministrativa in generale  -  il neretto è mio, qui e avanti fino alla fine del successivo capoverso] il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, poiché si può temere che lo stesso monarca, o lo stesso senato, facciano leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente [dunque:  ogni qualvolta il potere sovrano o il potere governativo sovrasta e condiziona quello legislativo, non si ha libertà politica, se non altro per il rischio di tirannide. E’  una chiara critica al sistema francese allora vigente, ma lo è pure verso tutti quegli attuali regimi pseudo-democratici, dove un presidente del Consiglio impone  al potere legislativo di approvare ciò che egli ritiene debba essere approvato].
    Non vi è nemmeno libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e dall’esecutivo.  Se fosse unito al potere legislativo [sembra quasi profetico:  ciò avvenne, vedi caso,  nella Convenzione repubblicana, dal 1793 al 1795] , il potere sulla vita la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario:  infatti il giudice sarebbe legislatore.  Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore.
     Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti o di nobili [si riferisce a governi di tipo aristocratico od oligarchico], o di popolo, esercitasse questi tre poteri:  quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche, e quello di giudicare i delitti o le controversie dei privati…
[ciò che qui espone Montesquieu continua a mantenere la sua attualità, se pensiamo come negli Stati pseudo democratici dei nostri tempi,  i tre poteri sono mescolati, talvolta nelle persone, ma talaltra nelle stesse funzioni:  vediamo i governanti che impongono le leggi con maggioranze prestabilite e capi di Stato che mantengono poteri giudiziari, come quello della grazia, o le varie amnistie e gli indulti parlamentari.  Dopo aver fatto considerazioni sul sistema francese del tempo, in cui il re manteneva potere legislativo ed esecutivo nelle stesse mani, ma non il giudiziario, dopo aver definito orribilmente dispotico quello turco, dove nel sultano si concentrano i tre poteri, l’Autore esamina i sistemi italiani del tempo, e dà molto spazio  a quello veneziano, dove riconosce una certa separazione dei poteri,  ma unione attraverso le stesse persone]
     Il potere giudiziario non dev’essere affidato a un senato permanente, ma dev’essere esercitato da persone tratte dal grosso del popolo, in dati tempi dell’anno, nella maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale che duri soltanto quanto lo richiede la necessità [sembrerebbe di capire che Montesquieu non vuole istituzioni giudiziarie con persone di carriera, che a vita abbiano tale compito].
    In tal modo il potere giudiziario, così terribile tra gli uomini, non essendo legato né a un certo stato, né a una certa professione, diventa, per così dire, invisibile e nullo… si teme la magistratura e non i magistrati.
    Bisogna inoltre che, nelle accuse gravi, il colpevole, d’accordo con le leggi, si scelga i giudici, o per lo meno che possa rifiutarne un numero tale che quelli che rimangono siano reputati essere di sua scelta [diritto di ricusazione, ammessa limitatamente dalla nostra legislazione, quando un giudice abbia avuto rapporti personali o preesistenti con un imputato]…” [54].
   E’  pur curioso che Montesquieu, che apparteneva ad una Magistratura non solo prestabilita ma anche considerata nobile (nobiltà di toga, ereditabile ed addirittura comperabile),   miri ad una Magistratura elettiva, come carica provvisoria e a scelta degli accusati:  come dire che un imputato possa scegliersi un giudice da lui apprezzato, il che renderebbe impossibile un giudizio imparziale ed obiettivo.  E la parte lesa od offesa, la  parte civile nel processo,  il cosiddetto “convenuto” (colui che deve subire la causa, mentre è “attore” colui che inizia la causa per tutela dei propri interessi lesi dall’altro:  questa terminologia è di tradizione romanista) nelle cause civili, non avrebbe questo stesso diritto ?   E se lo avessero in due, come diavolo si svolgerebbe la causa, tra giudici che divengono avvocati ?   Montesquieu, in questo riprendendo la vecchia tradizione del Diritto romano e della “creazione del Diritto”, sostiene altresì che la decisione del giudice dovrebbe poi aver forza di legge (o si ispira al common law britannico ?  ma questo sarebbe in contraddizione con quanto dice in altra parte, ove il giudice è qualificato come “bocca della legge”.  Ma riprendiamo le sue considerazioni sul potere legislativo, che, in certa misura,appaiono predittive di quanto avverrà in Francia durante la Rivoluzione :
“  … Se il potere legislativo concede a quello esecutivo il diritto di imprigionare i cittadini che possono dare cauzione della loro condotta, non v’è più libertà, a meno che non siano arrestati per rispondere senza indugio a un’accusa che la legge ha reso suscettibile di pena capitale,  nel qual caso sono realmente liberi [???], perché non sono sottomessi che al potere della legge.
     Ma se il potere legislativo si credesse in pericolo per qualche congiura segreta contro lo Stato, o qualche intelligenza con i nemici esterni, potrebbe permettere al potere esecutivo, per un periodo di tempo breve e limitato  [le ben note emergenze  di cui si parla almeno dal 2001…], di far arrestare i cittadini sospetti, i quali perderebbero la libertà per un periodo di tempo, soltanto per conservarla per sempre [santa ingenuità !]
    Poiché, in uno Stato libero, qualunque individuo che si presume abbia lo spirito libero, deve governarsi da se medesimo, bisognerebbe che il corpo del popolo avesse il potere legislativo.  Ma siccome ciò è impossibile nei grandi Stati [una tesi largamente diffusa, ma messa in dubbio oggi dalle possibilità tecnologiche:  vedi INTERNET], e soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, bisogna che il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto quello che non può fare da sé [il neretto è mio]…” [55] .
   Il tema è attualissimo:  oggi molti bofonchiano contro il “populismo”, perché in realtà sono antidemocratici nel profondo del loro animo torbido.  Certo,  nel governare qualunque cosa, anche un piccolo condominio di due famiglia e anche in una sola famiglia,  è difficile che tutti possano o vogliano fare tutto:  vi sarebbe reciproco impedimento.  Intanto, occorre che qualcuno si proponga di svolgere compiti determinati che presuppongono una certa formazione culturale e tecnica, ma occorre anche che si sappia dimostrare di sapere svolgere adeguatamente quella funzione (non solo essere tecnicamente bravi, ma anche onesti…).  La scelta spetta al popolo, ovvero alle persone adulte e consapevoli.  Ma se l’eletto non corrisponde alla necessità, egli deve decadere ed essere sostituito, né più, né meno, anche prima dei tempi prestabiliti per legge, o dimettersi o essere dimesso.  Questa si chiama delega condizionata, che non è la delega cieca ed assoluta delle pseudo-democrazie,  dove, malgrado errori e colpe, se non delitti, si continua a governare con la massima presunzione.  E, riguardo alle leggi, il popolo deve essere nelle condizioni culturali di poter dare il suo parere di massima,  sui princìpi e sulle regole fondamentali, mentre lascerà agli eletti il compito di tradurre nelle questioni particolari e negli aspetti più tecnici  questi princìpi e regole fondamentali.  Non solo, ma deve essere nelle condizioni di poter destituire in qualunque momento quell’eletto che non corrisponda alle promesse fatte, agli impegni presenti o futuri, alle necessità del momento.  Così la democrazia autentica è sempre diretta per la capacità di intervento dei cittadini,  è sempre indiretta e rappresentativa nell’incaricare Tizio e Caio a svolgere un determinato ruolo, che non può essere svolto in massa.  Un’ovvietà, certo, che oggi però è messa largamente in dubbio dalla gazzetteria politicante dei nostri giorni, che vuol ridurci  -  è necessario ribadirlo fino all’estremo -  ad asini bendati che girano la mola sotto l’ordine del padrone, ma ci vanta liberi nelle scelte !
    Torniamo al pensiero di Montesquieu, in parte analitico del suo presente e del passato, ma talvolta propositivo per il futuro (che è anche il nostro presente) :
“ … Ma se, in uno Stato libero, il potere legislativo non deve avere il diritto di bloccare il potere esecutivo [altrimenti si bloccherebbe tutta la conduzione dello Stato], ha il diritto, e deve avere la facoltà, di esaminare in qual modo siano state eseguite le leggi che ha fatto [non si deve dunque boicottare il lavoro esecutivo del governo, ma si deve pure controllare se il governo esegua coerentemente le leggi  approvate dal potere legislativo:  dunque,  separazione, o “distribuzione”  (vedi nota 56)  tra i due poteri, nelle funzioni  e nelle persone, ma c’è un certo grado di subordinazione dell’esecutivo rispetto al legislativo, in quanto al primo spetta solo  l’esecuzione coerente delle leggi approvate.  Il che sappiamo bene che nelle attuali pseudo- democrazie avviene al contrario:  il potere legislativo finisce per  confermare leggi che vengono imposte da quello esecutivo]
    Potrebbe accadere che la legge, la quale è allo stesso tempo chiaroveggente e cieca [cieca, perché impersonale, non vede i singoli casi], fosse, in certi casi, troppo severa.  Ma i giudici della nazione sono soltanto, come abbiamo detto, la bocca che pronuncia le parole della legge:  esseri inanimati, che non possono regolarne né la forza né la severità.  Dunque la parte del corpo legislativo che… è un tribunale necessario in altra occasione, lo è anche in questa:  spetta alla sua suprema autorità [i due ultimi neretti sono miei] di moderare la legge a favore della legge stessa, pronunciandosi meno severamente… [dunque,  i giudici, a parere del nostro Autore, non devono avere il potere di interpretare “creativamente”  la legge, ma di applicarla al caso, secondo le stesse modalità delle legge, la quale va osservata nella sua interezza (di qui l’importanza dei collegamenti tra articoli, ovvero il collegato disposto), ma non inventata di sana pianta, sulla base dell’arbitrio di un solo giudice o di una Corte]
    Il potere esecutivo… deve prender parte alla legislazione con la sua facoltà di impedire; senza di che sarebbe spogliato delle sue  prerogative.  Ma se il potere legislativo prende parte all’esecuzione, il potere esecutivo sarà ugualmente perduto… [si intuisce qui una certa contraddizione, dovuta probabilmente alle condizioni politico-giuridiche del tempo:  potrebbe intendersi che Montesquieu prevedesse un rapporto di collaborazione tra i due poteri o, almeno, un non boicottaggio reciproco.  La legge pone un certa funzione in generale, all’organo esecutivo spetta la sua applicazione nei casi determinati con norme gerarchicamente subordinate (ovvero, non in contrasto con la legge),  ma che distinguono casi particolari: ad es.,  il governo sospende la tassazione in luoghi colpiti da disastri naturali o da operazioni di guerra]
… Il corpo legislativo essendo composto di due parti, l’una terrà legata l’altra con la mutua facoltà di impedire.  Tutte e due saranno vincolate dal potere esecutivo, che lo sarà a sua volta da quello legislativo.
     Questi tre poteri…  sono costretti ad andare avanti, saranno costretti ad andare avanti di concerto.
     Il potere esecutivo, non facendo parte del legislativo che per la sua facoltà di impedire [si può presumere per ragioni tecniche, non nella sostanza generale del deliberato], non potrebbe ingerirsi nel dibattito degli affari. Non è nemmeno necessario che proponga, poiché, potendo sempre disapprovare le risoluzioni, può respingere le decisioni delle proposte che avrebbe voluto non si fossero fatte…” [57].
       Non si può dire che Montesquieu sia molto chiaro nell’indicare i rapporti esatti tra i due poteri, legislativo ed esecutivo.  Anche questo impedimento,  se non dettato da motivi tecnici, impossibilità pratiche ad attuare una certa legge in un determinato momento, difficoltà economiche gravi, ecc., sarebbe in contrasto con l’esigenza del “concerto” fra i  poteri, si arriverebbe alla paralisi o sarebbe una beffa, per cui l’esecutivo non può proporre, ma potrebbe vietare certe proposte, e allora che succederebbe ?   Il punto è sempre il medesimo:  l’Autore non vuole entrare in dettagli precisi perché ciò susciterebbe la reazione del potere assoluto in quel momento.  Non credo vi sia altra spiegazione.  Ma è pure interessante notare che proprio questa imprecisione sarà causa di molte difficoltà procedurali nelle assemblee della Rivoluzione francese, soprattutto nella fase bellica dal 1792 in poi, e susciterà una lotta  politica violenta che, alla lunga, passerà da un sistema democratico avanzato ad un’oligarchia (la fase del Direttorio dal 1795 al 1799),  alla dittatura e all’Impero napoleonico (1799 – 1814/ 15).  Nelle assemblee rivoluzionarie, il potere legislativo avrà comunque di fatto un potere dominante, almeno per le sue maggioranze, pur variabili e non prestabilite, come si vedrà .
      Ora, per concludere sinteticamente sul pensiero di Montesquieu, viene da chiedersi quale sia il sistema di governo da lui veramente, anche se implicitamente, prediletto.  Su questo punto le interpretazioni sono varie:  egli sembrerebbe orientato, secondo la prevalenza degli interpreti, verso il sistema liberale inglese del tempo.  A me personalmente sembra invece che, andando oltre la costrizione che gli vietava di essere più chiaro, egli fosse orientato verso un sistema repubblicano: infatti, a questo sembra andare il suo apprezzamento, analizzandone i fondamenti :
“ DEL PRINCIPIO DELLA DEMOCRAZIA.
     Non ci vuole molta probità perché un governo monarchico o un governo dispotico si mantenga o si sostenga.  La forza delle leggi nell’uno, il braccio del principe sempre alzato nell’altro, regolano e tengono a  freno tutto.  Ma in uno Stato popolare ci vuole una molla di più,  che è la VIRTU’…[il chiodo fisso di Robespierre:  ma che la Virtù sia principio  della Repubblica risale a Platone,  nelle “Leggi”:  e se volessimo chiederci perché la Virtù non predomina nelle nostre “democrazie”, rispondiamo semplicemente perché non sono autentiche democrazie,  ma regimi oligarchici mal mascherati.  Per molti anni ho cercato quale fosse il sistema vigente in Italia dopo il 1948:  nominalmente una “repubblica fondata sul lavoro”;  non più una “monarchia liberale”.  Dunque ?  Giunsi alla conclusione, vedendo certi comportamenti e certa propaganda, che il nostro è, dal 1948, di fatto  uno Stato Pontificio  fondato sui ludi circensi  e sull’affarismo]
   LA VIRTU’  NON E’  IL PRINCIPIO DEL GOVERNO MONARCHICO.
…  Ora, nelle repubbliche, i delitti privati sono più pubblici, cioè offendono la costituzione più che i particolari [nella repubblica e nella democrazia, il delitto è tale non per l’interesse del singolo, ma  per offesa e violazione della Legge]
DEL PRINCIPIO DELLA MONARCHIA .
    Il governo monarchico presuppone delle preminenze, dei ranghi…
    L’ambizione è perniciosa in una repubblica.  Produce buoni effetti  nella monarchia [che si fonderebbe sull’onore]…”[58] .
     Ancora, riguardo alle leggi sull’educazione, nei tre diversi regimi:
“  DELL’EDUCAZIONE NEL GOVERNO REPUBBLICANO .
E’  nel governo repubblicano che si ha bisogno di tutta la potenza dell’educazione…
    Si può definire questa virtù, l’amore delle leggi e della patria [cose oggi in Italia estremamente scarse…].  Quest’amore, richiedendo una preferenza continua verso l’interesse pubblico in confronto al proprio [l’amore, l’impegno verso la legge è anche a mio favore;  l’interesse solo a mio favore non coincide quasi mai con quello generale], conferisce tutte le virtù particolari: esse non sono altro che tale preferenza.
     Quest’amore è particolarmente legato alle democrazie.  Soltanto in esse il governo è affidato ad ogni cittadino [ben altrimenti avviene nelle pseudo-democrazie attuali].  Orbene,  il governo è come tutte le cose di questo modo:  per conservarlo, bisogna amarlo…
    Tutto dipende perciò dallo stabilire quest’amore nella repubblica:  e l’educazione deve essere appunto sollecita a ispirarlo…
DELLA CLEMENZA DEL PRINCIPE
La clemenza è la qualità distintiva dei monarchi.  Nella repubblica, dove si ha per principio la virtù, è meno necessaria…” [59].
     Non possono esservi Repubblica o Democrazia (Montesquieu correttamente identifica i due termini)  senza che i cittadini siano politicamente e civilmente educati, che amino le istituzioni e le leggi,  facendo sì  che esse migliorino, e non semplicemente cambino.  Oggi si parla di riforme che sono, nella realtà, controriforme o deformazioni per fini tutt’altro che popolari, nazionali o umani, ma per l’egoismo di singoli gruppi e classi che mirano all’infinito arricchimento sulle spalle dei poveri o dei piccoli benestanti, comunque dei lavoratori del passato e del presente.  Non credo quindi di errare se vedo in queste affermazioni  le punte d’iceberg  delle sue reali convinzioni, espresse in modo certo limitato per non provocare sanzioni o repressioni nei suoi confronti.  Dati i tempi e i metodi, ciò è perfettamente comprensibile. 


Capitolo III:  Dal 1789  al  Settembre 1792.

        Si parla, in questi ultimi decenni di “governabilità”, ovvero della capacità di un qualunque governo di imporre le proprie decisioni alle assemblee legislative e farle approvare tramite maggioranze prestabilite:  in tal modo si ritiene che si possa essere produttivi ed efficienti.  Poi il popolo, alle scadenze elettorali, può esprimere gioia o disappunto per tali leggi, che  - nel caso di governo nuovo - verrebbero rifatte. Così in una serie di cicli penelopei (fare e disfare), si crede di poter fondare una società ed un’economia serie.  Nulla di più lontana questa mentalità  dalla prassi delle assemblee rivoluzionarie francesi, dove non esistevano maggioranze predeterminate, dove si discuteva con profondità, passione e critica (almeno finché si potè), giungendo  a formulare tre Costituzioni ed ottime leggi, soprattutto chiare e non variamente interpretabili.  L’opera delle Assemblee costituzionali e legislative, che costituivano il potere dominante, fu enorme per quantità di disposizioni e qualità delle stesse.  I vari governi che si succedettero, con l’eccezione del Comitato di Salute Pubblica diretto da Robespierre, che merita un discorso a parte e che farò dopo,  furono tutto sommato opachi,  in quanto “esecutivi”  nel senso letterale del termine.
        Ed ora passiamo agli sviluppi storici e al chiarimento di certa terminologia politica:   la Rivoluzione passa da teoria a pratica per una serie di avvenimenti di una certa importanza.  La Francia di fine secolo XVIII è, malgrado molte sconfitte, lo Stato non solo più popoloso, ma anche quello più potente sul piano militare nell’Europa del tempo.   Se, dalle guerre di Successione fino alla guerra dei Sette Anni, ha subìto molte perdite dai rivali inglesi, soprattutto nelle colonie americane,  nondimeno con la  Rivoluzione Americana, contribuisce notevolmente alla nascita degli Stati Uniti d’America, sia per i suoi volontari, sia per  i grandi finanziamenti.   E’  uno Stato economicamente ricco, ma la sua ricchezza (e soprattutto il suo sistema fiscale,  un tema di grande attualità per la nostra Italia, dal 1973 ad oggi…)  è mal distribuita e mal tassata.  Chi paga le imposte ?  Soprattutto  i gruppi sociali del Terzo Stato (borghesi, artigiani, contadini), mentre il Primo e Secondo Stato (nobili ed alto clero),  pur proprietari  di vasti appezzamenti  non pagano nulla.  Nel 1788/ 89, anche a causa di carestie,  le casse dello Sato sono vuote:  Luigi XVI, un  re tutto sommato tutt’altro che negativo o scemo come si tende a credere,  è però inadatto ai tempi:  vorrebbe essere un despota illuminato come i suoi colleghi di Prussia e d’Austria, rinnovare secondo i suoi obiettivi lo Stato con piccole modeste riforme, ma nella Francia del suo Regno ormai ribollono esigenze completamente diverse, ben più avanzate, grazie al lungo lavoro dei suoi illuministi ed enciclopedisti, i suoi ideologi e filosofi.  Ma il primo problema è quello finanziario:  manca ormai il denaro per qualunque cosa.  Non gli resta che convocare  gli Stati Generali, ovvero una grande assemblea nazionale a carattere consultivo, con regolari elezioni che,  la cosa può suscitare meraviglia per i tempi,  è già a suffragio universale maschile.  Votano tutti e intanto  inviano ai propri futuri rappresentanti documenti di protesta e di proposta i celebri cahiérs des doleances.  Tutto ciò  sembra la cosa più democratica del mondo, se non fosse che tale convocazione ha atteso oltre un secolo (prima di Luigi XIV, il Re Sole), e se non fosse soprattutto per un furbesco meccanismo:  i tre Stati hanno rappresentanze sproporzionate ovviamente, perché  nobili e alto clero  sono molto limitati, mentre l’estrema maggioranza appartiene al Terzo Stato.  Il re vuole, anzi esige, il rispetto della consuetudine che vuole tre assemblee distinte, in cui ciascuna vota a maggioranza, ma poi si contano le assemblee,  e non i singoli deputati (voto per Stato, e non voto per testa):  il che significa che vi saranno, come già nel 1614,  due Stati (nobili ed alto clero)  contro uno.  Un trucchetto politico-istituzionale, plurisecolare, che però, proprio grazie ai dibattiti illuminati ed illuministi, non regge più.  Il Terzo Stato vuole una sola adunanza, il voto per testa, e il calcolo della maggioranza numerica dei deputati.  Alcuni rappresentanti  del Primo e Secondo Stato accettano di aderire, e nasce così  un’Assemblea Costituente  che il re vuol far sciogliere:  è la prima affermazione della sovranità  popolare e nazionale, contro la sovranità del re.  Invano Luigi  XVI  manda ordini e addirittura fa chiudere la sala di riunione a Versailles, per cui i deputati si riuniscono nella Sala della Pallacorda (una specie di palestra o campo sportivo coperto).  Celebre la frase di Bailly, futuro sindaco di Parigi,  al messaggero del re:  “La Nazione riunita non accetta ordini”.  Mirabeau nobile, invece, tuona:  “Non usciremo di qui se non con la forza delle baionette”.  Già un saggio, divenuto celebre dell’abate Sieyés,  “Che cos’è il Terzo Stato ?” (è tutto  - scrive  - ma non conta nulla;  vuol contare qualche cosa),  ha prefigurato la grande riforma procedurale.  Trasferitisi nella sala della Pallacorda,  i deputati giurano di non separarsi mai, finché non vi sarà una Costituzione che liberalizzi lo Stato,  riduca il re ad una personalità rappresentativa con pochi poteri (nessuno in quel momento e per qualche anno si proclamerà repubblicano),  crei un sistema fiscale a cui tutti siano sottoposti, attraverso l’abrogazione dei privilegi nobiliari (questo sarà raggiunto nella notte del 4 agosto 1789).
       Ma nel frattempo, in cui i deputati discutono di sovranità formale, il popolo (soprattutto artigiani, bottegai, operai)  pensa alla sovranità sostanziale.  C’è  in piena Parigi una fortezza che da secoli funzionava come prigione per gli oppositori politici:  ormai ve ne erano estremamente pochi,  è la Bastiglia.   Camille Desmoulins, uno dei capi dei Cordiglieri  (spiegherò dopo il significato di questi termini) come Danton,   in un pubblico ed infiammato discorso esorta il popolo ad attaccarla.  E  l’attacco avviene, non senza resistenza  da parte della guarnigione mercenaria (sono soprattutto Svizzeri, come nel 1792 alle Tuileriés), diretta  dall’ufficiale de Launay, che dà ordine di sparare sulla folla, ma finisce per essere catturato ed impiccato.  Babeuf, allora semplice cittadino,  dirà alla moglie che questo era un effetto di tante pubbliche e crudelissime esecuzioni, che hanno inferocito il popolo. E di fatti crudeli ne vedremo parecchi.  Siamo agli inizi di un lungo processo di appropriazione del potere da parte del popolo con uso della forza (fin qui proporzionato, perché  sia alla Bastiglia come più tardi alle Tuileriés,  si reagisce in modo armato alla forza armata; ma sarà sproporzionato quando nel settembre 1792, il popolo assalterà le prigioni, con gente resa innocua, e la massacrerà letteralmente,  le celebri stragi di settembre), che non sempre però riuscirà, come nel caso delle stragi al Campo di Marte (1791) quando la Guardia  Nazionale, fondata e comandata da Lafayette,  il celebre reduce della Rivoluzione Americana, soprannominato “eroe dei due mondi” prima di Garibaldi  proprio per questa sua partecipazione,  sparerà  su cittadini inermi in festa e, per un certo periodo, Luigi XVI  sembra riaffermare la propria supremazia, il che però durerà poco .
       Si diceva delle denominazioni dei gruppi politici:  essi spesso prendono il nome dei conventi che, dopo esser rimasti vuoti dei rispettivi monaci o frati, vengono eretti come sedi di riunioni politiche,  non molto organizzati, ma una prima formazione di gruppi ideologicamente indirizzati:  quella dei Giacobini, che era la più estesa ed inizialmente liberal-democratica, monarchica costituzionale, e quella dei Cordiglieri,  orientata in senso social-progressista, capitanata dall’avvocato Danton.  I Giacobini poi, con l’Assemblea Legislativa si divideranno prima tra Foglianti (monarchici costituzionali),  quindi tra Girondini (o rolandini o brissotini, ovvero seguaci di Roland e di Brissot,  tendenzialmente e poi effettivamente repubblicani)  e  Giacobini (robespierriani),  che si affiancheranno successivamente ai Cordiglieri nelle assemblee e alla Commune parigina.    Queste denominazioni non erano in origine “parlamentari”, ma riguardavano gruppi esterni.  Nell’Assemblea Costituzionale si lavora abbastanza d’amore e d’accordo, i guai cominciano con la nuova Costituzione, la quale, dal punto di vista tecnico e formale,  è la migliore di questa fase storica, ma ha un difetto fondamentale:  per seguire il modello americano (com’è noto, in  Gran Bretagna tuttora non  esiste propriamente una Costituzione scritta, al di là di alcune garanzie formali),  si dà al re  il potere di veto (lo soprannomineranno addirittura Monsieur Veto,  perché in molti casi oppone il suo rifiuto a leggi che colpiscono la Chiesa Cattolica, la cosiddetta “costituzione civile del clero”, ed altre), di cui Luigi XVI approfitta forse eccessivamente, seguendo consiglieri assolutisti: ciò  lo renderà sempre più odioso alla popolazione.
    Fuori dalla Francia, ormai,  nella vicina Koblenz (città della Germania, allora appartenente al Sacro Romano Impero sotto direzione absburgica), si radunano e si agglomerano i cosiddetti “emigrati”, legittimisti, soprattutto nobili favorevoli alla piena restaurazione dell’assolutismo e brigano, come li accuserà Jacques-Pierre Brissot,  di richiedere l’interevento delle potenze europee contro la Francia.
    Un altro fatto interessante e che rende la Rivoluzione francese “contemporanea” [60]  è la grande partecipazione delle donne, e soprattutto delle donne del popolo:  sono queste che si avviano in marcia da Parigi a Versailles e costringono l’intera Corte e l’Assemblea Costituente a trasferirsi in blocco a Parigi, in modo che il re, la regina e tutta la Corte siano sotto il  controllo popolare.  Se vogliamo, fu anche l’ultimo atto d’amore  delle donne parigine  per i due sovrani, l’ultimo tentativo di vederli vicini al popolo, non solo materialmente, ma soprattutto moralmente.   Non basta:  le donne partecipano anche  ideologicamente  alla battaglia rivoluzionaria, con scritti e discorsi: Manon Phlipon moglie del ministro girondino Roland  fu considerata la consigliera e “ninfa Egeria” del gruppo girondino;  Olympe de Gouges fu anche la prima teorica dei “diritti della Donna”, per i quali elaborò una Dichiarazione sulla scìa della celebre Dichiarazione dei Diritti del 1789:  Olympe era  vicina ai Girondini, i quali del “femminismo” e dell’eguaglianza politica anche per le donne fecero una bandiera (ricordo il già citato Condorcet);  Teroigne de Mericourt, a metà strada tra Girondini e Cordiglieri, che, per la sua audacia “virile”, finì poi per subire gravi aggressioni fisiche da parte di sanculotti, tanto da impazzire e divenire coprofaga;  Charlotte Corday che vendicò  i primi ghigliottinati pugnalando Marat   nella sua caratteristica vasca a forma di scarpone [61].
      Dalla parte opposta, le donne della Vandea, anch’esse figlie della Rivoluzione,  ma legate alla tradizione e fede cattolica, e sollecitate dai loro confessori sacerdoti “refrattari”.  Essi, secondo lo storico Michelet che le descrive con qualche sarcasmo,  ricattavano sessualmente i loro mariti vandeani sollecitandoli a combattere contro la Rivoluzione per vendicare il re ghigliottinato e difendere la Chiesa cattolica.  Chi erano i preti refrattari ?  Coloro che si erano rifiutati di giurare fedeltà  allo Stato laico e che vivevano in clandestinità, mentre i preti che accettavano il nuovo regime erano detti “giurati”:  si trattava di una sorta di scisma interno che ha qualche analogia con la situazione della Chiesa cattolica, da Mao in poi,  distinta in “patriottica” e “non patriottica”,  in Cina.  Ecco un altro esempio di “contemporaneità”  della Rivoluzione Francese .
     Torniamo alle nostre denominazioni:  presto nell’Assemblea Legislativa ma soprattutto con la nuova Convenzione (termine preso dalla tradizione americana, con funzione costituente) del 1792 -  1795,  i Giacobini robespierriani e i Cordiglieri di Danton assunsero il nome di Montagnardi (perché sedevano sugli scranni in alto del settore sinistro dell’assemblea), mentre il gruppo filogovernativo  di Brissot venne chiamato dei Girondini,in quanto in larga parte provenienti dalla Gironda (del resto, la gran parte dei  deputati provenivano dalla periferia dello Stato).   Una forza , giuridicamente esterna ma di grande peso per i fatti successivi,  era quella della Commune, né più né meno che l’amministrazione di Parigi, per un certo periodo diretto da Robespierre e dai suoi seguaci,  impose più di una volta, con l’intervento in aula dei sanculotti,  la volontà della popolazione artigiana e bottegaia locale alle decisioni della maggioranza assembleare.  Non solo, il controllo della Guardia Nazionale, nata per difendere la Rivoluzione da rigurgiti monarchici ed assolutisti, appartenne di fatto agli uomini della Commune,  che organizzava anche le grandi “Giornate”  di rivolta (le journées),  prima contro il re, poi contro la stessa Convenzione.   Perché si chiamavano sanculotti o più esattamente sans-coulottes ?  non è che andassero in mutande, anzi  avevano i primi calzoni lunghi fino al piede, a differenza dei nobili che portavano le “brache” al ginocchio.   Quella dei calzoni lunghi fino al piede e i capelli lunghi, privi di parrucche ma coperti spesso dal celebre berretto “frigio” rosso, con coccarda  tricolore, simbolo di emancipazione degli schiavi,  fu la prima divisa rivoluzionaria.   Non erano, come talvolta si crede,  gente disoccupata o violenti di professione:  erano per lo più artigiani, operai e piccoli negozianti,  stanchi di secoli di oppressione, ma privi  di una cultura approfondita, e pieni di slogans (altro aspetto questo, molto “contemporaneo”).
       Sempre ai Giacobini e ai Montagnardi erano vicini i gruppi estremisti, gli “Arrabbiati”  di Hébert, dalle idee non tanto chiare,  di orientamento “proto-anarchico” e con aspirazioni di riforma sociale “proletaria”.   Difficile è dire fino a che punto questi movimenti secondari avessero un certo seguito popolare: e i loro tentativi o erano di fiancheggiamento dei gruppi maggiori, o finivano per fallire.   Nella Convenzione, oltre alla “Gironda” e alla “Montagna”,  era presente una vasta e variegata maggioranza di deputati spesso opportunisti, pavidi, che seguivano la corrente, timorosi per se stessi:  era la “Pianura”  o “Palude”,  costituita da ex-Foglianti, da persone che partecipavano poco e che votavano secondo il vento o le esigenze del momento:  furono queste a decretare di volta in volta leggi estremiste, leggi più moderate e, soprattutto, di volta in volta l’eliminazione degli avversari politici, che Robespierre designava (le cosiddette infornate),  finché  questo gruppo non decise di eliminarlo a sua volta.   E’  opportuno notare che, nelle assemblee rivoluzionarie, la distinzione solita tra “destra” e “sinistra”, in senso inglese o nel senso di successive ideologie, non aveva alcun valore,  né era usata.   Chi oggi tra gli storici la usa, in realtà  compie un grossolano anacronismo.   Ciò che determinava un gruppo, non era la posizione fisica nell’aula, ma il programma, più o meno spinto, che puntava ad attuare .
     Malgrado l’enormità della situazione finanziaria ed economica,  si riuscì ad abolire i privilegi dei due Stati superiori, i cui membri rinunciarono con relativa spontaneità a tali vantaggi.    Le vaste proprietà immobiliari vennero a costituire la garanzia materiale per una nuova moneta, cartacea, l’assegnato,  il cui valore pur presto  calando,  potè  reggere per vari anni,  consentendo così ai governi di finanziare riforme  quelle sì  “epocali”  (per usare un termine di moda), migliorando le condizioni generali e arrivare perfino a sostenere una lunghissima guerra la quale, con poche interruzioni, durò fino al 1815, con la disfatta di Waterloo.  Certo, la Francia aveva già tutte le risorse economiche di base, ma si trovò, come si  dovrà poi ricordare, in situazioni che, per qualunque mal-governante o s-governante dei nostri giorni,  sarebbero  insostenibili:  carestie,  guerre esterne, guerre civili, e nondimeno la  Francia  resse.  Questo significa veramente riformare uno Stato e non deformarlo come si  fa oggi, a tutela di speculatori e di sfruttatori, quando   alla repressione si preferisce la cosiddetta “congiura del silenzio”, il boicottaggio sistematico, assai meno costoso, comodo e  - tutto sommato  - ben più efficace,  alla diffusione di idee  democratiche avanzate.   Si preferiscono slogans e dichiarazioni verbali alla sostanza delle cose, e i  risultati si vedono largamente in ogni settore della vita dei singoli e della Nazione, come della sedicente Unione Europea [62].


Capitolo  IV:   Opera Riformatrice della Rivoluzione.

       Viste a distanza di tempo, le Assemblee rivoluzionarie svolsero un’opera gigantesca,  sia dal punto di vista istituzionale, sia da quello individuale ed economico-sociale.  Ovviamente non tutto andò alla perfezione, anzi:  ma se valutiamo il tutto con criteri obiettivi, bisogna dire che l’azione legislativa lasciò un’impronta innovatrice e miglioratrice, di cui oggi noi godiamo  come eredità.  A titolo d’esempio fin dal 3 novembre 1789 (era ancora vigente l’Assemblea Nazionale Costituente)  venne emessa la prima legge di procedura penale, la quale fissava le nuove garanzie per gli imputati e instaurava il procedimento  accusatorio al posto di quello inquisitorio: merita qui un cenno la definizione del garantismo nella procedura, che non è né “buonismo”, né “perdonismo”, né misericordia.  La garanzia dell’imputato è, di per sé,  garanzia per la vittima di un reato o dei suoi eredi, ai quali non deve interessare che venga punito un qualunque capro espiatorio, il “primo fesso” che passa tra  le zampe dell’inquisitore,  ma che venga punito l’effettivo colpevole, per quanto umanamente possibile.  Solo in secondo luogo, la garanzia serve all’accusato stesso .
      Questa legge prevedeva un tempo d’arresto di 24 ore, prima dell’interrogatorio, mentre oggi in Italia ve ne sono stabilite 48, ulteriormente prorogabili di altre 48, specie se vi sono festività, per cui il magistrato è esonerato dall’interrogare con velocità la persona fermata.    Altro punto di notevole modernità  di tale legge fu il distinguere il carcere per condannati definitivi dalla maison d’arret, che potremmo rendere con istituzione di fermo provvisorio (Titolo XIII) [63] .   Come rileva il citato storico Locré de Boissy, il nuovo sistema favorì piuttosto la criminalità comune,  mentre colpì  in modo durissimo gli atti considerati “crimini”  sul piano politico.  Ma di ciò  più avanti.  L’Assemblea Costituente emanò la celeberrima “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino”,  e una Costituzione avanzatissima, che però potè durare poco per le vicissitudini successive.  Fu creato un sistema metrico a base decimale,  che noi tuttora usiamo, salvo i Paesi anglosassoni notoriamente “progrediti”.  Lo stesso dicasi per la Legislativa e per la Costituente Repubblicana, ovvero Convenzione,  le quali modificarono completamente la struttura  dello Stato,  crearono  nuove condizioni per il clero (Costituzione civile e  Giuramento:  i  preti diventavano impiegati civili, ma quelli che non accettavano tali condizioni furono ridotti alla clandestinità:  cosiddetti “preti refrattari”, che furono poi gli istigatori della rivolta vandeana);  venne riformato il calendario annuo,  sulla base di più precisi calcoli astronomici, con quelle denominazioni poetiche di stagioni e mesi. Il termine “signore” venne abrogato e sostituito da quello di “cittadino”, applicato a uomini e donne.  Abrogati i titoli nobiliari ed anche ecclesiastici. La settimana venne sostituita dalla decade (il cui ricordo si trova nel modo di pagamento di soldati semplici, ad esempio nel’Esercito di leva in Italia).  Venne creata una Guardia Nazionale a difesa degli interessi borghesi contro rigurgiti assolutisti, ma anche contro  ribellioni popolari (così quella del Campo di Marte nel 1790).  Venne riformato il sistema scolastico.  In pochi anni, e malgrado l’inizio di una guerra durissima che a sua volta provocò  una lotta politica interna sempre più violenta, fino  a sfociare in guerra civile,  malgrado il Terrore, gli arresti sempre più indiscriminati, ecc.,  nondimeno queste Assemblee fecero un enorme lavoro:  nessuno  di loro si risparmiò, e diremo nel bene così nel male.  Di fronte a tutto  questo l’operato, non riformatore ma deformatore  vigente ai nostri tempi, fa o pena o ridere tristemente,  talvolta provoca una fortissima nausea .
     Ora è interessante capire la concatenazione dei fatti che portò a rapida degenerazione l’applicazione dei princìpi giuridici, particolarmente penali,  che pure aveva creato tante speranze di progresso civile, politico e sociale.   Ovviamente, non farò  un’analisi sistematica dei fatti, ma espongo alcuni momenti essenziali,  in parte errori, in parte colpe e sopraffazioni compiute soprattutto nella fase più terribile della Rivoluzione .   Il primo problema che insorge già con la stessa Costituente e la prima Costituzione  è dato dai rapporti di un  re, per nulla malvagio e nient’affatto cretino  in tempi normali (certamente migliore di  tanti suoi predecessori e successori),  inadatto a sostenere una situazione rivoluzionaria.  Nato sotto un regime assolutista, per quanto “clemente” Luigi XVI  non poteva né capire né accettare di diventare un sovrano costituzionale di una monarchia liberale: probabilmente sperava di tornare ad essere un sovrano “illuminato” come i suoi colleghi di  Prussia e d’Austria, ma la Francia ormai, proclamando la sovranità della Nazione e del Popolo, non era né l’Austria, né la Prussia, e neppure la Gran Bretagna del tempo.  Aveva fatto un salto decisivo, e gli stessi deputati della Costituente lo capirono poco quando, per imitare il sistema americano,  posero tra le prerogative  del re il diritto di “veto” alle leggi.  Di questo “veto”,  Luigi XVI fece più volte un uso decisivo, tanto da essere poi soprannominato “monsieur Veto”.   Qui a mio parere comincia la crisi tra i rivoluzionari e il re:  quella del 1789 era forse tecnicamente  la Costituzione migliore (tanto che, eliminando l’idea di un sovrano ereditario da sostituire con un rappresentante elettivo, si  poteva tranquillamente trasformarla in repubblicana), soprattutto relativamente ai tempi, ma il suo punto critico consisteva proprio in questo diritto:  infatti  i costituenti ignorarono che, mentre negli USA  il presidente era elettivo e di breve durata,  il re  era a vita, e in più  formato culturalmente in senso assolutista, secondo  il vecchio detto giuridico:  “quod principi placuit, legis habet vigorem” (letteralmente,  “ciò che piacque al principe ha vigore di legge”):  ogni capriccio del re è legge.   Evidentemente, con una mentalità del genere, affidargli un diritto di “veto”, era come risvegliargli tutte le ambizioni  assolutiste.  Malgrado ciò, nel solo mese dell’agosto 1789, si ha l’abolizione dei diritti feudali (a cui, non senza risarcimenti, gli aristocratici e l’alto clero rinunciano)  e la proclamazione dei celeberrimi  Diritti dell’Uomo e del cittadino (altro che le deformazioni dei giorni nostri !).
        Ufficiali e nobili della Corte festeggiano a Versailles, non si sa ben cosa verso ottobre:  corre notizia a Parigi che uno di essi ha preso la nuova coccarda tricolore (la bandiera della Francia era  stata sempre bianca, con giglio d’oro:  ora viene adottato il tricolore, unendo il blu e il rosso della Commune, come nuova bandiera francese), e l’ha calpestata per irrisione.  La popolazione parigina, con in testa le donne  quasi tutte popolane,  marcia su Versailles  e costringe re, regina, Corte ed Assemblea a trasferirsi  a Parigi, nel vecchio palazzo delle Tuileriés.     Il 2 novembre si ha l’incameramento dei beni ecclesiastici  (terreni enormi,  abbazie, conventi, ecc.), altra cosa su cui Luigi XVI,  fedele cattolico,  presentò opposizione, anche se vanamente.  Peggio andò  nel successivo 1790, quando il 12 luglio venne proclamata la Costituzione Civile  del Clero, che provocò la prima lacerazione, non solo con gli alti livelli della Chiesa Cattolica (vescovi, arcivescovi, cardinali), ma soprattutto con i semplici sacerdoti:  alcuni  giurarono a favore dello Stato, altri lo rifiutarono (i refrattari).   Questa prima lacerazione provocò ed alimentò  la ribellione vandeana, popolare, ma antirepubblicana.  Il 14 luglio, anniversario della presa e distruzione della Bastiglia, si festeggiò, con la Festa della Federazione,  l’anniversario  Il 2 aprile 1791  muore Mirabeau, il  quale come ministro e come deputato aveva svolto, non senza fenomeni di corruzione,  una funzione mediatrice tra Assemblea e Corte cercando di realizzare un politica di compromessi, grazie al suo  prestigio e alla grande capacità oratoria (ma quest’ultima fu la grande caratteristica dei tempi in Francia, ed ebbe un ruolo politico per nulla indifferente [64]).  La sua morte fu causa indiretta di crescente incomprensione tra i rivoluzionari e la Corte, tanto che il  20 giugno,  Luigi XVI con l’intera famiglia e la cooperazione dello svedese Fersen  tentò  la fuga verso la Germania, ma fu riconosciuto e bloccato a Varennes, quindi rimandato indietro.  Si cercò in un primo tempo di far passare l’episodio per un rapimento o per qualche equivoco, ma il tentativo del sovrano di emigrare anche lui  (ricordo che a Koblenz agivano gli emigrati aristocratici assolutisti che rifiutavano ogni riforma, anche solo liberale)  spalancò la strada ai più aperti repubblicani.  Infatti il 17 luglio al Campo di Marte si ha  una manifestazione repubblicana che suscitò una strage e successive repressioni.  La Guardia Nazionale, rivoluzionaria,  ma borghese, comandata dal Lafayette iniziò a sparare sulla folla.  Vennero eseguiti arresti.  Lo stesso Jean-Paul Marat  fu costretto, per un periodo, a rifugiarsi in Gran Bretagna.   Il 25 agosto,  a Pillnitz, i sovrani di Prussia e d’Austria [65]  minacciarono la Francia di guerra, se a Luigi XVI  fosse stata tolta la libertà di movimento
      E’  evidente che tutti gli Stati europei, e soprattutto le due maggiori potenze confinanti (a cui si aggiungeranno presto la Spagna e perfino  il Regno di Sardegna, retto dai Savoia),  sentono che la Rivoluzione Francese non è qualcosa di “interno” o di limitato in un  certo ambito nazionale, ma costituisce un pericoloso esempio per tutta l’Europa:  la Rivoluzione Francese comincia quindi a divenire Rivoluzione Europea e, in quanto tale “mondiale”, come nessuna delle precedenti Rivoluzioni, ancorché in Stati notevoli (Inghilterra, colonie americane poi USA),  era mai stata .
      Intanto il 1°  ottobre 1791,  si apre la nuova Assemblea Legislativa (non durerà neppure un anno)  che ha questa caratteristica:  proprio su proposta di Robespierre,  che allora appare come un deputato di second’ordine,  avvocatuzzo di provincia con molte ambizioni che aumenteranno col tempo,  vengono esclusi tutti i costituenti (alcuni di questi riappariranno con la Convenzione, tra cui lo stesso Robespierre, e però opereranno all’esterno nei Clubs giacobini e cordiglieri, oppure nella Commune parigina).  Sicché  all’Assemblea Legislativa arrivano personaggi del tutto giovani e, soprattutto, nuovi per mentalità, poco portati ai metodi compromissori delle vecchie tradizioni parlamentari liberali.   Tra essi si fanno strada quelli che saranno i deputati della Gironda e di altre regioni periferiche della Francia (Marsiglia soprattutto), detti in blocco “Girondini, o brissotini o rolandini”, a seconda della provenienza geografica o del sostegno dato al giornalista Brissot, con tendenze anticentraliste, o al ministro Roland, marito della più celebre Manon Phlipon a cui si è già accennato.  L’Assemblea Legislativa rappresenta così una decisa rottura col vecchio sistema monarchico e perfino con quello delineato dalla prima Costituzione.  E’  difficile dire se un tale fenomeno fosse stato auspicato da Robespierre (che per sé rimarrà monarchico fino alla caduta della monarchia, come si vedrà),  ma è probabile che, se il suo auspicio era sicuramente un rinnovamento dei costumi politici, non si attendeva un completo rovesciamento della situazione.  Infatti, la lotta tra  Robespierre e i nuovi arrivati cominciò ben presto proprio a proposito della guerra avanzante con le potenze assolutiste.   Va però  specificato per correttezza storica che Robespierre si oppose alla deliberazione costituente di ridurre  il sistema elettorale da universale maschile a reddituale (il marco d’argento,  ovvero la capacità economica degli elettori e degli eletti,  che era stata proposta  da Sieyés ed approvata dalla maggioranza):  è probabile che, se si fosse mantenuto il suffragio universale, l’Assemblea Legislativa sarebbe stata ancora più rivoluzionaria e tendenzialmente repubblicana.  Forse proprio per questo Robespierre contrappose l’idea di escludere almeno per la  prima assemblea legislativa la presenza dei costituenti [66], fra cui  - non va dimenticato  -  se stesso.
      La deliberazione limitativa al diritto di voto, attivo (poter eleggere)  e passivo (non poter votare, perché con reddito insufficiente)  era del resto coerente con la nuova legislazione sociale che impediva la formazione di associazioni operai, leghe di resistenza e “sindacati” (di là da venire:  il tutto riapparirà in forma clandestina nell’800);  questo, che ci sembra (ed era in realtà)  un regresso, era dovuto all’idea, condivisa allora da tutti i rivoluzionari,  di eliminare ogni forma di corporazione medioevale che impedisse la libera concorrenza:   erano tutti liberisti, anche se non tutti allo stesso modo.  Solo nell’economia di guerra del periodo robespierriano  si cominciò a tornare a forme stataliste, ma viste come misure provvisorie di difesa  dai blocchi imposti dagli Inglesi e da altri Stati [67].   Era la legge La Chapelier   (14 giugno 1791) dal nome del suo propositore, una legge che avrebbe dovuto limitarsi ad impedire un corporativismo surrettizio, ma invece servì al capitalismo sorgente di arricchirsi, sfruttando con mano libera e  - come ben si sa  -  la guerra è sempre stata un’occasione d’oro per chi vuole arricchirsi facilmente,  anche se il Terrore era indirizzato anche contro gli speculatori, ma con risultati assai limitati .
      Siamo dunque nel dicembre 1791:  sia nel Club dei Giacobini, di cui fa ancora parte per poco il gruppo di Brissot, sia nell’Assemblea Legislativa si scatena una polemica piuttosto netta tra Brissot e Robespierre.  Una delle strane curiosità della storia è che si classificano Brissot e seguaci, come “moderati”,  mentre i Giacobini e i Cordiglieri (ambedue nella Convenzione denominati Montagnardi) vengono classificati, in senso positivo o negativo poco importa,  come “estremisti”  o rivoluzionari autentici.  Ma come si fa a giudicare “moderato” ( a fine secolo XVIII !)  un Brissot che, precedendo Proudhon, aveva indicato  nella proprietà feudale semplicemente l’effetto di antichi furti e rapine, su cui pure aveva scritto un’opera “Rapporto tra la proprietà e il furto”?  Come considerarlo “moderato”, se già nel secolo XVIII  aveva sostenuto l’esigenza dell’abolizione della schiavitù in generale e dei Neri in particolare ?  Come giudicarlo  “moderato”  quando grida, precedendo di gran lunga il concetto di “guerra rivoluzionaria” del secolo XIX e, soprattutto, del XX :  “Non avremo pace vera, finché l’Europa, tutta l’Europa  non sarà in fiamme?”.  E il “moderato” Brissot,  proprio nel dicembre 1791  espone ai Giacobini e nell’Assemblea Legislativa  l’esigenza di una guerra preventiva contro gli emigrati di Koblenz e i loro alleati, sovrani di Prussia e d’Austria ? [68]. E nelle parole non va per il sottile, perché  mira all’annientamento degli aristocratici ivi rifugiati, li chiama ribelli, ecc. .
     Ora perché invece l’ “estremista”  Robespierre  gli contrappone piuttosto la guerra interna, contro gli oppositori interni, almeno prima di muovere contro i potenti confinanti ?   Certo, sul piano del realismo Robespierre sembrò più chiaroveggente e invece Brissot un utopista guerrafondaio, in quanto il primo si rese subito conto che l’Esercito francese (che aveva perduto con l’emigrazione nobiliare tutti i suoi comandanti) era privo, se non di uomini, di comandanti idonei, ma il secondo, forse per informazioni diverse,  sapeva che in quel momento  in molti Paesi (Germania e Italia in testa) vi erano moltissimi simpatizzanti  per la Rivoluzione Francese e sapeva che una Rivoluzione o si espandeva, o avrebbe finito per inaridirsi.
     In quel momento Robespierre venne isolato e i Girondini, appoggiati pure (ma per ben opposti motivi) dalla stessa Corte, che contava su una vittoria austro-prussiana  e l’eliminazione della Rivoluzione stessa,  nonché da un Danton, il quale lancerà il motto famoso :  “Bisogna essere audaci, ancora più audaci, sempre più audaci, e la Francia sarà salva” (questo nel momento del massimo pericolo).
     La Francia, lo si è già detto, era la Nazione più ricca demograficamente ed economicamente dell’Europa, e lo dimostrerà fra breve,  ma il suo Esercito  non era in grado di mobilitarsi prima di un certo tempo.  Ovviamente, parlando in termini attuali,  si può  essere schizzinosi verso il fatto della guerra, ne convengo;  ma si parla di tempi ben diversi dai nostri e di ben diverse mentalità.  In quel momento, la guerra era inevitabile perché la Rivoluzione era sentita come una grave pericolo per tutti i sovrani.  Si trattava  di vedere chi ne avrebbe preso l’iniziativa,  perché in termini militari chi attacca per primo viene considerato avvantaggiato:  un’idea forse valida in tempi in cui si muovevano falangi contrapposte all’arma bianca, ma non esattamente con eserciti dotati di armi da fuoco, ancorché primitive.  In bocca a Brissot, comunque ha un valore rivoluzionario e, come tale, fu sentito da gran parte dei deputati francesi,  ma le obiezioni che Robespierre pone non sono affatto irragionevoli o tremebonde (questi  cittadini francesi sono tutti coraggiosi, sul piano fisico come morale, in una misura oggi inimmaginabile), ma suonano come “moderate” :
“ Signori !
La guerra !  gridano la corte e il ministero… La guerra!  Ripete un gran numero di bravi cittadini, trascinati da un sentimento generoso, capaci di innalzarsi all’entusiasmo del patriottismo, ma non altrettanto capaci di meditare sul movente delle rivoluzioni e sugli intrighi della corte.
    Chi oserà mai contrastare questo grido imponente ?  Nessuno, tranne chi è convinto che bisogna deliberare ponderatamente, prima di prendere una risoluzione decisiva per la salvezza dello stato e per le sorti della Costituzione…
    Sono disposto anche a volere la guerra, ma solo come la vuole l’interesse della nazione:  cercheremo prima di domare i nostri nemici interni, e solo dopo marceremo contro i nostri nemici stranieri, se allora ne esisteranno ancora…” [69].
    Il neretto è mio:  già si nota un programma di repressione (il Terrore) antecedente alla guerra, mentre i più tra gli storici ritengono che il Terrore fu un effetto della guerra, una necessità derivata dal poter combattere senza ostacoli e senza boicottaggi interni.  Ma qui è detto chiaramente, e qualche capoverso sotto lo ribadisce:
“…  E i più numerosi tra questi nemici, i più pericolosi, sono forse quelli riuniti a Coblenza ?   No certo: essi sono in mezzo a noi…” [sempre 69, ultimo capoverso].
    Dunque,  Robespierre indica già nel 1791,  quando i rapporti tra Corte e Assemblea sono ancora accettabili (e, oltre a Robespierre, pochi, tra cui Marat, indicano nella Corte e nel Ministero  i primi nemici da combattere).  Robespierre non è certo un pacifista, e lo dimostrerà con i fatti negli eventi successivi, ma capisce le difficoltà reali di un esercito, ormai sgretolato e senza comandi, che dovrà essere completamente riorganizzato, armato, equipaggiato  e comandato:  un Esercito di cittadini, non più di mezzi mercenari,  che operano solo per disciplina e per denaro, ma senza convinzione;  oppure da persone scelte per sorteggio, senza alcuna condivisione degli scopi di una guerra.  Così, se guardiamo al puro momento chi può dar torto a Robespierre e ragione a Brissot?    Eppure, nel suo realismo, era fuori da un realismo “rivoluzionario”,  e il suo realismo era caratterizzato fin da allora dalla fortissima sospettosità che poi diverrà parossistica, quando governerà lui nel Comitato di Salute Pubblica.  Si delinea già fin d’ora il suo progetto di eliminare preventivamente ogni opposizione, prima assolutista  ( e fin qui concorda con tutti gli altri),  poi liberale, infine democratica e non meno, se non più, rivoluzionaria della sua.  I fatti gli daranno, immediatamente, ragione:  il 20 aprile 1792 la Francia dichiara guerra  all’Austria e alla Prussia, ma il vecchio esercito regio si sfalda.  Lo stesso Lafayette  diserta e si dà agli Austriaci, che lo tratteranno però da prigioniero;  Austriaci e Prussiani  entrano nel territorio francese. 


Capitolo V :   Dal  1792 al 1794 .

Il pericolo è estremo, l’ira del popolo sale al massimo grado.  Siamo al celebre settembre 1792.  Nel frattempo l’Assemblea minaccia di espulsione i preti refrattari (o non giurati), scioglie la guardia personale del re, crea un campo di federati  “i marsigliesi”;  il re tenta di vietare i decreti contro i preti e la propria guardia.  Tenta ancora  (non è quel re molle  come rappresentato da certa tradizione storica:  circondato da sanculotti è costretto a farsi mettere il berretto frigio in testa e a brindare alla Rivoluzione, ma non rinuncia alla proprie prerogative)  di sostituire il ministero, a prevalenza girondina,  con uno a tendenza fogliante (monarchico liberale).  I “moderati” girondini, con l’appoggio di Danton, Desmoulins e i Cordiglieri in genere,  attaccano il 20 giugno le Tuileries:  la Francia è dichiarata in pericolo nel luglio: il 25  il duca di Brunswick, prussiano, da buon tedesco minaccia la totale distruzione di Parigi  se la persona del  re  sarà colpita.  L’Assemblea reagisce con la confisca dei beni degli emigrati e istituisce la Commune rivoluzionaria  (quella che poi deciderà molte azioni repressive  sobillando la popolazione parigina).  Stavolta  Luigi XVI viene catturato e imprigionato  con i familiari al Tempio, in attesa del processo.  Intanto continuano le misure di repressione, di fronte all’avanzata austro-prussiana.  Cadono Longwy e Verdun: saranno le ultime vittorie  austro-prussiane.  Ora si scatena la folla sanguinaria:  prima di mobilitarsi nel nuovo Esercito, quello popolare e repubblicano (eppure ancora diretto da monarchici, ancorché liberali,  come Dumouriez e  Kellermann),  i sanculotti si scatenano contro i prigionieri senza distinzioni, attaccano le prigioni, vi massacrano i detenuti;  non basta, aggrediscono pure istituti di correzione dei minori (i riformatori:  celebre quello di Biçetre,  dove vengono massacrati perfino ragazzini, piccoli delinquenti o sospettati d’esserlo.  Lo storico Michelet descrive l’episodio con molta precisione).  Stavolta vengono minacciati  di morte perfino i Girondini stessi, come Roland e Brissot.   Tremenda l’esecuzione contro un’amica della regina, la principessa di Lamballe, la cui testa viene portata davanti al Tempio e fatta vedere a Maria Antonietta, che sviene.  Perché tanta crudeltà ?  La risposta non è  poi così complessa:  da un lato la repressione regia esercitata per secoli in modo durissimo; dall’altro l’ignoranza.  I vari governi e sgoverni del mondo amano molto che i loro popoli siano ignoranti e rincitrulliti.  Tutto serve allo scopo: sicuri di possedere il monopolio della forza (tanto decantato dai loro servili giuristi)  si credono invincibili.  Dunque, alternano i celebri “bastone e carota”,  che Mussolini nel 1944  renderà celebri con una serie di articoli  (ma da quale pulpito !).  Ma un popolo ignorante che si fonda non sul monopolio della forza, ma sulla forza del numero,  non ha pietà:  dire che imbestialisce è offendere le bestie.  Si scatena in lui un mostro selvaggio.  Ecco dunque che cosa furono le stragi di settembre, anche sotto istigazione  di quei capi  che poi passarono per i “veri” rivoluzionari:  un Marat, lo stesso Danton,  rispetto a quelli considerati “moderati” che avevano saputo lottare o  con poche armi o, perlomeno, da pari a pari (vedi Bastiglia, assalto alle Tuiléries),  ma non amavano la violenza puramente gratuita contro gente inerme (di qui l’accusa di storici di una nota tendenza a qualificarli come “moderati”, mentre obiettivamente erano solo “gradualisti”, nel senso che il fine da raggiungere, politico e sociale doveva essere raggiunto per gradi o fasi determinate, non certo con salti improvvisi).
      E’  da queste stragi che si fa largo l’idea di un Tribunale Rivoluzionario.   Danton  si fece quasi un motivo di vanto per aver proposto o favorito la formazione di questo Tribunale, e lo dirà apertamente nel processo che subirono egli e i suoi sostenitori cordiglieri, nel 1794.  In realtà,  come considererò  più avanti, il Terrore non fu unica responsabilità  della Convenzione, bensì  di una sua larga  maggioranza (l’acquiescente, ma furbesca Pianura/Palude),  così il Tribunale Rivoluzionario  fu effetto della volontà di tutti i Montagnardi, della Pianura e, se vogliamo, anche di parte dei Girondini.  Ovviamente l’illegittimità  delle sue  procedure fu man mano aggravata col tempo e con decreti  speciali dell’Assemblea,  fino ad un punto estremo che essa non poteva accettare.  Ma di ciò più avanti.  L’istituzione di quello che fu chiamato Tribunale Criminale Straordinario e Rivoluzionario aveva, nella sua fase iniziale, l’intenzione di prevenire ulteriori massacri e vendette:  di processare, per quanto sommariamente e senza ricorsi,  persone colpevoli di controrivoluzione, di sabotaggio, di corruzione politica, di intelligenza col nemico, di propaganda anti-rivoluzionaria, ecc.   Tutte cose che avrebbero potuto essere affrontate da normali Tribunali penali e da Tribunali militari:  il punto era che, proprio grazie alle riforme tra il 1789 e il 1791, questi erano troppo “garantisti”,  mentre con la guerra appena iniziata  si pretendevano decisioni “rapide”.  E nondimeno, tra il 1792 e i primi mesi del 1793, lo stesso Tribunale Rivoluzionario fu abbastanza mite, e le esecuzioni capitali irrogate furono poche.
       Intanto, il 20 settembre 1792 avvennero due fatti essenziali per la salvezza della Francia rivoluzionaria:  a Valmy  l’avanzata  austro-prussiana venne bloccata.  Dicono gli storici che si trattò  di una battaglia secondaria, ma  - credo  - vide con più esattezza il grande scrittore e poeta Goethe, intuendo che quella vittoria francese segnava la fine di un mondo.   Militarmente in senso stretto,  la  vittoria francese fu dovuta al largo uso (per quei tempi) dell’artiglieria (l’arma di Napoleone)  e delle mongolfiere, come strumenti di osservazione delle manovre nemiche.  Il nuovo  Esercito rivoluzionario usufruiva di due strumenti  di guerra moderna, ovvero l’uso  di masse di manovra numerose, costituite da volontari entusiasti e forse anche “fanatici”,  e di una leva in massa che giunse, per quei tempi, al milione di uomini in armi.  Nessun esercito del tempo arrivava a tanto.  In novembre, con la più rilevante vittoria di Jemappes, le forze austro-prussiane  escono dal territorio francese, mentre Dumouriez entra nel Belgio e poi in Olanda.   Un altro atto che dimostra quanto poco “moderati” fossero i Girondini, in quel momento dominanti nella Convenzione,  la proclamazione della guerra rivoluzionaria in Europa:  qualunque popolo avesse voluto combattere contro la tirannide dei re, sarebbe stato sostenuto dalla Francia.  Non è neppure un caso che almeno due celebri stranieri vennero a far parte della Convenzione, il tedesco Anacarsi Clootz, teorico  del cosmopolitismo rivoluzionario, e l’americano  Thomas Paine.   Molto presto, questo concetto, in sé nobile, della rivoluzione dei popoli contro i regni assolutisti  finì per deviare  in una guerra di conquista e di preda, per quanto ammantata da belle parole:  l’entusiasmo nelle classi intellettuali europee per la Rivoluzione francese e per la lotta contro i re assoluti (nasce in questo periodo il celeberrimo motto, poi utilizzato perfino nella Rivoluzione russa:  “Guerra ai re e pace alle capanne”)  era elevatissimo, ma finì  per tramutarsi in opposizione,  odio, quando si vide che i bei motti, gli slogans, le affermazioni di principio finivano per tradursi in abusi, spoliazioni, minacce e avanti:  Belgio e Olanda furono i primi Stati ad assaggiare questo sistema (sviluppato al massimo sotto il Direttorio, quando la guerra “rivoluzionaria”  era divenuta guerra pura  e semplice),  seguiranno Stati germanici e Stati italiani.  Eppure, malgrado tutto,  la vittoria francese, il suo Canto dell’Armata del Reno la Marseillaise (ancora oggi Inno ufficiale della Francia), le umiliazioni inflitte all’assolutismo monarchico da circa un millennio dominante, segnarono  uno squillo di tromba per l’intera Europa.
   Per rendersi conto di come lavorava l’intera Assemblea (altro che i nostri attuali sgoverni con la loro “sgovernabilità” !),  in un solo giorno, il 20 settembre,  si stabilisce il nuovo ordinamento dello stato civile e l’accettazione del divorzio, un primo passo per il principio dell’uguaglianza delle donne .
      Il 22 settembre 1792 viene proclamata la Repubblica e quattro giorni dopo definita “una e indivisibile”,  quel termine tuttora presente nella nostra stessa Costituzione all’art. 5 [70].   In quei giorni stessi, il ministro Roland,  uno dei capi girondini scopre alle Tuileriés, ormai vuote,  un armadio di ferro (una cassaforte, diremmo noi), in cui erano contenuti non pochi documenti sui rapporti intercorsi in piena guerra tra Luigi XVI  e i re nemici d’Austria e di Prussia: fu egli stesso a denunciare la cosa alla Convenzione, che poi si costituirà  in “Alta Corte di Giustizia” contro il  re  con le fondamentali accuse di alto tradimento e intelligenza col nemico,  più altre minori (già le prime due, in qualunque Stato e tuttora, sarebbero state considerate ragioni di pena capitale) .
       Così, uno dei primi impegni  della Convenzione sarà il celeberrimo processo a Luigi XVI, ormai diventato il cittadino Luigi Capeto [71].  La questione che lo riguardava non era facile da risolvere:  non tutta  la Francia era diventata repubblicana, e malgrado le prove contro di lui fossero abbastanza evidenti, infliggergli la pena di morte poteva suscitare, come suscitò, ampie rivolte, nonché questioni internazionali, perché tutti i sovrani d’Europa si sentivano minacciati:  la celebre frase di Danton :”I re coalizzati ci minacciano, rispondiamo loro  gettando la testa di un re” era abbastanza significativa.  Non meno il discorso di un giovanissimo montagnardo,  Saint-Just, sostenitore di Robespierre, che qualificò i  re come “mostri nel genere umano”.  Mentre i deputati della Pianura  seguivano il terribile dibattito che però non creò  un fortissimo distacco tra i due gruppi, la maggior parte dei Girondini, per evidenti ragioni di opportunità (politica estera e politica interna, in quanto molti Francesi, Vandeani in testa,  ritenevano il re ancora persona sacra e il cattolicesimo la fede da  seguire),  era favorevole ad una pena detentiva almeno in prima istanza e, una volta decisa la pena di morte,  di rinviarla a tempi meno tempestosi.  Furono dunque facilmente accusati davanti alla plebe sanculotta di Parigi di essere conniventi con i traditori (eppure uno di loro, Roland, aveva reso pubblici quei documenti che provavano le connivenze del re e della Corte col nemico),  cosicché la lotta tra i due schieramenti assunse carattere decisivo di reciproca morte.  E qui rientra in gioco il Tribunale Rivoluzionario.
      Sarebbe, ed è, interessantissimo rileggere i verbali di questo dibattito fra giganti (imparagonabile a quello fra i nostri partitocrati d’oggi), per la drammatica vivacità dello stesso:  era una lotta all’ultimo sangue tra intellettuali rivoluzionari, non puramente astratti come vennero accusati [72], ma uomini d’azione guidata da certi ideali,  e gli “attivisti”  puri e semplici, quelli ai quali scoccia ogni analisi preventiva dell’azione da fare  (pensiamo ad un Mussolini, per la nostra storia recente).  Questa mentalità  caratterizzava soprattutto i Montagnardi,  i quali non formularono mai un sistema coerente, ma seguivano gli eventi di volta in volta, col prevalente metodo, sì energico, ma anche dispersivo e alla fin fine di pura violenza,  che sembrava molto “rivoluzionario” senza esserlo affatto (almeno nel senso che ho dato di espansione della sovranità, in senso formale e sostanziale).    Per taluni la soluzione era semplice:  tagliare la testa al re “senza se e senza ma”, e non pensare alle conseguenze (il passaggio della Gran Bretagna e della Spagna tra i nemici esterni;  la rivolta dei contadini vandeani, ancora “realisti”  e cattolici ai limiti del fanatismo;  ed infine l’apertura a quell’involuzione sanguinaria che la Rivoluzione avrebbe subìto:  il sangue richiama il sangue, un fenomeno ben noto di psicologia umana).
    Cito quindi una parte del discorso di Robespierre che spiega anche la sua involuzione  da nemico della pena di morte a sostenitore di fatto della stessa:  le sue distinzioni sono sintomo di furberia da giurista, in cui riconosce una certa “illegalità”  del processo (non si seguivano norme previste nella Costituzione del 1791 in casi analoghi, la formazione di una speciale Corte di Giustizia, anche perché tale Costituzione era decaduta con la proclamazione repubblicana), ma esprime la necessità  di un’eliminazione fisica del re per far cessare eventuali pericoli (ma ormai il re era fuori gioco, e infatti la distanza tra “giustizieri” e “umanitari”  non fu poi elevatissima.
“  L’assemblea  è stata trascinata – a sua insaputa – lontano dal vero oggetto della questione.
    Qui non si tratta affatto di fare un processo.  Luigi non è affatto un accusato.  Voi non siete affatto dei giudici.  Voi non siete altro, e non potete essere altro,  che uomini di Stato e rappresentanti della nazione.  Non dovete emettere alcuna sentenza a favore o contro un uomo,  ma soltanto una misura di salute pubblica, esercitare soltanto un atto di provvidenza nazionale [il neretto è mio:  Robespierre così non fa della morte del re una questione di diritto, costituzionale e penale,  ma una questione di fatto: occorre ammazzarlo perché costituisce un pericolo].
    Nella repubblica un re detronizzato è buono soltanto per due scopi:  o per turbare la tranquillità dello Stato e per colpire la libertà, oppure per affermare l’una e l’altra in una volta [espressione assai contorta:  il re detronizzato potrebbe affermare tranquillità e libertà ?].
     Ora, io sostengo che il carattere che ha preso fin qui la vostra deliberazione va direttamente contro quest’ultimo scopo.
      In effetti,  qual è mai la decisione che una sana politica prescrive per cementare la nascente repubblica ?  E’  quella di incidere profondamente nei cuori il disprezzo per la monarchia gettando nello smarrimento tutti i partigiani del re [povera illusione,  li avrebbe solo imbestialiti ancor più].  E dunque presentare al mondo intero il suo crimine come un problema, la sua causa come l’argomento della discussione più importante…  significa precisamente aver trovato il segreto di renderlo ancora più pericoloso…
    Luigi è stato detronizzato dai suoi stessi crimini.  Luigi denunciava il popolo di Parigi come un ribelle.  Egli ha chiamato, per castigarlo, le armi dei tiranni…  La vittoria e il popolo hanno invece deciso che egli solo era il ribelle.
    Luigi non può dunque venire giudicato:  egli è già condannato [il neretto è mio] oppure la repubblica non è ancora assolta.
    Proporre di fare il processo a Luigi,  in qualunque maniera possa essere fatto, significa retrocedere verso il dispotismo regio e costituzionale,  è un’idea controrivoluzionaria [il neretto è mio:  Robespierre già delinea, ancora da semplice deputato alla Convenzione,  la sua mentalità tendente a ridurre al minimo ogni discussione  sula vita di un uomo.   Luigi Capeto è “già condannato”,  non c’è bisogno di analizzare, discutere, dibattere:  la ghigliottina è la soluzione di fatto ad un problema di fatto.  Si badi che questo vien detto da un avvocato di professione, che ha già perso ogni senso deontologico del suo lavoro], poiché significa mettere in contraddizione la stessa rivoluzione [ed ora si badi al sofisma da leguleio che adotta:].
  E infatti, se Luigi può essere ancora l’oggetto di un processo, egli può anche essere assolto.  Può darsi allora che egli sia persino innocente !  Che dico mai ?  Egli è presunto innocente finché non venga giudicato. [il neretto è mio. L’arzigogolo da giurista non è privo di abilità:  se  Luigi Capeto deve essere “giudicato”,  può anche darsi che venga assolto, anzi egli è presunto innocente (cara formula dei costituzionalisti e dei penalisti!!)  finché  non venga condannato, magari dopo due o tre gradi di giudizio.  Ecco come  il garantismo illuminista viene ormai stritolato:  lo si accetta verbalmente e concettualmente, ma negato di fatto.  Luigi Capeto non ha diritto ad un processo:  è “già condannato”, altrimenti sarebbe condannata la Rivoluzione]. Ma se Luigi viene assolto… allora che cosa  diventa mai la rivoluzione ?
    Se Luigi è innocente, allora tutti i difensori della libertà diventano dei calunniatori  [vedete la finezza del sofisma: ma se l’avessero assolto, o piuttosto non  condannato a morte, dove sarebbe la calunnia ?  Una semplice ipotesi di reato, ammissibile in una situazione certamente non chiara];  i ribelli [emigrati, preti refrattari, ecc.] sarebbero allora gli amici della verità e i difensori dell’innocenza oppressa;  e allora tutti i manifesti delle corti straniere [qui Robespierre allude anche alla guerra ideologica, tipica di ogni guerra moderna, ma lontana dalle guerre dinastiche dei secoli precednti o dello stesso XVIII secolo] non sono altro che legittimi reclami… La stessa detenzione che Luigi ha subito [peraltro niente di disumano, certo non aveva più le comodità di Versailles o delle Tuileriés] fino a questo momento è  una vessazione ingiusta…  quel gran processo pendente dinanzi al tribunale della natura [la stessa Convenzione] tra il crimine e la virtù, tra la libertà e la tirannia, è deciso a favore del crimine…
    Cittadini, state in guardia.  Siete qui ingannati da false nozioni.  Voi confondete le regole del diritto civile e positivo [la legge vigente] con i princìpi del diritto delle genti;  confondete i rapporti dei cittadini tra di loro con quelli delle nazioni verso un nemico che cospira contro di esse [ma il Diritto delle genti, in questo caso Diritto di guerra, prevede comunque un procedimento, per quanto semplificato e sommario, per decidere sulla colpevolezza di questo presunto nemico.  Non si uccide uno senza motivazione alcuna].  Voi confondete anche la situazione di un popolo in rivoluzione con quella di un popolo il  cui regime è già stato affermato [ma c’era o non c’era la Repubblica ?  E, intendendo per Repubblica un ordinamento democratico comunque  stabilito,  occorreva tener conto non della violenza, ma della correttezza formale, almeno minima, di un processo:  ecco così che l’avv. Robespierre confonde, non certo a caso, la giustizia col “giustiziare”.  Più avanti, sempre con arzigogoli da leguleio, tirando in ballo lo stato di natura hobbesiano “guerra di tutti contro tutti”,  aggiunge:]… L’effetto della tirannia e dell’insurrezione è quello di rompere completamente quel patto nei riguardi del tiranno:  è di costituirli reciprocamente in uno stato di guerra.  I tribunali, le procedure giudiziarie, sono fatte solamente per i membri della città [il neretto è mio: se ben si guarda il progetto di Terrore, come repressione organizzata dello Stato verso i suoi nemici, veri e presunti, è già fissato.  La guerra diventa così pretesto per la repressione, anche contro chi ormai, prigioniero in un vecchio edificio e isolato dal mondo, non costituisce da vivo, sicuramente più che da morto, un problema]
   I popoli non giudicano già come le corti di giustizia;  non emettono già delle sentenze, essi lanciano il fulmine [come Giove, per intenderci];  non condannano i re, bensì li respingono nel nulla [che artifici retorici !]…[73].
  Il discorso prosegue con la sua tipica verbosità.  Verso la fine, richiama a suo onore di aver chiesto a suo tempo (alla Costituente dell’89) l’abolizione della pena di morte,  dice di non avere per l’ex-re né amore né  odio, ma di odiare i suoi misfatti.  Rimprovera i colleghi di non volere la morte solo per un uomo potente e non per uomini comuni.  E verso la conclusione :
“… Sì, certo, la pena di morte in generale è un crimine, ed è per questa sola ragione che, per i princìpi indistruttibili della natura, essa non può essere giustificata che nel caso in cui essa si renda necessaria per la sicurezza degli individui e dell’organismo sociale [qui risentiamo la  correlativa considerazione di Beccaria]
… Luigi deve morire, perché occorre che la patria viva [ma, ahinoi, la morte di Luigi XVI  avviò, di passo in passo, di decapitazione in decapitazione, alla morte l’intera Rivoluzione]…” [74] .
         Il dibattito fu molto acceso, approfondito e duro:  le due posizioni, quella girondina, tendente ad una pena detentiva (ma con eccezioni:  Alessandro Manzoni in un suo dialogo si diffonde sul comportamento di Vergniaud, che si sarebbe dichiarato favorevole a salvare la vita al re, ma poi votò per la sua morte [75].    In effetti, la morte del re ottiene 387 voti, la sua salvezza  334 (53 voti di maggioranza).  Tra i “mortuari”,  il  montagnardo Philippe Egalité, che apparteneva alla famiglia collaterale  degli Orléans,  nel 1830 – 1848 sul trono di Francia.  Philippe, malgrado il voto contro suo cugino,  finì ugualmente sulla ghigliottina .
     Racconta Svetonio che Nerone, quando per la prima volta dovette convalidare una condanna a morte, tremava nell’apporre la sua firma o sigillo che fosse.  Poi se ne fece un’abitudine, finché non toccò  a lui.  Aperta la porta alle condanne capitali,  non ci fu poi praticamente freno:  gli istinti che, erroneamente, diciamo “bestiali”, il gusto del sangue,  non ebbero più freno per molto tempo, sia per le ragioni oggettive della guerra, sia per la natura violenta del genere umano .
        Veniamo ora a questo Tribunale che qualcuno qualificò  “rivoluzionario”,  altri “del Terrore”.  Sul piano istituzionale non era previsto dalla Costituzione, né dai progetti del 1793 avanzati da Robespierre e da Condorcet, ma era previsto da un decreto formale della Convenzione, da un lato per colpire ogni attività controrivoluzionaria o supposta tale,  dall’altro per costringere l’intera classe politica francese ad orientarsi su posizioni repressive e violente.  Riporto il testo del decreto del 10 marzo 1793:
“ Titolo I .
art.  1.  Sarà stabilito a Parigi un Tribunale Criminale Straordinario che avrà giurisdizione contro tutte le iniziative controrivoluzionarie, contro ogni attentato contro la libertà, l’uguaglianza, l’unità e indivisibilità  della Repubblica, la sicurezza interna ed esterna dello Stato, e tutti i complotti  tendenti a ristabilire ogni altra autorità attentatrice della libertà, dell’uguaglianza e della sovranità del popolo.
Art. 2.   Il Tribunale sarà composto di una giuria e di 5 giudici…
Art.  4.  Quello dei giudici che sarà stato eletto per primo, lo presiederà.
Art.  5.  I giudici saranno nominati dalla Convenzione Nazionale [ovvero dipende dalla stessa Convenzione, non ne è contemplata l’indipendenza].
Art. 6.  Vi saranno presso il Tribunale un pubblico accusatore [che sarà il celebre Quintin Fouquier-Tinville] e due sostituti, che saranno nominati dalla Convenzione Nazionale [attenzione all’importanza tecnico-giuridica di questo fatto:  tale Tribunale dipende in tutto e per tutto dalla Convenzione, ne è  - per dir così  -  il “braccio secolare”.  Ciò dimostra che le sue decisioni sono delegate dal potere legislativo].
Art.  7.  Saranno nominati dalla Convenzione Nazionale dodici cittadini del Dipartimento di Parigi e dei quattro Dipartimenti che lo circondano [limitrofi], che svolgeranno le funzioni di giurati…
Art.  10.  Verrà formata una commissione di 6 membri della Convenzione Nazionale, che sarà incaricata di sorvegliare l’istruttoria [un’ulteriore pressione da parte della Convenzione sul tribunale] che si farà nel Tribunale e di intrattenere una corrispondenza continua con il pubblico accusatore e i giudici su tutte le questioni che saranno inviate al Tribunale…
Art. 15.  I giudici del Tribunale eleggeranno un cancelliere e due ufficiali giudiziari;  il cancelliere avrà due commessi…
Titolo  II .
…..
Art.  2.  I beni di quelli che saranno condannati alla pena di morte saranno confiscati dalla Repubblica e sarà fornita la sussistenza [gli alimenti, diremmo noi] della vedova e dei fanciulli, se essi non hanno beni altrove.
Art.  3.  Coloro dei quali la punizione  non sarà determinata dalle leggi e dei quali l’anticivismo e la residenza del territorio della Repubblica saranno stati un motivo di pubblica turbativa e d’agitazione, saranno condannati alla pena della deportazione [una pena largamente usata dal Direttorio e che equivaleva di fatto ad una condanna a morte differita e non visibile, in quanto li si mandava nella Guyana francese, a La Cayenne, dove il clima e talvolta animali feroci li eliminavano senza chiasso, la cosiddetta “ghigliottina secca”…]…” [76].
     Nel Decreto del 5 aprile 1793 (va ricordato che Robespierre non è ancora formalmente al potere,  ma già domina la Commune  e una larga maggioranza alla Convenzione,  pur tuttavia  - come sarà  ribadito  -  non sarà mai un dittatore nel senso assoluto: la Convenzione,  più  per paura o per noncuranza col pretesto della guerra interna ed esterna, lascerà passare,  votando,  tutte le misure che vedremo)  dà all’accusatore pubblico del T. R..  il potere di arresto, con l’eccezione dei generali e dei convenzionali (deputati).  Il 7 maggio 1793 (poco prima dell’arresto dei Girondini) si concede nuovo personale al pubblico accusatore (segretari, per ricevere atti o preparare le udienze) .
      I magistrati (d’accusa e di giudizio)  indossano un particolare costume, con cappelli impennacchiati,  e abiti teatrali, la coccarda tricolore, fasce tricolori attorno alla vita, ecc., che dimostrano come la vanità, ai limiti del ridicolo (si vuol essere anche nelle forme esteriori o forse anche di più,  alla pari col prestigio dei giudici dell’Ancien Régime), caratterizzasse perfino questo organo che avrebbe dovuto essere “rivoluzionario”.  Anche i membri del Direttorio (governo post-robespierriano) indosseranno questi costumi tanto vistosi quanto anacronistici, del resto poco apprezzati dagli stessi Sanculotti.   
        I Girondini si opposero, ma vanamente, a questo Tribunale considerato irregolare proprio per l’assenza di un processo d’appello, riducendo così  fin dall’inizio il tutto ad una procedura sommaria:  non occorre molto per capire quanto le conquiste concettuali dell’Illuminismo, in sede penale,  siano già stravolte.  La cosa è ancora più significative perché sono grandi giuristi, come Cambacérès e Merlin de Douai,  a fornire quasi sempre gli elementi tecnico-giuridici per la creazione di leggi o decreti che siano (durante la Rivoluzione e in stato di guerra, tutto veniva votato dalla Convenzione)  di natura repressiva:  essi hanno avuto la responsabilità storica, nel nome del “monopolio della Forza” o della “Ragion di Stato” boteriana,  di essere complici di queste operazioni, sempre più sanguinarie, pur nella veste apparente del rito accusatorio (il quale  - lo si è detto in più occasioni  -  non garantisce affatto di per sé  la regolarità e l’imparzialità giudiziaria.  Infatti, se  - come succedeva allora  -  soltanto l’accusa procedeva e la difesa veniva sempre più paralizzata,  il risultato finale  - la morte  -  non era affatto diverso da quello della S. Inquisizione domenicana).
       Uno degli errori per contraddizione commesso dai Girondini è quello di richiedere un processo contro Marat, colpevole di istigare le folle alle misure più violente, al sangue (Marat chiedeva sempre teste da tagliare, nei suoi articoli o nei suoi interventi alla Convenzione):  Marat di lontana origine italiana era medico e tuttora storicamente interessante in questo settore, perché studiava una forma di elettroterapia, probabilmente derivata da certe esperienze del Messmer, ma non ebbe mai grande successo professionale.  Viceversa aveva assai più seguito sul piano politico, considerato come un rigoroso rivoluzionario.   E’  uno dei primi ad inventarsi uno sbrigativo “Diritto rivoluzionario”,  con cui il popolo avrebbe fatto “giustizia” sui suoi nemici.  Il rapporto con i Girondini  era negativo e, malgrado fosse stato protetto ed anche ospitato da Brissot durante la repressione del 1791, di cui si è detto, egli non gli fu per nulla grato, anzi ne chiese la testa più volte.   Ora Marat viene rinviato dalla Convenzione al Tribunale Rivoluzionario per un processo:  come dire, farlo giudicare da suoi amici.  Infatti, malgrado l’arresto venne trattato col massimo rispetto, anche per la spinta popolare dei soliti Sanculotti.  Alla fine viene assolto affettuosamente  e riportato alla Convenzione in trionfo.   Così l’azione dei Girondini si rivela un grave boomerang.  Ma l’errore viene ripetuto contro lo stesso Robespierre che, pur non avendo ancora grandi poteri, viene accusato da Louvet con quella famosa formula, che sarà poi utilizzata un secolo dopo da Zola:  “Je t’accuse, Robespierre”.   Robespierre, già padrone della situazione, chiede tre giorni di tempo, prepara la difesa contrattaccando.  Anche questo tentativo,  in un’assemblea convinta che solo misure drastiche potevano salvare la Francia (la guerra è motivo e pretesto per le repressioni), fallisce in modo controproducente.  Louvet  sarà uno dei pochi a salvarsi dalla ghigliottina e con Barbaroux a recarsi nei loro Dipartimenti per organizzare la resistenza contro i Montagnardi (cosiddetta Rivolta Federalista).
      Ora però il gruppo montagnardo, la Commune e la Guardia Nazionale, passata dal comandante Santerre vicino ai Girondini, ad Hanriot montagnardo, decide di togliersi dalle scatole il gruppo girondino, che rimane come forte organo di opposizione alla Convenzione.  Ai Montagnardi serviva una Convenzione del tutto addomesticata, ma  il tentativo riuscì solo in parte, per i motivi che si diranno.    La spada rotante dei robespierriani gira ora da una parte ora da un’altra della Convenzione.  Tolti di mezzo i Girondini,  colpisce poi i Cordiglieri “arrabbiati” di Hébert (gli scristianizzatori, che inscenano la festa della Dea Ragione a Notre Dame,  con una bella attrice, di non difficili costumi e nuda, ad inscenare la Ragione,  una sorta di beffa a Robespierre che, pur vicino al deismo illuministico alla maniera di Rousseau, però non vuole rompere del tutto i rapporti con i cattolici, almeno con quelli che accettavano la Repubblica),  quindi passerà ai Cordiglieri “indulgenti”  (Danton, Desmoulins, Fabre d’Eglantin, inventore del nuovo calendario repubblicano).  Ma  l’ingenuo, quando cominciò a gettare lo sguardo su certa parte della Montagna (Fouché, Tallien)  e contro la Pianura/Palude, costituita da opportunisti e pavidi,  allora si scavò  la fossa.  Ciò, come si confermerà ulteriormente, dimostra che Robespierre fu in parte ideatore, ma non certo dittatore, delle misure sempre più crudeli adottate e poi applicate dal Tribunale Rivoluzionario (le celebri leggi dei sospetti, ovvero contro quelle categorie considerate “controrivoluzionarie” per definizione e preventivamente, anche prescindendo da concreti atti controrivoluzionari) .
       Il primo processo di un certo rilievo  fu quello contro Charlotte Corday, la quale  - ponendosi a modello un po’  la biblica Giuditta e un po’  gli eroi di Plutarco  rivisti dalle tragedie di Corneille (una tendenza, quella di identificarsi col mondo greco-romano,  tipica dell’epoca del neoclassicismo,   molto diffusa anche nel mondo politico, e non solo in quello più genericamente letterario) – decise di attentare alla vita di Marat.  La Corday  viveva a Caen ed era in rapporti con i Girondini fuggitivi, soprattutto col Barbaroux, ma essa negò in modo categorico che l’avessero istigata ad uccidere Marat.  Questo, ormai, era visto nel resto della Francia come uno dei maggiori responsabili delle crescenti violenze e perfino un mostro sanguinario.  Charlotte parte per Parigi, acquista un bel coltello da macellaio, e, ben sapendo che Marat lavora costantemente nel ricercare nemici della Repubblica da ghigliottinare, dopo un primo tentativo riesce a farsi ricevere da lui nella camera, dove egli sta facendo uno di quei bagni terapeutici contro la dermatosi; al tempo stesso scrive.   Col pretesto di denunciare i controrivoluzionari di Caen,  mentre l’uomo è nella sua tinozza e si predispone a scrivere i nomi,  Charlotte gli infilza il coltello alla gola, un colpo secco e mortale.   Ovviamente, sorpresa in flagrante dalla convivente di Marat che chiama  soccorsi e le guardie,  non può certo fuggire, né probabilmente lo vuole:  è in cerca di fama e di “gloria”, e come tali molti la esaltarono (anche lo storico Michelet).  Una bionda eroina, che però  obiettivamente possiamo definire tale, non per l’assassinio di Marat, che non farà se non aggravare  la situazione repressiva del Terrore, ma per il suo comportamento davanti al Tribunale e sulla ghigliottina.  Da una parte si cerca di farla passare per pazza, da un’altra come istigata dai Girondini, ormai nemici giurati  di Marat.  Ella si assumerà pienamente ogni colpa, dicendo di aver organizzato da sé  il delitto, né cercherà giustificazioni (magari un tentativo di stupro:  in fondo Marat era lì nudo, e visto che lei era pure una bella donna,  una situazione un po’  boccaccesca poteva anche inventarsi).  La Corday  non lo fece:  fu difesa d’ufficio, perché l’avvocato difensore, che essa aveva richiesto, non era stato informato.  Resse gli interrogatori ed affrontò la morte, senza paura e senza lacrime [77].
    Il successivo processo fu quello all’ex-regina Maria Antonietta, ma prima di esporlo per sommi capi,  aggiorno la situazione militare:   la Convenzione Nazionale, grazie anche alle vittorie ottenute, peraltro significative ma non decisive,  ritiene ottima cosa slanciarsi in una sorta di “crociata” rivoluzionaria.  Non contenta della lotta interna, dichiara guerra alla Gran Bretagna (che, a sua volta, rimestava a suon di sterline tutti i nemici della Francia), all’Olanda e alla Spagna.  Con la morte del re, comincia anche la rivolta vandeana che conduce un’aspra guerriglia, fino a trasformarsi, sempre grazie alle sterline, in una guerra a tutto campo, ma ciò segnerà anche la sconfitta di  tale forza,  perché la guerriglia si confaceva alla mentalità soprattutto contadina;  la guerra vera e propria, che richiede grande disciplina militare, no, ancorché molti nobili francesi cercassero di mettersi alla sua direzione [78].    Quando infatti i Vandeani vollero organizzarsi in esercito furono distrutti con rappresaglie durissime e in vere battaglie campali.  Ai confini la situazione militare si ribaltò presto:  Dumouriez  tentò in un primo tempo di marciare su Parigi, ma non seguito affatto dai soldati fedeli alla Rivoluzione e alla Repubblica, preferì  darsi prigioniero e sopravvisse alla Rivoluzione.  Ma la sedizione di Dumouriez  mise fortemente in sospetto la Convenzione nei confronti dei militari, e non solo di coloro che erano rimasti dal vecchio Esercito,  bensì anche della nuova Armée rivoluzionaria, coloro che erano stati promossi sul  campo, e non pochi finirono poi nelle grinfie del Tribunale Rivoluzionario, come sabotatori o semplicemente come sospetti di controrivoluzione.  Venne così creata una figura di controllo  sugli alti ufficiali e la loro conduzione della guerra, che riapparirà oltre un secolo dopo durante la Rivoluzione bolscevica :  quella dei commissari, ovvero deputati con l’incarico di andare al fronte, verificare le situazioni, denunciare i sospetti, talvolta sostituirsi agli stessi ufficiali, incitare i soldati sul piano ideologico, incaricarsi pure dell’amministrazione di territori occupati e anche cominciare quella spoliazione di opere d’arte, che troverà il massimo grado di sviluppo col Direttorio.  Alcuni ne approfitteranno per arricchirsi.  Quelli, recatisi in Vandea e in Bretagna, per la repressione della rivolta,  ne approfittarono anche per i massacri, noti come “annegamenti nella Loira”  (nobili, preti e ribelli venivano caricati su imbarcazioni sul fiume, che venivano fatte affondare con tutte le persone).   Così, ben presto ci si dovette ritirare dal Belgio e dall’Olanda, e la guerra riprese in territorio francese [79].
   Ovviamente, i Montagnardi e la folla dei sanculotti videro nei Girondini la causa dell’impreparazione generale e nel maggio 1793,  con l’appoggio della Guardia Nazionale,  la Convenzione fu costretta a lasciar arrestare  i deputati girondini, inizialmente nei loro domicili [80].   Questa lotta ormai era diventata all’ultimo sangue:  la Convenzione aveva tolto ogni potere ai Girondini riducendoli all’opposizione.  Come si è accennato,  il potere legislativo era praticamente “assoluto”,  dall’abbattimento della monarchia.  Continuava a sussistere un Consiglio Esecutivo, retto dai Girondini, a cui appartenne anche Danton, ma era un organo ridotto a funzioni puramente esecutive, se non nominali.  Oltre a questo, esisteva una Commissione dei 12, con imprecisate funzioni, che venne sciolta appunto nell’aprile 1793.   Si crea un organo extracostituzionale straordinario  che poi sarà essenziale nella successiva conduzione della politica nazionale il Comitato di Salute Pubblica affiancato dal Comitato di Sicurezza Generale con funzioni di Polizia ed altro.  I due Comitati coopereranno per un certo periodo, fino alla crisi del “regime” robespierriano nel Termidoro dell’Anno II (ovvero luglio 1794).
     Robespierre entra  a far parte del nuovo Comitato di Salute Pubblica nel luglio 1793 e vi durerà praticamente un anno, durante il quale dispiegherà, indubbiamente, un’energia immensa, non sempre positiva, ma che affronterà questioni militari, politiche, economiche enormi, inimmaginabili per i nostri partitocrati del XXI secolo, i quali non sanno risolvere nemmeno uno dei problemi (ben minori)  che devono affrontare.  Con i suoi collaboratori (come Couthon,  Saint-Just, il fratello Augustin Robespierre,  Carnot, ecc.) riuscì a rifare della Francia  una potenza enorme:  creò la leva in massa, impose il maximum dei prezzi (calmiere) e dei salari,  istituì controlli sulla produzione, riducendo i rischi  di carestia (leggo che fu inventata o utilizzata la prima volta su grande scala la conservazione in scatola dei cibi !), fece risolvere alcuni problemi  di produzione degli esplosivi (uso del salnitro), dispiegò  una repressione terribile contro tutto ciò che gli si opponeva, come vedremo più avanti.  Insomma, l’obiettività storica, pur dovendo attribuirgli come primo responsabile (almeno dopo la morte di Marat)  del Terrore,  gli riconosce doti di governo che pochi altri personaggi, in condizioni difficilissime (ripeto:  guerra esterna contro la Prima Coalizione di tutti gli Stati confinanti, e guerra interna contro Vandeani e Girondini),  ebbero prima o dopo. Pose le basi militari di quella che sarà la gloria napoleonica, inimmaginabile senza la Rivoluzione Francese e senza Robespierre. Di ciò va dato atto a lui e ai suoi collaboratori, ma qui si ferma anche il merito, non piccolo.
     Ma qual era la natura della contrapposizione tra Girondini e Montagnardi ?   Più che ideologica, era di natura psicologica:  i Girondini, veri eredi dell’Illuminismo, erano soprattutto uomini di cultura.  A parte Brissot e Condorcet, già prima noti come scrittori a livello nazionale ed europeo,  gli altri erano molto giovani, ma estremamente polemici, grandi oratori, “volterriani”  se si può dire così, anche nello stile:  cito ad esempio un Vergniaud che, nelle battaglie oratorie della Convenzione negli ultimi mesi, conia l’espressione dei  “bevitori di sangue” attribuita ai Montagnardi, Robespierre in testa, con la frase:  “Portate a Couthon un bicchiere di sangue:  ha sete !”.  Profetico in un’altra nota sua frase:  “La Rivoluzione, come fece Saturno,  divorerà ad uno ad uno tutti i suoi figli!”.   Non dissimile Lanjunais  a tale Legendre, di mestiere macellaio ma deputato:  “Fai decretare che io sia un bue,  così puoi farmi sgozzare”.  I Girondini non furono, semplicemente, come per certa tradizione napoleonica e marxista, degli astratti politici da salotto (e il riferimento ai salotti è alle grandi donne girondine:  Manon Phlipon Roland  e Olympe de Gouges, la teorica dei diritti della donna,  ma in quei salotti non si parlava di moda, di merletti e di profumi, ma, come successe nel primo Ottocento, di rivoluzione, di riforme, di ricerche scientifiche e conquiste sociali,  sia per tutti, sia per le donne in modo specifico).  Erano dei grandi intellettuali, la cui vita fu stroncata non senza danno per la successiva  cultura europea, ma erano anche uomini d’azione:  molti di essi andarono alla morte portati sulle celebri carrette, che si vedono nei films  dedicati a quel periodo, cantando la Marseillaise  (era quello il “loro” canto:  quello prediletto dai Montagnardi e dai Sanculotti era piuttosto l’altro celebre il ça ira”: si andrà).   I Montagnardi, veri energumeni, avevano livelli culturali più bassi e superficiali, pur riferendosi a medesime fonti (oltre alle fonti classiche,  Montesquieu e Rousseau in testa):  ma il loro si rivelò  più un esercizio muscolare di forza prevalente, ottenuto col consenso delle folle parigine e dei suoi gruppi più violenti, per l’uso e l’abuso di parole d’ordine che alle orecchie dei più ignoranti suonavano molto “rivoluzionarie”.  Con l’eccezione di Louis de Saint-Just che, quantunque anch’esso molto giovane, si sforzò di teorizzare uno Stato nuovo [81],  gli altri, Robespierre e Danton compresi (farebbe eccezione Marat che scrisse abbastanza anche prima della Rivoluzione, ma con qualcosa di allucinatorio;  sarebbe lungo documentarlo qui),  si espressero in discorsi e talvolta articoli, ma non in opere di una certa mole.  Vediamo qui come il 10 aprile 1793  -  siamo in prossimità  della proscrizione anti-girondina -  si pronunciò  Robespierre :
“  Una potente fazione cospira con i tiranni dell’Europa per darci un re con una specie di costituzione aristocratica [nei confronti  dei Girondini una calunnia del tutto gratuita:  il metodo di Robespierre troverà grandi imitatori nella Russia bolscevica da Lenin a Stalin];  essa spera di trascinarci a questo vergognoso compromesso contando sulle forze delle armi straniere e sui torbidi all’interno [tutto ciò, non dimentichiamolo,  causato dall’inutile morte di un re ormai prigioniero].
     Quel regime conviene al governo inglese, conviene al Pitt [allora capo del governo conservatore britannico, nemicissimo della Francia rivoluzionaria], l’anima di tutta questa lega; conviene a tutti gli ambiziosi;  piace a tutti i borghesi aristocratici, cui fa orrore l’uguaglianza…;  piace anche ai nobili, ben contenti di ritrovare… orgogliose distinzioni…
    La repubblica non conviene che al popolo;  agli uomini di ogni condizione che hanno un’anima pura ed elevata, ai filosofi amici dell’umanità, ai sanculotti, che in Francia si sono fregiati con fierezza di quel nomignolo con cui La Fayette e la vecchia corte avevano voluto bollarli [ma egli continuava a portare le coulottes,la parrucca incipriata e l’abito azzurro da damerino del ‘700, e segue ricordando i guex (pezzenti)  d’Olanda  che  si erano appropriati con orgoglio dell’insulto spagnolo]…
…  Sono cambiati alcuni personaggi, ma simile è il fine, i mezzi sono gli stessi, con questa differenza:  che i continuatori hanno aumentato i loro guadagni [è un chiodo fisso di Robespierre, che accusava tutti di arricchimento (lui solo era povero !), ma nel caso dei Girondini senza alcuna prova.  Lo riconobbe egli stesso l’anno dopo quando nel Termidoro passò ad accusare Montagnardi e Pianura] e accresciuto il numero dei loro partigiani.
     Tutti gli ambiziosi che sono comparsi finora sul teatro della rivoluzione hanno avuto questo in comune, che hanno difeso i diritti del popolo solo finché hanno ritenuto di averne bisogno.  Tutti lo hanno considerato come uno stupido branco… Tutti hanno considerato le assemblee popolari quali corpi composti d’uomini avidi o creduli, che conveniva corrompere o ingannare [che direbbe ai nostri giorni ?]… Tutti hanno poi di volta in volta combattuto a favore o contro i giacobini [intesi come i propri seguaci, visto che  il Club dei Giacobini si sfascia proprio a causa di certe intransigenti o fanatiche posizioni], secondo i tempi e le circostanze.
     Come i loro predecessori, gli attuali governanti [girondini sì, ma tra loro c’era anche il montagnardo Danton] hanno nascosto la loro ambizione sotto la maschera della moderazione…
… Hanno chiamato agitatori e anarchici tutti gli amici della patria…  Si sono mostrati abili nell’arte di coprire i propri misfatti, imputandoli al popolo.  Hanno ben presto spaventato i cittadini con il fantasma di una legge agraria [nel senso che sottolineavano il pericolo di confische e pesanti espropriazioni nei confronti dei nuovi proprietari terrieri, formatisi dopo la vendita dei beni aristocratici ed ecclesiastici]… hanno attirato dalla loro parte tutti i nemici dell’uguaglianza.  Padroni del governo e di tutti i posti, dominanti nei tribunali e nei corpi amministrativi, depositari del tesoro pubblico, hanno impiegato tutta la loro potenza ad arrestare il progresso della coscienza pubblica, a ridestare lo spirito monarchico e a risuscitare l’aristocrazia;  hanno oppresso i patrioti risoluti [ovvero, egli stesso, Danton e Marat, con le loro accuse], protetto i moderati ipocriti;  hanno poi corrotto i difensori del popolo…
    In questi fatti, registrati negli atti pubblici [poco prima sostiene che il richiedere un “precettore” alias educatore del primogenito del re, quello che sarebbe dovuto divenire Luigi XVII, ma che morì  ancora ragazzo, considerato a tutti gli effetti erede  dai monarchici legittimisti (infatti, dopo Napoleone abbiamo un Luigi XVIII)] e nella storia della nostra rivoluzione, voi riconoscete già i Brissot, i Guadet, i Vergniaud, i Gensonné e altri ipocriti membri della stessa coalizione…” [82] .
      Leggendo senza la faziosità  che ha caratterizzato molti storici,  si nota come la serie di accuse (a partire dalla monarcofilìa,  che lo stesso Robespierre condivise fino all’ultimo prima della proclamazione della Repubblica [83]) è del tutto generica, e infatti la ripeterà poi per tutti coloro che dovevano finire al patibolo, da Hébert a Danton, ai suoi stessi sostenitori che lo abbandonarono nel luglio 1794.   Prosegue accusandoli poi di voler abbandonare Parigi agli Austro-Prussiani (come, del resto, avverrà  nel 1870/ 71 con i Prussiani di Bismarck e di Moltke), un’ipotesi militarmente  ragionevole di “ritirata strategica”.  Li accusa di aver ostacolato la difesa della Francia, di aver usato cavilli per salvare la vita del re, di aver calunniato  i suoi sostenitori,  di aver sostenuto Dumouriez e il suo tradimento (la stessa accusa colpirà Danton).   Scambiando ad arte intenzioni con ignoranza degli eventi, egli espone delle ipotesi come fossero cose certe.  Su queste “motivazioni”  si  baserà poi l’espulsione dalla Convenzione e l’arresto dei Girondini il 2 maggio 1793.  Giusto per far vedere che egli non voleva “leggi agrarie”,  il 24 aprile (14 giorni dopo il precedente discorso)  egli presenta alla Convenzione un progetto costituzionale (che poi sarà approvato,  ma “democraticamente” congelato fino a guerra finita, su proposta di Saint-Just), accompagnato da una revisione della  “proprietà”  (suscitando così anche nel futuro la grande ammirazione di molti comunisti, che vedono in lui, come in Babeuf, un precursore) che viene concepita come “limitata”  da diritti altrui (definizione presente con qualche correttivo nella nostra Costituzione del 1948),  ma si dimentica di dire che sugli abusi della proprietà, fin dalle sue origini medioevali, aveva scritto Brissot, come già segnalato.  Vi aggiunge anche il diritto di guerra  contro ogni tirannia (anche in questo preceduto da Brissot, da cui evidentemente copia a man bassa [84]).
      Per non dilungarmi eccessivamente, arrivo a questa provvisoria conclusione:  la contrapposizione  tra Girondini e Montagnardi è un’incompatibilità di carattere, psicologica,  e di diverso livello culturale:  più approfondito nei primi che sono essenzialmente teorici ed intellettuali, più superficiale nei secondi, che sono essenzialmente (con l’eccezione di Saint-Just),  degli energumeni della Rivoluzione.  Il terreno ideologico su cui operano non è  molto dissimile (lo segnalò  anche lo storico Michelet,  il quale si rammaricava che i due gruppi non si fossero riconciliati, malgrado uno o due tentativi),  ma la situazione, il modo di interpretarla, l’atteggiamento verso opposte soluzioni dei problemi e, soprattutto, lo spirito “garantista” e “tollerante” dei Girondini contro lo spirito di sommaria procedura dei Montagnardi,  resero impossibile ogni accordo, e fu tra i due gruppi guerra totale .
    Torniamo al Tribunale Rivoluzionario:  se l’assassinio di Marat aveva una evidente colpevole che non solo non si vergognava, non solo  non si pentiva, ma si vantava orgogliosamente di aver eliminato  un “mostro sanguinario”,  il processo all’ex-regina Maria Antonietta aveva carattere diverso.  Questa donna non aveva ucciso nessuno.  Sua “colpa” è l’essere nata da famiglia imperiale,  viziata sicuramente, sposatasi con un re assoluto, e vivente  - suo malgrado e certo senza sua intenzione -  in un’età assolutamente turbolenta.  Certo, non era la persona adatta, come il marito ormai defunto,  ai tempi.  Ma la serie di accuse che Antoine Quintin Fouquier-Tinville, anche con la collaborazione di Hébert, presenta contro di lei, è alquanto curiosa.  Si tratterebbe di accusarla di sprechi e dissipazioni, che qualunque regina del tempo avrebbe potuto fare.  Di certo, non vivevano male rispetto alle persone del popolo, nessuno lo nega:  avevano case e palazzi che un povero Sanculotto neppure poteva sognarsi.  Ma si poteva farne a lei una colpa?  E quella famosa frase, detta su testimonianza della cugina (mi pare),  delle brioches che il popolo, sofferente per la carestia e la scarsità di pane, avrebbe potuto mangiare, se espressa effettivamente, dimostrava più la sua “ocaggine”  che una cattiva intenzione.  Forse non sapeva che la farina del pane era la stessa, sebbene lavorata diversamente,  di quella delle brioches, e che i dolci costavano ovviamente più del pane per una più complessa lavorazione?  Oca sì, ma colpevole ?  Certamente non fu una consigliera adeguata per il marito e si deve quasi certamente a lei l’idea di chiedere aiuto al fratello Leopoldo II, che però di fatto l’abbandonò a se stessa (la guerra, come si è detto, fu proclamata dalla Francia all’Austria e alla Prussia, non viceversa). Ma ormai ella non è che una povera prigioniera, precocemente invecchiata, senza alcun potere:  non so se potesse mangiare le golose brioches nella Prigione del Tempio.  A che accanirsi, a che chiederne la morte ?   Per gettare altre teste in sfida ai re assoluti ?  Provocarli ulteriormente ?    Ecco che, oltre alla vita dissipata e di “facili costumi”,  i suoi accusatori, su suggerimento di Hébert, tirano fuori una calunnia assoluta:  quella che Maria Antonietta e la sorella, anch’essa incarcerata,  avesse avuto rapporti incestuosi e pedofili con il figlio.   Maria Antonietta trova la forza per ribellarsi energicamente contro simile calunnia:
“…  Abusando in modo indegno dell’innocenza di Louis-Charles [il figlio del re, teoricamente erede al trono], un ragazzo di sette anni, gli fanno firmare una spaventosa dichiarazione nella quale accusa sua madre e sua zia Elisabeth di avergli dato abitudini viziose [probabilmente sarà stato sorpreso a masturbarsi o  toccarsi, vista l’età del bambino], e infine di averlo spinto all’incesto.
    Marie-Therèse, maggiore di qualche anno del fratello, la futura principessa di Angouleme nega però con forza questo fatto, imitata da Elisabeth…
… la parte più immonda… è scritta in margine al verbale [probabilmente aggiunta dopo] e, di conseguenza non autenticata…” [85] .
     Un giurato notò che l’ex-regina non aveva risposto sulla faccenda dell’incesto, al che Maria Antonietta disse :
“  Se non ho risposto, è perché la natura si rifiuta di rispondere a una simile accusa fatta a una madre. Me ne appello a tutte quelle che possono trovarsi qui…” [sempre nota 85].
        Solo ai maiali è lecito per natura affogare il loro muso nel brago:  qui invece vediamo magistrati mettersi a farlo.   L’unica accusa che poteva reggere era quella dell’intelligenza col nemico, con l’attenuante che, in quel caso,  la regina cercava di comunicare con il fratello.  Essa non aveva poteri deliberativi di nessun genere, né nella fase assolutista, né nella fase costituzionale (di tre anni scarsi).   Tra le altre cose, il Mazzucchelli, per chiarire la natura del grande accusatore,  asserisce, sulla base della testimonianza di una figlia, che il bravo Fouquier-Tinville  aveva nascosta sotto il suo teatrale costume “rivoluzionario” una medaglietta con l’effigie della Madonna  [86].   Va specificato che i processi al Tribunale Rivoluzionario duravano poche ore, avvenivano alla presenza di un pubblico numeroso, ma spesso incitante alla morte degli imputati. Ad ulteriore chiarimento della bassezza a cui tali magistrati arrivarono, serve notare che non solo chiesero e ottennero, anche dai giurati,  la pena di morte, ma, cessato il processo, fecero arrestare i due avvocati della regina,  nominati d’ufficio,  Chaveau-Lagarde (difensore della Corday)  e Tronson-Ducoudray,  su richiesta del giudice Herman,  per sapere se avessero ottenuto documenti segreti dall’ex-regina (e come avrebbe potuto farlo, quando ormai era stata rinchiusa nella celebre prigione della Conciergerie ?).  Non basta:  per capire ancor meglio la natura buro-finanziaria è pure registrato che per la “vedova Capeto”  il costo della sepoltura, comprensivo della bara, era  di 31 lire francesi  [87].   La donna si riscattò dalle sue antiche “ocaggini” di gran dama, morendo con coraggio assoluto. Ma creare martiri da persone comuni, ancorché titolate,  è una enorme sciocchezza, oltre che un delitto .
     A quello contro Maria Antonietta, segue nel novembre il processo contro i deputati girondini, alcuni dei quali erano fuggiti nei propri Dipartimenti, scatenando una guerra civile  - come detto  -  diversa da quella vandeana, cioè non per intenti di restaurazione monarchica, e detta dai giacobini  di Robespierre  “federalista” (anche se in quel momento il federalismo non c’entrava per nulla:  era la risposta violenta al colpo di mano del 2 giugno).  Ma tale rivolta peggiorò  notevolmente il destino degli arrestati, che in un primo tempo la Convenzione si era limitata a espellerli.  Per cui il loro immediato destino fu la  morte per ghigliottina, dopo un processo rapido, sommario, che avrebbe fatto la gioia  di tutti quelli che amano la “giustizia veloce”.  Con questo processo, comincia appunto una prassi che si ripeterà successivamente:  con sommo sprezzo di ogni tanto decantato  principio del Diritto,  si fanno leggi improvvisate ad hoc  per ridurre discussioni ed udienze.  Su suggerimento dell’avvocato Robespierre, e del giornalista Hébert, viene decretato dalla Convenzione (un’assemblea costituente !)  che, se le udienze durano più di tre giorni, il presidente del T.R.  chiederà ai giurati  se si sentono sufficientemente informati ed “istruiti”:  questi ovviamente risponderanno di sì,   e la sentenza sarà  normalmente di morte.  Si temevano soprattutto le capacità dialettiche ed oratorie dei Girondini, come più tardi di Danton.  Malgrado le varie dichiarazioni sui diritti di parola (compreso il progetto di Robespierre), succede che venissero contestate anche le espressioni di pensiero.  Il Mazzucchelli ne cita un esempio e la risposta in tal senso che l’accusatore Fouquier-Tinville diede all’imputato Lehardy :
“ L’osservazione fatta dall’imputato che non crede di essere qui per le sue opinioni, mi obbliga a dire ai giurati che, se si trattasse di un preciso delitto, io non ricorrerei a questi mezzi d’indagine;  ma  siccome si tratta di una cospirazione contro lo Stato, bisogna  render manifeste le idee degli accusati per stabilire, provare l’identità delle loro opinioni:  risultante dal piano, da loro tramato, nei conciliaboli tenuti presso Valazé [anche le riunioni conviviali, tenute dai Girondini, venivano considerati occasione per piani di rivolta]…”[88] .
       Sentita poi la condanna a morte, vi sono reazioni diverse:  alcuni si proclamano innocenti, Sillery dice di vivere il più bel giorno della vita.  Solo Vergniaud sembra indifferente.  Accanto a lui Valazé, quello  dei “conciliaboli”,  si pugnala.  Fouquier-Tinville, da buon gius-formalista, chiede che il suo cadavere venga ghigliottinato, mentre il giudice Herman  gli consente solo di far porre il corpo sulla carretta  dei ghigliottinandi e di seppellirlo con essi dopo l’esecuzione.  Il solito Hébert, presente alla condanna, crede di irridere  Brissot  dicendo che si trova finalmente sulla fatale sellette (sedia di tortura usata dall’’Inquisizione che l’”Arrabbiato” paragona alla ghigliottina), ma Vergniaud gli ribatte “Tu sei allegro, ma prima di sei mesi ci seguirai da vicino”  e fu facile profeta [89]. I Girondini condannati andranno alla morte cantando la Marseillaise e gridando Vivé la Republique !
        Ma torniamo  per un momento a Robespierre e alla sua nuova dottrina sulla giustizia come processo “rapido”,  che farebbe gongolare tutti gli attuali sostenitori di processi “veloci”  per il bene della giustizia: io personalmente ritengo che, anche in sede giudiziaria, valga il detto di Francis Bacon:  “Veritas filia temporis”, ma di un tempo che sia ben utilizzato con indagini precise e scientificamente condotte, non certo girando in toga per i corridoi…:
“ …  Quando si tratta della salvezza della patria, la testimonianza dell’universo intero non può supplire alla prova testimoniale, né l’evidenza stessa alla prova letterale [non avendo il testo francese, non so dire quanto la confusione espressiva sia del traduttore o di Robespierre stesso: pare di capire che il primo testimone deve essere preso per buono, e che l’evidenza del fatto non può negare la “prova letterale (?)”.  Sembra che il Salvatore della Patria, il Cicerone del 1793/ 94, sia il modello  di certi SS. Inquisitori dei nostri giorni].
La lentezza dei giudizi equivale all’impunità.  L’incertezza della pena incoraggia tutti i colpevoli [il neretto è mio].  E ci si lamenta perfino della severità della giustizia:  ci si lamenta per la detenzione dei nemici della repubblica !
     Si cercano gli esempi nella storia dei tiranni…  A Roma quando il console [Cicerone] scoprì la congiura e la soffocò nello stesso istante [non proprio…] con la morte dei complici di Catilina, egli fu accusato di aver violato le forme;  e sapete da chi fu accusato [ve lo spiega il maestrino…]?  Dall’ambizioso Cesare [il quale, allora molto giovane, si limitò a segnalare la necessità dell’appello al popolo,  previsto per legge,  e a chiedere l’esilio.  Fu Clodio, non Cesare, a criticare Cicerone e farlo inviare in esilio], che voleva ingrossare il suo partito…
     Punire gli oppressori dell’umanità:  questa è clemenza!  Perdonare loro sarebbe barbarie.  Il rigore dei tiranni ha come fondamento soltanto il rigore:  quello del governo repubblicano ha invece come sua base la beneficenza [sic !].
  E così, maledetto chi oserà dirigere contro il popolo quel terrore che deve riversarsi solamente contro i suoi nemici !...  Perisca lo scellerato che osa abusare del sacro nome di libertà, o delle armi terribili che essa gli ha affidato, per portare il lutto o la morte nel cuore dei patrioti…” [90].
       Questo fu detto il 18 Piovoso dell’Anno II, ovvero il 5 febbraio 1794,  e prepara il colpo di mano contro gli hebertisti, ossia Cordiglieri “arrabbiati e ultras” .
     Se l’odio verso i grandi Girondini (Brissot, Condorcet, Vergniaud)  era caratterizzato, in lui come in tutti i Montagnardi, da forti complessi di inferiorità rispetto alle loro doti di cultura e di capacità oratorie,  quello verso Hébert appare caratterizzato da un modo diverso di intendere la politica verso la Chiesa cattolica  e certo ritualismo.  Hébert, come i compagni Roux e Chaumette,  era quello che voleva la scristianizzazione delle Chiese e aveva iniziato quelle manifestazioni “civiche”  destinate all’esaltazione della “Dea Ragione”, in forme tutt’altro che razionali, ma piuttosto carnevalesche e bacchiche.  All’austero, ai limiti del bacchettone,  Robespierre, l’ateismo sostanziale di Hébert non andava affatto, come non sopportava l’ateismo o indifferentismo anticlericale di gran parte dei Girondini.  Egli si sentiva  seguace del deismo, vagamente protestante, di un Voltaire e, soprattutto, di Rousseau, nella celebre “Professione di fede di un vicario savoiardo”, riportata nell’”Emilio”, della quale però  sembra aver capito poco.  Del pensiero illuminista egli sembra cogliere solo la superficie, e infatti egli accetta l’esaltazione di tale Catherine Theòt  che lo rappresenta come un novello Cristo, tanto da suscitare poi l’ira degli stessi Montagnardi e degli altri deputati.  Nella celebrazione dell’Essere Supremo, che contrappone alla Dea Ragione, egli addirittura si farà  “pontefice” delle celebrazioni.  Naturalmente anche qui, l’odio crescente verso Hébert e i suoi “Arrabbiati o Ultras” ha una natura psicologica, prima ancora che ideologica.  Il gruppo gli  era ben servito sia contro Maria Antonietta, per non dire la Corday,  sia contro i Girondini.  Ma ora la sua spada rotante punta contro quest’altro  gruppo, non senza aver prima fatto eliminare Filippo d’Orléans (Egalité), che pure aveva votato per la morte del re,  e la Guida dei Girondini, Manon Phlipon Roland, moglie dell’ex-ministro che, in clandestinità, si uccide quando è informato della morte della moglie [91].   Un discorso a sé meriterebbero anche i processi ai comandanti militari, colpevoli di non aver attaccato, pur in completa inferiorità numerica, come nel caso di Houchard.  Però questo richiederebbe ulteriore spazio,  ma dimostra come accuse e condanne fossero quasi sempre fondate sul  Nulla.
     Nel marzo 1794 (Germinale dell’Anno II)  comincia dunque il processo agli hebertisti.  Gli “Indulgenti”  (Cordiglieri seguaci di Danton)  sembrano indifferenti o passivi anche verso la fine dei loro ex-compagni di gruppo,  un vizio della Convenzione che cesserà ben presto.   Secondo il Mazzucchelli, ricerche storiche del XX secolo, in Gran Bretagna, sembrano aver dimostrato la “veridicità”  di certe accuse,  contro gli hebertisti e, più avanti, contro il gruppo di Danton, ovvero che costoro ricevettero denaro e “oro” dal governo inglese di Pitt.   Tuttavia,  sebbene sia stato anche possibile che lo stesso governo di Pitt grazie ai suoi agenti in Francia [92]  facesse circolare notizie “false e tendenziose” proprio allo scopo di dividere i rivoluzionari tra loro, in modo che si combattessero a vicenda  - come avvenne a tutti gli effetti (sono poi sempre le stesse accuse che circolano, dall’istituzione del Tribunale Rivoluzionario in avanti) - considerata l’avidità indubbia di alcuni rappresentanti francesi  può pure darsi che alcuni di loro accettassero finanziamenti britannici, come del resto di altre potenze assolutiste,  per proprio uso personale, piuttosto che per combattere la Rivoluzione al suo interno.  Ciò sarebbe dimostrato ampiamente dal fatto evidente che la Francia resse la guerra contro la Gran Bretagna  fino al 1815 (ben 22 anni !), malgrado il fiume di sterline o di altre valute,  profuso dai governi inglesi contro la Francia rivoluzionaria,  contro quella del Direttorio e poi di Napoleone, salvo l’effimera Pace di Amiéns (1802). Quindi pare evidente che questi finanziamenti non contarono pressoché nulla sull’andamento della guerra. Questo sul piano storico.  Su quello strettamente giuridico, va pure aggiunto che, in un processo, non contano le prove che dopo due secoli sono state trovate in qualche archivio straniero (ammesso che tali atti siano “prove”), da parte di ottimi storici,  ma quelle che vengono presentate nel processo stesso durante una o più fasi  (nel caso del T.R.  la fase processuale era unica, sommaria e brevissima e durava pochi giorni, come si è detto),  e quelle presentate contro i gruppi di volta in volta incriminati erano scarsette o nulle .
       In realtà,  Robespierre  non sopportava alcuna forma di opposizione esplicita:  gli hebertisti chiedevano la testa degli oltre 70 deputati girondini, espulsi, ma non sottoposti a processo,  non certo per una particolare clemenza di Robespierre che egli stesso non aveva e non dichiarava, ma forse con l’idea di servirsene in un modo o nell’altro, o di farli processare quando lo avesse ritenuto necessario.  Ciò non è ben chiaro.  Sicuramente, invece gli hebertisti si organizzarono per un tentativo di manifestazione  per sollecitarne processo e condanna,  una di quelle ormai celebri e reiterate journées (giornate rivoluzionarie), arrivando a minacciare gli stessi Comitati di salute pubblica e sicurezza generale,  insomma una nuova mezza rivolta.  Ma l’avvocato Robespierre era già pronto a reagire,  come dimostra il discorso del 5 febbraio 1794 (18 Piovoso, Anno II), in cui, elogiando il suo concetto di Virtù,  la associa alla pratica del Terrore:
“… Bisogna soffocare i nemici interni ed esterni della repubblica, oppure perire con essa.  Ora… la massima principale della vostra [della Convenzione, sotto la sua guida] politica dev’essere quella di guidare il popolo con la ragione e i nemici del popolo con il terrore [il neretto è mio].
   Se la forza del governo popolare in tempo di pace è la virtù, la forza del governo popolare in tempo di rivoluzione è ad un tempo la virtù e il terrore. La virtù, senza la quale il terrore è cosa funesta;  il terrore senza il quale la virtù è impotente.
     Il terrore non è altro che la giustizia pronta, severa, inflessibile.  Esso è dunque emanazione della virtù…
     Si è detto da alcuni che il terrore era la forza del governo dispotico.  Il vostro terrore rassomiglia dunque al dispotismo?  Sì,  ma come la spada che brilla nelle mani degli eroi della libertà assomiglia a quella della quale sono armati gli sgherri della tirannia…  Domate pure con il terrore i nemici della libertà:  e anche voi avrete ragione [sic !  il neretto è mio:  ecco un punto chiave  della mentalità dei giuristi:  l’uso della forza dà la ragione, mentre solo la ragione dovrebbe fondare, in modo equilibrato, l’uso proporzionale della forza, stanti i princìpi illuministi.  Se ne riparlerà verso la conclusione], come fondatori della repubblica.
    Il governo della rivoluzione è il dispotismo della libertà [che ossimoro:  ricorda il ben noto “dittatura del proletariato”  di marxiana e marxista memoria !  il neretto è mio] contro la tirannia…
    …    La protezione sociale è dovuta solo ai cittadini pacifici [da che pulpito !].  E nella repubblica non vi sono altri cittadini se non i repubblicani.  I realisti [monarchici], i cospiratori, non sono che stranieri, per essa o piuttosto dei nemici [già, ma chi decide chi siano “realisti e cospiratori” ?   Solo Robespierre e i giudici del Tribunale Rivoluzionario.  E la tolleranza di Voltaire, dov’è finita ?  Basta essere monarchico per essere considerato un cospiratore ?]… I nemici dell’interno non sono forse alleati dell’estero ?  E gli assassini che lacerano la patria all’interno, gli intriganti che comprano le coscienze dei mandatari del popolo, i libellisti mercenari che sono assoldati per disonorare la causa …,  tutti questi individui sono forse meno colpevoli o meno pericolosi dei tiranni…?
    Tutti coloro che interpongono la loro dolcezza parricida [altro ossimoro:  il neretto è mio] tra quegli scellerati e la spada vendicatrice della giustizia nazionale rassomigliano a quelli che si gettassero tra gli sgherri… e le baionette dei nostri soldati.  Tutti gli slanci della loro falsa sensibilità  mi sembrano soltanto sospiri verso l’Inghilterra e verso l’Austria…
[dopo aver accennato ai due partiti, Indulgenti e Arrabbiati,  contro i quali sta rivolgendosi, essendo  - come detto  - i Girondini ormai fuori gioco, almeno alla Convenzione:  i migliori e più prestigiosi sono stati ghigliottinati tre mesi prima,  ora egli punta la sua “spada vendicatrice”  sugli Arrabbiati di Hébert:]
    …  vi è forse più arguzia che esattezza nella denominazione di ‘ultrarivoluzionari’ con la quale sono stati designati… Una denominazione questa che… non riesce a caratterizzare esattamente gli uomini perfidi che la tirannia assolda per compromettere, con applicazioni false e funeste, i sacri princìpi della nostra rivoluzione… [dopo essersi diffuso largamente su una descrizione psicologica e che vorrebbe essere tattica di questi presunti collaborazionisti dei governi nemici, che dimostra la conoscenza di fatti di cui era stato informato, magari falsamente (qualunque calunnia andava bene:  egli non cita atti o fatti precisi),   ecco che comincia a chiarire di chi esattamente parla, ovvero di quel gruppo che proclama indifferenza o rifiuto dell’idea di Dio, ovvero gran parte di quei deputati o gruppi esterni, presenti alla Commune,  come appunto Hébert, Chaumette, Clootz]….
   … Predicare l’ateismo non è altro che una maniera di assolvere la superstizione e di accusare la filosofia.  E la guerra dichiarata contro la divinità non è altro che una diversione in favore della monarchia…”[93].
      In questo minestrone di discorso, e nel suo carattere allucinatorio,  arriva a parlare della strage di polli fatta, secondo lui, col pretesto che questi uccelli domestici mangiassero troppo grano (siamo in tempo di guerra, anche civile, e di conseguente carestia,  non va dimenticato:  e la faccenda dei polli ricorda le brioches di Maria Antonietta:  come dire:  vi manca il grano ? Mangiate polli !).   Indubbiamente, la storia dei polli e poi dei gelsi, ecc.  dimostra quanto spirito concreto avesse in merito a fatti economici di guerra, anche particolari,  ma non credo che  Hébert e i suoi avessero ordinato di uccidere polli e abbattere gelsi.  Questa frittata di accuse dimostra come certamente di qualcosa era stato informato sui nemici che ora vuol abbattere, ma senza che nulla sia provato o possa essere passibile di prove.
     Il processo al T.R.  suscita interesse e passione da parte dei Sanculotti:  quello contro i Girondini era scontato perché  era ormai dal 1792, o già dal 1791,  che i due gruppi  erano ai ferri corti, anche perché i Girondini rappresentavano piuttosto la periferia francese, mentre i Montagnardi erano sostenuti dalla massa parigina:  ma qui si cominciano a colpire uomini della Montagna, un Hébert che vuol pure essere, col suo giornale “Père Duchesne”  (Padre Duchesne),  l’erede  di Marat, anche se in formato ridotto (per quanto truculento Marat era certo un uomo di cultura, forse il più elevato, astraendo da Saint-Just, nel gruppo montagnardo).  Hébert non poteva vantarsi dello stesso livello.  E infatti si era illuso di poterne uscire, come era accaduto a Marat stesso (anche Danton avrà la medesima illusione):  ormai i tempi sono cambiati,  e le misure sono ben più severe.  Il 14 marzo Hébert e i suoi vengono arrestati.   Fouquier-Tinville, dopo aver fatto calmare i clamori del pubblico,  dichiara che “mai è esistita, contro la sovranità del popolo francese e la sua libertà, congiura più atroce…, più vasta, più immensa…” [94] .
      E’  la solita tiritera cantata per ogni processo.  Vi aggiunge il piano di affamamento del popolo francese (forse a causa dei polli ?).  Vi aggiunge nella sua scontata requisitoria, anche la corruzione dei costumi (l’ateismo ?   coppie  multiple ?  teoria del gender?  Chissà…).  Qui si inserisce l’accenno precedente sulla documentazione scoperta nel XX secolo, ma ovviamente il grande accusatore nulla ha in mano, se non ordini di Robespierre e dei suoi Comitati.  Infatti l’Autore nega che vi siano stati interrogatori in fase istruttoria, ma d’altronde il rito accusatorio puro li escluderebbe in tutti i casi, non avrebbero valore [95].  Sono però riportate le dichiarazioni processuali:  ora un tale architetto Dufourny dice che uno dei “congiurati”  frequentava una casa di prostituzione (ma, se tali case erano lecite  -  non siamo nell’Italia del XX e XXI secolo con la legge Merlin ! -  poteva essere un motivo d’accusa ?).  Hébert nega le accuse oppure parla delle proprie buone intenzioni, ma secondo un memorialista “sembra colpito da stupidità”.  Un altro testimonia che Ronsin (altro hebertista)  leggesse qualche biografia di Cromwell, elogiandone l’opera (ottima prova !);  un altro accusa Hébert di  furti di camicie e materassi ad un medico;  un altro teste riferisce che Desfieux (hebertista)  aveva deriso i “buoni costumi”.  L’accusa più grave è verso Anacarsi Clootz l’idealista cosmopolita, che vuole unificare il mondo sul modello (citato)  dell’abate Saint-Pierre (apprezzato perfino da Rousseau e pure da Kant).  Il suo cosmopolitismo sarebbe una “perfidia per interventi contro la Francia”.   A questo,  Clootz, che sembra l’unica persona seria del gruppo, ribatte :
“  La repubblica universale fa parte del sistema naturale.  Io la concepisco come l’abate Saint-Pierre.  Come mi si può, d’altronde, sospettare di essere partigiano dei re, io che sono bruciabile a Roma,  impiccabile a Londra [altro che rapporto col governo di Pitt ! – il neretto è mio], scannabile a Vienna, ghigliottinabile a Parigi ?” [96] .
     Per non tirarla troppo a lungo,  malgrado i giurati dopo il terzo giorno si dichiarino  non ancora persuasi  (la nuova norma processuale applicata con i Girondini), anche perché  tutti di orientamento montagnardo,  il presidente (giudice !)  Dumas si scatena in una “requisitoria” (che proceduralmente apparterrebbe a Fouquier-Tinville)  contro giurati e imputati, fa ritirare per forza la giuria,  viene assolto il Laboureau (con tanto di pubblici abbracci, perché aveva spiato  i discorsi degli arrestati, facilitando le “prove”  per la condanna), e condannati tutti gli altri.  Clootz si dichiara lieto di “bere la cicuta”,  il capo Hébert è invece il  più fragile, mezzo svenuto.  E’  condannata anche una donna, vedova,  ma si salva solo perché incinta (l’essere incinte era per le donne causa di rinvio:  i giudici del T.R.  non giungevano a uccidere anche i feti).   Il boia Sanson, celebre e che ha lasciato delle Memorie, si diverte pure a giocare con la lama che trattiene sopra il collo di Hébert per tre volte, prima di tagliargli la testa  (e questa non è forse tortura ?    Beccaria,  che dicesti vedendo queste scene dal Paradiso ?  Dov’era  finito l’Illuminismo ?).  Ma è anche l’inizio della fine per Robespierre:  ormai ben ci si accorge  che l’uomo  vuol colpire, sempre con gli stessi pretesti, chiunque si opponga alla sua persona, ancor prima che alla sua politica.   Ma la Convenzione attende:  i gruppi della Montagna, e l’intera  Pianura/Palude,  attendono che il campo sia liberato da ogni possibile antagonista, presente o futuro.  Per parlare in termini marxisti di “lotta di classe”,  l’alta borghesia vuol liberarsi da qualunque rivoluzionario effettivo, con tendenze egualitarie,  per poter poi governare “tranquillamente”.  Non sarà così, ma questi potevano ragionevolmente essere i motivi del “lasciar fare il lavoro sporco”  a Robespierre e ai suoi fedelissimi (Saint-Just, Couthon, il fratello minore di Robespierre  Augustin, ecc.).  Altrimenti, non si spiegherebbe come nel luglio (pochi mesi dopo)  siano in grado di liberarsene praticamente senza colpo ferire .
      Due settimane dopo tocca agli Indulgenti  di Danton, arrestati, processati e decapitati tra il 30 marzo e il 5 aprile (Germinale dell’Anno II).   Colpire Danton e il suo gruppo (il giornalista Desmoulins, il generale Westermann, Fabre d’Eglantine, Hérault, ed altri) non appariva semplice, ma al Comitato di Salute Pubblica ciò appariva necessario:  occorreva, a loro parere, ridurre la Convenzione ad una macchina costituzionale e legislativa assolutamente obbediente.  Ogni opposizione doveva sparire, e la figura di Danton, con la sua formidabile vita e il suo prestigio di rivoluzionario sempre presente nei momenti rilevanti, la sua personalità  e le capacità oratorie,  uomo simpatico pur nel suo aspetto brutto (a causa del vaiolo che aveva avuto anni prima, ma da cui si era salvato),  piaceva altresì alle donne e le donne piacevano a lui.  In pratica,  aveva punti psicologici in comune col grande Mirabeau, morto da anni,   era molto appoggiato dal popolo di Parigi:  avvocato come Robespierre e tanti altri deputati, sebbene non avesse una cultura approfondita,  suscitava  come detto molta simpatia.  Ma aveva dei punti deboli:  era facile alla depressione e all’inattività, tendenzialmente abulico.  Sembrava alternare periodi di grande entusiasmo ed attivismo a periodi di assoluta pigrizia:  ciò gli successe con la morte della prima moglie,  a cui seguì un periodo di bagordi, quindi un secondo matrimonio.  Chi ha visto il film, dal relativo dramma, del regista polacco Wajda (col celebre attore francese Gérard Depardieu, che lo impersona), può avere un’idea abbastanza precisa del suo carattere storico, così come del suo avversario Robespierre.  Amava sicuramente le feste e il denaro (di certo non a livello di nostri personaggi contemporanei),  ma tutto ciò suscitava in Robespierre, Saint-Just e seguaci, una certa ripugnanza.  Di qui l’arresto e il processo con la solita sequela di calunnie e diffamazioni, in pare anche fatti veri, ma esagerati.  La sequela di contestazioni è analoga con tutti:  i rapporti con Dumouriez (con il quale era stato commissario in Belgio), certe presunte relazioni inglesi,  il suo desiderio di denaro:  ma l’accusa di tradimento o di corruzione era forse un salto eccessivo, e rimase in parte indimostrato anche per gli studi successivi.  D’altronde, il suo opportunismo (tipico di molti personaggi del tempo),  il suo accanirsi contro re e regina, poi seguito dalle violente contrapposizioni con i Girondini, la stessa indifferenza verso la sorte dei Cordiglieri “arrabbiati”, i suoi momenti di pigrizia,  l’eccessiva sicurezza nel proprio prestigio presso i Sanculotti,  gli impedirono di avere un adeguato sostegno.  Ormai egli e il suo gruppo erano pochi e isolati,  e quindi non sfuggì alla morsa del gruppo robespierriano.
      Ad ogni modo, egli affrontò il processo con estremo coraggio ed energia:  con la potenza vocale che aveva (tanto da farsi sentire fino in strada, e non c’erano allora altoparlanti…)  e il vigore oratorio, tenne in scacco l’accusatore Fouquier-Tinville:  come per tutti questi dibattiti e processi restano i dettagliati verbali del tempo, compilati evidentemente da ottimi stenografi.  Veramente se ne potrebbe fare un gigantesco dramma a puntate, una vera tragedia “greca”  con tanto di intervento della Nèmesi (Vendetta) e della Dike (Giustizia):  Zardi lo tentò, ma col filtro dello storico Mathiez,  spesso falsificando le posizioni. Occorrerebbero solo grandi attori (ormai non ce ne sono più, ahinoi!!), degni di cotanti personaggi.   Tali scontri sono stati riportati dallo storico Wallon e dal Walter.  Un esempio della perfidia dei giudici consistette nel chiedere conto a Danton di spese effettuate quale commissario dello stesso Comitato di Salute Pubblica, dal quale aveva un fondo da utilizzare per finanziare i propri sostenitori.   Ecco il testo di una sua risposta:
“ E si capisce, perché con quel denaro ho elettrizzato i dipartimenti.  Ho dato fra l’altro 200.000 franchi a diverse persone che non mi rilasciarono quietanza perché erano presenti anche Marat e Robespierre;  6.000  a Billaud-Varenne per un’importante missione presso Dumouriez [quando questo comandava ancora l’Armée in Belgio] dopo Valmy.  Il resto lo lasciai a Fabre [d’Eglantin], mio segretario… (a Cambon)…  Dunque rispondi…  mi credi ancora un ladro o un cospiratore?…”[97].
    Siccome Cambon (presente come testimone,  aveva responsabilità finanziarie) è imbarazzato e fa un mezzo sorriso,  gli aggiunge: “Guardatelo.  Ride.  Dunque non lo pensa. Cancelliere, scrivi che ha riso”.  Danton cerca di approfittare delle sue doti oratorie e delle sue battute per suscitare reazioni nel pubblico, in gran parte a lui favorevole,  ma ciò non smuove né Fouquier-Tinville, né il giudice Herman, il quale poi chiede:
“Danton, la Convenzione Nazionale ti accusa di aver favorito Dumouriez, di non averlo fatto conoscere per quella canaglia che era [ricordo che, dopo un tentativo di smuovere l’Esercito contro la Convenzione, dopo la morte del re,  aveva disertato dandosi prigioniero], di aver condiviso i suoi progetti liberticidi… per… ristabilire la regalità”,  ma Danton ribatte :
“ La mia voce che tante volte ha tuonato per difendere la causa del popolo, non faticherà a respingere questa infame calunnia.  Perché i vigliacchi [l’allusione è soprattutto contro Saint-Just che aveva presentato l’atto di accusa alla Convenzione, ma anche contro lo stesso Robespierre] che mi pugnalano alle spalle, non osano accusarmi in faccia ?  Si mostrino e saprò ben io coprirli d’ignominia, svelare l’obbrobrio che li caratterizza!  L’ho detto e lo ripeto:  il mio domicilio [Danton sa bene che è già condannato…] sarà domani il nulla e il mio nome sarà scritto al Pantheon della storia!... La mia testa è qui:  essa risponde di tutto.  La vita mi è di peso.  Ho fretta di esser(n)e liberato “[98] .
    Il Presidente del T.R., col solito untuoso tono di magistrato, lo esorta alla modestia, all’umiltà,  e gli ricorda Marat che affrontò il processo senza alterigia, dimenticando però di aggiungere che, mentre quello per Marat era un processo di preventiva assoluzione, quello per tutti questi altri era di preventiva condanna.  Danton ribatte anche su questo punto, facendosi vanto della sua trascorsa attività politica di rivoluzionario.  Danton si frena per poco alle continue minacce dei giudici e alle loro esortazioni a non offendere gli accusatori o calunniatori.  Respinge tutte le accuse di rapporti o complotti con reazionari o con monarchici o con i repubblicani “moderati”  (girondini).  Sarebbe lungo esaminare tutti i passaggi (il processo dura alcuni giorni,  nei quali egli fa (diremmo con un termine ormai antiquato) da “mattatore”.  Ciò crea non poco timore  nei magistrati:  i Girondini erano stati odiati dalla popolazione parigina, perché non ne volevano la supremazia su tutta la Francia;  ma Danton è adorato da larga parte dei Sanculotti, e se già il processo ad Hébert era visto con sospetto, quello a Danton suscita reazioni ancora maggiori.  Si tratta di tagliarlo.  Viene esclusa l’audizione di testimoni a favore e alla fine si impedisce al gruppo anche di parlare e continuare la difesa.  Si chiede dunque, con un’istanza alla Convenzione, di tagliare ulteriormente i tempi, e la Convenzione, per bocca di Saint-Just,  accetta ancora una volta l’abuso giudiziario aggravato di impedire ogni difesa.  Si parla addirittura di “rivolta” (come se questa fosse concretamente in atto, mentre poteva anche avvenire).  Su questo punto,  Fouquier-Tinville,  giudicato dal medesimo Tribunale per la condanna di Danton,  dichiarò a sua difesa di non aver scritto nulla di rivolta o altro, ma solo di aver richiesta un’abbreviazione delle procedure, specie per l’audizione di testimoni a favore.  La verità  è che i seguaci di Robespierre, sulla base delle notizie e sul fatto che Danton  si faceva sentire da una vasta folla e poteva diventare pericoloso, volevano concludere.  Certo, la rivolta non era in atto, ma era possibile e tanto bastò  alla Convenzione.  Infatti, tanto fu scritto sul Bollettino del T.R. :  “si vede che il loro fine è di sollevare l’uditorio e di eccitare qualche movimento popolare atto a salvarli”.  Il grande e demagogico (i poveri gazzettieri d’oggi lo definirebbero certamente un “populista”)  Tribuno fa ancora paura, e secondo il Mazzucchelli, alcune manovre della moglie di Desmoulins  Lucille per salvare il marito e gli amici, convinsero  i magistrati a chiudere ogni dibattimento [99] .   Di seguito,  il Mazzucchelli si riferisce sempre ad alcuni atti di provenienza inglese, che dimostrerebbero come Danton o chi per lui (qualche banchiere)  fosse finanziato proprio per sollecitare i rivoluzionari a misure estreme, ma – ripeto -  anche se la cosa in sé è tutt’altro che irragionevole (questi si chiamano “agenti provocatori”),  gli effetti, come sappiamo, furono per gli Inglesi stessi (che probabilmente da un lato miravano a inferocire ulteriormente la repressione, dall’altro speravano  in un’insurrezione popolare contro i Comitati e l’intera Convenzione;  il primo obiettivo fu raggiunto, ma per nulla il secondo) insussistenti.  Tale documento, trovato tra le carte di Danton,  malgrado l’importanza per sostenere l’accusa, non venne letto pubblicamente.  Qui il Mazzucchelli arriva a livello di “giallo”  sulle ragioni di tale silenzio, ma non sarebbe per nulla impossibile  - viceversa -  che fosse stato falsificato, e messo agli atti, proprio per convincere i giurati a decretare la colpevolezza.  Il Mazzucchelli, come Mathiez e altri storici, sembra convinto che Danton effettivamente si sia fatto corrompere per amore di  ricchezza, e arriva a giudicarlo molto pesantemente, ma concretamente Danton nulla aveva fatto per sostenere l’operato degli agenti britannici.  La battaglia giudiziaria finisce con lo sputo di cartine degli imputati verso il collegio magistratuale.  Poiché il cancelliere Fabricius si era mostrato commosso e “tenero” verso gli imputati, certi della condanna, il giorno dopo verrà  fatto arrestare dal solito Fouquier-Tinville, ma fortunatamente si salverà tanto da essere poi restituito alla sua funzione, quando Fouquier finirà a sua volta sotto processo.
     Segue dunque l’esecuzione del gruppo,  il cui capo dimostra stoica indifferenza, coraggio e imperturbabilità.  Celebre è la sua frase al boia Sanson:  “Mostra al popolo la mia testa, ne vale la pena” e l’altra, dato che gli avevano impedito di abbracciare l’amico Desmoulins,  “Non potrai impedire alle nostre teste di baciarsi nel cesto ”.   
     Robespierre sembra al culmine della gloria:  sul piano militare, l’Armée è di nuovo all’offensiva sui vari fronti,  perfino la flotta francese, operante con sistemi di guerra da corsa  (un  sistema poi riadottato dai Tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale), ben cosciente di non poter affrontare la flotta britannica in battaglie aperte e massicce (come tenteranno  il Direttorio e poi Napoleone), si fa temibile;  all’interno la Vandea, dopo un vano tentativo di costituire un Esercito vero e proprio, viene pesantemente devastata,  e pure la rivolta “federalista”  o girondina è ridotta ai minimi termini.  Sul piano quindi della generale efficienza governativa, Robespierre e i suoi Comitati dimostrano capacità operative veramente notevoli, sia nella conduzione “normale”, sia in quella della produzione e dei rifornimenti civili e militari.  La mano è pesante anche verso chi esegue accaparramenti di cibo.   Ma a Robespierre tutto ciò non basta, evidentemente vorrebbe poter fare a meno della Convenzione o ridurla al “notaio” della propria volontà.  Vuole che l’intero popolo francese si modelli secondo il suo ideale che diventa sempre più politico-religioso, e si arriva così al Grande Terrore,  con leggi ulteriormente preventive e repressive.  Appare così il caso  di esaminare alcuni punti giuridici  di tale suo tentativo.  Malgrado egli fosse all’acme apparente della sua potenza,  in realtà i mesi del suo potere erano contati:  Danton muore in aprile (Germinale dell’Anno II), Robespierre sarà abbattuto e ghigliottinato a sua volta nel luglio dello stesso anno (Termidoro dell’Anno II).  Molti storici si affannano a sostenere che egli  venne abbattuto perché ormai la situazione francese si era consolidata e il Terrore non sembrava più necessario, egli sarebbe diventato un peso.  In realtà,  le sue crescenti manìe religiose e moralistiche,  poco attraenti per le mentalità fortemente laiche ed anticlericali dominanti alla Convenzione,  il fatto che egli non voleva smettere  la sua azione sanguinaria nei confronti di veri o presunti oppositori,  infine il fatto  che i deputati sopravvissuti alle varie epurazioni  erano stati ben contenti  e complici di queste, purché  non toccassero loro,   ora, vedendosi minacciati, decidono di toglierlo di mezzo.  Si ripete quindi la solita tiritera, come si vedrà . 
        Il 7 maggio 1794 (18 Floreale dell’Anno II)  Robespierre inizia una sua lunga omelia, intitolata “Sui rapporti delle idee religiose e morali con i princìpi repubblicani e sulle feste nazionali”, che dimostra quanto mai come i concetti di tolleranza religiosa e l’accettazione dell’ateismo fossero da lui rigettati:  come Locke non accettava ateismo e cattolicesimo, Robespierre si limita ad odiare l’ateismo,  ma non rigetta del tutto il cattolicesimo o le varie religioni rivelate.  Esprime una certa sua confusione sulla natura di Dio,  con idee che vorrebbero essere rousseauiane, ma ondeggiano fra deismo e panteismo, il tutto pasticciato con forme cultuali e simbolistiche.  Denota ancora il recupero di un proprio fanatismo, dove fa delle dottrine diverse o avverse  dei veri delitti di Stato e motivi di giusta punizione, rovesciando così in pieno arbitrio ciò che aveva pur dichiarato nei propri progetti di Costituzione e di norme costituzionali [100]:
“  Ciitadini,  è nella prosperità che i popoli – come gli individui – devono per dir così raccogliersi al fine di ascoltare, nel silenzio delle passioni, la voce della saggezza.
    Il momento in cui il fragore delle nostre vittorie [a Hondschoote, a  Lione, a Wattignies,  a Cholet, e presto quella di Fleurus ] echeggia in tutto l’universo è dunque quello stesso in cui i legislatori della Repubblica francese devono vegliare con rinnovata sollecitudine su se stessi e sulla patria…
    Noi stiamo per sottoporre alla vostra meditazione verità profonde…
… La natura ci dice che l’uomo è nato per la libertà, mentre l’esperienza dei secoli ci mostra l’uomo ridotto in schiavitù [copia, senza citarlo, Rousseau]
   L’Europa non concepisce che si possa vivere senza re, senza nobili;  e noi che si possa vivere con loro [qui implicitamente critica un Brissot o un Clootz, secondo i quali l’Europa è già rivoluzionaria, almeno tendenzialmente.  Robespierre oppone la Francia all’intera Europa].
   L’Europa prodiga il suo sangue per ribadire le catene dell’umanità; e noi per spezzarle…
   Noi gli insegniamo, invece, i nomi e le virtù degli eroi morti combattendo per la libertà;  gli insegniamo in quale terra gli ultimi sgherri dei tiranni hanno morso la polvere [si badi:  questo è lo stesso Robespierre che due anni prima aveva sostenuto che non si doveva fare la guerra ai  re, contro il parere di Brissot e dello stesso Danton !];  gli insegniamo in quale ora è suonata la fine degli oppressori del mondo…  :  questo popolo sensibile e fiero è veramente nato per la gloria e per la virtù.
    O patria mia !   Se il destino mi avesse fatto nascere in una contrada straniera e lontana, avrei rivolto al cielo voti per la tua prosperità;  avrei versato lacrime di tenerezza al racconto delle tue battaglie e delle tue virtù…
    O popolo sublime !   Ricevi il sacrificio di tutto il mio essere.  Felice colui che può morire per la tua felicità ! 
    E voi, cui esso ha affidato i suoi interessi e la sua potenza, che cosa non potete mai fare con esso e per esso.  Sì, voi potete mostrare al mondo lo spettacolo nuovo della democrazia affermata in un vasto impero [attenzione:  Napoleone non era nuovo.  L’uso del termine “impero”, su modello inglese, si riferiva ai possessi coloniali, ancora ben vasti, della Francia  Ma si riferisce anche al senso romano di “dominio”,  di “conquista”.  Napoleone non crea l’Impero suo dal nulla, ma proprio da questa tradizione.  Dopo altre confuse considerazioni sull’egoismo, passa poi a parlare di vizio e di virtù:]
    Il vizio e la virtù fanno i destini della terra:  essi sono i due geni opposti che se la disputano [risentiamo qui la disputa tra Dio e Satana nel Libro di Giobbe].  La sorgente dell’uno e dell’altra è nelle passioni dell’uomo…
     L’unico fondamento della società civile è la morale [si direbbe Kant, Fichte o Mazzini:  no, è pura bacchettoneria, come si rivelerà].  Tutte le società che ci fanno la guerra riposano sul crimine:  esse non sono – agli occhi della verità – che orde di selvaggi inciviliti e di briganti disciplinati.
     A che cosa si riduce, dunque, tutta quella scienza misteriosa della politica e della legislatura ?  A mettere nelle leggi e nell’amministrazione le verità morali relegate nei libri dei filosofi …  [dopo aver detto che le monarchie in quanto tali sono negazione della patria, della morale, ecc.,  prosegue:]
…. Che cosa dobbiamo concludere dunque da tutto quello che vi ho detto finora?  Che l’immoralità è il fondamento del dispotismo, così come la virtù è l’essenza della repubblica [i deputati, che stanno ascoltando, lo sanno già  da Montesquieu e da Rousseau;  vantandosi poi di aver fondato la “democrazia”,  col taglio di diverse teste, va detto, un modo sicuramente “sdemocratico”, eccolo a scatenarsi “sdemocraticamente”  contro i defunti a causa sua,  tutti gli avversari politici già ghigliottinati, o allontanati,  La Fayette,  Dumouriez, i Girondini, Hébert, Danton “il più pericoloso  di tutti i nemici della patria, se non il più abietto”, ecco che, dopo aver dato sfogo a tutto il suo odio personale anche contro i morti,  arriva al sodo della predica, ovvero omelia:]
    …  Che cosa volevano mai coloro che… attaccarono all’improvviso con violenza ogni culto, per erigersi essi stessi ad apostoli focosi [senti il pulpito !] del nulla, e a missionari fanatici dell’ateismo?  Qual era mai il motivo di quella grande operazione ordita – nelle tenebre della notte… - da preti [preti atei ?], da stranieri, e da cospiratori?... Era forse odio verso i preti ? Ma i preti erano loro amici.  Era forse orrore del fanatismo?  Ma era proprio il solo mezzo per fornire ad esso le armi…
…  E chi dunque  ti ha dato la missione di annunciare al popolo che la divinità non esiste, o tu, che ti appassioni per questa dottrina arida e che non ti appassionasti mai per la patria?
   Che vantaggio trovi nel persuadere l’uomo che una forza presiede ai suoi destini e colpisce a caso il crimine e la virtù;  che la sua anima è un soffio leggero che si spegne alla porta della tomba [Robespierre ha i suoi dogmi, e fin qui nulla di male;  ma arriva ad adirarsi con Fouché,  perché fa scrivere nei cimiteri “La morte è un sonno eterno”, un luogo comune delle religioni, un modo di dire, in quanto il sonno “fratello della morte”  è in realtà un atto biologico di vita, non una fine dell’esistenza.  Non dicono i Cristiani “L’eterno riposo dona a loro o Signore, e splenda per essi la luce perpetua.  Riposino in pace, amen” ?   E allora che cosa c’era da arrabbiarsi ?   Mah!  Robespierre intende anche questa formuletta come qualcosa di materialistico, di “ateo” e la fa cancellare]?  L’idea del suo nulla gli ispirerà  forse sentimenti più  puri …?
… se l’esistenza di Dio e se l’immortalità dell’anima fossero anche solo dei sogni, tuttavia essi sarebbero ancora la più bella di tutte le concezioni…
  … non si tratta qui di fare il processo a un’opinione filosofica…;  si tratta di considerare l’ateismo come fatto nazionale e legato a un sistema di cospirazione contro la repubblica [sic !!!].
    E che vi importano mai, legislatori, le ipotesi varie con cui certi filosofi spiegano i fenomeni della natura?  Potete pure abbandonare queste cose alle loro dispute eterne [il neretto è mio.  Qui si può evidentemente notare lo strisciante disprezzo di Robespierre  per la filosofia e la ricerca,  sia ontologica,  sia scientifica:  un atteggiamento del tutto anti-illuminista]…  Agli occhi del legislatore, tutto ciò che è utile al mondo, e buono in pratica, è la verità.
     L’idea dell’Essere Supremo e dell’immortalità dell’anima è un richiamo continuo alla giustizia [ovviamente, tagliando teste a chi la pensa in modo diverso…],  essa è dunque sociale e repubblicana…
    …  ciò che supplisce all’insufficienza dell’autorità umana, è il sentimento religioso che imprime nelle anime l’idea della sanzione data… da una potenza superiore all’uomo [qui è interessante notare che, al di là dell’occasione politica,  è ormai presente in Robespierre quella tendenza romantica, già sorta in Germania, di rivalutazione del sentimento rispetto alla ragione, e particolarmente della religiosità;  ma il dramma è che lo fa, non come elemento dialettico di pensiero,   ma come strumento di repressione politica].
      Per questa ragione non ricordo che sia mai venuto in mente a nessun legislatore di nazionalizzare l’ateismo…
…  non si deve mai attaccare un culto già stabilito, se non con prudenza e con una certa delicatezza [parla il “rivoluzionario” !    Non si era espresso poco prima contro i preti ?  E ora bisogna rivalutarne l’operato ?   Si diffonde poi in paralleli storici.  E attacca, sentite,  perfino gli enciclopedisti !]
…  La più potente e la più illustre era quella conosciuta sotto il nome di ‘enciclopedisti’.  Essa conteneva alcune persone stimabili e un numero, ben più vasto, di ciarlatani [come se poi gli Enciclopedisti fossero stati in milioni !]
   Questa setta, in materia politica , rimase al di sotto dei diritti del popolo [come se allora vi fosse stata libertà di pubblica espressione !]:  in materia morale, andò molto al di là della distruzione dei pregiudizi religiosi. I suoi corifei declamavano talvolta contro il dispotismo, ma erano pensionati dai despoti [una delle colpe era quella di scrivere madrigali per le cortigiane:  ah, che orrore !]
   Questa setta propagò con molto zelo l’opinione del materialismo…
…  Un artigiano si è dimostrato capace della conoscenza dei diritti dell’uomo, laddove un autore di libri [il riferimento è al Condorcet:  qui si sente tutto il disprezzo verso la cultura, che poi sarà ereditato da Napoleone Bonaparte], pressoché repubblicano nel 1788  [quindi, già prima della Rivoluzione], difendeva stupidamente la causa dei re nel 1793 [fesserie,  basta leggere il suo “Esquisse…”,  già  citato].  Un semplice lavoratore  divulgava nelle campagne la luce della filosofia, laddove l’accademico Condorcet, già grande geometra… e grande letterato…, disprezzato da tutti i partiti [evidentemente, i gruppi della Montagna e della Pianura/Palude], lavorava senza sosta ad oscurare quella luce, con il perfido guazzabuglio delle sue mercenarie rapsodie [un altro punto in cui sfoga tutto l’odio contro l’uomo e le sue idee]
 … Abbiamo inteso, qualche tempo dopo, Hébert accusare un altro cittadino per aver scritto contro l’ateismo.
     E non sono forse Vergniaud  e Gensonné [dàgliela ai Girondini, i suoi nemici indigeribili:  nemmeno la morte ha saziato la sua brama di sangue contro di loro !] che – alla vostra stessa presenza e alla vostra tribuna – perorarono con calore per bandire dal preambolo della Costituzione il nome dell’Essere Supremo che voi vi avevate messo ?   E Danton, che sorrideva di compassione alle parole di virtù, gloria, posterità [che esaltò perfino al momento della morte !]
   …   Fanatici,  non sperate nulla da noi.  Richiamare gli uomini al culto per l’Essere supremo è portare un colpo mortale proprio al fanatismo [e qui sarebbero da richiamare quelle parole di Gesù:  “Non chi dice  ‘Signore !  Signore!’ avrà il Regno dei Cieli, ma chi fa la volontà del Padre Mio!”   Può  Dio, il Principio Supremo della Realtà e della Vita,  esigere il sacrificio umano, lo sterminio, la repressione in nome suo o di altri uomini ?    Qui casca l’asino di Robespierre !].  Tutte le finzioni spariscono dinanzi alla Verità e tutte le follìe piegano il ginocchio dinanzi alla Ragione [la fede di Robespierre è ormai Verità e Ragione assolute, non c’è da discuterne].  Senza violenza, senza persecuzione [sic !!!], tutte le sette devono confondersi da se stesse nella religione universale della Natura [non c’è che dire: teismo, deismo, e magari politeismo si fondono nel panteismo:  ma se tutto è Natura, dov’è un Essere Supremo che regola la Natura ?  C’è in lui una rilevante confusione.  Poi se la prende con i preti:  un colpo al cerchio e uno alla botte, vuol accontentare anche i laici e gli anticlericali:]
… I preti stanno alla morale come i ciarlatani stanno alla medicina.  Quanto è diverso il Dio della Natura dal Dio dei preti !...
   Il vero prete dell’Essere Supremo è la Natura;  il suo tempio, l’Universo;  il suo culto, la Virtù, le sue feste, la gioia di un grande popolo… per rinsaldare i dolci legami della fraternità universale [prima aveva sostenuto che solo la Francia era capace di tanto…]
    …   Ma lasciamo stare i preti e torniamo alla divinità…”.
     Si torna alla divinità, ma come?  con festose celebrazioni, commemorazioni, banchetti popolari, ecc., con altri tagli di teste.   Insomma dei sostituti delle S. Messe, delle processioni, delle feste religiose, delle sante e sacre inquisizioni formato fin de siècle, tanto per far contenta la plebe dei Sanculotti, che così poteva pure sfamarsi meglio che al desco domestico.  Con le scenografie a cura del grande pittore neo-classico Jean-Louis  David  (che poi fu anche il pittore di Napoleone),  indossando abiti sgargianti da neo-pontefice,  Robespierre dà fuoco a sagome di cartapesta  simboleggiante il fanatismo (quello degli altri, è ovvio…), la tirannide (altrui), la corruzione, ed altro.   Egli accusa di “guazzabuglio”  l’opera teorica del Condorcet [101], uno dei suoi grandi rivali,  ma il suo che cos’è ?    Abbiamo visto che molti storici (a partire almeno dal Mathiez) si sono occupati di fare i conti in tasca a Danton, dimenticando che la lira tornese (francese), così come il franco e più ancora l’assegnato, si stavano svalutando mese per mese,  e quindi falsando in una certa misura le sue effettive acquisizioni in ricchezza mobile e immobile;  ma nessuno si chiede quanto fossero costate ai Francesi  quelle inutili manifestazioni di rimbambimento di massa, costituite dalle Feste Civiche di Robespierre,  anche quelle sintomo precorritore della modernità, che mira a distrarre l’attenzione del popolo, fornendogli spettacolini e spettacolazzi, anziché strumenti seri di conoscenza dei suoi propri problemi:  già Hébert aveva iniziato queste carnevalate popolaresche (o populiste ?), con la sua cerimonia per la Dea Ragione.


Capitolo VI:    Aspetti  Violati della Procedura Penale e Misure Terroristiche.

       E’  dunque ora il caso di esaminare la questione sul piano “giuridico”, ovvero sulla violazione di norme costituzionali garantiste, ormai verbalmente e formalmente riconosciute da tutti, ma rinviate sine die col pretesto delle guerre in corso.

 Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (1789):
“ …
4.  Tutti i poteri risiedono nella universalità degli associati, e questa riunione… si chiama popolo o nazione…
5.  Il popolo ha sempre il diritto inalienabile ed imprescrittibile di modificare la sua costituzione, di sorvegliare e di regolamentare i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.
6.  Le leggi devono essere uniformi…; esse devono essere chiare e precise, affinché siano conosciute da tutti.
8.  Ogni cittadino deve trovare una esistenza assicurata, sia nel reddito delle sue proprietà, sia nel suo lavoro…;  e se delle infermità… lo riducono alla miseria, la società deve provvedere alla sua sussistenza…
12.   Ciascuno deve conto soltanto a Dio delle sue opinioni religiose… purché esso non turbi la tranquillità pubblica.
13.  Ciascuno può mettere in iscritto i suoi pensieri e renderli pubblici.
14.  Nessuna persona può, con qualsivoglia trattato, acconsentire a diventare lo schiavo di un altro [è un’esplicita abolizione della schiavitù].
15.  Un cittadino non deve essere arrestato e tenuto prigioniero  se non per la sentenza di un tribunale regolare, e in ogni delitto che non sia capitale è giusto lasciargli la facoltà di offrire una cauzione.[alla maniera anglosassone]…;  è  parimenti giusto che non sia privato dell’uso dei mezzi che possono preparare e fissare la sua giustificazione [ovvero, il diritto di provare e documentare la propria difesa]
19.  Il popolo ha il diritto incontestabile di riunirsi per la salvezza comune…;  di sanzionare o biasimare ciò che i suoi rappresentanti fanno in suo nome”.
    Una questione, che condizionerà  i fatti successivi,  era quella, ispirata dal pensiero lockiano,  del diritto popolare all’insurrezione (Locke lo chiama  l’appello a Dio) ogni qualvolta esso si senta tradito.  Ora, tale atteggiamento, fondato su una diffidenza sistematica e preventiva contro ogni potere, appena insediato, certamente non favorì una minima stabilità dei governi rivoluzionari, mentre sarebbe stato necessario predisporre una fiducia condizionata verso tali poteri, onde lasciar loro la possibilità tecnica e temporale adeguata per operare, creando eventualmente  istituzioni tali da sospendere o far dimettere il governante non idoneo o colpevole, in modo energico ma pacifico.

Costituzione Monarchica Liberale del 1791 .
“ …
Art. 2.   Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo.  Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione.
Art.  3.  Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione.  Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che da essa non emani espressamente.
Art. 5.  La legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società.  Tutto ciò che non è vietato dalla legge non può essere impedito, e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina.
Art.  7.  Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla legge, e secondo le forme da essa prescritte… ogni cittadino, chiamato o tratto in arresto in virtù della legge, deve obbedire all’istante:  se oppone resistenza, si rende colpevole.
Art.  8.  La legge deve stabilire soltanto pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di una legge stabilità e promulgata anteriormente al delitto [irretroattività della legge penale]….
Art.  9.   Poiché ogni uomo è presunto innocente sino a quando non sia stato dichiarato colpevole… ogni rigore non necessario… deve essere severamente represso dalla legge…
Art. 10.  Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico .
Art. 11.   La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo… scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge [si possono notare sempre un “se” e un “ma”  in queste dichiarazioni, certo necessari, ma che costituiscono spesso i buchi nei quali l’autoritarismo si riafferma: chi decide quando si turbi l’ordine pubblico ?  chi decide dove c’è uso e dove ci sia abuso della libertà ?]
Art. 15.   La società ha il diritto di chieder conto a ogni agente pubblico della sua amministrazione.
Art.  16.   Ogni società, nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poter indeterminata, non ha costituzione..”.
   Va precisato che, a differenza della nostra Costituzione, la numerazione degli articoli non è continua, ma riprende dall’1, ogni qualvolta cambia il Titolo.  Interessante notare i criteri per l’acquisizione della cittadinanza, non dovuta solo alla discendenza genetica (diritto di sangue), ma anche alla residenza o a speciali motivi di favore a stranieri che giurino fedeltà,  dopo cinque anni  -  cfr.  Titolo II .
    Al Titolo III, art. 1, si proclama l’unità e indivisibilità della sovranità nazionale, da cui si emanano gli specifici poteri che la rappresentano, il Corpo Legislativo (con assemblea unica)  e il re.  All’art. 5  si stabilisce che i giudici siano eletti dal popolo (modello anglosassone),  cosa che tuttavia non può esprimerne l’imparzialità come dovrebbe:  se un giudice è eletto dal popolo, cercherà di attrarsene sempre le simpatie, e quindi di deliberare secondo i gusti di una maggioranza, e non per l’obiettività dei fatti in relazione alla legge.  Il re aveva poteri di veto, ma non di scioglimento dell’Assemblea Legislativa, il che creerà ovviamente  motivo di scontro sempre più duro.  All’art. 8, sempre al Titolo III, riguardo a eventuali crimini dei deputati, si dice: 
“… Essi potranno per fatti criminali, essere arrestati in caso di flagranza o in forza di un mandato  di cattura; ma ne sarà dato immediato avviso al corpo legislativo;  e l’azione giudiziale potrà essere continuata solo dopo che il corpo legislativo avrà deciso che vi è luogo all’accusa” .
      Riguardo al re, l’art. 2 del Cap. II del Titolo III, lo dichiarava “persona inviolabile e sacra”, ma non più re di Francia, bensì dei Francesi (questa formula sarà adottata da Napoleone, imperatore dei Francesi, e da Luigi Filippo – 1830/48  -  re dei Francesi).   All’art. 1 del Capitolo III e Sezione I, si definiscono gli amplissimi poteri, di fatto non solo legislativi, ma anche amministrativi e, in parte, giudiziari  dell’Assemblea Legislativa.  Sicché, dopo aver tanto parlato di “separazione dei poteri”,  in realtà l’Assemblea li regolava e li dominava tutti.  Al Capitolo IV, art. 1, si dice che il potere esecutivo è retto dal re, il quale nomina i ministri ed è comandante supremo delle Forze Armate.
     Il Capitolo V si occupa del potere giudiziario che all’art. 2  viene definito “a tempo determinato”, con i giudici  eletti dal popolo:  “ Essi potranno essere destituiti solo per prevaricazione debitamente giudicata, e sospesi solo per un’accusa ammessa.  Il pubblico accusatore sarà nominato dal popolo”.  Non esiste così una Magistratura di carriera, il che può apparire molto democratico,  ma c’era, e ci sarebbe tuttora, il rischio di una Magistratura non solo politica, ma demagogica, come in effetti fu il Tribunale Rivoluzionario .
      All’art. 9  si dice :
“ In materia criminale, nessun cittadino può essere giudicato, se non su un’accusa accolta da giurati [siamo sempre al modello anglosassone], o decretata dal Corpo legislativo, nei casi nei quali spetta a questo perseguire l’accusa [L’Assemblea è vista anche come Alta Corte di Giustizia].  L’accusato avrà la facoltà di rifiutarne fino a venti [diritto di ricusazione di giudici e di giurati, da parte dell’imputato],  senza dare giustificazioni.  -  I giurati…  non possono essere inferiori a dodici… L’istruttoria sarà pubblica [le prove si formano nel processo], e non si potrà rifiutare agli accusati il soccorso di un difensore.  Ogni uomo assolto da un giurì legale [gruppo dei giurati] non può più essere arrestato o accusato per il medesimo fatto”.
         All’art. 10:
“ Nessun uomo può essere preso se non per essere condotto davanti all’ufficiale di polizia;  e nessuno può essere messo in stato di arresto o detenuto, se non in virtù di un mandato degli ufficiali di polizia, di un mandato di cattura di un tribunale, di un decreto d’accusa del corpo legislativo, o di una sentenza di condanna…”
        All’art. 11 :
“  Ogni uomo preso e condotto davanti all’ufficiale di polizia sarà interrogato immediatamente, o al più tardi entro le ventiquattro ore [la nostra meravigliosa Costituzione ne prevede 48, prorogabili di altre 48]…;  se vi è luogo ad inviarlo alla casa di detenzione, vi sarà condotto entro il più breve tempo, che in nessun caso potrà superare i te giorni “.
    L’art.  12 prevede il  diritto di versare adeguata cauzione, salvo eccezioni.  Ovviamente,  chi ha denaro esce, chi non lo ha resta.   L’art. 15 prevede diritto di visita ai carcerati; l’art. 16 prevede la punibilità per arresti illegittimi;  l’art. 17 prevede la libertà d’espressione e di stampa:  le diffamazioni vengono perseguite su querela.  Gli artt. dal 19 al 21 prevedono una Corte di Cassazione unica, che tratta non nel merito, ma sul rispetto delle procedure relative ad un processo.   Venne pure prevista un’Alta Corte di Giustizia ad Orléans, che però non fu mai realizzata.
     L’art. 26 prevede l’obbligo di denuncia per determinati reati, già qualificabili come politici :  contro la libertà individuale, la circolazione dei viveri, la riscossione dei tributi, l’impedimento a ordini del re,  attentati contro i diritti delle genti, le ribellioni a sentenze ed atti esecutivi del Tribunale.  Al Titolo VI, in articolo unico, si prevede (mi pare il primo caso nella storia, sebbene come sappiamo poi del tutto disatteso)  il divieto di guerra di conquista e contro la libertà dei popoli..  Anche qui si parla già di Impero,  nel senso dei domini coloniali.

Costituzione Repubblicana del 1793 (Anno I  della Repubblica Francese).
      Poiché  la Costituzione del 1791 era già tendenzialmente repubblicana, per il primato politico-istituzionale dato al potere legislativo, si sarebbero potuti abrogare gli articoli riguardanti  il re, per sostituirlo con un Organo collegiale o individuale di presidenza.   La struttura della Costituzione del 1791, in effetti, fu la migliore fra le tre Costituzioni, e avrebbe meritato di essere conservata con poche modifiche,  ma ciò sarebbe sembrato ai rivoluzionari poco chiaro e poco leale.  Si pensò dunque bene di proporre una Costituzione completamente diversa e più democratica, soprattutto  in sede elettorale e di partecipazione popolare.
        Preparata da due Progetti, quello del Condorcet e quello di Robespierre,  fu approvata nella tempesta della guerra esterna e della guerra civile,  sospesa su proposta alla Convenzione nazionale da Saint-Just  per tutta  la durata delle operazioni militari e della repressione “rivoluzionaria”,  non sarà mai messa in pratica e  cancellata dalla rivolta di Termidoro  (luglio – agosto 1794)  e dalla Convenzione post-robespierriana, sostituita infine dalla  Costituzione, che previde la  doppia Camera  e un Direttorio Esecutivo, nel 1795 (Anno III R. F.).  L’assenza di una Costituzione, anziché favorire l’evolversi di una rivoluzione in corso,  la fece involvere in pura violenza e illegalità, sostenute solo da decreti improvvisati ed arbitrari imposti alla Convenzione e, comunque, accettati dalla stessa finché fecero comodo.  E’  comprensibile che nel marasma del momento alcuni articoli possano essere stati “congelati”,  ma il “congelarla” tutta era anche il “congedarla” in blocco, senza che essa potesse avere qualche effetto positivo di reale democrazia, e non di “democrazia” declamata, demagogica e sanguinaria.   Se, come si è detto,  “Rivoluzione” in sé e per sé  è ampliamento formale e sostanziale della sovranità (nel caso specifico:  dal re, e dagli aristocratici e alto clero, ai borghesi e agli artigiani, più che ai contadini ed operai),  il blocco della Costituzione era il ridurre la sovranità effettiva al gruppo di Robespierre e ai suoi simpatizzanti, per quanto provvisori si siano rivelati.   L’intenzione per la seconda versione costituzionale era dunque largamente democratica, come dimostra l’articolo 2 del Decreto dell’11 agosto 1792,  ovvero l’elezione di una Convenzione Nazionale (termine tolto dalla tradizione americana) con suffragio universale solo maschile, malgrado i tentativi di Condorcet  di aprire anche alle donne il diritto di voto,  ben  oltre un secolo prima di quanto avvenne nel mondo, e su ispirazione  del Progetto di Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina, formulato da Olympe de Gouges fin dal settembre 1791 vigente ancora la monarchia (Art.  III.   Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione  che non è che la riunione della donna e dell’uomo
Art. IV.   … così, l’esercizio dei diritti naturali della donna ha come limiti solo la perpetua tirannia che l’uomo le oppone
Art. VI.  La legge deve essere l’espressione della volontà generale;  tutte le Cittadine e tutti i Cittadini devono concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione…; tutte le cittadine e tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi, devono essere ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti e impieghi pubblici…”)[102].
       L’intenzione di suffragio universale esteso ai due sessi del Condorcet non ebbe approvazione  -  sembra -  nemmeno all’interno dell’intero gruppo girondino;  pare che la stessa Manon Phlipon Roland lo considerasse prematuro o superfluo.  Ma certo non ebbe il sostegno della Montagna (Robespierre & Company) né  della Pianura/Palude.  Nemmeno un ampio uso del referendum, alla maniera svizzera,  ebbe l’approvazione della maggioranza (e ciò avrebbe evitato le tantissime inutili e controproducenti rivolte  tra 1793 e 1795, perché i cittadini avrebbero potuto esprimersi  senza uscire con picche e fucili, ma pacificamente).  Il referendum venne approvato in forme limitate, ma il congelamento generale della Costituzione lo azzerò, mentre rimase il  Diritto del popolo all’insurrezione, così qualunque gruppo organizzato poteva cominciare a sparare ed ammazzare, perché tanto… gli era costituzionalmente concesso…    Di fatto alle elezioni  parteciparono, anche per la guerra in corso, solo un milione di cittadini (come sostiene lo storico Armando Saitta [103].   Sul piano del Diritto costituzionale giudiziario e penale, non vi sono enormi differenze tra la proposta condorcettiana e quella precedente, a dimostrazione che determinate conquiste (di fatto di là da venire ancora oggi)  non erano allora superabili.  Nel Preambolo e pure all’art. 1 del Titolo I del Progetto si ripete la formula dell’unità e indivisibilità della Repubblica, il che dimostra come non fosse generale la previsione di una Repubblica federale di tipo svizzero o americano,  forse presentata da taluni a titolo personale  (secondo Michelet, non lo era neppure Brissot a cui si attribuisce tale  progetto di sistemazione organizzativa:  si tratta probabilmente di forme di ampio decentramento delegate ai singoli Dipartimenti, il che serve da pretesto ai Montagnardi per accusare i rivali di “federalismo”).  A dirigere il potere esecutivo viene previsto, sempre da Condorcet, un Organo chiamato Consiglio Esecutivo della Repubblica di sette ministri, con un presidente alternato ogni 15 giorni (che lamenti d’orrore lancerebbero per una simile proposta i nostri attuali “governabilisti”:  l’intenzione del Condorcet è appunto quella di eliminare ogni possibilità dittatoriale da parte di questi dirigenti).  In tutti i casi il  potere esecutivo assume una funzione appunto d’esecuzione  delle deliberazioni legislative:  qualcosa di simile avviene nel Direttorio svizzero, che funziona assai meglio dei nostri “sgoverni sgovernabili” , che pretenderebbero un Parlamento-notaio delle proprie decisioni (artt. 1 e 3 del Titolo V, Sez. I).
     Interessante, per il nostro argomento,  l’art. 7 della II Sez. del Titolo I :
“ Le misure straordinarie di sicurezza generale [ricordare che siamo in guerra, sia interna che esterna:  pare ovvio che un Progetto preveda misure di tale tipo] non potranno avere una durata superiore ai sei mesi [su  modello della dittatura classica romana], e la loro esecuzione cesserà di pieno diritto a questo momento, se esse non sono rinnovate da un nuovo decreto”.
    Qui si nota con chiarezza estrema la differenza di mentalità e di principio tra Condorcet e i Montagnardi:  Saint-Just infatti vedrà approvata la sua  proposta di sospensione delle Costituzione (appena approvata !)  fino a conclusione vittoriosa (?) della guerra e dell’esigenza rivoluzionaria.  Così facendo,  la Francia non ebbe costituzioni durevoli, si può dire in senso ampio, fino alla III Repubblica del 1875, visto che quella del 1795  fu abrogata cinque anni dopo da Napoleone, quella del 1800  (Consolato)  durò fino al 1804 (Impero), e quest’ultima durò fino al 1814, con la sua prima caduta dopo Lipsia.
       Al Titolo VIII del Progetto di Condorcet si prevedeva una censura popolare sulle deliberazioni legislative, un diritto di petizione e il rinvìo a giudizio per abuso di potere dei funzionari pubblici.   Secondo un’idea, che risale a Montesquieu, si elimina il diritto di grazia dopo le condanne (art. 2, Sez. III, del Titolo X). Sempre in sede di procedura penale si conserva il principio accusatorio e l’esistenza delle giurie.
        Il Progetto di Robespierre è assai meno minuzioso e si limita ad una Dichiarazione dei Diritti,  che ricalca grosso modo, con qualche ampliamento di natura economico-sociale (specie sul concetto di proprietà,  per cui gli storici marxisti, ma non Marx,  lo videro paladino di misure che in realtà  erano mandate avanti dai ben noti Cordiglieri “Arrabbiati”, quali Hébert,  Roux, Chaumette, ecc., per essere ripresi poi da  “Gracco”  Babeuf  e da Filippo  Buonarroti).  In questo senso è importante il concetto che le imposte devono colpire solo il superfluo:
“ I cittadini, le cui rendite non eccedono ciò che è necessario alla loro sussistenza, devono essere dispensati dal contribuire alle spese pubbliche;  gli altri devono sopportarle progressivamente secondo l’entità della loro fortuna” [104] . 
       L’inferiorità del Progetto Robespierre, sotto il piano di organizzazione articolata dello Stato,  è evidente:  egli critica sprezzantemente Condorcet (anche dopo la sua morte),  ma deve seguirlo nei punti fondamentali.  Indubbiamente li integra con una visione sociale (non socialista, si badi)  più moderna, ma è difficile dire se questa innovazione sia sua o piuttosto effetto delle sollecitazioni dei Cordiglieri, che poi represse.  Ad es.,  l’art.  11  della sua Proposta dice:
“  La società è obbligata a provvedere alla sussistenza di tutti i membri, sia procurando loro un lavoro, sia assicurando i mezzi di esistenza a coloro che non sono in grado di lavorare [ma la questione era  già stata inserita nella Costituzione del 1791, per l’esattezza, ma rimasta sulla carta sia allora che in quel momento] “.
  L’art. 12 suona così:
“  I soccorsi necessari all’indigenza sono un debito del ricco verso il povero [ma, si noti,  qui rimane alla classica beneficenza, tipica del Cristianesimo:  dov’è ora l’affermazione di Rousseau che nessuno deve essere tanto povero da doversi vendere, nessuno tanto ricco da poter comprare un uomo ?   Siamo dunque ben lontani da proposte socialiste in senso proprio];  spetta alla legge determinare il modo in cui questo debito deve essere assolto” .
     Come Condorcet, ammette, agli artt.  21 – 24,  sia l’obbligo di obbedienza alle leggi, sia il diritto di protesta e di lotta, nonché di petizione,  da parte dei cittadini  di fronte ad abusi.  Siamo sempre alla diffidenza preventiva di cui si è parlato, giustificabile con la lunga storia di abusi dell’assolutismo, ma che a sua volta indebolisce la coscienza civica e politica perché non fissa limiti precisi, bensì vaghi e variamente interpretabili.  Non esistono organi specifici per incanalare la protesta in forme pacifiche, e questo è il punto debole e rischioso del progetto Robespierre .
     Passiamo dunque, finalmente, al testo approvato ma “surgelato” della Costituzione Repubblicana del 24 Giugno 1793  (i Girondini, come detto,  erano stati espulsi ed alcuni anche imprigionati all’inizio dello stesso mese).    Una Costituzione bloccata  non esiste, di fatto (e infatti quella del 1793 non esistette),  ma è importante ugualmente per far capire che gli stessi uomini che pur  si rifacevano verbalmente a determinati princìpi illuministi e rivoluzionari, sul piano generale e sul piano giuridico-penale,  nondimeno non solo non li applicavano (fatta salva l’apparente forma accusatoria dei procedimenti),  ma agivano in senso assolutamente opposto almeno per quei fatti squisitamente politici, che venivano considerati come delitti controrivoluzionari.  Si mette in evidenza così uno iato nettissimo tra ciò che si  afferma e ciò che si fa. Certo, la guerra, certo le ribellioni…  Ma non si ricorda che molte di quelle ribellioni erano dovute proprio alle misure repressive, non viceversa.  Ma sarò più esplicito nella conclusione .

“  ATTO COSTITUZIONALE DEL 24 GIUGNO 1793  E  DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEL CITTADINO
    Il popolo francese, convinto che oblìo e il disprezzo dei diritti naturali dell’uomo sono le sole cause delle sventure del mondo, ha deciso di esporre in una dichiarazione solenne questi diritti sacri e inalienabili…, affinché il popolo abbia sempre davanti agli occhi le basi della sua libertà e… felicità, il magistrato la regola dei suoi doveri, il legislatore l’oggetto della sua missione.  Di conseguenza, esso proclama, al cospetto dell’’Essere supremo [105],  la seguente dichiarazione…”.
     Segue la solita serie di diritti già vista e che mi pare inutile ribadire (libertà, eguaglianza, fratellanza;  definizione della legge).  Ma vediamo i seguenti articoli, già prima e sempre più violati durante e dopo il periodo robespierriano:
“ Art.  8.  -  La sicurezza consiste nella protezione accordata dalla società ad ognuno dei suoi membri per la conservazione della sua persona [ovviamente tagliando loro la testa o deportandoli o incarcerandoli…], dei suoi diritti e delle sue proprietà.
Art. 9.  -  La legge deve proteggere la libertà pubblica e individuale contro l’oppressione di coloro che governano.
Art. 10. -  Nessuno deve essere accusato, arrestato, o detenuto, se non nei casi determinati dalla legge e secondo le forme da essa prescritte.  Ogni cittadino chiamato  o arrestato dall’autorità della legge, deve ubbidire all’istante;  egli si rende colpevole con la resistenza.
Art. 11.  -  Ogni atto esercitato contro un uomo… senza le forme che la legge determina è arbitrario e tirannico;  colui contro il quale lo si volesse eseguire con la violenza, ha il diritto di respingerlo con la forza [interessante questa distinzione tra forza, che è difensiva, e violenza, che è offensiva;  la forza sarebbe la risposta al’iniziativa aggressiva da parte di qualcuno.  E nondimeno ciò che in contraddizione col fatto dell’art. precedente ove si considera colpevole la resistenza ad atti stabiliti dalla “legge”:  ma quale “legge” ?].
Art. 12.  -  Coloro che sollecitano, emettono, firmano, eseguono o fanno eseguire degli atti arbitrari [ma chi stabilisce quando gli atti sono “arbitrari” ?], sono colpevoli, e devono essere puniti.
[dopo aver ribadito, all’art. 13, la solita tiritera sulla presunta innocenza fino a sentenza (definitiva ?),  ecco la vera beffa:]
Art. 14.  -  Nessuno deve essere giudicato e punito se non dopo essere stato ascoltato o legalmente citato, e in virtù di una legge promulgata anteriormente al delitto.  La legge che punisce prima che esistesse, sarebbe una tirannia;  l’effetto retroattivo… un crimine…
[quel che segue mostra lo spirito belluino degli estensori:]
Art.  27.  -  Ogni individuo che usurpa la sovranità sia all’istante messo a morte dagli uomini liberi [il neretto è mio:  e la presunzione di innocenza ?  e chi sono gli uomini liberi ?   E’  ammissibile preparare una Costituzione con questi criteri ?  Ancora:, sulla base della diffidenza preventiva, di cui si è detto ecco un altro richiamo al diritto, anzi obbligo, di insurrezione popolare:] 
Art.  35.  -   Quando il Governo vìola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo [peggio ancora] il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri [evidentemente una simile misura, che può costituire un fatto inevitabile, ma non un diritto,  appare necessaria quando non esistano istituzioni adeguate per sostituire legalmente, ma pacificamente,  un qualsivoglia governo]…”.
      E’  interessante notare che, affrontando l’organizzazione istituzionale, all’art. 6 si afferma che lo stato di accusa (senza specificare di quale gravità) sospende la condizione di cittadinanza, il che di fatto sospende all’accusato i suoi diritti di cittadinanza.  Sulle immunità  dei deputati si dice :
“Art. 43.  -  I deputati non possono essere ricercati, accusati né giudicati in nessun tempo, per le opinioni espresse in seno al Corpo legislativo [si era ben visto all’inizio di quel mese  con l’espulsione e l’arresto dei 21 Girondini !].
Art.  44.  -   Essi possono per fatto criminale, essere arrestati in flagrante delitto [quale ?], ma né il mandato di cattura, né l’ordine di comparizione possono essere decretati se non con l’autorizzazione del Corpo legislativo [infatti:  basta minacciare di ghigliottina l’intero Corpo legislativo e automaticamente si ottiene l’autorizzazione.  In tutti i casi l’art. 52 ammette censure verso i deputati da parte dell’Assemblea, il che può predisporre il rinvìo al Tribunale:]…”.
     Nel Titolo su  giustizia criminale leggiamo:
“ Art. 96.  -  In materia criminale, nessun cittadino può essere giudicato se non su un’accusa accolta dai giurati [siamo sempre in un rito di tipo accusatorio che, come ben si è visto  e verificato, non è di per sé  una garanzia sicura per la correttezza delle procedure:  come nel rito inquisitorio, tutto dipende dall’onestà  del magistrato o degli incaricati nelle indagini] e decretata dal Corpo legislativo.  -  Gli accusati hanno dei difensori scelti da essi, o nominati d’ufficio.  -  L’istruzione [nel senso di indagine] è pubblica.  -   Il fatto e l’intenzione sono dichiarati da un giurì [giuria, collegio] di giudizio.  La pena è applicata da un tribunale criminale [meriterebbe fare dell’ironia sull’aggettivo:  “criminale” nel senso che si occupa di crimini, o nel senso opposto che compie crimini ?].
Art.  97.  -  I giudici criminali sono eletti ogni anno dalle assemblee elettorali [altra sciocchezza:  come persone scarsamente esperte possano impegnarsi, e per un anno soltanto,  di giudicare fatti di una certa o di particolare gravità ?  L’apparente “democrazia” della procedura elettorale finisce per generare magistrati incapaci e arbitrari, oltreché inesperti]…” .
      L’elettività dei giudici comporta inevitabilmente la loro politicità, e quindi faziosità.  Per far contenta la plebaglia dei sanguinari, una simile Magistratura “volante”  condannerebbe gli imputati senza un minimo di dubbio.
     Ora, se una simile Costituzione fosse stata realizzata, e non sospesa, al di là di molte belle, ma roboanti, affermazioni,  il risultato non sarebbe stato quello di realizzare una democrazia avanzata, ma più probabilmente uno Stato contraddittorio, schizofrenico e poco durevole .        
        Arriviamo così ad esaminare alcune norme preparatorie di quell’atmosfera repressiva anche anteriori al periodo che consideriamo di “Terrore”:  si tratta di misure che potevano essere evitate o applicate in maniera meno energica, cominciando proprio dalla Costituzione Civile del Clero (2 novembre 1789), su proposta di Mirabeau (nobile)  e di Talleyrand  (già alto ecclesiastico).   Già considerare (sulla linea teorica del resto risalente a Locke) preventivamente sospetti o perfino nemici i sacerdoti cattolici era un errore tattico notevole, perché mirava ad escludere per ragioni ideologiche una parte dei cittadini, rendendoli automaticamente ostili.  Il problema religioso andava affrontato non con criteri giurisdizionalisti (tipici di certo dispotismo illuminato:  cfr.  Giuseppe II d’Absburgo), ma con criteri di effettiva accettazione della libertà religiosa e di culto.  Semmai, si sarebbe potuto e dovuto, con sistemi progressivi, affrontare in termini critici la questione religiosa, come poi avvenne nell’Ottocento (Kant, Lessing, Fichte, Schelling, e poi  - più arditamente -  David Friedrich Strauss e Bruno Bauer:  ovvero riprendere quello che era stato il dibattito sulle origini del Cristianesimo, risalente addirittura a Celso, a Porfirio, a Giuliano l’Apostata, per arrivare ai deisti e teisti del XVII secolo, considerati eretici):  questo lo si poteva fare nelle Università, nelle Accademie, in Istituti di teologia laica, ecc. .    In pratica, toccare la Chiesa nei suoi beni materiali  e perfino nella sua antica organizzazione, era sempre rischioso,  controproducente, molto più di quanto allora potesse esserlo la discussione teorica, .
     Nel Decreto dell’Assemblea Costituente si stabiliva :
“  L’Assemblea decreta :
1)      Che tutti i beni ecclesiastici sono a disposizione della Nazione, a condizione di provvedere in una maniera conveniente alle spese del culto, al mantenimento dei suoi ministri e al sollievo dei poveri, sotto la sorveglianza e secondo le istruzioni delle province.
2)     Che nelle disposizioni da fare per sovvenire al mantenimento dei ministri della religione, non potrà essere assicurato alla dotazione di qualunque cura [parrocchia ] meno di 1.200 livres [lire tornesi o francesi] all’anno, non compreso l’alloggio e i giardini che ne dipendono  “.
      Cosa ancora più grave, da punto di vista della Chiesa Cattolica, fu l’abrogazione dei voti religiosi e la chiusura dei conventi:  questo era violare  in modo netto il diritto di organizzarsi e di vivere secondo propri criteri.  Ciò fu stabilito con decreto del 13 febbraio 1790.  Anche qui lo Stato poteva limitarsi a non perseguire coloro che volontariamente abbandonavano i monasteri, ma non costringerli a farlo.  Sempre nel 1790, tra maggio e giugno, con la Costituzione Civile del Clero  si imponeva ai sacerdoti il giuramento di fedeltà allo Stato per l’esercizio dei compiti religiosi, e si instaurava un sistema elettorale nelle ripartizioni ecclesiastiche (parrocchie e diocesi), altra misura assolutamente controproducente, che divise la Chiesa cattolica (grosso modo come avviene tuttora in Cina)  tra preti “giurati” e preti “refrattari”:  questa, in realtà,  fu la causa scatenante la rivolta vandeana:   se si pensa che anche il mondo contadino in Francia aveva accettato la Rivoluzione e partecipato ad essa con un certo grado di violenza (distruzione di castelli, ecc.),  non sarebbe occorso troppo per non generare queste rivolte controrivoluzionarie, piuttosto puntando sulla costruzione di scuole laiche, dove insegnare princìpi etico-religiosi più adeguati al tempo [106].      
     Relativamente alle prime riforme di natura penale generale, ho già tracciato punti essenziali  precedentemente, e non posso ripetermi,  vista la mole delle mie considerazioni.  Si potrebbe dire, comunque, che il commettere delitti comuni molto gravi (es.  stupri e omicidi)  era tutto sommato trattato con minor severità  che delitti (considerati tali per le ragioni di  guerra, di cui si è detto) di natura politica.  In tutti i casi i trattamenti verso i prigionieri di qualunque tipo non erano  assolutamente duri, come in contemporanei altri Stati d’Europa,  Sicuramente la pena di morte o la deportazione erano adoperate con una certa disinvoltura, lo si è detto,  ma si evitava assolutamente di umiliare l’arrestato,  di costringerlo a confessioni forzate, e le prigioni (in modo particolare la Conciergerie)  lasciavano al loro interno abbastanza possibilità di movimento (tanto è vero che le prigioniere con una certa frequenza si facevano mettere incinte apposta con la certezza di rimandare la pena a dopo il parto:  un tale sistema consentì ad esse, in taluni casi, di salvarsi con la caduta di Robespierre), e consentivano anche rapporti e discussioni tra i prigionieri.  Confrontato il tutto con sistemi precedenti in Francia e  contemporanei nell’Europa assolutista,  si può dire che non si manifestarono cose particolarmente crudeli (va fatta invece eccezione la lotta  in Vandea e altri Dipartimenti, per la guerra civile, dove da una parte e dall’altra si combatteva con rappresaglie feroci d’ogni tipo, che preludono a certi atroci fatti del secolo XX).                                                       
       Su proposta, strana invero da parte di un avvocato come Robespierre,  l’Assemblea Costituente emette due decreti nel settembre 1790, e poi nel 1791,  d abolizione dell’Ordine e del titolo di “avvocato”, che diventa “consulente o adiutore legale”  (in Italia, invece, circa una ventina d’anni fa, venne  parificata la figura del procuratore legale, con diritto limitato di difesa,  a quella dell’avvocato in piena regola).  L’eliminazione dell’Ordine rispondeva allo spirito anti-corporativo della Legge La Pellettiere,  che le abrogava tutte, ma anche questo fu controproducente nel merito della difesa tecnica,  privando gli avvocati di una loro reciproca solidarietà di fronte al potere giudiziario, e riducendo  così indirettamente il diritto di difesa dei singoli, specialmente se privi di ogni cultura giuridica .                 
       Nel Decreto del 1791,  al Titolo VI  in otto articoli, sulla Denuncia Civica (siamo ad una discutibile applicazione della procedura accusatoria), si prevedeva l’obbligo di denuncia assistendo ad un qualunque reato contro la libertà, l’incolumità di qualcuno, la sicurezza pubblica.  Si poteva richiedere così  un mandato di comparizione per il reo, vero o presunto che fosse.  In tal caso il denunciato poteva anche essere arrestato:  interessante certo, ma come si sfuggiva alle eventuali calunnie o diffamazioni ?  Il denunciante poteva poi trasmettere tale sua denuncia alla stessa giurìa del Tribunale. La giurìa aveva quindi il compito di dire se vi fosse stato o meno “luogo a procedere”,  o all’opposto  il rinvìo a giudizio se l’accusa apparisse fondata.  Il caso di contumacia, anche se poi il reo era dichiarato innocente, era tuttavia motivo di punizione con detenzione di otto giorni,  oltre che di un predicozzo da parte del giudice per aver dubitato dell’efficienza e della correttezza dello Stato  (Titolo IX).
      E’  difficile dire, quanto di queste norme fosse stato applicato nella tempesta rivoluzionaria con tutti i suoi eccessi dalle più varie parti:  nei testi da me consultati non vedo una comparazione tra le regole penali ordinarie e quelle straordinarie,  quasi certamente perché nel caos generale era difficile poter distinguere un delitto comune (es. omicidio)  da un omicidio politico:  vediamo un caso come quello di Marat assassinato dalla Corday:  se questa avesse sostenuto di averlo ucciso per difendere il proprio pudore, sarebbe stata inviata  al Tribunale Rivoluzionario oppure a quello ordinario ?  Mi pare che nessuno storico se lo sia chiesto, appunto perché  non la “confessione” (che poteva anche essere stata estorta) della donna,  ma il vero vanto di averlo assassinato tolse ogni dubbio procedurale.   Il parallelo caso di Cécile Renault, accusata di tentato omicidio contro  Robespierre, mentre lei negava tale tentativo,  dimostra che comunque una supposta aggressione ad un dirigente politico ipso facto veniva considerata un attentato politico e, quindi, di competenza del T.R. .   In sostanza, non mi risultano studi sulla procedura penale ordinaria effettiva, e non semplicemente teorica, tra il 1789 e il 1794/ 95  (il periodo più “caldo”  per intenderci, della Rivoluzione) .
     Veniamo dunque ad esaminare  le istituzioni, che avrebbero dovuto avere carattere puramente esecutivo nel governo della Repubblica:  il  Consiglio Esecutivo, formalmente esistente ancora dal 1791, fu sempre più ridotto dall’impotenza all’inesistenza.   Si crea un organo straordinario il 6 aprile 1793  con la denominazione di Comitato di Salute Pubblica, con Danton e altri capi montagnardi, ma non ancora Robespierre.  Questo Comitato è affiancato dal Comitato di Sicurezza Generale con funzioni tecniche e di polizia.  Non avendo alcun limite costituzionale proprio per l’inesistenza di una Costituzione, segue un processo opposto a quello  del Consiglio Esecutivo, accrescendo sempre di più i suoi poteri di fatto, fino ad “imporli”  (ma attenzione:  finché queste “imposizioni” vennero accettate dalla Convenzione…).  Sussistendo poco più d’un anno (e la fase robespierriana solo un anno),  non si potrebbe parlare di “dittatura” se non nel senso classico romano che prevedeva pieni poteri ad un magistrato per sei mesi rinnovabili per altri sei:  nulla di confrontabile con le dittature del XX secolo  e, come non ci si  deve mai stancare di ripetere,  quando  Robespierre cominciò a minacciare la Convenzione in toto, fu facilmente spazzato in due soli giorni.    E’  appunto il Comitato di Salute Pubblica, sotto la guida di Robespierre, di Saint-Just, di Couthon ed altri,  che presenta il 10 ottobre 1793 (19  Vendemmiaio dell’Anno II R. F.)  alla Convenzione, che approva, il decreto  di “governo rivoluzionario” :
“ Art.  1.   -  Il Governo provvisorio della Francia è rivoluzionario [di fatto, extracostituzionale]  fino alla pace.
Art. 2.  -  Il Consiglio esecutivo [come dire,  il vero Consiglio dei ministri], i ministri, i generali, i corpi costituiti, sono posti sotto la sorveglianza del Comitato di Salute Pubblica, che ne renderà conto alla Convenzione ogni otto giorni [il neretto è mio: ciò dimostra come questo Organo fosse comunque soggetto al controllo della Convenzione stessa, la quale poteva accettare, o anche non accettare, le sue proposte di misure straordinarie].
Art.  3.  -  Ogni misura di sicurezza deve essere presa dal Consiglio esecutivo provvisorio sotto l’autorizzazione del Comitato che ne renderà conto alla Convenzione.
Art.  4.  -  Le leggi rivoluzionarie devono essere eseguite rapidamente.  Il Governo corrisponderà immediatamente coi distretti circa le misure di salute pubblica.
Art.  6.  -  L’inerzia del Governo essendo la causa dei rovesci,  i termini per l’esecuzione delle leggi e delle misure di salute pubblica saranno fissi.  La violazione dei termini sarà punita come un attentato alla libertà..”.   Buon motivo per far funzionare la ghigliottina.  Il 4 dicembre 1793 (14 Frimaio dell’Anno II, R. F.)  viene tolta ogni autonomia ai Dipartimenti (causa di federalismo !) e creata una figura che prelude ai prefetti napoleonici.  Il 1°  aprile 1794 (28 Germinale dell’Anno II)  viene soppresso il “fantasma” del Consiglio Esecutivo.
       Praticamente il funzionamento  di tutto il sistema rivoluzionario è fondato da un lato sull’estrema energia personale di questi “governanti”, benché improvvisati,  dall’altro sulla disciplina forzosa  dei sottoposti,  che durò  finché si ritenne necessario agire con questi sistemi, perlopiù violenti e repressivi, con la giustificazione della guerra interna ed esterna.  Sicuramente gli effetti di tali misure non possono non apparire “miracolosi”, malgrado la loro fragilità organizzativa e giuridica.
    Da leggi e decreti pretestuosamente straordinari, si passa a misure preventive pretestuosamente “straordinarie”  di repressione politica,  le “leggi dei sospetti”,  ovvero delle categorie preventivamente sospettate di agire contro la Rivoluzione:  potrebbe meravigliare che siano giuristi di fama, e non semplici politici,  coloro che le propongono o le formulano su richiesta del Comitato robespierriano:  ovvero Cambacérés  e Merlin de Douai.  Il primo sarà pure al servizio di Napoleone, uno dei celebri “Camaleonti”, come definiti da Federico Zardi.   Ma non c’è da meravigliarsi:  finché si pretenderà che il Diritto sia fondato sulla Forza, e al servizio della Forza,  o  - per dirla con Giovanni Botero -  sulla “ragion di Stato”, queste cose si ripeteranno  all’infinito, come in effetti si ripeterono nel secolo XIX e nel XX ( e si sta ripetendo nel XXI).
“  Sono reputati sospetti:  1)  quelli che, sia con la loro condotta, sia per le loro relazioni, sia con i loro discorsi o con gli scritti [ecco come finisce la libertà di espressione pubblica !], si sono mostrati partigiani della tirannia o del federalismo e nemici della libertà;  2)  quelli che non potranno giustificare, nella maniera prescritta dal decreto del 21 marzo [1793], i loro mezzi di sussistenza e il compimento dei doveri civici;  3)  tutti quelli cui è stato rifiutato il certificato di civismo; 4) i funzionari pubblici sospesi o destituiti dalle loro funzioni dalla Convenzione nazionale o dai suoi commissari e non reintegrati…; 5) quanti degli ex-nobili e dei mariti, delle mogli, padri, madri, figli o figlie [il principio generale del Diritto penale è la responsabilità individuale:  qui invece, con un salto forse anche peggiore dell’Inquisizione clericale,  si estende  la responsabilità penale a tutti i parenti dei “sospetti”], fratelli e sorelle e agenti degli emigrati, non abbiano costantemente manifestato il loro attaccamento alla Rivoluzione;  6)  quelli che sono emigrati nel’intervallo dal 1° luglio 1789 alla pubblicazione del decreto del 30 marzo 1792, benché siano rientrati in Francia entro il termine fissato dal decreto…” [107].
      Ancora più dettagliata la legge del 10 giugno 1794 (22 Pratile dell’Anno II),  che verrà utilizzata , oltre che per le varie “infornate”   degli ultimi mesi, anche per lo stesso gruppo di Robespierre.  Venivano ormai chiamati “infornate”  i massicci rinvii a giudizio presso il  Tribunale Rivoluzionario,  di decine di persone, tutte cumulate sotto queste accuse generiche, di cui alla legge del 22 Pratile sempre  sui “sospetti”:
“…
Art.  4.  -  Il Tribunale Rivoluzionario è istituito per punire i nemici del popolo [è una dizione ripresa nel XX secolo dalle varie dittature].
Art.  5.   – I nemici del popolo sono coloro che cercano di annientare la libertà pubblica [notisi  il pulpito da cui si predica…], sia con la forza, sia con l’astuzia.
Art.  6.  -  Saranno reputati nemici del popolo coloro che avranno provocato il ristabilimento della monarchia, o cercato di esautorare o sciogliere la Convenzione nazionale e il Governo rivoluzionario e repubblicano  di cui essa è il centro;
Coloro che avranno tradito la Repubblica nel comando delle piazze e degli eserciti o in ogni altra funzione militare, mantenuto intelligenza col nemico, lavorato  a far mancare gli approvvigionamenti o il servizio delle armate;
Coloro che avranno cercato di impedire gli approvvigionamenti di Parigi [in special modo Parigi, sia perché la più popolosa, sia perché ritenuta l’unica città rivoluzionaria che sostiene il potere dei Montagnardi, ma si vedrà che la cosa è assolutamente illusoria] o di causare la carestia nella Repubblica.
Coloro che avranno secondato i progetti dei nemici della Francia, sia favorendo la impunità dei cospiratori e dell’aristocrazia, sia perseguitando e calunniando il patriottismo [montagnardo, ovvio], sia corrompendo i mandatari del popolo, sia abusando dei princìpi della Rivoluzione, delle leggi e delle misure del governo, con applicazioni false e perfide;
Coloro che avranno ingannato il popolo, o i rappresentanti del popolo, per indurli a passi contrari agli interessi della libertà;
Coloro che avranno cercato di ispirare lo scoraggiamento, per favorire le imprese dei tiranni legati contro la Repubblica;
Coloro che avranno diffuso false notizie per dividere o per turbare il popolo;
Coloro che avranno cercato di fuorviare l’opinione e di impedire l’istruzione del popolo, di depravare i costumi e corrompere la coscienza pubblica, e alterare l’energia e la purezza dei princìpi rivoluzionari e repubblicani, o di arrestarne i progressi sia con scritti rivoluzionari o insidiosi, sia con ogni altra macchinazione [è evidente che tale genericità di motivazione implicava chiunque non fosse gradito al Comitato di Salute Pubblica o alla Convenzione];
I fornitori di cattiva fede che compromettono la salvezza della Repubblica e i dilapidatori della fortuna pubblica…;
Coloro che, essendo incaricati di funzioni pubbliche, ne abusano per servire i nemici della Rivoluzione, per vessare i patrioti, per opprimere il popolo;
Infine, tutti coloro che sono designati nelle leggi precedenti, relative alla punizione dei cospiratori e controrivoluzionari, e che, in qualsiasi modo, abbiano attentato alla libertà, all’unità, alla sicurezza della Repubblica, o lavorato a impedirne l’affermazione.
Art. 7.  -  La pena prevista per tutti i delitti la cui conoscenza [giurisdizione] appartiene al Tribunale Rivoluzionario, è la morte [quindi, nemmeno più la deportazione…]
….
Art.  13.  -  Se esistono prove sia materiali, sia morali [prove morali !!!], indipendentemente dalla prova testimoniale, non saranno intesi [ascoltati] testimoni, a meno che questa formalità non sembri necessaria, o per scoprire dei complici  o per altre considerazioni maggiori di interesse pubblico…
….
Art.  16.  -  La legge dà per difensori ai patrioti calunniati dei giurati patrioti, non ne accorda ai cospiratori  “ [108] .
       Una considerazione, partendo dall’ultimo articolo:  come si fa a sapere preventivamente, e per giunta col rito accusatorio dove le prove “si formano in giudizio” ,   chi sia  un patriota calunniato e chi un cospiratore reazionario ?     E che vuol dire “giurato patriota” ?  Uno che preventivamente è già a favore delle misure in questione.   In questo pesante elenco c’è  di tutto  e di più  (per dirla come la RAI-TV).    La Rivoluzione Francese, arrivata a questo punto, si trasforma in una di quelle tragicommedie dove il suggeritore esce dalla sua buca per avvisare l’”inclito pubblico” che lo spettacolo è finito perché tutti i personaggi sono morti.   La cosa è divertente in un teatro dove si recitano finzioni e, se i personaggi sono morti,  gli attori restano ben vivi per riprendere la sera successiva.  Ma qui siamo di fronte a fatti storici reali, e anche  poco divertenti, benché passati, perché sono (e si sono mostrati) ripetibili con poche varianti.  Dunque occorre capirne la lezione perché ciò non avvenga più, né in forma ridotta, né  in forma accresciuta.
    Ora, con l’emanazione di simili norme,  che non è responsabilità  dei soli proponenti e formulatori, ma anche e soprattutto di chi ha votato tali orrori giuridici, nessun cittadino della Repubblica Francese poteva dirsi al sicuro:  essendo il rito accusatorio ormai ridotto alla pura calunnia o alla diffamazione,  bastando una semplice denuncia per dare inizio al procedimento, senza avvocati difensori veri e propri,  basandosi su fatti generici, senza prove, non dirò di natura scientifica (allora tecnicamente impossibili),  ma almeno ragionevoli e verificabili  in un qualche modo, senza il benché minimo “beneficio del dubbio”,  ben pochi poterono salvarsi e si salvarono più per il rovesciamento di Robespierre e del suo  Comitato e gruppo politico, che non per una decisione del Tribunale Rivoluzionario.
      Il tentativo  di alcuni storici, democratici o marxisti, o comunque di orientamento filo-rivoluzionario,  di giustificare le orrende misure con la solita guerra in corso,  dimenticano che  molti degli eventi che poi servivano da giustificazione per misure repressive di morte,  furono provocati proprio dagli abusi commessi nella stessa Convenzione o anche prima, come si ribadirà.  Vi furono errori di tattica e di strategia rivoluzionaria, la mancanza di rispetto verso le tradizioni e i sentimenti popolari, l’assenza di una qualche gradualità di passaggio dalle vecchie istituzioni alle nuove, la dichiarazione di guerra a tutto il mondo circostante ancora assolutista o appena costituzionale.   Poi vi fu l’abbandonarsi al gusto del sangue e al sorpasso di ogni limite, in una serie esplosiva di reazioni a catena.  Ciò detto,  va notato che le misure più repressive si hanno non nei momenti di pericolo maggiore, ma nei momenti di vittoria o quasi vittoria:  la legge sopra riportata viene mandata avanti dopo e non prima  delle vittorie contro la coalizione straniera e dopo e non prima della vittoria sui Vandeani.
    Il Walter, nei suoi “Atti del Tribunale Rivoluzionario”,  riporta alcuni dati statistici: 
nel complesso, tra il 6 aprile 1793 e il 27 luglio 1794 (15 mesi circa) si ebbero  4021 processi al Tribunale Rivoluzionario, di cui 2585 condanne a morte immediata, 1306 assoluzioni, 72 detenzioni, 36 deportazioni e 22 rinvii del processo per competenza ad altri tribunali.  Il maggior numero di condanne a morte è concentrato nei mesi dell’Anno II (1793/ 94) di Floreale (aprile/maggio), Pratile (maggio/giugno, quello della legge citata) e Messidoro (giugno/luglio), ovvero 354 – 509 – 796, più  i giorni di Termidoro (luglio/agosto:  342, riguardanti soprattutto i robespierriani).  Tra le vittime, illustri o meno, uomini come lo scienziato Antoine-Laurent Lavoisier e il poeta André Chénier.   A questi condannati con processi più o meno fittizi, vanno aggiunti i morti, da una parte all’altra (i Vandeani non furono certo meno crudeli, e nemmeno i Girondini “federalisti” andarono troppo per il sottile),  senza  processo alcuno con esecuzioni sommarie e massicce di decine di migliaia di persone, donne, bambini e vecchi compresi  (cfr.  Processo a Carrier).
      E’ estremamente facile verificare, guardando una semplice cronologia degli eventi,  che tale massacro, concentrato in pochi mesi,  avviene non come nel settembre 1792 a causa dell’offensiva vittoriosa austro-prussiana, bensì in piena offensiva francese contro gli Stati coalizzati e contro Vandeani e “federalisti”.    
       Quindi, battere la grancassa della “necessità del momento”  è  - a mio parere – del tutto infondato.  Lo stesso Saint-Just, amico, ammiratore  e collaboratore di Robespierre, nei suoi appunti per una riforma generale dello Stato repubblicano  scrive :
“…  Il terrore può sbarazzarci della monarchia e dell’aristocrazia;  ma chi ci libererà dalla corruzione?  … Delle Istituzioni.  Non se ne ha il minimo sospetto;  si crede di aver fatto tutto il necessario quando si ha una macchina per governare…!”[109].
Critica implicita a Robespierre ?  Potrebbe essere, e questo farebbe notare che, se non fosse stato ghigliottinato dai Termidoriani, lo sarebbe stato forse dal suo amico Maximilien.  Saint-Just sottolinea che il Terrore era misura inefficace a creare e consolidare una Repubblica:  solo istituzioni di natura educativa  potevano effettivamente eliminare ogni rischio di monarchia e di corruzione controrivoluzionaria.   Anche Benjamin Constant scriverà:
“ … Mi propongo di provare che il Terrore non è stato necessario alla salvezza della Repubblica;  che la Repubblica si è salvata malgrado il Terrore;  che il Terrore ha prodotto gran parte degli ostacoli dei quali si attribuisce il superamento… che il Terrore ha fatto soltanto del male, lasciando in eredità all’attuale repubblica [quella del Direttorio] tutti i pericoli che ancora l’assediano…” [110] .                  


Capitolo VII: L’Epilogo della Rivoluzione. La Fine di Robespierre & Company.

      Ed eccoci ora al rendiconto finale:  Robespierre si illude di potersi sbarazzare  dei deputati opportunisti della Pianura/Palude e di una parte stessa della Montagna, quella più estremista e violenta che, per ordine stessa della Convenzione manovrata dal Comitato di Salute pubblica, aveva effettuato le repressioni più sanguinose degli ultimi mesi.  Si illude: nella sua genericità (non fa subito nomi),  ciascuno si sente minacciato, di qui la risposta fulminea e la contromanovra che riesce perché probabilmente  studiata da tempo.  Ma procediamo con ordine:  il 26 luglio 1794 (ovvero, 8 Termidoro dell’Anno II R.F.) Robespierre si presenta con una lunga relazione alla Convenzione, e il solito tono da predicatore su un pulpito assai cattivo :
“ Cittadini, altri vi traccino dei quadri lusinghieri:  io vi dirò delle utili verità…. Difenderò innanzi a voi la vostra autorità oltraggiata e la libertà violata.  Difenderò anche me stesso;  non ne sarete sorpresi;  voi non assomigliate ai tiranni che combattete…
… La rivoluzione francese è la prima che sia stata fondata sula teoria dei diritti dell’umanità, e sui princìpi della giustizia [!!!].  Le altre rivoluzioni non richiedevano che ambizione;  la nostra impone delle virtù… per conservare il vantaggio della loro posizione, i capi delle fazioni  e i loro agenti sono stati costretti a nascondersi sotto la forma della Repubblica [quindi, rielenca un certo numero di personaggi da lui fatti mandare al patibolo, Précy, Brissot, Philippe Egalité]… è nella natura stessa delle cose che dovunque vi siano degli uomini riuniti esista un’influenza, quella della tirannia o quella della ragione.  Quando questa è proscritta [Robespierre si sente la Ragione stessa…] come un crimine, regna la tirannia;  quando i buoni cittadini sono condannati al silenzio, forza è che dominino gli scellerati.
    Qui io devo aprire il mio cuore… Non crediate che io voglia intentare delle accuse… :  sono tanti i pericoli imminenti…  Io intendo, se possibile, dissipare degli errori crudeli;  intendo soffocare gli orribili fermenti di discordia…;  intendo svelare degli abusi che tendono alla rovina della patria          [si considera perseguitato]
     Ah !  qual è dunque il fondamento di questo odioso sistema di terrore e di calunnie?  Da chi dobbiamo essere temuti, dai nemici o dagli amici della Repubblica…  Noi, esser temuti dalla Convenzione nazionale!  E che siamo noi senza di essa [infatti, non erano nulla… ]?  E chi ha difeso la Convenzione nazionale a pericolo della propria vita?  Chi si è sacrificato per la sua conservazione quando esecrabili fazioni cospiravano per la sua rovina…  quando i vili servi della tirannia predicavano in suo nome l’ateismo e l’immoralità;  quando altri mantenevano un silenzio criminoso sui misfatti dei loro complici, e sembravano aspettare il segnale della carneficina per bagnarsi nel sangue dei rappresentanti del popolo…
[elenca altri “nemici del popolo”, quali Hébert, Danton, Delacroix, Fabre d’Eglantine] …  Ma se non abbiamo fatto altro che denunciare dei mostri [addirittura!  il neretto è mio] la cui morte ha salvato la Convenzione nazionale e la Repubblica…  No, non siamo stati troppo severi… ne chiamo a testimone la Rappresentanza  nazionale  [infatti:  fu complice delle condanne.  Il neretto è mio]…                  Siamo stati noi a gettare i patrioti in prigione, e a portare il terrore in tutte le condizioni?  Sono stati i mostri che abbiamo accusato     [già, anche mesi dopo che quelli erano morti !]… Non è forse vero che l’impostura [accusa dei fantomatici avversari delle misure, vere o esagerate che fossero] è stata diffusa con tanta abilità e audacia [da chi ?  dai morti ?] che molti membri della Convenzione non osavano più passare in casa la notte ?...   Quali uomini erano stati accusati dai comitati [di Salute Pubblica e Sicurezza Generale], se non gli Chaumette, gli Hébert, i Danton, gli Chabot, i Lacroix ?  E’ dunque la memoria dei congiurati che si vuole difendere?  È la morte dei congiurati che si vuole vendicare?  Se ci si accusa di aver denunciato alcuni traditori, si accusi allora la Convenzione che li ha accusati [il neretto è mio:  torna in gioco quella corresponsabilità delle misure repressive, esercitate col consenso dell’Assemblea, di cui si riparlerà.  In effetti, Robespierre si sente accusato di tali misure, ma egli tenta di coinvolgervi l’intera  rappresentanza costituente]      …Per quale fatalità questa grave accusa è stata trasferita all’improvviso sulla testa di uno solo dei suoi membri [ovvero, su lui stesso]         ?  Strano progetto di un uomo, spingere i membri della Convenzione nazionale a uccidersi tutti con le loro stesse mani [e infatti era quello che stava accadendo.  Ora passa dai “mostri” morti a quelli ben vivi che lo minacciano:]… Voi renderete almeno conto all’opinione pubblica della vostra terribile perseveranza nel perseguire il progetto di uccidere tutti gli amici della patria, mostri che cercate di togliermi la stima della Convenzione nazionale [il neretto è mio]
     Gli atti di oppressione erano stati moltiplicati dovunque per estendere il sistema di terrore e di calunnia.  Agenti corrotti prodigavano arresti ingiusti; progetti finanziari di rapina minacciavano tutte le fortune modeste…;  si spaventavano i nobili e i preti con mozioni appositamente concertate [ma come, non erano più “nemici del popolo ?  il neretto è mio.  E prosegue con queste elucubrazioni, non solo in contraddizione palese con l’immediato passato, ma anche minacciose in modo generico che poteva comprendere tutti i presenti]
…   Mi chiamano tiranno.  Se lo fossi, striscerebbero ai miei piedi, io li soffocherei d’oro, assicurerei loro il diritto  di commettere qualunque crimine…
… Da una parte, si calunniano apertamente le istituzioni rivoluzionarie, dall’altra si cerca di renderle odiose con degli eccessi;  si tormentano uomini innocui o pacifici;  si gettano ogni giorno i patrioti nelle prigioni… Le armi della libertà non devono essere toccate che da mani pure.  Epuriamo la sorveglianza nazionale anziché mascherarne i vizi…
… Addossavano a me tutte le lagnanze… dicendo:  la vostra sorte dipende solo da lui…:  ecco degli infelici condannati;  di chi è la colpa?  Di Robespierre.  Ci si è impegnati in particolare a provare che il tribunale rivoluzionario era un tribunale di sangue, creato da me solo…
     Posso dunque rispondere che gli autori di questo piano di calunnie sono in primo luogo il duca di York, il Sig. Pitt, e tutti i tiranni armati contro di noi.  Chi altri ?... Ah!  Non oso nominarli in questo momento…;  non posso risolvermi a strappare del tutto il velo…  vi sono gli apostoli corrotti dell’ateismo e dell’immoralità [insomma,  oltre alla propaganda della coalizione, la colpa  è degli atei e degli immorali…]…  Il Popolo può sopportare la fame, ma non il crimine [quale popolo ?  quale crimine?]; il Popolo sa sacrificare tutto, tranne le sue virtù… L’ateismo, scortato da tutti i crimini, versava sul popolo lutto e disperazione, e sulla rappresentanza nazionale i sospetti, il disprezzo e l’obbrobrio.  Una giusta indignazione, compressa dal terrore [ma chi lo dirigeva ?], fermentava sordamente in tutti i cuori.  Una terribile, inevitabile, eruzione ribolliva nelle viscere del vulcano, mentre dei piccoli filosofi giocavano stupidamente sulla sua cima con dei grandi scellerati… [naturalmente, Egli, che era un Grande Filosofo,  non chiariva affatto la natura di Dio e il rapporto, a suo parere necessario, tra ateismo e corruzione:  un’estrema grossolanità di pensiero, che però si traduceva in esecuzioni mortali. Elogia poi il decreto sull’Essere Supremo, con la serie di manifestazioni di un preteso culto “civico”, che l’aveva reso ridicolo.  Si ricollega al caso di Catherine Theot, che definiva lui “novello Cristo”  e se stessa, modestamente,  “Madre di Dio”:]
… quello che fu chiamato il caso Catherine Theot.  La malevolenza ha saputo trarre buon partito dalla cospirazione politica celata sotto il nome di alcuni devoti imbecilli, e non si presentò alla pubblica attenzione che una farsa mistica e una fonte inesauribile di sarcasmi indecenti o puerili.  I veri congiurati sfuggirono… si vide spuntare una moltitudine di libelli disgustosi, degni del père Duchesne  [ovvero, l’ormai defunto Hébert, dal nome del suo giornale, che pure gli andava bene per far ghigliottinare la regina e i Girondini]… Che cosa non si è fatto per raggiungere quello scopo ?  Predicazione aperta dell’ateismo [alla faccia della conclamata libertà di pensiero !], inopinate violenze contro il culto… persecuzioni contro il popolo col pretesto della superstizione [Robespierre pare cercare l’appoggio dei clericali, senza rendersi conto che era ben tardi, ormai.  Prosegue con una serie di accuse per fatti di cui era, certo non l’unico colpevole, ma uno dei principali corresponsabili.  Se la prende con una frase di Chaumette, diffusa poi da Fouché:]
No, Chaumette, no, la morte non è un sonno eterno. Cittadini, cancellate dalle tombe quella massima incisa da mani sacrileghe,… e fa oltraggio alla morte [perché un “sonno eterno” oltraggi la morte non sa dirlo, ma la frase non gli piace];  incidetevi piuttosto questa: La morte è l’inizio dell’immortalità [non riesce ad accorgersi dell’ossimoro: avrebbe dovuto almeno dire:  “La morte del corpo è l’inizio dell’immortalità dello Spirito”,  ma l’avvocato a tanto non arriva… Ed ecco, che dopo altre disquisizioni, piuttosto lunghe e spesso di cattiva retorica, arriva ai primi nomi]…  Chi sono i supremi amministratori delle nostre finanze [attuali]?  Dei Brissotini [Girondini], Foglianti [monarchico-liberali], aristocratici e noti furfanti: sono i Cambon [ministro delle finanze del suo stesso Comitato di Salute Pubblica:  sarà quello che il giorno dopo gli scaverà la fossa], i Mallarmé, i Ramel; sono i compagni e i successori di Chabot, di Fabre e di Julien [personaggi economicamente e finanziariamente potenti.  Accusa tutti questi personaggi di trafficare col nemico, di arricchirsi e, al tempo stesso, boicottare la Repubblica all’interno, seguendo la presunta politica dei defunti Cordiglieri.  Arrivo così alla conclusione del suo, tanto lungo, quanto confuso discorso, che denota sicuramente una problematica psicologica enorme nell’uomo, vanta la sua vocazione di martire nel difendere lo Stato,  ma poi conclude con la sua vocazione alla repressione di fatto.  Vi sono punte paranoiche e schizofreniche  in questo ciarlare frenetico]
… Qual è il rimedio a questo male ?    Punire i traditori, rinnovare gli uffici del comitato di sicurezza generale [la Polizia], epurare il comitato stesso e subordinarlo al comitato di salute pubblica [lo era da tempo];  epurare lo stesso comitato di salute pubblica, costituire l’unità del governo sotto l’autorità della Convenzione nazionale, che è il  centro e il giudice, e schiacciare così tutte le fazioni…:   questi sono i princìpi…
      Io sono fatto per combattere il crimine, non per governarlo [il neretto è mio]. Non è ancora giunto il tempo in cui gli uomini onesti possono servire la patria;  i difensori della libertà non saranno che dei proscritti finché l’orda dei furfanti dominerà “ [111].

       Con questo lungo, verboso, spesso irragionevole discorso, sebbene non sempre falso,  Robespierre prepara la sua rovina:  l’intenzione era quella di trovare, ancora una volta la maggioranza che l’aveva sostenuto per un anno e anche prima, sebbene non fosse stato alla direzione della Repubblica:  è sempre da sottolineare che nelle Assemblee dal 1789 al 1794,  e anche dopo,  non esistevano maggioranze predeterminate di governo e una esosa disciplina di partito, come nei Parlamenti pseudo-democratici di modello anglosassone.  Ogni dirigente, dai primi fino a Napoleone,  doveva conquistarsi la maggioranza di volta in volta, con grandi discorsi, suscitando entusiasmo e minacciando pericoli reali, ma spesso esagerati fino allo spasimo.  Quello riportato sopra a tratti ne è un esempio:  le maggioranze erano dunque ondeggianti.  Gli storici attribuiscono a  Robespierre doti manovriere  che probabilmente non aveva affatto:  egli ed altri venivano strumentalizzati da una massa rilevante di opportunisti che, non potendo  reggere il confronto con i migliori,  favorivano il fatto che si scannassero fra loro.  Robespierre ha indubbiamente doti notevoli nel governare,  anche con l’aiuto di persone particolarmente energiche e impegnate senza limiti nel loro tentativo.  Ma non va mai dimenticato (lo hanno messo molto bene in rilievo gli storici Furet  e Richet)  che il governo di Robespierre dura di fatto solo un anno, mentre precedentemente la sua era pura influenza di prestigio, dovuto agli atteggiamenti etico-rigoristici che praticava.  Egli insisteva a dire che combatteva la corruzione:  ma questa non è solo amore del denaro, benché illecito, o costumi sessuali troppo liberi:  corruzione è anche voler imporre agli altri, con la forza e con l’inganno, le proprie tesi, imporle addirittura con la minaccia di morte.   Robespierre, anche se non se ne rende conto, è anch’egli corrotto da una mentalità di violenza acquisita con la sua stessa professione di avvocato e di giurista, con l’idea che lo Stato si fondi sulla Forza, sulla propria Onnipotenza.   Inoltre,  le molte delusioni precedenti per le sue proposte (a partire proprio dall’abolizione della pena di morte, che aveva chiesto nel 1789, o contro l’esclusione di limiti economici all’elettorato, e la peggiore quando fu messo in minoranza nel 1792, rispetto a Brissot, per la dichiarazione di guerra),  lo hanno sicuramente indurito, incattivito fino alla gelida ferocia della sua lotta politica.   Non va ancora dimenticato che le Assemblee della Rivoluzione non erano luoghi protetti, come ora, ma ambienti in cui la plebe irrompeva spesso violentemente, o gridava dai palchi, perché si scegliessero posizioni estreme, il che fu una delle cause scatenanti della lotta tra Girondini e Montagnardi, i quali in tali interventi esterni  trovavano un considerevole appoggio.  Ora, finché Robespierre ebbe l’appoggio di  tale plebe sanculotta, potè condizionare  in parte l’Assemblea, che subìva o accettava tali interventi.  Ma ormai l’appoggio di negozianti ed artigiani (il gruppo più rilevante di questi Sanculotti)  cominciava a declinare, specie per le misure sociali, come quelle dei calmieri a prezzi e salari: quello dei prezzi suscitò l’odio dei commercianti, quello dei salari l’odio dei lavoratori dipendenti.
       E infatti proprio l’attacco a Cambon, che era l’autore di queste misure come ministro  delle Finanze, scatenò la reazione della Pianura/Palude, che rappresentava gli interessi  dell’alta borghesia, alleata di quegli stessi Montagnardi ora accusati di eccessi e di essere seguaci di Hébert, Danton e i soliti Girondini (i chiodi fissi  di Robespierre).  Il giorno dopo, alla nuova seduta della Convenzione, il presidente Collot d’Herbois, dopo aver sentito la risposta di Cambon  e il discorso di Tallien  (uno dei fautori di estreme violenze) contro Saint-Just,  impedisce a Robespierre di parlare (egli, del resto, aveva ripetuto il discorso pure all’adunanza  “partitica”  ai Giacobini e ne era stato osannato).  Questi allora, dopo aver reiterato più volte la richiesta , grida “Per l’ultima volta, presidente di assassini, ti domando la parola !”.  E’   una dichiarazione di guerra:  Collot lo fa arrestare dalle guardie presenti,  ma  la plebe della Commune , con in testa il capo della Guardia Nazionale Hanriot (quello che aveva costretto la Convenzione a far espellere i Girondini oltre un anno prima)  e Coffinhal,  uno dei giuristi del Tribunale Rivoluzionario,  liberano Robespierre, il fratello Augustin, Saint-Just e Couthon, ma  ormai la situazione precipita.  L’intervento della Commune si rivela insufficiente,  l’intervento militare repressivo  della Convenzione è immediato.  Penetrano nel Palazzo di Città,  e Robespierre tenta di spararsi, se non fosse che un ufficiale, Merdat,  gli blocca la mano:  il colpo parte, Robespierre ha la mascella fracassata,  D’ora in avanti non riesce più a parlare, ovviamente.  Il fratello cerca di buttarsi dalla finestra, ma si rompe una gamba. Lebas si uccide. Couthon era paralitico, non poteva far nulla.  Solo Saint-Just osserva la scena in assoluto silenzio, ma con atteggiamento sprezzante:  forse ricorda i momenti, per nulla lontani, in cui il gruppo era osannato da tutti come “salvatore della  Patria”.   Robespierre  chiede ancora carta e penna: forse vuol esprimere qualche desiderio, lasciare una sorta di testamento morale, non avendo nulla di suo.  Gli chiedono sarcasticamente se vuol scrivere all’”Essere Supremo”.    Subiscono una semplice dichiarazione di condanna  (rapida, sommaria, come previsto dal decreto del 22 Pratile) proprio al Tribunale Rivoluzionario e sotto la direzione del procuratore Fouquier-Tinville, il fedele servitore di Convenzione e Comitato di Salute Pubblica, senza discorsi e neppure semplici battute.  A lui toccherà saldare i conti, anche se in modo più “regolare”  nel mese di maggio del 1795, e sarà tra gli ultimi a finire sulla ghigliottina per opera di quel Tribunale Rivoluzionario che egli stesso  aveva organizzato sul piano amministrativo, ma a differenza delle sue vittime egli potè difendersi in modo quasi regolare.  Il 28 luglio 1794 (10 Termidoro dell’Anno II)  Robespierre e i suoi fedeli vengono ghigliottinati tra le irrisioni della solita folla sanguinaria, che non mancava mai e nemmeno manca ora, quando sente odore di morte.    Tra le grida si sente anche quella “maximum foutu”, un gioco di parole sul “maximum” (calmiere”) e sul suo nome “Maximilien”  fottuto,  rivolto all’ex-idolo Robespierre.
      E’  una strana Nèmesi, uno strano contrappasso (direbbe il nostro Dante) quello che tocca ai più sanguinari, che fanno la fine più umiliante:  Marat viene sgozzato come una gallina o un agnello (da una ragazza !),  Hébert finisce svenuto alla ghigliottina,  Robespierre ha la mascella fracassata e l’ultimo suono che esce dalla sua gola  è un urlo di belva, per il dolore, quando il boia Sanson gli  strappa la benda che proteggeva la mascella fracassata.    Solo Saint-Just tace, ma per disprezzo, non perché costretto.  Nessuno di loro può dire una di quelle frasi fulminanti rimaste nella storia.
        Ma la Convenzione, i membri della Pianura/Palude, gli elementi della Montagna più astuti e opportunisti, coloro  poi che torneranno come servi di Napoleone e di Luigi XVIII, ecc.,  avevano forse la coscienza più pulita dei quattro capi della Montagna ?   No,  come sottolineò  il deputato Carrier, la belva di Nantes, colui che aveva compiuto ferocissime rappresaglie sulla popolazione vandeana (donne, bambini e vecchi compresi), che aveva ordinato spietati annegamenti di centinaia di persone,  fatto bruciare vive diverse persone (non che i Vandeani avessero agito granché diversamente),  sottoposto a processo per tali orrori prima alla Convenzione poi al Tribunale Rivoluzionario :
“… Ora affermo che se si oseranno ammettere prove verbali contro di me…, esse potranno del pari condannare anche l’intera Convenzione,  perché, badate bene, oggi qui,  tutti sono colpevoli, compreso il tuo campanello, presidente…[il neretto è mio  -  112].   Non dissimile la giustificazione di un Fouquier-Tinville  quando, a propria volta, fu processato e condannato dall’ultimo Tribunale Rivoluzionario (abrogato subito dopo):  egli non aveva fatto che obbedire alle disposizioni che gli venivano dal Comitato di Salute Pubblica e dalla stessa Convenzione
                                                       


                                      CONSIDERAZIONI  FINALI

     Che formidabile lezione storica fu data ai popoli dalla Rivoluzione Francese !   Essa insegnò quanto grande possa essere la potenza di un popolo che si fa cosciente di se stesso, ma anche quanti e quanto grandi errori ed orrori si possano commettere in un simile gigantesco fenomeno.   La Rivoluzione Francese, che fu tendenzialmente e per alcune persone effettivamente europea e planetaria,  dovette in certa misura essere accettata perfino dai sovrani restauratori più reazionari, che ben si guardarono dal ripristinare pene e torture strazianti  ancora in vigore 60 – 70 anni prima contro ribelli e regicidi.  Eppure, la nostra Europa, dopo qualche altro decennio, ricominciò in parte ad ignorare quelle lezioni,  cominciando a recuperare misure repressive pesanti,  che tra il 1815  e il 1860 erano considerate irripetibili [113].  Per dirla con la Bibbia, l’umanità ha il collo duro e le pur terribili lezioni della storia [114] spesso non servono o non sono durevolmente apprese  se non si approfondisce a livello collettivo l’analisi delle tendenze umane alla ferocia belluina.   Il male radicale dell’uomo, che Vico e Kant segnalarono, ma già Gesù rappresentò col paragone del fuscello e della trave,  è  non solo il fare coscientemente e volontariamente il male, bensì anche il non assumersene personalmente la responsabilità, quando non scaricarla su altri;   dimostrarsi faziosi approvando per sé certi atti e condannando gli stessi atti negli altri.
     La Rivoluzione Francese insegnò  quindi come un popolo, oppresso da millenni da violenza, miseria e ignoranza, abituata a vedere spettacoli di mostruosi supplizi applicati dal potere pubblico, possa scatenarsi ferocemente anche contro innocenti e inermi.   Insegnò pure come non basti affatto condividere certi bellissimi princìpi di giustizia e di procedura, anche se in buona fede o solo a parole,  per vedere questi applicati con rigore logico ed etico, ma occorre qualcosa di più  profondo, di più sentito nel modo di applicare questi princìpi di giustizia a livello generale e collettivo.
      La chiave del problema è l’antico e persistente concetto che il fondamento del Diritto, della Legge, dello Stato sia la Forza, la capacità di coercizione sui “cittadini”, di imporre ad essi una determinata volontà, l’idea di una “sovranità” come rapporto tra una Forza infinita  e le singole resistenze individuali.   Questa idea è arcaica: potremmo ritrovarla più o meno formulata in questi termini già nei Codici Mesopotamici ben anteriori al I millennio a. C.  .  Ed è un’idea da eliminare.   Diritto, Legge, Stato devono fondarsi, viceversa,  sul principio del consenso libero e consapevole di tutti i cittadini adulti, che, per ciò stesso, devono essere sufficientemente colti da rendersi conto di questa condizione.  La Legge deve essere posta dalla volontà, diretta per quanto si può  e indiretta per quanto non si può, di coloro che devono ubbidire alla Legge stessa.  Il vero Diritto, la vera Legge si fondano quindi sul principio assolutamente democratico,  della maggioranza numerica proporzionalmente espressa nei suoi organi rappresentativi.  La forza fisica, coercitiva, per chi non obbedisce alla Legge, per chi la vìola, la elude o la combatte con la forza,  non costituisce un fondamento,  ma solo un mezzo di punizione.
     Ora, mi si chiederà:  ma di fatto, che differenza c’è tra il sostenere che la Forza sia un fondamento del Diritto o piuttosto un mezzo di difesa del Diritto,  una punizione ?   La differenza consiste in questo, ed è notevole:  se noi qualifichiamo la Forza come Fondamento, diamo ad essa un valore assoluto, inconfrontabile, sproporzionato per definizione:  l’idea dello “schiacciare” chi si oppone alla Forza ne è la conseguenza logica.  Se noi qualifichiamo la “forza”, fisica e coercitiva,  come semplice mezzo di autodifesa della Legge e dello Stato,  significa che la commisuriamo ai fatti compiuti, le diamo una proporzione, così come ogni mezzo deve essere proporzionato al Fine.  Certi machiavellismi e certi archimedismi non funzionano:  non sempre tutti i mezzi sono idonei ad un fine,  non tutte le leve sollevano la Terra.  Occorre il mezzo adatto per lo scopo che ci proponiamo  (mezzi immorali non raggiungono un fine morale), la leva per  agire deve avere dimensioni matematiche adatte per sollevare un determinato peso.
     Né  l’Illuminismo, né la Rivoluzione Francese, ancorché avanzatissimi in materia di Diritto (soprattutto penale),  poterono realizzare una società democraticamente intesa, proprio perché mantennero un concetto di Forza quale Fondamento, e non quale semplice mezzo proporzionale.  Il loro concetto di sovranità rimase sempre in un ambito assolutista, e non “relativista”:  nel “monopolio della Forza” o nella “Ragion di Stato”, piuttosto che nella corretta distribuzione delle forze.
       Scendendo in quesiti meno generali,  possiamo chiederci:  poteva la Rivoluzione Francese evitare il Terrore ?  Se lo intendiamo come reazione violenta di un popolo, abbandonato per  secoli alla sopraffazione e all’ignoranza,  si può rispondere che difficilmente ciò sarebbe potuto avvenire:  per quanto importante fosse stato  l’Illuminismo a diffondere idee e cultura anche a livelli popolari,  esso non agì su questi che superficialmente, come esigenza di diritti, piuttosto che di consapevolezza dei doveri, come pretesa ad una totalità immediata di soddisfazione piuttosto che alla gradualità delle richieste; ad un uso sfrenato della forza, piuttosto che al togliere forza all’avversario.  Va detto  che l’Illuminismo agì piuttosto sulle classi borghesi che non su quelle “proletarie” o artigiane, e per un periodo che non corrisponderebbe nemmeno ad un’intera vita umana (pochi decenni), cosa minima in un quadro storico che misura i fenomeni per secoli.   Quindi,  con tutta la buona volontà di questo o quel teorico,  non poteva avere efficacia sull’uomo medio del tempo. Ciò considerato, si possono spiegare,  senza giustificarli, certi spaventosi eventi, quali le Stragi del settembre 1792,  o le violenze contro le assemblee regolarmente elette.
      Se intendiamo, il Terrore come repressione governativa organizzata, con tanto di spionaggio e di azione poliziesca,  con larga applicazione della pena di morte, ebbene questo Terrore poteva ben essere evitato.  Anche qui ci si potrà obiettare che la Storia non si fa con i “se”.  Ebbene, rispondo che la Storia, in quanto fatto e in quanto vita dell’umanità, certamente non si modifica con i “se”, evidentemente.  Se furono tagliate teste, non le possiamo ricucire con i “se” a distanza di oltre due secoli.  Ma la Storia in quanto memoria di eventi, in quanto loro descrizione critica ed analitica, in quanto ricerca delle cause degli eventi,  è tutta un “se”,  ovvero sottoponibile ad una sorta di esperimenti mentali, per cui, rispondendo a certe ironie,  posso ben immaginare una “nonna con le rotelle”, proprio per capire determinati eventi e specialmente quelli più  gravi e sintomatici di un’umanità malata radicalmente .
      Il Terrore di Stato,  il Terrore della Convenzione, il Terrore del Comitato di Salute Pubblica e del Tribunale Rivoluzionario, poteva essere evitato, ma per questo occorre risalire nel tempo:  cominciando  dalle misure anticlericali adottate, invece di procedere con un dibattito, finalmente positivo e non puramente negativo, sulla natura della fede religiosa,  sulle origini del sentimento religioso, sulle deviazioni che tale sentimento ha, in modo da scardinare questa o quella religione, ridicendola in termini innocui, sul piano della teologia, piuttosto che sul piano dell’organizzazione.   Ciò si tentò già in Gran Bretagna col deismo di Herbert of Churbery,  con Shaftesbury, con Hume, con Toland, e soprattutto nell’Ottocento, in Germania, ma  con limitata efficacia a causa del contemporaneo ampliamento dell’ateismo e del materialismo, che rigettavano ogni religione.    Prendere l’iniziativa della guerra rivoluzionaria in Europa fu un errore tattico e strategico (e qui, tutto sommato, il Robespierre del 1791/ 92 aveva ragione), che portò poi alle mostruosità successive:  e questa fu responsabilità  dei Girondini, ma non di essi soltanto.  Occorreva almeno prepararsi, riformare le armate,  propagandare all’estero per quanto possibile i princìpi rivoluzionari: essere insomma pronti a reagire ad ogni possibile attacco assolutista, senza cominciare per primi.    Evitare di uccidere il re, inutile provocazione, una volta che egli, con l’agosto del 1792,  era ridotto all’innocuità ed era prigioniero, né in condizioni reali di fuggire, ancorché si fossero fatti tentativi in questo senso.  Evitare  di istituire tribunali eccezionali o speciali che fossero (qui giuridicamente si potrebbe discutere se il Tribunale Rivoluzionario fosse eccezionale o fosse “speciale”:  creato per un’”eccezione”  come quella della guerra, interna ed esterna, era “eccezionale”;  considerato che era stato istituito con legge della Convenzione, lo si può dire “speciale” perché creato con leggi speciali e per un fine speciale), ma affidare le indagini ai Tribunali ordinari penali, anche se ciò richiedeva regolarità e tempo.  Invece l’ansia di terrorizzare, l’ansia di vincere, fece deviare il tutto verso l’orrore.
     Una maggior gradualità nelle leggi sarebbe stata opportuna ad evitare il Terrore, ma mi si obietterà:  se vi fosse stata gradualità, non avremmo avuto una “Rivoluzione”.  Già, contro-obietto io:  se per Rivoluzione intendiamo solo rivolgimento violento, certamente non avremmo avuto una Rivoluzione.  Ma allora, qualunque atto violento, dal colpo di stato militare alla rapina in banca, sarebbe atto “rivoluzionario”.  No, dunque: per Rivoluzione va inteso essenzialmente il passaggio, forse non pacifico, da una sovranità ristretta ad una sovranità più ampia, da poche classi sociali a molte classi sociali, e tendenzialmente verso la totalità dei cittadini.  Intesa in questo modo, la Rivoluzione può anche essere gradualista, purché i gradi di passaggio siano logicamente in rapporto tra loro, in una scala ascendente e non discendente,  con  una piramide rovesciata (base in alto, vertice in basso), piuttosto che con una piramide tradizionale (base in basso, vertice in alto, per chiarirci).   Se non è pacifica,  la Rivoluzione deve evitare comunque massacri ingiustificabili, guerre inutili o nocive,  persecuzioni preventive di pura diffidenza verso determinate categorie:  agisce con la forza solo in proporzione alla resistenza fisica avversaria contro le innovazioni  migliorative [115],  ed i perfezionamenti in corso.
       Chiediamoci:   esiste un “fanatismo della Ragione”?   Può il razionalismo giungere a livelli fanatici ?   La Ragione è l’opposto del fanatismo,  ma quando, come avvenne spesso nell’Illuminismo e ancor peggio negli ultimi nostri secoli,  il razionalismo assume carattere unilaterale ed esclusivista, negando la complessità dell’animo umano, sia individualmente, sia collegialmente, esso  in verità cessa di essere razionalismo e rimane solo fanatismo in altre forme.   Qui ci sostiene una considerazione di un giovane studente di filosofia goriziano Carlo Michelstaedter [116], nella sua tesi di laurea (incompleta per la morte dovuta a suicidio) “La Persuasione e la Rettorica”,  in merito alla distinzione tra l’aver ragione e avere la Ragione.   Paradossalmente sostiene che anche una formica può aver “ragione”, ma indubbiamente non ha la Ragione, non è un essere ragionevole.  Ora che cosa può significare tale distinzione ?   Che ognuno di noi ha un motivo per agire in un modo determinato, ma non necessariamente questo deve valere per tutti, oppure che questo motivo non necessariamente corrisponde ad un carattere razionale.  Che non si può scambiare il proprio modo di vedere le cose, spesso egoistico,  e il proprio pensiero, come se fossero universalmente validi come lo è la Ragione .
    Ora l’errore dell’Illuminismo e una certa sua insufficienza,  anche a livello giuridico,  sono dovuti proprio all’equivoco tra la mentalità  del singolo razionalista e l’esigenza razionale universale (Robespierre ne è, per così dire, il grado massimo): una lettura superficiale e distorta della I e III formula dell’imperativo categorico kantiano:  agisci come se la massima della tua azione costituisse una Legge universale, che per moltissimi diventa:  il mio modo di ragionare costituisce la Ragione Universale,  gli altri devono adeguarvisi, confondendo due cose molto diverse:  la presenza nella mente di princìpi universali di ragione (uguale per tutti i pensanti)  con l’applicazione concreta di tali princìpi troppo spesso sotto l’applicazione del Comodo.  L’errore di unilateralità e di esclusivismo sarà, almeno sul piano teorico (diversa è la questione pratica),  superato nell’Ottocento, tanto dal Romanticismo che dal Positivismo.  Il Romanticismo [117] rivaluta il sentimento  e perfino l’inconscio:  Schiller, poeta, drammaturgo e filosofo,  ad es., nel suo saggio su “L’Educazione estetica dell’Uomo”,  che non si limita a trattare della Bellezza e del modo di attuarla nell’Arte, ma vede nella concezione estetica una totalità che comprende ragione, morale ed estetica in senso proprio;  oppure Lessing, che riesamina la questione religiosa;  Herder che, come Vico, riesamina l’evolversi del genere umano non dall’istinto al sentimento ed alla ragione, ma come un contemporaneo progresso di tutto questo.  Lo stesso Kant e i tre celebri idealisti tedeschi, Fichte, Schelling, Hegel, riesaminano l’uomo nella sua interezza complessa, e non sotto un solo aspetto.   Si potrebbe fare un lungo elenco anche per altri grandi Romantici europei, almeno per gli aspetti propriamente filosofici, e non solo per quelli artistici.
      Il Positivismo, che coesiste col Romanticismo e poi dopo la metà dell’800 lo supera come successo d’opinione, cerca di coordinare tutti i fenomeni umani in un quadro scientifico, ovvero non solo razionale puro, ma anche empirico e sperimentale,  cercando le ragioni fisiche anche dei comportamenti dell’uomo.  Fu  “scientista”, ovvero assolutamente ottimista nei confronti delle conquiste della  scienza,  vista come un processo progressivo continuo, senza dubbi e domande residue,  ma  - malgrado questa relativa unilateralità -  ebbe a sua volta un’importanza enorme in molti campi della ricerca umana.  Tutto ciò che il disgraziatissimo  “secolo lungo”  (altro che “breve”, caro Hobsbawm!)  ovvero “americano”  ha ottenuto e sta ottenendo in campo tecnologico trova le sue basi proprio nei secoli XVII, XVIII e XIX.   Senza la “pascalina” (prima calcolatrice ideata da Blaise Pascal),  senza gli automi del Settecento funzionanti come orologi particolari, senza le ricerche sull’elettromagnetismo del Settecento e dell’Ottocento, oggi non avremmo né  computers, né tablets,  o tutti quegli aggeggi elettronici che tanto attirano le persone al punto da farle guidare l’automobile trasmettendo messaggini .
       Pertanto,  la Ragione  può divenire “sragionamento”  quando esclude dall’essere umano i suoi aspetti psichici che lo rendono prossimo agli animali, il che   può poi degenerare in completa incomprensione di se stesso e nel non rendersi conto dei propri errori e, perfino, delle proprie colpe,  il confondere libertà e giustizia col proprio esclusivo comodo .
        Infine:  che cosa ci affascina dei personaggi principali della Rivoluzione Francese, quasi tutti morti sulla ghigliottina e qualcuno suicida?  essi, a differenza di molti loro contemporanei e colleghi della Convenzione,  si sono assunti, chi più chi meno, chi con alterigia e chi con consapevolezza, la responsabilità delle proprie azioni, il coraggio con cui affrontarono prima i pericoli e poi la morte stessa.  Non cercarono di scaricare tutta la responsabilità su altri, non chiesero scusa o perdono per questa o quella azione, non rinnegarono mai la loro idea rivoluzionaria, non si inginocchiarono di fronte a chicchessia.     Personaggi del genere oggi sono quasi inimmaginabili e il confronto con i partitocrati contemporanei di tutto il mondo sarebbe impietoso:  questi non sarebbero nani di fronte a giganti,  ma prioni, o al massimo virus, batteri  e bacilli,  di fronte a uomini (o, se preferite, frammenti di neutroni di fronte al Sole).
      Devo, così,  sottoscrivere, con qualche modifica, quanto annota in conclusione Marco Armandi nella sua prefazione alla raccolta di pensieri di Robespierre:
“… La controversia allora iniziata [tra gli storici] continua ancora, perché la Rivoluzione francese non è terminata” [118]:  sì, la Rivoluzione Francese non è terminata perché, in quanto potenzialmente Rivoluzione Europea ed Umana,  deve ancora realizzare in tutto o in gran parte  quei grandi, fondamentali princìpi di libertà, eguaglianza ed educazione etico-politica per tutti i cittadini d’Europa e del mondo,  in sede politica, giudiziaria, sociale ed economica .    Anche per questo, ma soprattutto per l’enorme materiale teoretico e per la documentazione pratica, di natura giuridica e giudiziaria (praticamente ignota in Italia),  auspico la creazione di un Istituto Italiano per la Storia dell’Illuminismo e della Rivoluzione Francese, con sezioni in ogni capoluogo di Regione.  Tale Istituto dovrebbe essere incaricato dell’esatta traduzione  dei documenti e testi  del periodo,  e della loro pubblicazione  in edizioni eventualmente economiche, ma critiche.  Tutti coloro che si occupano di tali questioni storiche  e di storia del Diritto ne ricaverebbero esempi validi ed istruttivi anche per la nostra attualità italiana ed europea.



NOTE :

[1]   La giustificazione che, solitamente,  si dà agli altissimi stipendi versati ai detentori di alte cariche, è che ciò corrisponde alle loro notevoli responsabilità, e fin qui ci siamo.  Ma l’altra è quella per cui l’avere alti stipendi  riduce la tendenza a farsi corrompere col denaro da qualcuno per favorirlo, o per sfavorire i suoi avversari:  ora, ciò è perlomeno ingenuo. Infatti, l’essere umano, finché ha soddisfatto certe esigenze vitali e quel tanto di superfluo da fargli raggiungere un’adeguata agiatezza,  può accontentarsi.  Ma se  il superfluo disponibile supera un certo limite, allora non basta più (Paperon dei Paperoni insegni):  maggiore è il superfluo, tanto superiore a quello dei cosiddetti “sottoposti”,  tanto maggiori crescono l’avidità e l’insoddisfazione.   A mio parere il rapporto tra il minimo vitale  e il massimo non dovrebbe raggiungere quello di 1: 10, se non in casi di grandissimi meriti scientifici, soprattutto medici:  gli scopritori di cure determinanti e durevoli, ad esempio, ovvero coloro che salvano una gran parte dell’umanità da gravi e finora incurabili malattie;  non certo da industrialotti o inventori di qualche giocattolino elettronico, o peggio che mai calciatori, cantanti di bassa lega e di facile consumo, ecc.   Eppure oggi così vanno le cose:  raramente coloro che bene meritano dell’umanità vengono apprezzati, ma molto coloro che mirano al suo totale rimbecillimento.  Riguardo poi al concetto di corruzione, normalmente limitato al denaro o a qualche altro analogo beneficio materiale,  diremo più oltre parlando appunto dell’”incorruttibile”  Robespierre .
[2]   Relativamente alle odierne discussioni su un nuova legge che dichiari reato la tortura (cosa che, applicato un combinato disposto, esiste già,  ma  i magistrati trovano ogni scusa buona per non mettersi contro i loro collaboratori di Polizia),  trova del tutto ridicolo ed assurdo attribuire al loro Stato il potere di torturare, negandolo invece a mafiosi e camorristi, come se le sofferenze inflitte per vendetta o quale altro motivo  dai mafio-camorristi  siano meno dolorose e crudeli di quelle inflitte da agenti dello Stato.   La cosa è assurda e non sta in piedi per nulla, dimostrando solo di essere unilaterale:  capisco bene che un agente dello Stato, in quanto difensore della Legge, deve esserne coerente applicatore, e pertanto da punire con aggravanti se le vìola applicando la tortura, una volta che sia esplicitamente o implicitamente vietata;  ma è assurdo ritenere che si ha tortura solo se esercitata da chi ha il cosiddetto “monopolio della forza”.  Anche di questo riparleremo più oltre .
[3]   Beccaria comincia il suo saggio con una severa e sferzante critica del Diritto romano e di Giustiniano,  con tutta la tradizione ad esso collegata, che  - ahinoi !!! -  tuttora persiste nelle aule giudiziarie e negli studi legali (cfr.  “A chi legge” premessa a  “Dei Delitti e delle Pene”, ed. Feltrinelli - Milano,  1999 -, commenti e note a cura di Stefano Rodotà e Alberto Burgio).
[4]  “Reo”, dal latino reus (colpevole), può giuridicamente essere inteso  sia come “accusato di un reato”,  sia come “condannato per un reato”.  Beccaria lo intende solo in questo secondo significato, probabilmente per una non piena dimestichezza col linguaggio giudiziario .
[5]  La società deve accordare protezione anche in caso contrario:  il condannato per un reato va comunque protetto dalla vendetta altrui o da pene non proporzionate a quel reato.
[6]   L’argomento, per nulla nuovo  come va ribadito, è però sacrosanto.   La tortura a nulla serve se non a ribadire la violenza e lo spirito di sopraffazione di chi la esercita.  E la stessa cosa vale per torture morali, come la “suggestione”  o  la falsa notizia, data all’indagato affinché confessi.  Né infine va dimenticato che la tortura non è mai solo fisica, ma anche psicologica e morale, proprio per l’abuso di una violenza indiscriminata,  tipica di chi ha la libidine del male inferto o la libidine della sopraffazione,  in chi esercita un determinato potere. Grazie a Dio, rispetto ai tempi di Beccaria o a quelli precedenti, una metodologia scientifica, condotta logicamente,  può dare all’inquirente  informazioni irrefutabili, purché  senza presunzioni:  l’errore è sempre possibile, ma ciò che conta sul piano umano è di  non renderlo irreversibile, che non si trasformi in falsificazione intenzionale di fatti .   C. Beccaria, op. cit.,  ed. citata,  pag. 60 .
[7]   ibidem,  pagg.  79  - 80 .
[8]   ibidem,  pag. 80. Il neretto è mio, per sottolineare l’argomentazione beccariana sulla necessità della pena di morte per delitti o fatti politici.
[9]   ibidem,  pagg.  80 – 81 – 82 .
[10]  ibidem,  pagg.  114 – 115 .   Alberto Burgio, e lo stesso Stefano Rodotà, segnalano nel commento e nelle Note, poste alla fine del volume, anche le osservazioni fatte in quel tempo e dopo, a favore o in parte contro,  le dottrine del Beccaria.  Non tutti infatti, erano favorevoli a ridurre la pena di morte ai soli pericoli contro la sicurezza dello Stato .
[11]    Così descrive Giovanni Tarello, storico del Diritto settecentesco:  “…  Le pene correttive consistono nelle bastonate, nelle nerbate, nel marchio a fuoco e nell’esposizione alla berlina…”.  Inoltre, a differenza dello spirito beccariano che tendeva ai tempi più che ai modi di detenzione come parallelo ai reati,  si applicava una prigionia a tre “intensità” (mite, dura, durissima), l’uso di catene e, appunto, di punizioni aggiuntive come il nerbo di bue o il bastone:  misure queste che l’Austria manterrà pure nell’Ottocento, specialmente in funzione delle insurrezioni risorgimentali :  cfr.  G. Tarello “Storia della cultura giuridica moderna”, ed Il Mulino (Bologna, 1976),  pag.  520.
[12]   Il termine “umanizzazione”  è sempre abbastanza ambiguo, in quanto l’essere umano dimostra, verso i suoi simili e verso altre specie, livelli di crudeltà  mostruosa:  ma è proprio l’”umanità”, in quanto tale, ad essere questa strana compresenza di bontà, di altruismo, di intelligenza, da un lato;  dall’altro di malvagità, di egoismo, di efferata violenza dall’altro,  ben superiori a quelle che possono sembrar corrispondenti  agli animali anche feroci.
[13]   Cfr.  François-Marie Arouet,  detto Voltaire come suo pseudonimo: l’uso degli pseudonimi o degli anonimi, tornato di moda con INTERNET più per vezzo che per necessità, era in quei tempi necessario, perché sotto i vari dispotismi era facile la prigionìa, se non pene peggiori:  lo stesso Voltaire venne condannato alla Bastiglia.  Bastava esprimere un’opinione non conforme alla volontà dei sovrani e dei loro servitori),  “Trattato sulla Tolleranza” del 1763,  ed. it.  Acquarelli Best Seller di Demetra (Colognola ai Colli, Verona,  1999, trad. e commento di Glauca Michelini).  E’  interessante notare come il Voltaire qualifica “assassinio”  la pena di morte inflitta al protestante Jean Calas per il presunto omicidio del figlio Marcantonio, pag. 11.  Il solo termine “assassinio” fa notare come il grande pensatore fosse sulla stessa linea di Beccaria riguardo a procedure ed errate conclusioni.   Cfr. pure la voce “Tortura” nel suo “Dizionario Filosofico” che del 1764, lo stesso anno del saggio di Beccaria  (ciò a riprova che è anche grazie all’atmosfera illuministica che Beccaria  ha successo),  ed. it.  Fabbri,  Milano 2001,  voll. 2,  trad.  di Rino lo Re e Libero Sosio, con note di Julien Benda, Prefazione di Etiemble e a cura di Raymond Naves, vol. 2°, pagg. 415 - 417.   La valutazione  che ne fa è assai sarcastica, tipica del suo carattere.  L’unica cosa che gli si può obiettare è l’ottimismo con cui vede le tradizioni ebraiche, dove  - a  suo  parere  -  non esisteva tortura.  Ma la lapidazione, in quanto supplizio, non era forse anche tortura ?   E’  forse piacevole ricevere in testa, sulla faccia, sul corpo, le pietre ?   E tanto piacevoli fino a condurre alla morte ?   Non vi è popolo, nella trista specie umana,  che non abbia i suoi orrori penali.   Va aggiunto, altresì, che non sempre Voltaire, per sarcasmo o per convinzione,  era tanto tollerante, soprattutto quando si rivolgeva contro la Chiesa Cattolica col motto:  Ecrasez l’infame !, che non significa, come sembrerebbe ad orecchio,  Esecrate l’infame,  bensì  Schiacciate l’infame !
[14]  Per rendersi conto della grandezza di pensiero e d’espressione degli scrittori antichi, almeno fino al XIX secolo,  occorre pensare anche alle sole difficoltà materiali e tecniche per scrivere le loro opere, spesso colossali per quantità e formidabili in qualità,  come eleganza d’espressione e come profondità di pensiero:  quelle stesse loro opere, che noi oggi leggiamo comodamente  seduti su poltrone davanti alle nostre scrivanie o su soffici divani,  forniti di lampadari con chiara e stabile luce elettrica,  furono scritte molto spesso alla luce irregolare e tremolante di torce, di lucerne o di candele,  con lo stilo su tavolette di cera o scomode pelli, usando penne d’uccello e lo scarso inchiostro allora disponibile:  se si pensa a tutto ciò, si comprende anche l’enorme sforzo fisico, soprattutto visivo, che dovevano esercitare, l’enorme pazienza del loro lavoro.  E lo stesso dicasi pure per i copisti, spesso dileggiati dai nostri supercritici moderni (che li qualificano, non raramente,  come “ignoranti”, come se il lavoro del solo copiare testi spesso illeggibili, fosse facile), ma che ci hanno tramandato quelle opere gigantesche in poche copie, i cosiddetti “codici”, per le quali dovrebbero, viceversa, mostrare loro comunque e sempre gratitudine.
      Ma oggi che cosa si scrive ?  Schifezze o banalità su tablet, sui computers, o più anticamente su macchine da scrivere, meccaniche o elettromeccaniche.  Sembra che, per una strana ironia della storia,  quanto più perfezionata è  la tecnologia grafica, tanto più povera e scadente sia la qualità stilistica e contenutistica dell’espressione .
[15]   Vedi  Francis Hutcheson,  in  G. Tarello, op. cit.,  pagg.  397 -  406.  E’  interessante notare di questo autore come pose alla base del sistema penale non solo le punizioni (come effetti repressivi), ma anche premi e ricompense, sia per chi agisce bene, sia per chi collabori nell’opera di “giustizia”.  Ma già la diminuzione di una pena, tra i termini “edittali”  (minimo e massimo, fissati preventivamente), va considerato un premio,  se  - poniamo  - quel reato nelle sue modalità prevedeva di per sé  il massimo della pena.  Non serve scendere al di sotto del minimo previsto, perché  con ciò  si turbano le proporzioni tra reato e pena .
[16]  Molto vasto è l’apparato di note di Alberto Burgio sull’argomento dell’Illuminismo in materia penale e in riferimento al saggio di Beccaria (ed. cit.,  pagg. 117  - 193).  Non meno interessanti i brevi scritti di Diderot, riportati  in “L’Uomo e la morale”, ed. it.  Studio Tesi (su licenza Editori Riuniti),  Pordenone, 1991, a cura di Vincenzo Barba.  Si veda particolarmente il dialogo “Conversazioni di un padre con i suoi figli sui pericoli di mettersi al di sopra delle leggi” .
[17]   Oltre al Burgio,  cfr.  Tarello,  op. cit., pag. 375 e  Italo Birocchi, op. cit.,  418 – 420.   Ancora,  Gaetano  Compagnino,  “Gli Illuministi Italiani”,  ed.  Laterza (Bari, 1981)  che cita,  quali futuri “giacobini” italiani, morti per la difesa della Repubblica Partenopea del 1799 Francesco Mario Pagano e Vincenzio Russo.  Ad essi vanno affiancati Melchiorre Gioia, Giandomenico Romagnosi e Vincenzo Cuoco, fior di scrittori, pensatori,  che hanno alla loro radice ideale Vico e  Muratori (ovvero,  lo storicismo che consente di correlare princìpi, fatti ed istituzioni alla loro epoca storica (relativismo e gradualismo storici).  Approfitto qui per osservare che, a grande differenza di ciò che spesso si legge nei manuali di storia, l’Illuminismo italiano non fu per nulla inferiore a quello francese in profondità e varietà di argomenti, e lo stesso può dirsi dell’Illuminismo tedesco (che porterà al colosso di Kant, e poi allo stesso Romanticismo e Positivismo ottocenteschi) ed inglese.  In effetti, come già  le precedenti correnti filosofiche  del razionalismo e dell’empirismo secenteschi,  ma con ben maggiore seguito sulla media cultura,  l’Illuminismo fu un grande fenomeno europeo.  Dopo la massacrante  esperienza del fanatismo e delle guerre “cristiane” del XVII secolo,  l’Europa ritrova le vere proprie radici classiche,  umanistiche e scientifiche,  e le rimette in moto senza più interruzioni almeno fino a tutto il XIX secolo (non so tuttavia  che cosa ci riservi il futuro, con concezioni religiose ormai ridotte a ritualismi e vestiario…).  Quanto all’Italia,  il pensiero proprio ed autonomo non cessò mai nemmeno nei periodi peggiori, bastino i nomi di Galilei, di Torricelli,  di Vico, di Muratori, ecc.  a ricordarlo.  Ora, se c’è un secolo così basso per l’Italia, culturalmente e scientificamente parlando,  è il presente,  quando si scopiazza e si bofonchia tutto sulle tracce degli stranieri,  USA in testa.  Mai fummo così servi, asserviti e servili, fino ai limiti della decerebrazione, come dopo il 1945 .
[18]   Rousseau, a buon titolo, può essere considerato precursore di molte correnti politiche e ideologiche sorte tra la fine del XVIII e il secolo XX:  non a torto, lo considerano proprio ispiratore tutti i democratici e repubblicani progressisti, fautori della democrazia diretta,  i socialisti nelle varie accezioni e correnti,  gli anarchici.  A tutti questi, insieme ad altri illuministi anche “minori”,  ha dato princìpi tutt’altro che secondari del loro pensiero.
[19]  J.J. Rousseau,  “Discorso sull’Origine della Disuguaglianza”  in  “Opere”,  ed.  Sansoni (Firenze, 1972),  trad. it.  Rodolfo Mondolfo,  pag.  96 .
[20]   Il terremoto, un tema sempre di moda specie in Italia  -  ahinoi !!! -,   aveva fatto dire a Voltaire che la Natura  non è benigna verso l’uomo quanto l’ingenuo Leibniz riteneva definendo il nostro come “il migliore dei mondi possibili”.  I tanti e troppi morti e le enormi distruzioni ne erano la prova.  Forte l’argomento di Voltaire, ma non certo meno forte l’obiezione di Rousseau, osservando che non è madre Natura a costringere  gli uomini a vivere in conglomerati con case a più piani e una attaccata all’altra, ma è la stessa irragionevolezza ed avidità umana a costringere gli uomini a vivere non curandosi di pericoli, che altrimenti potrebbero essere superati senza troppi danni.  Due giganti a confronto, altro che oggi !    Su ottimismo e pessimismo, va detto  che questi atteggiamenti mentali su fatti generali sono in realtà  uguali in opposte direzioni:  l’esempio famoso della bottiglia a metà  lo spiega con efficacia.  L’ottimista è colui che è pessimista verso l’opposta situazione, e viceversa.   Impossibile credere in assoluto che tutto vada bene o tutto vada male.  Ad es.,  chi critica un sistema di governo come assolutamente negativo è, all’opposto,  del tutto favorevole ad un regime contrario.  Per i dati della citazione, cfr.  nota seguente.
[21]  ed.  cit.,  “Lettera a Voltaire” del 1756,  trad. it.  di Emilio Renzi,  pagg.  126, 127,  131, 133, 134 – 135 .
[22]  ed.  cit.,  “Scritti sull’Abbé de Saint-Pierre”, trad. it. di Luigi Leporini,  pag.  168.  Mi si può obiettare che qui Rousseau, sulla linea dell’abate,  scrisse relativamente al trattamento dei prigionieri di guerra, non  per quelli condannati in processi.  Ma ritengo che, per analogia,  il discorso di comportamenti più miti  valga per gli uni, come per gli altri, ricordando ad es. che lo stesso Beccaria parlò  di “schiavitù perpetua”  (ergastolo e lavori forzati) come pena sostitutiva della morte.   Sono pur curiosi  gli strani rovesciamenti della storia:  il giurista arabo ibn Qudama, morto nel 1223, formula un primo Diritto di guerra col divieto di uccidere bambini, pazzi, donne, preti, vecchi inabili, infermi, ciechi e deboli di spirito, se non partecipano alla battaglia;  ma ammetteva pure che, secondo la convenienza, si potessero uccidere o schiavizzare i prigionieri di guerra, o anche liberarli.  Vietava altresì che si separassero le madri dai figli, o donne da bambini loro consanguinei  (cfr.  Biancamaria Scarcia Amoretti, “Tolleranza e Guerra Santa nell’Islam”, ed. Sansoni,  Firenze,  1974,  pag.  94).  Va pure detto che l’Islam, di fine ‘900 e inizio XXI secolo, pare aver avuto una forte involuzione in generale, e non solo nei casi  più conclamati .
[23]  Per capire l’osservazione, occorre tener conto che il suicidio era considerato reato, e non solo per chi fosse sopravvissuto, ma anche nel caso degli  eredi che dovevano pagare sanzioni pesanti.  Nemmeno oggi sarebbe logicamente permesso, in quanto forma speciale di omicidio, ma essendo il reo morto per il suo atto, si estingue anche il reato, non caricandone più la responsabilità, salvo  provata istigazione,  su eredi o su altri.
[24]  ed. cit.  “Il Contratto Sociale”, 1762, trad. it.  Rodolfo Mondolfo,  Libro II, Cap. V “Del Diritto di vita e di morte”, pagg. 293 – 294 .
[25]  ed. cit.,  ibidem,  Capitolo VI “Della Legge”, pag. 294 .
[26]   ibidem,  nota di Rousseau alla pag. 295 .
[27]   Ben lo vide il nostro Gian Battista Vico,   della precedente generazione a cavallo tra XVII e XVIII secolo, quando vedeva coincidere l’aggettivo publica applicato a res quasi con quello populica, ossia popolare  (cfr.  il “De Constantia  jurisprudentis” - Sulla coerenza del giurista -, nota 100).  E’ pur curioso come, senza neppure accorgersene,  partitocrati e gazzettieri di regime esprimano disgusto verso il termine populismo, che null’altro è se non la traduzione spagnoleggiante del termine russo di Aleksandr Herzen, rivoluzionario del XIX secolo,  narodna, narodnikij, ovvero nazione, popolo - nazionali, popolari.  La verità  è che questi insipienti partitocrati e gazzettieri si considerano la casta o la corporazione di coloro che devono “governare” un popolo, come se fosse costituito da asini bendati alla mola. Ecco il tragicissimo punto dei nostri giorni !
[28]  ed. cit.  “Frammenti sparsi per il Progetto di Costituzione per la Corsica”, trad. it. di Benedetta Gentile,  pag. 741.
[29]  ibidem,  pag.  742.
[30]  Nella stesura della mia tesi, presi appunti e annotazioni alla Biblioteca Civica “Attilio Hortis”  di Trieste, nell’antica edizione Filadelfia, Stamperia delle Provincie Unite del 1807 (siamo in piena età napoleonica),  in cinque sostanziosi volumi;  il testo è, nulla po’ po’ di meno che dedicato a Thomas Jefferson !   Perché a Jefferson?  Perché  Filangieri propose riforme e istituzioni alla nascente Unione degli Stati Americani, sorta dalla celebre Rivoluzione del 1776.   Può far stupire che un Italiano facesse da consigliere ai rivoluzionari americani ?   Forse, ma solo a coloro che ignorano la ricchezza del pensiero filosofico-politico e giuridico, nonché economico,  degli Italiani nel ‘700.  E ben prima del tanto  propagandato Tocqueville, già ministro di Francia e calunniatore della Repubblica Romana del 1849,  il nostro Filangieri aveva previsto i futuri sviluppi internazionali degli USA, proprio nella sua “Scienza della Legislazione”, parte I, cap. XIII.  Interessantissimo sarebbe anche verificare le molte analogie tra ciò che scrive Rousseau  e ciò che scrive il Filangieri.
[31]   Pagano dedicò una poesia al maestro e amico Filangieri:  “… Ma tu, gran Filangier, spento non sei. / Tu vivi ancor nel sen de’  fidi amici.  /  La tua memoria ognor dolce e soave / è il nostro nume;  il cor è il tempio e l’ara, / ove tributo di costante amore / avrai per sin che il dì fatal ne giunga”  (riportata dal Compagnino alle pagg. 54 – 55, del testo citato sulla letteratura italiana).  Pagano fu impiccato che aveva 51 anni,  Russo ne aveva 29:  le rispettive corde furono anglo-borboniche.
Per capire l’infelice storia  della Repubblica Partenopea del 1799, breve ma intensissima, sublime per eroismo ed idealità, stroncata dalla turpe alleanza tra la monarchia britannica e quella borbonica,  va letta di Vincenzo Cuoco la “Storia della Repubblica Napoletana”:  Cuoco, come Romagnosi e Gioia, sono gli anelli di congiunzione tra pre-Risorgimento settecentesco e Risorgimento.   Pur per nulla approvando la smania del tempo di imitare le istituzioni francesi  (ma molto meno di quanto oggi si imitino gli anglosassoni), un po’   anche perché imposte,  Cuoco non nasconde i pregi e soprattutto il coraggio dei repubblicani napoletani, che affrontarono impavidi la morte e, tra essi, due splendide figure di donne,  come Luisa Sanfelice ed  Eleonora Fonseca Pimentel,   sicuramente non inferiori a Charlotte Corday,  a Manon Phlipon Roland ed a  Olympe de Gouges,  queste e quelle finite per mano dei boia.   Invece di bearsi di sciocchezze e delle attuali porcherie, il popolo italiano dovrebbe sempre onorare i propri cittadini caduti per la Patria e per l’Umanità .
[32]   G.  Filangieri, op.  ed edizione citate,  vol.  I,  pagg.  1  -  8 .
[33]   ibidem,  pagg.  10 – 11 .
[34]   Come ho più volte  specificato,  finché nel mondo i giuristi continueranno a formarsi  in una Facoltà di Giurisprudenza, da sempre legata ad un’arcaica impostazione di pensiero,  finché non si separeranno in due Facoltà o Dipartimenti ben diversi (magari anche posti in luoghi abbastanza lontani), di cui una destinata alla formazione del giurista “privato”  (avvocato o notaio), l’altra destinata alla formazione del giurista “pubblico” (costituzionalista, magistrato, docente e storico del Diritto),  con impostazione didattica e “pedagogica” ben diversa:  in me qui parla anche il dottore di Pedagogia,  il vecchio maestro di Scuola elementare,  il vecchio professore di Liceo.    L’orientamento privatistico  mira a tutelare gli interessi del singolo di fronte a singoli o allo Stato;  l’orientamento pubblicistico deve mirare alle esigenze dello Stato nell’applicazione delle leggi e nelle sanzioni proporzionate alle violazioni della Legge, sorpassando così  qualunque faziosità, qualunque interesse di parte, qualunque egoismo comodo.  Due orientamenti contrapposti.  Ma con un elemento comune:  la determinazione della verità dei fatti per quanto umanamente e scientificamente possibile.   L’errore è sempre possibile e, spesso, perdonabile:  ma esso, quando avviene, non deve avvenire per trascuratezza (colpa)  o  per intenzione (dolo), ma attraverso  la doverosa ricerca  con tutti i mezzi moralmente, razionalmente e scientificamente adottabili in un determinato periodo storico, che non sempre consentono  la conoscenza rigorosa dei fatti e delle relative responsabilità.    Le Università di ogni Stato, pertanto,  separino nettamente questi due orientamenti che, professionalmente, sono contrapposti:  questa è, a mio parere,  la conditio sine qua non  per una, non solo nuova, ma migliore,  formazione professionale dei giuristi  ed una loro più razionale e scientifica mentalità di base.     Nessuna professione moderna può basarsi o si basa su princìpi arcaici, vecchi di 2000 anni o più, come invece fa o pretenderebbe di fare il Diritto, a suon di brocardi fissi e di “creatività”  interpretativa .
       Parlando di metodologia didattica in materia giuridica, molto spesso e con l’eccezione di poche discipline gius-filosofiche e gius-storiche o costituzionalistiche,  si ha la netta impressione, per il frequentante ormai anziano,  di trovarsi  in una Facoltà che assomiglia a macchine metal detectors,  dove si mettono gli oggetti su un tappeto rotante,  entrino nella scatola che contiene l’apparecchiatura a raggi X, ed escano dopo essere stati verificati:  così la Facoltà di Giurisprudenza fa entrare materia grezza, giovani speranzosi ed entusiasti, e ne escono piccoli “robottini”, automi a molla o elettronici, preordinati,  sempre pronti a ripetere gli stessi concettuzzi risalenti alle XII Tavole  e le stesse frasette.  Guai ad usare sinonimi o perifrasi per uno stesso concetto (es.:  fatto al posto di evento), altrimenti per ben che vada prendete 18, oppure dovete ripetere l’esame.  Non basta sapere, occorre sapere a memoria, e scordatevi pure un sapere critico, ragionato:  si lavora per formule magiche.   Del resto,  la foggia del copriabito,  assai arcaica e risalente ai farisei, che erroneamente viene definito “toga”,  oppure ermellini e strani cappellini (per non dire della parrucca incipriata, a boccoli e forse con pidocchi, dei giudici britannici…),  ne è la prova visibile:  il peggiore vecchiume mentale  è completamente rappresentato da tutto ciò.
     Vi chiederete allora perché io stesso non sia divenuto un “gius-robottino”: grazie a Dio,  perché mi sono iscritto a 51 anni suonati, e con un‘esperienza e studi storico-filosofici e pedagogici  che mi hanno immunizzato e salvato dalla trasformazione.  Altrimenti è assai probabile che sarei diventato anch’io un “gius-robottino” .
[35]   ibidem,  traccia del Libro III,  pag. 26.
[36]   ibidem,  traccia del Libro IV,  pagg.  28 – 29 .
[37]   ibidem,  Libro I,  Capo VII,  pag.  84 .
[38]   ibidem,  Capo XII,   pag. 143.  Egli apprezza molto il regime d’allora in Pennsylvania, sia perché vi era già abrogata la schiavitù, sia per le istituzioni prospettate da William Penn, tra i fondatori di quello Stato (pag. 146).
[39]  ibidem,  Libro III,  Parte I, Capo I,  pagg.  175 – 177 .
[40]   ibidem,  Volume II,  Libro III,  Parte I,   Capo II,  pagg.  203  -  204 .
[41]   ibidem,  pagg.  206  - 209 .
[42]  ibidem,  Capo IV,  pagg.  225   e  227 .
[43]   ibidem,  Capo VII,  pagg.  254 – 256 .
[44]   ibidem,  Capo IX,  pag.  264 .
[45]   ibidem,  Capo X,  pagg. 276 -  281 .
[46]   ibidem, Capo XI,  pagg.  307 -  309 .
[47]   ibidem,  ed.  cit.,  Vol.  III,  Libro III,  Capo XXIX,  pag.  21 .
[48]  L’”Avvertenza” del Daunou è posta in premessa a Marie-Jean-Antoine-Nicolas Caritat de Condorcet  “Esquisse d’un taleau historique des progrès de l’esprit humain”,  ed. it.  “Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano”,  Einaudi (Torino,  1969),  trad. e commenti di Marco Minerbi,  pag. 3.   Mazzini, che ne fu ammiratore fin da ragazzo,  “tradusse” l’espressione della morte, che sovrastava il grande francese, con la frase “col pugnale alla gola”, che va intesa metaforicamente, visto che si era o era stato avvelenato .
[49]    Ibidem,  “IX Epoca:  Da Cartesio alla formazione della Repubblica”(sottintesa, francese),  pag. 136.
[50]   Ibidem,  “X Epoca:  Dei Progressi futuri dello spirito umano”,  pagg.  182 – 184 .
[51]   Riportato da Vegetti  e Vari  nel manuale “Educazione e Filosofie nella storia delle società”,  ed. Zanichelli (Bologna, 1982),  vol. 2°,  pag. 256,  a sua volta tratto dalla raccolta di Scritti a cura di Bobbio, Firpo e Mathieu .
[52]    Quale è la differenza tra Morale, o Etica, o Ragion Pratica, nel senso non solo kantiano ma più generalmente filosofico,  e Costume o Usanza?  etimologicamente sappiamo che i termini si equivalgono, da cui la definizione di “Ragion Pratica”, data da Kant, o di “Deontologia” (scienza del Dover Essere) data successivamente da Jeremy Bentham, un illuminista inglese.  Qui occorre intendere  l’affinità tra le leggi morali e quelle logiche, per semplicità e rigore,  mentre Costume o Usanza indica semplicemente ciò che si è affermato per abitudine nella vita quotidiana, senza alcun legame con il rigore logico.  Mazzini qualificava la logica come “Morale del pensiero”  e la morale come “Logica dell’azione”, proprio per identificare l’una e l’altra nella ragione umana, rivolta al pensiero come all’azione.  Rigore  e coerenza nel bene (evidentemente), rispetto a qualunque interesse egoistico, materiale o psicologico .
[53]  Immanuel Kant,  “La Metafisica dei Costumi”,  1797,  Fondamenti Metafisici della Dottrina del Diritto,  Diritto Pubblico, Sezione I, Nota Generale E,  ed. it.  Bompiani  (Milano,  2006),  testo tedesco a fronte, trad.  e commenti di Giuseppe Landolfi Petrone,  pagg. 277  -  281.    Sebbene culturalmente appartenente all’idealismo tedesco, che si forma dopo  le pubblicazioni kantiane,  non è privo di interesse nel nostro ambito cronologico il pensiero, in materia penale, di Hegel, soprattutto dove riconosce la natura “pubblica” e non “privata” del reato, proprio in quanto esso è violazione della Legge.  Non meno significativo il suo correlare la pena all’effettiva pericolosità del reo, piuttosto che al solo suo atto da punire:  non è infatti secondario tener conto dell’occasionalità e unicità o rarità di un certo delitto, o viceversa della sua ripetizione nel tempo;  se è in un ambito solo individuale o se  - viceversa  - si inserisce in un’organizzazione a fini criminali.  Ma, a mio parere, più che al tipo di pena,  la differenza va  stabilita sulla possibilità o sull’esclusione  della riabilitazione del criminale,   differenza di cui tener conto per la sicurezza delle passate o delle future vittime:  cfr.  “Lineamenti di filosofia del Diritto”  (opera pubblicata nel 1821),  Parte III  “L’ Eticità”, § 218 “Il Diritto penale nella società civile”,  ed. it.  Bompiani (Milano, 2006), a cura di Vincenzo Cicero, testo tedesco a fronte,  pagg. 377 – 379.  Precedentemente criticava Beccaria sul piano del suo preteso contrattualismo (Hegel rifiuta l’ipotesi di un “contratto originario” tra gli uomini) e invece considera lo Stato titolare di un diritto di vita e di morte sugli individui (in ciò non fa che riabilitare la Ragion di Stato di Botero):  cfr.  “Lineamenti…”,  sopra  citati,  Parte I “Il Diritto astratto”, Sezione III “L’Illecito”,  § 100 “La base fondamentale del Diritto astratto”, ed. cit., pag. 209 .
[54]   Charles-Louis de Secondat de Montesquieu,  “L’Esprit des Lois”,  ed. it. BUR (Milano,  1999), voll. 2,  a cura  di Giovanni Macchia e Robert Derathé, trad. di Beatrice Boffito Serra;  vol.  I,  Libro XI, Capitolo VI,  pagg. 309 -  311.
[55]   ibidem,  pag.  312 .
[56]   cfr.  le note B e C,  alla  pag. 573 del I volume;  interessante rilevare quanto è scritto alla nota 19 di pag. 581, nel medesimo volume :
“  Montesquieu, come Locke e più tardi Rousseau, ammette la subordinazione del potere esecutivo a quello legislativo senza però precisare le modalità della difficoltà di tale impresa…”.  Ovviamente sarebbe stato allora difficile, nella confusione di  potere di un regime assolutista,  chiarire questa subordinazione in precisi termini.  Tuttavia è banale osservare che l’aggettivo “esecutivo”  ha, nella lingua italiana come in altre lingue europee, il significato di esecuzione di quanto deliberato dal potere legislativo, e non certo il capriccio di un qualche capo di governo e dei suoi ministri.
[57]   ibidem,  pagg. 316  -  318 .
[58]   ibidem,  Libro Terzo, Capitoli III, V  e VII,  pagg.   168,  171 e 173 .
[59]    ibidem,  Libro IV,  Capitolo V,  pagg.  181 – 182.   Cfr.  pure Libro V,  Capitoli  II -  VII,  pagg. 189 -  198.    Si veda altresì  come descriva le Rivoluzioni inglesi l’”anglofilo” (secondo la manualistica)  Montesquieu:
“…  Fu uno spettacolo veramente bello, il secolo scorso, vedere gli sforzi impotenti degli Inglesi per stabilire presso di loro la democrazia.  Poiché quelli che avevano parte negli affari erano privi di virtù, poiché la loro ambizione era esaltata dal successo di colui che aveva osato più di tutti [Cromwell], poiché lo spirito di una fazione non era represso che dallo spirito di un’altra, il governo cambiava senza posa;  il popolo stordito cercava la democrazia e non la trovava in nessun luogo.  Infine dopo una quantità di movimenti, urti e scosse, convenne riadagiarsi nel governo stesso che era stato proscritto…” (Libro III, Cap. III, quarto capoverso,  pag.  168).    Sarebbe da dire tuttavia che anche rivoluzioni precedenti e successive, la stessa francese dell’89, finirono per grandi giravolte quasi al punto stesso di partenza.  Sulla clemenza,  Libro VI,  cap. XXI, primo capoverso, pag.  243 .
[60] Molti sanno che Benedetto Croce definì “contemporanea”  tutta la storia, in quanto analisi e narrazione   svolta nella contemporaneità anche di fatti molto lontani nel tempo.  E tale posizione è largamente condivisibile:  ma nel caso della Rivoluzione francese, la “contemporaneità” assume aspetti ancora più forti, in quanto molti dei temi e problemi, soprattutto istituzionali, politici e sociali, posti da essa sono ben lungi dal potersi considerare “conclusi”, e tuttora la storiografia sulla Rivoluzione del 1789  ha caratteri polemici, come appunto per fatti “contemporanei”.  La presenza femminile nella Rivoluzione, molto rilevante,  è un fatto che prelude alle forme femministe dei  due secoli successivi e del nuovo appena avviato .
[61]  Jean Paul Marat era medico e, tra le sue cose più interessanti, fu, sull’esempio del più o meno contemporaneo Messmer,  studioso del fenomeno elettrico che egli riteneva idoneo come terapia.  Soffriva di una grave dermatosi, tanto da dover fare bagni speciali e prolungati per attenuare il prurito.  Così  usava una vasca che aveva una copertura tale da consentirgli anche di scrivere, per denunciare sul suo giornale “L’Ami du Peuple”(L’Amico del Popolo), tutto ciò che, a suo avviso, era controrivoluzionario e meritava severe condanne.  Presentava pubbliche denunce contro gli avversari, accusandoli in modo più o meno fondato e contribuendo così alla loro condanna.   Riceveva tra l’altro informazioni e delazioni, e le utilizzava in questo senso.  Charlotte Corday venne da Rouen per vendicare la morte degli innocenti e, soprattutto, dei 21 Girondini della Convenzione.   Negli anni ’60,  il regista Federico Zardi dedicò alcuni notevoli sceneggiati a puntate, nella tanto deprecata (allora)  televisione di Ettore Bernabei da poco deceduto, alla storia della Rivoluzione Francese sulla falsariga del modello storiografico marxista di Mathiez e Lefebvre, in tre serie “I Giacobini”  “I Camaleonti” e i “Grandi Camaleonti”:  nella prima venne rappresentata madame Roland come una donna fatua, ammirata dai ragazzini rappresentati dal gruppo girondino, specie quelli più giovani.  Naturalmente una simile  rappresentazione caricaturale e derisoria non aveva alcun fondamento storico,  mentre  assai più vicina alla realtà era la rappresentazione dei “camaleonti”  che trascorsero tutto il periodo da Robespierre fino alla caduta di Napoleone adattandosi ad ogni regime e, soprattutto, arricchendosi sempre di più da un regime all’altro:  una peste tuttora, ahinoi !!!,   esistente, i voltagabbana e gli opportunisti, sempre sul carro dei vincitori, di destra, di centro, di sinistra, di sopra e di sotto, poveri di spirito ma ricchi di portafoglio, venduti nell’animo fin dalla più tenera età .
 [62]  Sedicente, perché non si tratta di “unione”, ma di pura aggregazione tra malgoverni e sgoverni;  il prefisso “eu” in greco vuol dire “buono e bello”;  ora nulla di buono e di bello vi è in tale aggregazione.  Il prefisso di derivazione greca più corretto è quello di “caco-“ (come in cacofonia), ossia “brutto, cattivo”: dunque non “Europea”,  ma “cacoropea” sarebbe l’aggettivo giusto in tale caso .
[63]   Il testo in francese, mentre il resto è  in italiano,  è riportato alle pagg. 185 – 213 dei “Codici Napoleonici.  Codice di Istruzione Criminale, 1808” ed. it.  Giuffrè (Milano, 2002), a cura di Nicola Picardi e Alessandro Giuliani,  con una “Storia del Codice di Procedura Penale e del Codice Penale” di Jean Guillame  Locré de Boissy (1758 – 1840) .
[64]  L’eloquenza, l’oratoria e la retorica, tanto negli scritti quanto nei discorsi pronunciati,  erano da quasi due millenni un’arma formidabile, soprattutto nei regimi democratici.  Non essendovi allora altoparlanti e “mixer” della voce, l’oratore, doveva avere capacità polmonari notevoli parlando in luoghi aperti o chiusi,  sapere modulare la voce come se fosse un canto,  e saper usare frasi e concetti  in modo seducente, anche se non credo mai realmente convincente.  Oggi, non esistono oratori, ma ciarlatani, chiacchieroni, bofonchiatori, imbonitori nell’ambito politico, gente che stanca e che è applaudita a comando, poveri di concetti, poveri nell’arte vocale, strapieni di slogans ripetitivi assolutamente senza alcun costrutto logico o morale.  Solo i gazzettieri, trombettieri, tamburini e araldi del regime riescono a vantarli “comunicatori”, ma di che ?  Del Nulla !
[65]   Dico “Austria” per semplicità.  Allora l’imperatore della dinastia absburgica era a capo del vecchio e medioevale Sacro Romano Impero di Nazione Germanica, talvolta in contrasto con la crescente potenza della Prussia (guerra di successione austriaca e guerra dei Sette Anni), ma in questo caso affiancata ad essa.  Non solo il vecchio assolutismo, ma perfino il cosiddetto “dispotismo illuminato” (riformista)  si opponeva allo spirito rivoluzionario francese, per esso del tutto nuovo, e, come si vedrà, perfino l’aristocratica liberale Inghilterra finirà per opporsi alla Francia repubblicana).  L’Impero d’Austria nasce, durante le guerre napoleoniche, soprattutto dopo Austerlitz e manterrà questa dizione fino al 1867, quando diventerà Impero d’Austria-Ungheria  (la Kakania di Musil,  dalla sigla “ka. und ka.” (kaiserlich und koeniglich:  imperiale e regio).
[66]  cfr. la raccolta dei suoi discorsi: Maximilien Robespierre, “La Rivoluzione Giacobina”, ed. it.  Studio Tesi (Pordenone,  1984),  “Sulla necessità di revocare il decreto sul marco d’argento” (marzo 1791), pagg.  3  -  15 .
[67]  Poco noto è al grande pubblico e perfino a molti storici, non specialisti del periodo,  che tra Britannici ed ex-coloni americani vi fu una guerra di una certa portata all’inizio del secolo XIX.  Infatti gli USA volevano “liberisticamente” commerciare sia con la Francia rivoluzionaria che quella napoleonica (da cui comprarono la Louisiana, allora un vasto territorio grossomodo corrispondente al territorio centrale degli USA), mentre i Britannici imponevano il loro blocco navale.  La guerra finì nel 1812 con l’incendio della capitale Washington da parte inglese, che avrebbe potuto, volendo, ripristinare l’antico dominio: ma allora Napoleone, e solo Napoleone, era considerato il vero nemico da battere, mentre gli USA ormai venivano considerati   come uno Stato irrecuperabile, come già aveva intuito Gaetano Filangieri, e comunque considerato fuori dal Commonwealth. Riguardo ai rispettivi metodi di blocco, quello inglese ai neutrali o agli amici della Francia consisteva nel sequestrare merci francesi ed imporre merci britanniche;  quello francese imponeva di non acquistare merci inglesi, sostituendoli con surrogati (es. la barbabietola allo zucchero di canna;  l’orzo, il malto, la cicoria al caffè).
[68]   Già anni fa questo discorso era reperibile in tedesco su INTERNET  in mhtml://D:\(GES,P) Jacques Pierre Brissot Fuer den Krieg (16_Dezember 1791)…, a sua volta tratto da “Reden den Franzoesischen Revolution”, hrsg, von P. Fischer, Muenchen 1974,  (Discorsi della Rivoluzione Francese).
[69]    M.  Robespierre,  ed. it. cit.,  “Contro la guerra” del 18 dicembre 1791,  pagg.  37 – 38 .   Che non fosse un pacifista, ben lo si nota, quando a comandare l’esercito francese,  la nuova Armée popolare, sanculotta e repubblicana, furono i generali scelti dal suo Comitato di Salute Pubblica:
“… L’esercito francese non è soltanto il terrore dei tiranni;  è la gloria della nazione e dell’umanità.  Marciando verso la vittoria i nostri valorosi guerrieri gridano:  ‘Viva la repubblica’.  Le loro ultime parole sono inni di libertà;  il loro ultimo respiro è un augurio  per la patria.  Se tutti i comandanti avessero avuto il valore dei loro soldati, l’Europa sarebbe stata vinta già da tempo.  Ogni atto di benevolenza nei riguardi dell’esercito è un atto doveroso di riconoscenza da parte della nazione…” (ibidem,  “Sui princìpi del governo rivoluzionario”, verso la conclusione,  pag. 156 .
[70]   In quell’art. 5 della nostra Costituzione vi è presente una delle non poche ambiguità e contraddizioni  che la caratterizzano, perché vi si proclamano  insieme “indivisibilità”  e “autonomie”.  Non solo, all’art. 6 si  parla pure di “minoranze linguistiche”.  Ora, mentre l’unità, organizzata in un certo modo, potrebbe conciliarsi con una certa autonomia amministrativa, se non legislativa,  l’indivisibilità logicamente non si adatta né all’una né tantomeno all’altra.  Il problema nacque già proprio con la nuova amministrazione francese, e la lotta fra Girondini e Giacobini si scatenò anche sul punto di come intendere il termine “unità”:  per i primi essa doveva conciliarsi col riconoscimento delle singole  realtà regionali e poi dipartimentali (anche per la politicissima ragione per cui essi traevano l’appoggio dalle regioni periferiche della Francia, mentre i Montagnardi si sostenevano sui Sanculotti parigini, tutti tesi a mantenere la centralità della capitale nella nuova Repubblica),  per i secondi doveva trionfare un sistema centralista che, poi, con Napoleone e successivi regimi ebbe la massima affermazione.  L’accusa di “federalismo”, assolutamente mai precisato, alla maniera “americana”,  era motivo di processo e di pena di morte.  Lo storico francese Michelet del XIX secolo smentisce che Brissot e altri girondini fossero stati “federalisti” nel senso americano del termine,  nondimeno  di tale accusa fecero il massimo uso Robespierre e i Montagnardi, e pure altri storici.  Obiettivamente, si può considerare che i Girondini non accettavano il pieno predominio di Parigi sulla Francia intera, e auspicavano un ampio decentramento, forse anche legislativo,  nella Repubblica  (qualcosa di simile alla nostra Costituzione del 1948).
[71]   Ugo Capeto, in pieno Alto Medioevo, fu il primo sovrano francese dopo la scissione dell’Impero Carolingio.  Luigi XVI apparteneva alla famiglia dei Borboni che non so quale rapporto lontanissimo di parentela potesse avere  con i Capetingi (c’erano quasi mille anni di distanza).  Penso che il  cognome “Capeto” applicato a Luigi XVI  fosse più che altro derisorio.  Ad ogni modo, così, nella fase finale, era chiamato .
[72]   Napoleone Bonaparte, già robespierriano in gioventù e arrestato durante la fase termidoriana,  odiava gli uomini di pensiero:  nelle sue “Memorie” qualificò i Girondini come “metafisici”, così come fu il primo (Marx fu il secondo)  a disprezzare il termine di “ideologia” formulato da Destutt de Tracy per indicare sia un sistema coerente di idee politiche, soprattutto, sia quale studio della formazione delle idee in generale nella mente umana.  Per Bonaparte, e altri suoi figli ideali,  essere “ideologi” significava essere irrealisti. Oggi poi chiunque sia privo di una qualche idea, ovvero abbia il cervello vuoto,  esprime disprezzo verso tutte le “ideologie” .
[73]  M.  Robespierre, ed.  cit.,  Discorso del 3 dicembre 1792,  pagg.  79  -  83.
[74]   ibidem,  pagg.  91 – 92.    Non va dimenticato che Beccaria aveva indicato nella pena di morte solo la soluzione inevitabile di fronte a chi, vivendo, costituisce un grave pericolo per lo Stato:  Luigi XVI  costituì, come sappiamo, un pericolo più da morto che da vivo, almeno dopo l’insurrezione del 10  agosto 1792 e i conseguenti combattimenti contro le guardie svizzere alle Tuileriés.  Una volta catturato e imprigionato al Tempio, con l’intera famiglia, non aveva più alcun potere nelle mani .
[75]   Alessandro Manzoni,  “Scritti Filosofici”,   ed.  BUR (Milano,  2002),  a cura di Rodolfo Quadrelli,  dialogo  “Dell’Invenzione” con due personaggi Primo e Secondo (pagg. 471 – 472).    Manzoni, che ha scritto anche un noto saggio di confronto fra Rivoluzione Francese e Risorgimento italiano, dove considera migliore il nostro Risorgimento appunto in quanto molto meno sanguinario,  sostiene che , sulla base della Memorie di un girondino  (secondo il commentatore, sarebbe stato Louvet, accusatore  di Robespierre),  Vergniaud a casa di madame Roland avrebbe considerato illegittima l’esecuzione di Luigi Capeto,  invece alla seduta del giorno dopo si dichiara per la morte del re:  in quel caso, sempre stando al Manzoni e alla sua fonte,  egli avrebbe votato per la morte, onde evitare una guerra civile.  In effetti, questo timore di guerra civile, da parte dei Girondini,  guerra che poi scoppiò ugualmente, sia da parte dei monarchici,sia da parte degli stessi Girondini dopo la loro proscrizione, dovette essere causa delle loro incertezze e delle loro strategie diversificate, e quindi più fragili di quelle montagnarde,  la cui soluzione mortuaria fu costante e unica,  come si dimostra dalla lettura dei loro interventi e discorsi.  Conclude il Manzoni:  “… era la gran morale che ammazzava la piccola.  Come la guerra civile sia stata schivata, non ci pensiamo:  il torto non è nell’aver previsto male, ma nel sostituire a una legge eterna la previsione umana…  Era, dirò dunque, un uomo, non volgare [Vergniaud fu, invece, molto elogiato da Vincenzo Cuoco, nella sua “Storia della Rivoluzione Napoletana del 1799”], certamente, e tutt’altro che tristo,  che, dopo aver parlato in quella maniera, s’era deciso a sentenziare in quell’altra…, perché  regnava una teoria morale, messa in trono da una teoria metafisica”(ibidem, pagg. 472 – 473).  La fonte,  Louvet, di cui riparlerò,  non appare credibile, se non per le incertezze  di questo gruppo rivoluzionario.  Condorcet, che lo fiancheggiava,  votò  per una pena detentiva a vita, penso come Brissot .   Secondo un’altra versione, riportata da Giuseppe Mayda in un suo articolo sull’argomento (cfr.  “Storia Illustrata”  del maggio 1968, il celebre maggio della contestazione, pallida e miseranda copia,  numero dedicato alla Rivoluzione, pagg. 105 – 106),  Vergniaud era in quel momento presidente della Convenzione e non fece altro che leggere i risultati, non  approvarli. Come gruppo, i Girondini fecero di tutto per non arrivare alla decapitazione del re.
[76]    Il testo, tradotto da me forse con qualche imprecisione,  è tratto da :   Gérard Walter,  “Actes du Tribunal Revolutionaire  -  recuillis et commentés par G.  Walter”,  (Atti del Tribunale Rivoluzionario, raccolti e commentati da G.  Walter), ed.  Le Mercure de France (Paris, 1968),  pagg.  XV  - XVII .
[77]   Un simile tentativo tentò più tardi Cécile Renault contro Robespierre, che però,  seppe farsi difendere con ben maggiore efficacia .
[78]   Per capire gli strani intrecci vandeani, merita leggere il romanzo storico, che tanto romanzo non è,  di Victor Hugo “1793”, ed. it. Newton Compton (Roma, 2004), trad. Oete Blatto. Situazioni analoghe si avranno durante il periodo napoleonico, con gli chouans e in Italia  con fra’ Diavolo e i briganti del cardinale Ruffo, poi anche in Spagna (dove del resto il nome guerrilla -  piccola guerra  -  venne coniato  contro le armate napoleoniche).
[79]   In questa situazione si inserisce un episodio fondamentale nella vita di Napoleone: gli Inglesi, approfittando della rivolta “federalista”  e girondina, si impadronirono della base navale di Tolone.  Napoleone, allora semplice capitano di artiglieria, la dislocò su un posizione strategica, bombardando le navi britanniche, e costringendo gli Inglesi a rinunciare a tale occupazione (19 dicembre 1793, ovvero nel calendario repubblicano 29 Frimaio dell’Anno II della Repubblica :  il primo partiva dal 22 settembre 1792).
[80]    Stracolmi di cultura classicheggiante,  i Montagnardi e la Pianura/Palude  imitarono Cicerone e il Senato Romano che, in un primo tempo, avevano condannato agli arresti domiciliari  i catilinari  di Lentulo, per poi eliminarli rapidamente.  Più o meno la stessa cosa fu fatta contro i Girondini, dei quali alcuni se ne fuggirono nei propri Dipartimenti, dove organizzarono la rivolta “federalista”.  Ma ben 21 vennero  eliminati sulla ghigliottina.
[81]   Cfr.  Louis de Saint-Just,  “Frammenti sulle Istituzioni Repubblicane”, ed. francese e italiana a cura dello storico (marxista)  Albert Soboul,  Einaudi (Torino,  1952), pagg. 313.  Il testo francese e quello italiano non sono a fronte, come oggi è d’uso, ma in successione (pagg.  31 -  177  e  pagg. 179 -  313).
[82]  M.  Robespierre,  “La Rivoluzione Giacobina”,  ed. cit.  “Contro Brissot e i Girondini”,  pagg.  94 – 97 .
[83]  Cfr. l’articolo del maggio 1792,  “Esposizione dei miei princìpi”,  pagg. 67 – 75 (già allora attaccava Brissot e Condorcet),  dove espone un argomento che poi  Filippo Turati riprese in Italia a cavallo tra secoli XIX e XX:  la “Repubblica”  è solo un fatto formale,  questione di cambio d’insegna per i tabaccai…   Robespierre, pur dichiarandosi “repubblicano”,  volle allora conservare la Costituzione monarchica del 1791.
[84]     Questa abitudine di copiare si ripete anche nel discorso del 25 dicembre 1793, 5 Nevoso dell’Anno II,  dove se la prende, oltre che con i Girondini ancora vivi e ribelli,  contro Inglesi e loro alleati:  parafrasa  le parole introduttive di Cicerone nella Prima Catilinaria:  “… Essi ci circondano con i loro sicari, i loro spioni:  noi lo sappiamo, li vediamo, eppure essi vivono ancora !   Sembrano proprio inaccessibili alla spada della legge!...” (ed. cit., pag. 153”)   Diceva Cicerone :  “… O tempi, o costumi !  di tutto questo, il Senato è a conoscenza, al console non sfugge, e tuttavia costui vive.  Vive ?  che dico ! si presenta in Senato, partecipa alle sedute,  prende nota di ciascuno di noi…!  (ed. BUR  - Milano, 1979,  trad. it. di Lidia Storoni Mazzolani,  pag. 89) .    C’era in lui qualcosa dello scolaretto diligente che copia o riassume con cura quel poco che ha letto .
[85]   Mario Mazzucchelli,  “Il Tribunale del Terrore” ,  ed. Longanesi (Milano,  1969),  pagg. 104  e 112.  Cfr.  G.  Walter,  “Atti del Tribunale Rivoluzionario”, cit.  ,  pagg.  43  -  135.   Dello stesso autore, si veda “La Rivoluzione Francese”,  ed.  it.  De Agostini (Novara, 1970), trad.  di Ernesto Ayassot,  pagg. 385  -  433 .
[86]  M. Mazzucchelli,  cit., pag  117 .
[87]   ibidem,  pagg.  125  e 131.   Il magistrato, di ogni Stato del mondo, non contento di togliere la vita a qualcuno, pretende esosamente che il morto o il suo erede paghi il costo dei mezzi di morte,  ritenendo che la sola morte non basti a pagare il tutto.  L’Austria-Ungheria mise in conto alla famiglia di Cesare Battisti, per l’impiccagione del 1916,  100.000 corone.   Più divertente fu  la richiesta che l’usciere di un Tribunale sabaudo fece a Mazzini nel novembre 1863, per le condanne contro l’impresa di Pisacane:  quell’usciere chiese un rimborso per la corda che aveva fatto acquistare (come se le corde andassero a male) e che avrebbe dovuto impiccarlo nel 1857, secondo gli auspici del liberale Cavour, e  malgrado che, dal 1857 al 1863, fosse avvenuta l’analoga ma riuscita Spedizione dei Mille, con amnistia per tutti, fuorché per Mazzini stesso (amnistiato appena nel 1871). Ovviamente, pur dispiacendosi ironicamente della cosa, il Nostro rispose che non avrebbe pagato le spese di una sua futuribile impiccagione.
[88]  M.  Mazzucchelli, cit.,  pagg. 149 – 152.
[89]   Cfr.  G.  Walter,  “Atti del Tribunale Rivoluzionario”, cit.,  pagg. 157 e 382 .
[90]   M.  Robespierre,  “La Rivoluzione Giacobina”, cit.,  pagg.  172 – 173 .
[91]    Agli storici marxisti, Mathiez in testa,  madame Roland  appare sempre come una donna frivola, salottiera.  Invece, non lo era affatto nel senso dato da essi: certo, fu  la “Ninfa Egeria” del gruppo, che ispirava ed incoraggiava.  Nel teleromanzo RAI (le cui registrazioni ora sembrano perdute)  di Federico Zardi “I Gacobini”,  un lavoro approfondito e a puntate,  ella è rappresentata  come di una certa età, ma amante dei corteggiamenti e circondata dai zerbinotti girondini.  In una scena si vede che si fa rincorrere da uno di questi attorno ad un tavolo, tutte sciocchezze prive di ogni fonte.  Mazzucchelli riporta la sua risposta ai giudici dopo la sentenza:
“ Vi ringrazio per avermi giudicata degna di condividere la sorte dei grandi uomini che avete assassinato.  Cercherò di morire con lo stesso loro coraggio” (op. cit. pag. 163).   Il giorno dopo venne ghigliottinata e, sul palco, prima di essere stesa,  gridò la celebre frase “Libertà,  quanti delitti in tuo nome!”.  Cfr.  anche il Walter, “Atti del T.R.”, cit.  pagg. 277.  Manon Phlipon, con forte coscienza giuridica, disse ai giudici che condannavano non fatti, ma semplici opinioni e senza leggi vigenti.  Similmente morì l’altra grande girondina, Olympe de Gouges, teorica dei diritti della Donna, già attrice, scrittrice ed operatrice politica e culturale che il 3 novembre 1793 a 45 anni gridò  “Figli della Patria, voi vendicherete la mia morte !” (cfr.  Sophie Mousset,  “Olympe de Gouges e i diritti della Donna”, ed. it. Argo -  Lecce,  2005,  trad. Anna Rita Galeone, pag. 110).  Lo storico del XIX secolo, Michelet elogiò al massimo queste donne, come la meno celebre Teroigne de Mericourt,  fatta impazzire dalla persecuzione sanculotta .
[92]   Il celebre film “La Primula Rossa”, tratto da un romanzo,  mostra come il governo inglese avesse un buon servizio di spionaggio nella Francia rivoluzionaria, anche se ovviamente la Polizia rivoluzionaria non fosse certo da meno  e capace di tenerlo sotto controllo (anche in questo la Rivoluzione Francese è “contemporanea”:  sua guerra è guerra totale, ideologica, militare, economica e di massa).   Cfr., per questa e le successive considerazioni,  M. Mazzucchelli, op. cit.,  pagg.  200  -  219.
[93]  M.  Robespierre,  “La Rivoluzione Giacobina”, cit.,  pagg. 169 -  171,  176 e 179.
[94]   M. Mazzucchelli,  cit.  pag. 209 .
[95]   ibidem, pag. 213.
[96]   ibidem,  pag.  215.
[97]   ibidem,  pag.  237.  Cfr. , come i precedenti, con i testi del Walter  che riportano i verbali.
[98]   ibidem,  pagg. 237 – 238.  Cfr.  verbali di Walter.
[99]   ibidem,  pagg.  244  -   253.  Cfr.  Walter .
[100]   M.  Robespierre,  “La Rivoluzione Giacobina”,  ed. cit.  pagg. 187 -  220.  Egli si costituisce quasi come il pontefice massimo dell’Ente Supremo, di cui indice una serie di “feste civiche”,  una povera e formalistica realizzazione di proposte rousseauiane  (cfr. in specie “Il Contratto Sociale”).  Vi indosserà addirittura  un teatrale costume.  In questo periodo, scoppia anche il caso di Catherine Theot, una povera donna che si proclama “madre di Dio”  (in greco infatti, il termine è  Theotokòs) e che proclama lui una sorta di Cristo redivivo.   Cercando su INTERNET,  ho notato che  tale preteso culto dell’Ente Supremo coinciderebbe con la teofilantropia (amore tra Dio e l’Uomo), dottrina sostenuta durante il Direttorio dall’ex-girondino La Revelliére-Lepeaux.  Non ho modo di confrontare con precisione questa informazione, ma a me le due dottrine sembrano ben diverse.  Quella del membro del Direttorio era ben più laica e non cerimoniosa, non prevedeva  forme para-sacerdotali, ed era più vicina allo spirito del pensiero rousseauiano  senza culti e celebrazioni esteriori.  Ogni buon teista laico, a partire da Seneca,  sa bene che Dio non ha bisogno delle nostre celebrazioni, manifestazioni ed invocazioni.   L’illusione di Robespierre è quella di creare, come poi avverrà in parte per la Massoneria,  una sorta di “surrogato”  del Cattolicesimo,  con grande apparato sfarzoso e con cerimonie simboliche .
[101]   Marco Armandi, curatore della raccolta di brani dei discorsi di Robespierre intitolata “Robespierre  -  Dizionario delle Idee.  La politica e la morale della Rivoluzione Francese”,  ed.  Editori Riuniti (Roma, 1999),  sembra quasi esasperare il rimpianto dello storico francese Jules Michelet, in merito ad un, a loro parere, evitabile scontro  tra Girondini e Montagnardi.   Seguendo Jean Jaurés, il celebre socialista pacifista morto alla vigilia della Prima Guerra Mondiale  e storico a sua volta della Rivoluzione (cfr. nota 12 di pag. 149), si sostiene che tra Robespierre e Condorcet  vi fosse una “segreta e fondamentale armonia”.  Come detto, la contrapposizione tra i due gruppi e le due persone era di radicale differenza mentale e metodologica,   pur partendo da una generale comune impostazione.  Lo stesso  Armandi, citando Condorcet a questa voce (pag. 13),  riporta una delle tante aggressioni verbali di Robespierre contro di lui, già morto.  Non potevano capirsi perché, pur spesso utilizzando vocabolari simili, riferivano i termini a concetti diversi e, talvolta, opposti.   La formazione professionale stessa di Robespierre non trova radici nel prossimo Illuminismo, che accolse solo in superficie,  ma nel Diritto classico fondato sull’uso della forza.   Non è un semplice caso che continui  ad indossare abiti superati e che si faccia incipriare la parrucca,  è che il suo profondo intento  è quello di restaurare  un mondo arcaico,  eppure senza rendersene pienamente conto.   Robespierre è il “padre” ideologico di Napoleone  (che, da giovane,  ne fu assoluto seguace):  comune il disprezzo verso teorie e teorici, comune la notevole capacità pratica e organizzativa, comune pure l’ambizione di restaurare un’idea “imperiale”  della Francia, in analogia a quella di Gaio Giulio Cesare, se non di Ottaviano, con la considerevole differenza che, mentre Robespierre non ne è consapevole perché ideologicamente parlando è un confusionario,  Napoleone se ne rende ben conto ed utilizza ogni mezzo che ritenga idoneo allo scopo .
[102]   Cfr.  Sophie Mousset,  “Olympe de Gouges e i Diritti della Donna”, cit. , pagg.  81  -  83.   Va sottolineato che la de Gouges non fa che ricalcare e correggere la nota Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789.  L’uso del maschile in grammatica, e specialmente al plurale,  non  fa distinzioni di sesso (oggi si tende a confondere il genere, che è parte grammaticale del discorso, col sesso che indica una condizione biologica, sul solito modello anglosassone, dietro il quale tutti corrono adoranti e servili), ovvero vale per maschi e femmine della specie umana.  Ma poiché di fatto il potere politico viene esercitato solo da maschi (e fino al secolo XX, per essere esatti),  la de Gouges  ribadisce dunque anche la presenza femminile come soggetto politico uguale a quella maschile.  Avrà  una certa approvazione tra i Girondini (i “moderati” !),  e completo rigetto da parte  dei Montagnardi (“estremisti rivoluzionari” !):  sul che meriterebbe fare ulteriori considerazioni su chi fosse stato allora realmente “rivoluzionario”.
[103]   Armando Saitta,  “Costituenti e Costituzioni nella Francia Rivoluzionaria, 1789 – 1875”,  ed.  Giuffrè (Milano,  1975), pag. 287.   E’ il testo da cui ho tratto i riferimenti, commentati dallo storico,  alle due prime Costituzioni, qui in esame e ad alcuni Progetti.
[104]   Tale formulazione non è indicata con un numero specifico, ma avanzata nel corso del suo discorso.  Cfr.  M.  Armandi “Robespierre,  Dizionario delle Idee”,  cit., pag.  68.  Dovrebbe trattarsi di un’aggiunta  da farsi dopo l’art. 4 della sua proposta.  Cfr.  M.  Robespierre,  “La Rivoluzione Giacobina”,  discorso alla Convenzione del 24 aprile 1793, ed.  it.  cit.,  pagg.  112 -  121.
[105]   Quello di richiamarsi a Dio o all’Essere Supremo è una prassi nata con la Dichiarazione dei Diritti americana:   serve a qualcosa ?  Gli atei, gli scettici, gli agnostici non sono cittadini ?   E’  necessario un riferimento a Dio  in una Costituzione ?  Ne ha bisogno Dio oppure l’uomo ?   A Dio sicuramente non serve sentirsi richiamato, non ha bisogno di certificati di esistenza in vita da parte umana,  una specie vivente in un piccolo pianetino del sistema solare.  Servirebbe semmai all’uomo, ove nessun uomo nel pianeta fosse ateo, scettico o agnostico.  Ma siccome ce ne sono (e se fosse anche uno solo, basterebbe),  questo richiamo potrebbe considerarsi  o superfluo o ipocritamente intollerante, perché esclude dalla cittadinanza e perfino dall’umanità chi non creda in Dio, anche se nelle forme più generali e vaghe.  La nostra Costituzione sembra non farlo,  ma l’art. 7,  nei Princìpi Fondamentali,  ha il significato, non solo di richiamarsi a Dio, ma perfino di imporlo in una concezione ben delimitata (quella cattolica, apostolica e romana).
[106]   Per quanto riguarda la legislazione in materia ecclesiastica, seguo sempre il testo del Saitta, già citato.  Segnalo qui il fatto che tale legislazione ben si occupa della Chiesa Cattolica, ovviamente  dominante nella Francia del tempo, ma non pare per nulla occuparsi del funzionamento delle Chiese protestanti.  Ciò in parte si capisce dal fatto  che erano molto più deboli e meno rilevanti,  ma denota una certa faziosità  che pesò indubbiamente sulla reazione cattolica a tali misure. 
[107]  Albert Mathiez,  “La  Rivoluzione Francese”,  ed. it.  Einaudi (Torino,  1979),  trad.  Mario Bonfantini,  vol. I,  pag. 451 .
[108]  Il testo, peraltro non integrale,  è riportato da Armando Saitta, nel manuale di storia generale “Il Cammino Umano”,  ed.  La Nuova Italia (Firenze,  1961), vol. II, pagg. 377 – 378 .   Citato anche nella stessa misura da Antonio Desideri,  in “Storia e Storiografia”,  ed. cit., vol. II.   Gli storici della Rivoluzione Francese sembrano vergognarsi talmente di quelle norme, da non avere il coraggio di riportarle integralmente.
[109]   Louis de Saint-Just, “Frammenti sulle Istituzioni Repubblicane” III Frammento, ed. cit.,  pag. 191  (in francese,  pag. 43).   Questi appunti, sebbene senza data specifica, vanno ascritti proprio al periodo più violento della Rivoluzione.  Saint-Just  era molto giovane:  nato nel 1768 è morto nel 1794.  Aveva dunque solo 26 anni,  l’Arcangelo della Morte.   Sembra incredibile la responsabilità data a quei quasi ragazzi.  La Rivoluzione Francese assume il carattere che ebbe, anche o proprio perché diretta da giovani (altro che la novecentesca “Contestazione globale”  dei nostri sessantottini, misera riedizione a confronto!).
[110]  Mauro Barberis “Ordine e Libertà -  di Adrién Lezay-Marnésia e Benjamin Constant”,  ed.  La Rosa (Torino, 1995),  Traduzione e commento di M. Barberis,  pag. 47.  Il testo di Constant, scritto nel periodo direttoriale ma in anno non precisato (1795 – 1799), è interessantissimo, perché pur nella sintesi e stringatezza del saggio, mette in crisi tutta l’interpretazione “necessarista”  del Terrore, e non a caso rimpiange la morte dei deputati girondini .
[111]   Traggo il testo da “Pro e Contro la Rivoluzione”,  a cura di Giuseppe Galasso, con premesse e traduzione di Autori vari,  il quale non solo è completo (a differenza che nel citato “La Rivoluzione Giacobina”), ma è  arricchito da note in cui si riportano le parti e frasi cancellate dallo stesso  Robespierre (cfr.  pagg.  227  -  275).  Nel medesimo libro, sono riportati integralmente, il celebre saggio dell’abate Sieyès  “Che cos’è il Terzo Stato”,  e lo scritto del reazionario sabaudo Joseph de Maistre, contro la Rivoluzione Francese “I Benefici  della Rivoluzione”(benefici o fatti buoni, in senso ironico).  
[112]   M.  Mazzucchelli,  “Il Tribunale del Terrore”, cit. , pag. 403 .
[113]   Cfr., nella nostra “buona” Italia, la repressione del brigantaggio meridionale che fu almeno altrettanto spietata quanto il brigantaggio stesso, tra il 1861 e  il 1865.  Oppure la fase finale della Guerra di Secessione, da parte dell’ Armata di Sherman contro i Confederati sudisti. Vedi la storia della nuova Commune parigina nel 1871, per non dire della serie di guerre anglo-boere a cavallo tra XIX e XX secolo, oppure il genocidio, fisico e culturale degli autoctoni amerindi da parte dei “cortesi” governi USA.   Per non ricordare poi quanto avvenuto circa 70 anni fa in Europa, o quanto sta avvenendo tuttora in vari luoghi del pianeta !
[114]   Molti beffeggiano il celebre detto “Historia magistra vitae”, ma è proprio il farsi beffe della magistralità della storia, soprattutto se insegnata con la maggior obiettività possibile, ovvero senza faziosità intenzionale,  la causa del ripetersi di fatti orrendi a livello collettivo.   Il punto è che nessuna “maestra”, per quanto ottima,  può insegnare a chi si rifiuta di imparare:  la storia è ottima maestra,  ma con scolari pigri, oziosi,  faziosi.
[115]    Oggi è di gran moda in campo politico parlare di cambiamenti e di “riforme”, che in realtà si rivelano solo peggioramenti nelle condizioni della vita sociale di una Nazione.   Il termine “riforma”, come “rivoluzione”, o ha un significato positivo di perfezionamento di una condizione precedente, o è una pura sciocchezza propagandistica.  Il cambiamento, di per sé, significa tutto e niente, può essere miglioramento, può essere mutamento apparente o solo formale, può essere -  e oggi lo è il più delle volte -  peggioramento sistematico delle condizioni esistenti.    La mentalità del “gattopardo”  domina ancora  la nostra classe politica e dirigente, e questa è la nostra tragedia nazionale !
       Quando Benito Mussolini si vantava di aver compiuto una “rivoluzione fascista” in realtà raccontava storie propagandistiche, rifacendosi  ad una mentalità e ad un linguaggio di quando era un giovane socialista massimalista:  piuttosto, la sua fu reazione o controrivoluzione, limitando la sovranità di un popolo a quella propria e del proprio partito.
[116]   E’  un’esagerazione propagandistica considerare “filosofo”  un giovane laureando che, in previsione timorosa della guerra mondiale ormai incombente, preferisce togliersi la vita, senza nemmeno essere riuscito a completare il proprio lavoro.  Spesso si confondono gli studenti e anche i professori di filosofia con i filosofi:  Socrate e Schopenhauer   erano sicuramente filosofi, ma per nulla docenti di filosofia.  Lo stesso può dirsi per Cartesio ed altri.  Viceversa, si può essere studenti o docenti di filosofia senza essere filosofi, ossia senza avere un pensiero proprio, se non originale, una visione propria del mondo, per quanto non assolutamente nuova o non assolutamente condivisa.  La natura del filosofo è quella di sforzarsi di cercare col pensiero e sostenere con argomentazioni proprie  una interpretazione dell’universo, della realtà, dell’uomo, per quanto possibile non contraddittoria,  tanto se è condivisa da altri, quanto se non lo è.   Carlo Michelstaedter pone  una tesi interessante,  ma era giovane e vari punti da lui esaminati possono apparire, per quanto ci consta, banali.  Nondimeno, se fosse vissuto, forse avrebbe sviluppato ed approfondito una sua visione del mondo.
[117]    Nell’uso plebeo del termine, si crede che Romanticismo sia l’età della svenevolezza,  dei prati fioriti,  degli amori ideali, della semplice poesia o del romanzo d’amore, con contorno di musica, candele, valzer, ecc., oppure viceversa di fantasmi e di castelli medioevali immersi nel buio e nelle nebbie, con qualche vampiro che corre qua e là ululando in cerca di sangue da succhiare.  In realtà,  il Romanticismo nasce come epoca di battaglie, di combattimenti di pensiero e d’azione:  le sue radici sono lo Sturm und Drang  (Tempesta e Assalto:  in effetti un’endiadi, perché i due termini, nel tedesco, sono praticamente sinonimi).  E’  l’età non delle candele e dei candelabri, ma quella in cui si fanno le prime ricerche sul fenomeno elettrico:  Galvani e Volta appartengono già all’età romantica.  Schelling fa del fenomeno elettrico (in parte seguito da Hegel)  il fondamento della natura, della realtà materiale.   Di Marat si è già detto che giunse a studiare applicazioni terapeutiche del fenomeno elettrico:  altroché fiori, candele e candelabri !
[118]   M. Armandi, in “Cronologia della vita e delle opere -  di Maximilien Robespierre,  Dizionario delle Idee”, ed. cit.  pag. LIV .



BIBLIOGRAFIA   CONSULTATA

Opere di storia politica  e del Diritto:

1)    Barberis Mauro,  “Filosofia del Diritto”,  ed. Il Mulino (Bologna,  2000) .
2)   Birocchi Italo,  “Alla Ricerca dell’Ordine – Fonti e cultura giuridica nell’Età modena”, ed. Giappichelli (Torino, 2002) .
3)  Cavanna Adriano,  “Storia del Diritto Moderno in Europa”, ed.  Giuffrè (Milano, 1982) .
4)    Compagnino Gaetano,  “Gli Illuministi Italiani”,  ed.  Laterza (Bari, 1981) ;
5)   Gratton Giulio,  “Origine ed Evoluzione dei Partiti Politici”, ed. Zigiotti (Trieste, 1946) .
6)   Mosca Gaetano,  “Storia delle Dottrine Politiche”,  ed.  Laterza (Bari, 1972) .
7)   Tarello  Giovanni,  “Storia delle Cultura Giuridica Moderna”,  ed.  Il Mulino (Bologna,  1976) .


Opere  generali sulla Rivoluzione Francese :

1)    Furet François  -  Richet  Denis,  “La Rivoluzione Francese”, ed. it.  Laterza (Bari, 1980), trad. Silvia Brilli Cattarini e Carla Patanè,  voll. 2 .
2)   Kropotkin Piotr,  “La Grande Rivoluzione 1789 – 1793”, ed. it. Anarchismo (Catania,  1987), trad. a cura di Alfredo Bonanno .
3)   Mathiez Albert -  Lefebvre George, “La Rivoluzione Francese”, ed. it. Einaudi (Torino, 1979),  voll.  2 .
4)  Michelet Jules, “Storia della Rivoluzione Francese”, ed. it. Rizzoli (Milano 1981),  trad. Cesare Giardini  e Armando Guardasoni,  voll. 4 .
5)   Walter  Gérard,  “La Rivoluzione Francese”, silloge di documenti commentati, ed. it. Istituto Geografico De Agostini (Novara, 1970), trad.  Ernesto Ayassot .



Opere  su temi specifici  :

1)   Autori Vari,  “I Codici Napoleonici  -  Il Codice di Istruzione Criminale, 1808”, con in appendice il testo in francese di Le norme procedurali penali del 1791,  ed. it.  Giuffrè  (Milano,  2002), trad. Giuseppe Cioffi .
2)   Barberis Mauro,  “Ordine e Libertà” (con scritti di Adrien Lezay-Marnésia e Benjamin Constant), ed.  La Rosa (Torino, 1995) .
3)   Barrows Simon (docente Università di Leeds),  “The Innocence of Jaques-Pierre Brissot”,  saggio in inglese del  “The Istorical Journal”,  (Cambridge,  2003) .
4)   Ciuffoletti Zaffiro e Vari,  “Paura, Terrore, Complotto”,  ed.  Centro Editoriale Toscano (Firenze, 1990) .
5)  Cotta Sergio,  “Per un Concetto Giuridico di Rivoluzione” in”Scritti di Sociologia e Politica, in onore di Luigi Sturzo”, ed.  Zanichelli (Bologna, 1953) .
6)   De Francesco Antonino,  “Il Governo senza testa  -  Movimento democratico e federalismo nella Francia rivoluzionaria (1789 – 1795)”, ed.  Morano (Napoli, 1992).
7)   Foucault Michel,  “Sorvegliare e Punire”, ed. it. Einaudi (Torino, 1993), trad.  Alcesti Tarchetti.
8)  Furet  François,  “Critica della Rivoluzione Francese”, ed. it. Laterza (Bari, 1980), trad Silvia Brilli Catterini .
9)    Furet François, “Marx e la Rivoluzione Francese”, ed. it.  BUR (Milano, 1989), trad.  Marina Valensise .
10) Galasso Giuseppe,  “Pro e contro la Rivoluzione” (con scritti di Sieyès, Robespierre,  de Maistre),  ed.  Salerno (Roma, 1989) .
11) Groethuysen Bernard,  “Filosofia della Rivoluzione Francese”, ed. it.  Il Saggiatore (Milano, 1967), trad.  Gisella Tarizzo .
12)   Hugo Victor,  “Novantatrè”, ed. it. Newton-Compton (Roma, 2004), trad. Oete Blatto .
13)  Luzzatto Sergio,  “Il Terrore Ricordato”, ed.  Einaudi (Torino, 2000) .
14)   Madelin  Louis,  “Danton”, ed. it.  Dall’Oglio (Milano, 1957), trad.  Adriano Lami .
15)   Martucci Roberto,  “La Costituente e il Problema Penale in Francia (1789 – 1791)  -  Alle origini del processo accusatorio”,  ed.  Giuffrè (Milano,  1984) .
16)    Mazzucchelli Mario,  “Robespierre”, ed. Dall’Oglio (Milano, 1962) .
17)   Mazzucchelli Mario,  “Il Tribunale del Terrore”, ed.  Longanesi (Milano, 1969).
18)   Mousset Sophie,  “Olympe de Gouges  e i Diritti della Donna”, ed. it. Argo (Brindisi,  2005),  trad.  Anna Rita Galeone.
19)   Saitta Armando,  “Costituenti e Costituzioni della Francia Rivoluzionaria  1789 – 1875”, ed.  Giuffrè (Milano, 1975) .
20)  Savine Albert,  “Prigioni di Francia sotto il Terrore”,  ed. it. Corbaccio (Milano, 1933) .
21)   Vovelle Michel,  “La Mentalità Rivoluzionaria”, ed. it.  Laterza (Bari, 1987), trad. Antonietta Angelica Zucconi .
22)   Walter Gérard,  “Actes du Tribunal Révolutonnaire”, ed.  Mercure de France (Parigi, 1968) .


Opere classiche di filosofia della storia, della politica e del Diritto,  e  di rivoluzionari francesi.

1)    Beccaria Cesare,  “Dei Delitti e delle Pene”, ed.  Feltrinelli (Milano, 1999), a cura di Stefano Rodotà e Alfredo Burgio .
2)    Brissot Jean-Pierre de Warwille,  in “Biblioteque philosophique du Legislateur, du Politique, du Jureconsult”, ed. Desaques (Berlin -  Paris, 1782 - 1875),  voll.  10.
3)   Brissot Jean-Pierre,  “Fuer den Krieg”  (Per la Guerra), discorso del 16 dicembre 1791, ed. in tedesco,  dalla raccolta “Reden der Franzoesischen Revolution”  (Discorsi della Rivoluzione Francese),  di P. Fischer (Monaco, 1974).
4)  Condorcet Marie-Jean-Antoine-Nicolat,  “Abbozzo di un Quadro Storico dei progressi dello Spirito Umano”, ed. it. Einaudi (Torino, 1969) .
5)  Diderot Denis,  “L’Uomo e la Morale” (silloge di scritti), ed. it. Studio Tesi (Pordenone,  1987), su licenza Editori Riuniti,  a cura di Vincenzo Barba .
6)  Filangieri Gaetano,  “La Scienza della Legislazione”, ed. Filadelfia (Napoli, 1807), commento a cura di Donato Tommasi, voll. 5 .  
7)   Hegel George Wilhem Friedrich ,  “Lineamenti della Filosofia del Diritto”, ed. it. Bompiani  (Milano,  2006), trad. Vincenzo Cicero, testo tedesco a fronte.
8)  Kant Immanuel,  “La Metafisica dei Costumi”, ed. it.  Bompiani (con testo tedesco a fronte,  Milano, 2006), a cura di Giuseppe Landolfi Petrone .
9)   Marat Jean-Paul,  “L’Amico del popolo”(raccolta di scritti), ed. it.  Editori Riuniti (Roma, 1968), trad. e commento di Celestino Spada .
10)   Montesquieu Charles-Louis de Secondat,  “Lo Spirito delle Leggi”, ed. it. BUR (Milano, 2002),  traduttori vari, voll. 2 . 
11)     Robespierre Maximilien,  “La Rivoluzione Giacobina” (Discorsi), ed. it Studio Tesi (Pordenone,  1992),  su licenza Editori Riuniti .
12)   Robespierre Maximilien,  “Dizionario delle Idee -  La politica e la morale della Rivoluzione Francese”  (princìpi e brani esposti in ordine alfabetico), ed. it.  Editori Riuniti (Roma, 1999), a cura di Marco Armandi.
13)  Roland  de la Platière Jean-Marie,  “Discorso alla Convenzione Nazionale del 22 settembre 1792”, riportato da INTERNET e tratto dall’edizione Libraire B. Simon,  Parigi, senza data .
14)   Rousseau Jean-Jacques,  “Opere”,  ed. it.  Sansoni (Firenze, 1972), traduttori vari.
15)  Saint-Just (de)  Louis,  “Frammenti sulle Istituzioni Repubblicane”,  testo francese e, in successione, italiano,  ed.  Einaudi (Torino, 1952), prefazione di Albert Soboul, trad. di Giuliano Procacci .
16)    Schiller Johann Christoph Friedrich,  “L’Educazione Estetica dell’Uomo”, ed. Bompiani (Milano, 2007), trad.  Guido Boffi, testo tedesco a fronte.
17)   Voltaire Marie Arouet,  “Trattato sulla Tolleranza”, ed. it. Demetra (Verona, 1999), trad.  Glauca Michelini .
18)   Voltaire M.  Arouet,  “Dizionario Filosofico”, ed. it. Fabbri (Milano, 2001),  curatori vari, trad.  Rino Lo Re e Libero Sosio,  voll.  2 .
     


                                                  INDICE

PREMESSA                                                               p.     2

PARTE  PRIMA :   IL DIBATTITO TEORICO DA BECCARIA
                                 A  KANT                                   p.     3    
Capitolo I :     Cesare Beccaria                                     p.     3
Capitolo  II :    Il dibattito sull’opera di Beccaria           p.    10
Capitolo  III :     L’Illuminismo Tedesco  e Immanuel Kant          p.    29

PARTE  SECONDA :     LA RIVOLUZIONE FRANCESE, COME
                                         SERIE  DI EVENTI,   E NEI  SUOI 
                                         ASPETTI   GIURIDICI                             p.   34
Premessa  storica                                                                                p.  34
Capitolo I :    Correnti storiografiche sulla Rivoluzione Francese.
                       Concetto  di Rivoluzione .                                            p.  34
Capitolo  II :   Il Pensiero Costituzionalista  di Montesquieu,  come     
                        base  del pensiero rivoluzionario                                  p.  37
Capitolo III :   Dal  1789  al  settembre 1792                                         p.  43
Capitolo IV :   Opera riformatrice della Rivoluzione                              p.  47   
Capitolo  V :    Dal  1792  al 1794                                                        p.  53
Capitolo  VI :    Aspetti violati  della Procedura penale,  e
                           Misure Terroristiche .                                               p.  82
Capitolo VII :    L’Epilogo della Rivoluzione.   La fine di Robespierre
                           &   Company .                                                        p.  98

CONSIDERAZIONI   FINALI                                                           p. 104          

NOTE                                                                                               p. 109

BIBLIOGRAFIA  CONSULTATA                                                    p. 128
Opere di Storia politica e del Diritto                                                    p. 128 
Opere Generali sulla Rivoluzione Francese                                          p. 129
Opere su temi specifici                                                                       p. 129
Opere classiche di Filosofia politica e del Diritto,  e di rivoluzionari

francesi .                                                                                           p. 130



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I Saggi di Manlio Tummolo. La Congiura di Catilina e la crisi istituzionale nella tarda Repubblica Romana



Bertiolo, Udine (Novembre 2012)

Dedico questo scritto agli Amici, Franca Zuliani e Sergio Gregorat, cittadini di Trieste, perseguitati da una classe politico-amministrativa, da una categoria forense, e da una Magistratura, inette e faziose, che hanno perduto la coscienza del Dovere e della Legge

Premessa: 
V. Lucio Catilina, di nobile stirpe, fu d’ingegno vivace e di corpo vigoroso, ma d’animo perverso e depravato. Sin da giovane era portato ai disordini, alle violenze, alle rapine, alla discordia civile; in tali esercizi trascorse i suoi giovani anni. Aveva un fisico incredibilmente resistente ai digiuni, al freddo, alle veglie, uno spirito intrepido, subdolo, incostante, abile a simulare e dissimulare. Avido dell’altrui, prodigo del suo; ardente nelle passioni; non privo d’eloquenza, ma di poco giudizio; un animo sfrenato, sempre teso a cose smisurate, incredibili, estreme [veramente il testo sallustiano dice “nimis alta”, ovvero “troppo alte”, il che assume un significato ambiguo, tra l’idealismo ed il personalistico].

Finito il dispotismo di Silla, fu preso dalla smania d’impadronirsi del potere; pur di raggiungerlo, non aveva troppi scrupoli; quell’animo impavido era turbato ogni giorno di più dalla penuria di denaro e da cattiva coscienza… Lo spingeva inoltre su quella china la corruzione della città…” (Gaio Crispo Sallustio, “Sulla congiura di Catilina”, ed. it. BUR, Milano, 1980, trad. e commento di Lidia Storoni Mazzolani, testo latino a fronte, pag. 85)

XIV.  In una città così grande e così corrotta, non era stato difficile a Catilina raccogliersi attorno tutti i dissipati e i criminali e farne, si può dire, la sua guardia del corpo. Non c’era degenerato, adultero, puttaniere, scialacquatore…, non c’era un indebitato fino al collo…, non un parricida… che non fosse dei suoi… Cercava,  più di tutto, d’attirare i giovani… So che alcuni hanno sospettato di costumi disonesti  [presumibilmente allude all’omosessualità o anche alla pedofilìa] i giovani che frequentavano la casa di Catilina, ma erano voci, congetture…, non su fatti accertati"

"XV. Sin da giovane, Catilina aveva avuto relazioni nefande: con una fanciulla di nobile famiglia, con una vestale [le sacerdotesse della dea Vesta, considerate inviolabili sessualmente, come le monache o suore cattoliche.  Se scoperte non più vergini e con relazioni sessuali, venivano murate vive] e altre del genere, contrarie alla legge e alla morale. Infine, s’innamorò di Aurelia Orestilla, della quale nessun galantuomo trovò mai da lodare nulla fuor che la bellezza…  il suo animo scellerato, nemico degli dèi e degli uomini, non trovava riposo nel sonno, né nella veglia, a tal punto i rimorsi lo tormentavano. Pallido in volto, lo sguardo torvo, il passo ora affrettato ora lento, tutto nell’aspetto e nel contegno rivela la perversità del cuore “.
(ibidem,  pagg. 99 – 101)"

"LXI.  Finita la battaglia, solo allora si potè constatare quale fosse l’ardire, la forza d’animo dei combattenti di Catilina: caduti, coprivano quasi tutti col corpo il posto di combattimento che avevano occupato da vivi. Soltanto alcuni del centro, quelli che la coorte pretoria aveva sgominati, giacevano poco discosto, ma tutti colpiti al petto. Catilina fu trovato lontano dai suoi, in mezzo ai cadaveri nemici. Respirava ancora un poco; nel volto, l’indomita fierezza che aveva da vivo. Di tutto l’esercito non fu catturato nessun uomo libero né in battaglia né in fuga; nessuno aveva tenuto da conto la propria vita più che quella del nemico.   peraltro l’esercito del popolo romano riportò una vittoria senza lacrime e senza sangue…”(ibidem,  pagg. 195 – 197).

Queste due descrizioni, presentate dall’ex-cesariano e storico di Roma Gaio Crispo Sallustio, pressoché contemporaneo di Lucio Sergio Catilina e del suo tentativo di rivolta soffocato ai piedi dell’Appennino Toscano, presso Pistoia nel 62 avanti Cristo, racchiudono pressoché l’arco di vita, sotto l’aspetto psicologico, politico e rivoluzionario del protagonista, in una sintesi sicuramente artistica, efficace, lapidaria, ma anche poco rispettosa del personaggio, descritto in modo assai contraddittorio, nel corso del testo, con prevalenza però della negatività, se non che ne fa  eroi di notevole grandezza, sia Catilina sia i suoi uomini, nella conclusione.  Va detto che i Romani, di fronte al coraggio mostrato sul campo di battaglia, si inchinavano sempre e comunque, riacquistando la loro imparzialità sia pur relativa.  Lo fecero col grande nemico Annibale, così come contro questi “hostes populi romani” (nemici del popolo romano, come vennero chiamati i ribelli in generale (altrettanto dicasi per Spartaco).

Secondo Concetto Marchesi, nella sua “Storia della Letteratura Latina”,  Sallustio di questa ambivalenza fa un criterio stilistico, perché descrive anche tutti i catilinari con lo stesso metro. Per cui, Catilina, di cui egli apprezza il programma sociale e rivoluzionario per i tempi, non aveva tali caratteristiche.   Difficile dire come fosse, perché fonti diverse e meno faziose su di lui, non esistono, in quanto Lucio Sergio Catilina fu sottoposto a quel procedimento di “damnatio memoriae”, che ne provocava la distruzione di ogni raffigurazione (a me sinceramente piace immaginarmelo come nel ritratto d’età etrusco-romana denominato “Bruto”, un viso severo con occhi particolarmente vivi, segnato da sofferenze, eppure forte e deciso), la demonizzazione del carattere e dell’azione, la diffamazione lasciata per i secoli, che nei comuni manuali scolastici o in vari testi, malgrado anche diverse rivalutazioni, tra cui quella dello stesso Marchesi in uno dei suoi saggi raccolti ne“Il Cane di Terracotta”, in cui lo raffigura come l’ultimo dei veri Romani, ben più di Cesare, che si era lasciato uccidere coprendosi il capo, mentre Catilina muore non solo combattendo, ma lasciando attorno a sé molti avversari altrettanto uccisi.  In effetti, al pur notevole studioso sfugge che già lo stesso Cicerone, il grande suo rivale, il repressore della rivolta, della quale gli restò un ricordo indelebile fino alla fine, descrisse Catilina come uomo pieno di contraddizioni nel suo discorso in difesa di Marco Celio.  Marco Celio, tra le varie accuse che aveva subìto, aveva anche quella di essere stato amico e sostenitore di Catilina.  Cicerone già in tal caso arriva ad elogiare le doti positive di Catilina e riconosce che egli stesso ne era stato attratto.  Alcune osservazioni su Catilina fa riguardo al processo contro Milone, da lui difeso.  Milone, in uno scontro di “squadre”, aveva ucciso Clodio, di cui Cicerone dice che fosse stato sostenitore di Catilina.  Dopo la congiura, sarà proprio questo Publio Clodio, vicino al gruppo cesariano,  a far espellere in esilio Cicerone e a fargli confiscare la casa, in quanto da console aveva agito illegalmente contro i catilinari di Lentulo, fatti strangolare al Carcere mamertino, senza il dovuto “appello al popolo”, sorta di processo in ultima istanza presso i Comizi Tributi, come previsto dalla procedura verso i cittadini romani.  Ma  tale procedura non valeva per coloro che erano proclamati “nemici del Popolo Romano”, per cui erano considerati stranieri.

Sarà comunque lo stesso Cicerone, nelle sue celebri “Filippiche”  contro Marco Antonio il quale pretendeva di essere continuatore di Lucio Catilina, ad irriderne questa pretesa, e a far l’elogio dell’antico avversario e delle sue grandi capacità di rivoluzionario e di organizzatore.  E le “Filippiche” vanno anche considerate il grande testamento di Cicerone, come uomo politico, e pertanto anche il riconoscimento esplicito dell’importanza che, nella sua vita, ebbe la lotta contro Catilina.

Ora, avendo già messo, come suol dirsi, troppa carne al fuoco, sarà bene ricominciare il discorso, partendo da questioni generali, riguardanti l’ultima fase della storia di Roma repubblicana, la sua crisi politica ed istituzionale, le sue lotte sociali, prima, civili e militari poi.   Lo stesso Sallustio aveva tentato di farlo, ma egli era condizionato da un lato dalla fedeltà verso Cesare, dall’altra timori di qualche vendetta lo condizionavano in senso opposto.  Il quadro storico generale che egli presenta soprattutto all’inizio è, più che politico, moralistico, in cui tratta di una vera o presunta decadenza dei costumi romani, di cui tuttavia non approfondisce le ragioni politiche, economiche, di rapporti appunto istituzionali e giuridici.

LA PROBLEMATICA  STORICA

Le forti lotte sociali che avevano caratterizzato la fase iniziale della Repubblica Romana (V secolo a. C), tra i patrizi (discendenti delle famiglie fondatrici di Roma e la sucessiva aristocrazia etrusca insediatasi con i Tarquini) erano andate progressivamente smorzandosi, con una sostanziale parità che portò anche alla fusione di famiglie patrizie e plebee.   Sicché nei secoli successivi, quello delle varie guerre italiche e poi della prima espansione mediterranea (Guerre puniche) la distinzione tra i due gruppi sociali aveva un semplice carattere nominale, di memoria storica, non certo di condizioni economiche e culturali.  Come poi succederà nella Venezia post-rinascimentale, si potevano avere famiglie patrizie povere e famiglie pebee molto ricche.  Si era formata una nuova classe, quella dei cosiddetti  “equites” (cavalieri), ossia coloro che potessero andare in guerra a cavallo.  In realtà, è più un modo di dire, in quanto il nerbo delle legioni romane era la fanteria, e i cavalieri erano spesso mercenari alleati (celebre con Cesare fu la cavalleria gallica ed anche germanica).   Quindi non si trattava di avere o non avere un singolo cavallo (una sorta di don Chisciotte romano), quanto una bella scuderia, con cui fornire eventualmente l’Esercito per ogni necessità, perché ognuno di noi sa che mantenere cavalli allra, come oggi, richiede una certa ricchezza.  “Cavalieri” dunque non tanto perché andassero in guerra a cavallo, ma quanto perché potevano mantenere con le loro ricchezze un certo numero di cavalli.  Ebbene, questa classe di ricchi (sempre più ricchi con le guerre, le conquiste, le rendite agrarie, i commerci, la compravendita di schiavi)  cominciano ad assumere sempre maggior potere.  Già, ma com’era organizzato il potere nella Repubblica Romana, da dove traeva la propria forza, capacità di resistenza, di difesa e di aggressione, Roma?

La forza di Roma, almeno nei primi secoli, non era data dal numero o dalle risorse materiali:  né nell’una cosa, né nell’altra avrebbero potuto competere con gli Etruschi e dei Magno-greci o Italioti, forti dell’uno come dell’altro, e neppure col solo numero, come contro i Sanniti o i Galli.  La forza di Roma stava essenzialmente in uno spirito d’organizzazione che getta le basi di quello che è lo Stato moderno:  ossia, non confondere le funzioni di governo, nelle mani di signori assoluti o di forme anarcoidi di potere, ma creare organi con funzioni precise, creare leggi che venivano rispettate con molta disciplina.  Nell’antica Roma non c’è ancora la distinzione dei poteri che appena Montesquieu nel XVIII secolo formulò con precisione e tuttora più acclamata, che in realtà confermata.  Ma Roma aveva qualcosa che assomigliava a questo.  Già le città greche erano riuscite a creare istituzioni separate con funzioni separate, ma forse non avevano quell’apparato organizzativo “gerarchico”, che derivava anche da una certa concezione dell’arte militare ed amministrativa che Roma aveva e che trasmise al mondo.   Questo tipo di organizzazione che rende la Repubblica Romana (e poi, in parte, l’Impero, che ne mantiene la linea) la forma di governo più vicina allo Stato moderno, le consentì di affrontare uno alla volta, e in qualche caso anche insieme, nemici molto più potenti per numero e per risorse battendoli uno alla volta.  Carattere di Roma fu anche quello di integrare i vinti, con forme giuridiche, quali la cittadinanza (con patto latino o con patto romano), lasciando loro viceversa un’ampia forma di auto-amministrazione interna.   Roma quindi superava nettamente le forme di confederalismo religioso tipiche degli Etruschi e le forme di confederalismo culturale tipiche dei Greci, creando un federalismo robusto e rigoroso, che si estendeva progressivamente.  E’  interesante notare che, quando vi furono le guerre sociali (inizi secolo I a C.), da non confondere con guerre tra classi, ma nel senso latino: socii sono gli alleati, i popoli ormai già federati a Roma ma senza cittadinanza, senza il patto di tipo romano, senza possibilità di eleggere le cariche “nazionali”, statali, di Roma, la pretesa degli Italici che, per primi,  estendono l’idea di Italia all’intera Penisola, consiste nell’esigere di poter ricevere la cittadinanza romana; per la prima volta si auto-organizzano alla maniera romana, e minacciano di sconfiggerla defintivamente, se non che la decisione di concedere tale cittadinanza, toglie ogni motivo alla lotta e, salvo una resistenza sannitica ancora forte, gli altri accettano questo rapporto giuridico nuovo tra loro e Roma.  E’ qui ed ora che nasce l’Italia (altro che fiabe che ne attribuiscono la nascita al 1861, confondendo un certo tipo di Stato con la Nazione ed una forma giuridica pubblica di carattere generale).  Di Italia in termini patriottici parla già Virgilio sia nell’Eneide , sia nelle “Georgiche”, e prima di lui lo stesso Cicerone [1].

Torno alle istituzioni romane:  per esser simile in pieno ad uno Stato in senso moderno alla Roma repubblicana mancava essenzialmente una Costituzione scritta, invenzione illuministica che nasce dai dibattiti tra ‘600 e ‘700 sul cosiddetto “contratto sociale”, ovvero un accordo ipotetico ed ideale, secondo il quale un popolo rinuncia all’esercizio diretto della sovranità, delegandola  ad un sovrano-persona singola, o ad un gruppo specificamente esistente, elettivo oppure ereditario.  Ma Roma repubblicana aveva una certa Costituzione materiale, pratica, con una relativa divisione dei poteri, la cui successiva confusione poi portò alle prime lotte sociali e civili.

Con la Repubblica, il potere che era esercitato dal re venne distribuito tra due consoli elettivi e con poteri uguali, ma alternati in tempo di pace, che duravano un anno.  Al Senato, costituito da persone già elette ed ormai decadute da ogni carica relativamente anziane, spettava fin dalla monarchia un potere consultivo e talvolta giudiziario.  Il potere legislativo, propriamente detto, spettava ai Comizi.  I più antichi erano i Comizi Curiati e i Comizi Centuriati, composti in sostanza da guerrieri patrizi, comandanti ecc..  Dopo la secessione dell’Aventino e il successo progressivo dei Plebei nell’acquisizione di funzioni politiche, si ebbero i  Concilia plebis, costituiti dai soli plebei, che eleggevano presumibilmente i tribuni della plebe, e i Comitia Tributa (ovvero dell’intero popolo distinto in tribù, non solo di Roma, ma nelle fasi successive anche delle città che godevano della cittadinanza romana).  era questo l’Organo a cui chi era condannato a morte poteva rivolgersi con l’appello al popolo.  In subordine, esistevano altri Organi, perlopiù  collegiali, quali la Pretura, con poteri giudiziari ed amministrativi, la Questura, l’Edilità, la Censura (anch’essa con compiti amminisrrativi, di censimento e, in parte, di controllo della moralità collettiva ed individuale).  La dittatura, carica semestrale prorogabile di altri sei mesi, veniva utilizzata nelle situazioni eccezionali di guerra, quando la città era in pericolo e si riteneva fondamentale affidare ogni responsabilità di comando e di gestione dello Stato ad un singolo uomo per eliminare ogni contrasto e lentezza.  Il senso della disciplina romana impediva che ne abusasse, come invece avveniva con la figura greca del “tiranno”. Ogni città poi aggregata allo Stato Romano, che si presentava quindi come “federale”, aveva propri Organi interni che dall’originaria funzione politico-istituzionale assunsero nei secoli funzione puramente amministrativa, tramandata addirittura all’Impero Bizantino.

Questo sistema funziona con buona regolarità almeno fino alla Seconda Guerra Punica (III secolo a. C), quando avviene l’invasione cartaginese, condotta dal formidabile Annibale, che sbaraglia eserciti su eserciti, ma teme l’assalto diretto a Roma, mentre il dittatore Quinto Fabio Massimo ne logora le forze, prima e dopo della battaglia di Canne. Altra ragione, del tutto diversa, di logoramento si ebbe, quando Annibale fece svernare le sue truppe, non certo ugualmente disciplinate delle Romane, a Capua (l’attuale S. Maria Capua Vetere).  Lì negli ozi dell’antica città etrusca, i guerrieri di Annibale, per la gran parte mercenari e non certo di leva come le forze ronane, incominciano a perdere il loro impeto. In quegli anni di guerra, il Senato comincia ad assumere un sempre maggior potere deliberativo, debordando dai suoi limiti.  I problemi non cominciano subito, ma appena alla fine del II secolo a. C. durante il tribunato di Tiberio e Gaio Gracco.  I due fratelli,  verificando le condizioni sempre peggiori della popolazione italica e della stessa Roma, mentre le conquiste portano al formidabile arricchimento dei “cavalieri” (di cui si è detto),  cercano a distanza di dieci anni uno dall’altro (133 – 123 a.C),  di far approvare dai Comizi Tributi leggi in favore della plebe.  Il Senato, ormai dominato dalle classi più ricche, inizia forme di boicottaggio, approfittando del diritto tribunizio di veto, corrompendo altri tribuni (ai tempi dei Gracchi erano 10, mentre in origine erano due soltanto), opponendo quindi veti e altre leggi (a volte subdolamente demagogiche, ma al puro scopo di bloccare i progetti dei Gracchi) a quelle presentate dai due fratelli.  Tanto Tiberio, quanto Gaio vengono uccisi nei “tumulti”, ovvero scontri violenti tra seguaci di opposti schieramenti, e si videro senatori, come poi Cicerone glorificò,  uccidere di propria mano gli avversari.  Il grande progetto di rinnovamento politico-sociale dei Gracchi, tra cui anche l’estensione della cittadinanza romana all’intera Penisola, venne soffocato nel sangue.  Fu dunque, checchè dicano i vari manuali di storia romana che troppo spesso si limitano a seguire acriticamente la tradizione, proprio il Senato ad iniziare un’opera di violenza, illegalità, sopraffazione allo scopo di salvaguardare i privilegi acquistati a spese dei Comizi Tributi, per l’emanazione di leggi o misure straordinarie.  La disfatta delle forze democratiche, popolari, segnò anche l’inizio della crisi istituzionale romana, degenerata poi nelle guerre civili.  Vi furono altri tentativi di organizzazione di una riscossa popolare (ad esempio, quella di Lucio Apuleio Saturnino nel 103 a. C. e di Marco Livio Druso nel 91 a. C), ma certo la più potente, quella meglio progettata e che suscitò terrore fra i ceti ricchi ed avvantaggiati di Roma, fu proprio la “congiura” di Catilina, come ben vedremo in realtà un vero piano rivoluzionario esteso all’Italia, alla Gallia Cisalpina (Italia settentrionale) e, perfino alla Gallia Narbonense (l’attuale Provenza in Francia, allora la prima provincia romana in Gallia).

La rottura di un equilibrio istituzionale, politico e giuridico durato da almeno tre secoli, scatena la serie di rivolte anche di schiavi (il più celebre è Spartaco, tra il 73 e il 71 a. C), l’organizzazione della ribellione degli Italici (90 – 88 a. C) e la costituzione di un loro Stato “anti-romano”, capeggiato soprattutto dai Sanniti, che, se ben si osserva, dura non solo per tutta la restante Repubblica,  ma anche per tutto l’Impero.  In queste guerre, dai semplici tumulti e rivolte più o meno pericolose, si comincia, con Mario e Silla, la prima guerra civile tra forze regolari dello Stato romano, eserciti contro eserciti, e non più dell’Esercito romano contro ribelli o nemici esterni (88 – 86 a C), che si conclude con l’instaurazione della dittatura sillana e l’apparente restaurazione del potere senatoriale.  Si hanno così, nel I secolo a. C. (che è anche l’ultimo per la Repubblica Romana), i seguenti fatti:  la rivolta di Apuleio Saturnino (103 a. C), la rivolta di Marco Livio Druso (91 a.C), la Guerra Sociale (Italici contro Romani),  la guerra tra Mario e Silla in contemporanea con le guerre ad oriente, la Guerra di Sertorio in Spagna (80 – 73 a. C), dove questo generale mariano organizza gli Ispanici alla maniera romana, ma in funzione anti-romana, combatte forse la prima grande guerriglia della storia, disfatta solo grazie al tradimento di Marco Perpenna, che lo uccide, e praticamente cede all’urto di Pompeo.  Contemporanea rivolta di Spartaco e sua repressione ad opera di Crasso e di Pompeo, non senza successi notevoli ottenuti dallo schiavo ed ex-gladiatore ribelle di Tracia.  Qui si inserisce, tra il 65 e il 62 a. C, la rivolta di Catilina.  Poi si ha la guerra tra Cesare e Pompeo (49 – 44 a.C).  La morte di Pompeo e le lotte tra cesariani e pompeiani, con l’ultimo tentativo della classe senatoria di spalleggiare gli assassini di Cesare, Bruto e Cassio (43 a. C – 30 a. C) e la loro disfatta a Filippi, ma già prima tra i due eredi di Cesare, Marco Antonio e Ottaviano vi era stato lo scontro di Modena (41 – 40 a.C). e quello di Perugia contro Lucio Antonio (fratello di Marco)  Pacificati i due provvisoriamente (di cui fu Cicerone a farne le spese, fermato dagli sgherri di Marco Antonio, nemico personale, viene decapitato e pure le mani gli vengono mozzate e appese nel Foro), riprende la guerra tra Ottaviano e Marco Antonio ormai conquistato da Cleopatra, regina d’Egitto, che si conclude con la battaglia navale di Azio, la conquista dell’Egitto, il suicidio dei due amanti ad Alessandria.  Con ciò, la serie di guerre civili sembra finita, ma è a spese della libertà politica:  Ottaviano si fa dare tutte le cariche essenziali, con un passaggio graduale e subdolo dalla Repubblica alla monarchia imperiale, passaggio che durerà vari secoli e non sarà mai comunque fissato formalmente, perché l’imperatore resta comunque elettivo, su scelta dei militari, ormai di carriera e su conferma obbligata del Senato.  Anche quando si ebbero dinastie, l’erede imperatore doveva formalmente ricevere l’investitura del Senato, addirittura fino all’ultimo con Romolo Augustolo (476 d.C):  pro forma è vero, ma si sa che nel Diritto la forma è anche sostanza.

E’ da notare che Roma, forse unico Stato al mondo, poteva permettersi di guerreggiare e vincere in contemporanea all’interno e verso l’esterno, limitando la pressione esercitata dall’Impero Partico ad est e dai  Galli prima e Germani poi in Europa.  Questo lo si deve proprio grazie, non solo all’abilità dei suoi comandanti (che non mancava neppure negli avversari), non solo alla potenza militare (anch’essa per nulla assente nei più notevoli nemici), alla tenacia, resistenza ed addestramento formidabile dei suoi legionari, ma alla formidabile organizzazione [2], finché durò, alla disciplina civile e militare, anch’essa finché riuscì a durare:  e questo per circa cinque secoli.

Gli storici considerano inevitabile questo passaggio tra la Repubblica e la monarchia. Ovviamente, le cose avvenute non si possono togliere, ma si erra quando si crede questo passaggio come inevitabile (allora) e magari positivo. Infatti, l’Impero non portò una pace interna stabile (già con Tiberio si hanno di nuovo rivolte interne contro il suo ministro Seiano, fatto a pezzi dal popolo).  La storia si regge con la regola che possiamo denominare del “bivio”:  una volta scelta un’alternativa, appare chiara l’inevitabilità di un certo processo.  Scelta la strada della forza contro i gruppi popolari e democratici, il Senato romano, indebolendoli drasticamente, indebolì pure se stesso perdendo ogni possibile appoggio popolare, favorì con ciò stesso l’affermarsi del militarismo, grazie anche alla riforma militare, organizzata proprio da Mario che “professionalizzò” l’Esercito e soprattutto rese quasi permanenti i gradi di comando. Una volta che si stabiliva, a differenza del passaro, un rapporto di drastica e personale subordinazione tra comandante e i suoi soldati, quando questi diventanto “dipendenti” economicamente dal primo, è inevitabile e facile la degenerazione.  Scoppia anche la faziosità e la contrapposizione tra comandanti, tra consoli, tra poteri dello Stato.  I problemi non si risolvono  più col voto cittadino, se non  formalmente, ma con l’acclamazione delle truppe da un lato, l’uso della forza da tutti i lati.  E così si andò avanti per secoli. Il Senato, pur durato ancora per secoli, non poteva che sancire le decisioni di un comandante più forte degli altri. L’Impero quindi non va inteso come una riappacificazione interna, se non per singoli imperatori e in determinati periodi variamente lunghi, ma come una soluzione peggiore del male, perché l’assenza di libertà e di pluralità politica è di per sé un male gravissimo, anche quando apparentemente risolve certi problemi.

LE   FONTI   E   LA LORO PARZIALITA’

Sulla “congiura di Catilina”, che meglio sarebbe definire come un grande tentativo insurrezionale, le fonti sono estremamente parziali, sia sotto l’aspetto della quantità, relativamente all’importanza che, malgrado tutto, le fonti stesse le diedero, sia sotto l’aspetto della qualità, in quanto rappresentano l’organizzazione catilinaria come un’accolita di nobili decaduti, viziosi e insolventi, pur riscattandone la fine gloriosa sul campo di battaglia.  Alla base di tutto le quattro Orazioni Catilinarie [3] dell’allora console Marco Tullio Cicerone, pronunciate  in Senato e davanti al popolo nel vivo delle vicende, dove si mostrano, con abilità tanto retorica quanto denigratoria e diffamatoria, l’avversario e i suoi seguaci.  Ma Cicerone è fonte anche più importante su un piano storico in orazioni successive in cui Catilina viene nominato nelle più varie occasioni:  importanti  la “Pro Murena” , pronunciata durante la campagna elettorale del 63 a. C. in favore di Lucio Murena quale console, ove attacca Catilina e gli attribuisce una frase, poi riportata da Plutarco,  in cui Roma verrebbe paragonata a due esseri, uno con corpo forte e testa gracile (la plebe “proletaria”, l’altro con testa grossa e corpo fragile, ovvero il gruppo socialmente ricco e dominante (Catilina, quindi si saene proposto di diventare il capo delle classi povere), e la citata “Pro Marco Celio”,  dove  Catilina, invece che come mostro, viene rappresentato come una figura con molte qualità positive, seppure male adoperate, che sapeva attrarre i giovani, nel caso specifico questo Marco Celio, accusato di varie cosette, la “Pro Milone”, dove attribuisce al personaggio, ucciso dal suo patrocinato, diessere stato un sostenitore di Catilina, che gli avrebbe fornito una spada;  il dialogo filosofico “De Divinatione”, in cui mentre il fratello Quinto gli ricorda di aver sempre sostenuto l’intervento degli dèi in alcuni fenomeni straordinari (cosiddetta “divinazione”, ovvero rivelazione divina) contro i preparativi di Catilina,  è lo stesso Cicerone ad ammettere che egli usò queste pretese “divinazioni” come trucco per spingere il Senato e, soprattutto, la credula popolazione ad opporsi a Catilina.  Ma il colpo di grazia dato alla figura satanica del grande ribelle è costituito proprio dalle “Filippiche” contro Antonio.   Marco Antonio, cesariano, uomo più robusto che intelligente, dedito agli stravizi (è sempre Cicerone che usa la mano pesante nelle descrizioni), pur essendo figlio o parente stretto di qul Gaio Antonio che aveva combattuto contro Catilina, dopo essergli stato collega nella candidatura al consolato nel 63 a. C., lasciando però le operazioni effettive al suo luogotenente Petreio,  si vantava di essere seguace ed ammiratore dello stesso Catilina.  Non solo, ma, come era stato Clodio, si vantava di esserne il vendicatore.  Proprio per questo Cicerone gli oppone una descrizione ben diversa dell’antico rivale, tra l’altro lodandolo per aver saputo costruire da zero un esercito, e non di aver approfittato di forze regolari per assumere il potere.  La stessa cosa non  avrebbe potuto dire di Mario, di Silla, di Cinna, di Cesare, di Pompeo, di Bruto e Cassio, o dello stesso Ottaviano, poi definito “Augusto” e considerato il primo vero imperatore, dopo l’esperimento di Cesare.  Non si poteva dire di Catilina, come di Spartaco, in quanto questi  costituirono eserciti piccoli, ma agguerriti, di propria iniziativa, in sostanza vere forze rivoluzionarie.  Questa è la differenza che caratterizza, sul piano militare, Spartaco e Catilina, o prima ancora Sertorio, rispetto a tutti gli altri.

Dopo Cicerone la fonte più vicina è Gaio Crispo Sallustio e il suo libro “De Catilinae Coniuratione”, detto anche “Bellum Catilinae”.  Sallustio riprende ricordi personali, documenti oggi del tutto scomparsi (come il discorso di Cesare in difesa dei catilinari rimasti a Roma, quale Lentulo ed altri, illegalmente fatti strangolare da Cicerone, Catone il giovane, detto Uticense,  perché suicida ad Utica, il discorso dello stesso Catilina in risposta a Cicerone, ma stroncato dal fracasso dei senatori contro di lui, nonché presumibilmente varie altre orazioni di quell’adunanza e di altre successive.  E’  probabile che di qualche battaglia politica fosse stato più che semplice spettatore.  Il problema di Sallustio è questo:  egli vuole liberare da ogni responsabilità di amicizia con Catilina sia Cesare, sia Crasso, futuri triumviri [4] .   Sallustio, dunque, riprende la descrizione che lo stesso Cicerone dà nel  Discorso a favore di Marco Celio, di un Catilina con grandi qualità, ma anche di animo subdolo e feroce, nonché dissipatore, come ho riportato nella parte iniziale, rivalutandone le capacità militari alla fine dell’opera.  Insomma una politica narrativa di “pesi e contrappesi”, troppo artificiosa per essere realistica.

Una breve, ma del tutto negativa immagine di Catilina si ha perfino nell’”Eneide”, quando viene descritto Enea che scende agli Inferi,  e vede Catilina tra le anime che devono essere scelte per la reincarnazione, tremante sotto l’ira delle furie [5]. 

Le altre sono tutte fonti successive, le quali però non sono prive di interesse, perché potevano avere a disposizione documenti per noi perduti.  Ad esempio, non priva di di interesse sarebbe stata per noi la prima storia delle guerre civili, scritta da Asinio Pollione, letterato e studioso, di posizione cesariama e poi antoniana.  Proprio per questo potrebbe essere interessante in quanto presenterebbe le vicende di Catilina sotto una luce diversa, più favorevole, sennonché forse proprio per la sua posizione a favore di Marco Antonio, l’opera scomparve, ma servì da materiale a quella di Appiano, sempre sulle guerre civili;  Ripetitiva di versioni precedenti, ma anche con le stesse conclusioni contraddittorie la “Storia Romana” di Cassio Dione (libroXXXVII).  Non meno importanti le “Vite Parallele”  di Plutarco, soprattutto quelle concernenti Crasso, Cesare, Pompeo ed, ovviamente, Cicerone, dove l’azione  di Catilina viene considerata estesa a tutta l’Italia, quasi un tentativo di far riscoppiare le guerre italiche d’inizio secolo, per cui venne vista come estremamente pericolosa dal Senato e da Cicerone, in quanto console.   E’ infine interessante notare che Gaio Svetonio Tranquillo nelle sue “Vite dei Dodici Cesari”, ed in particolare nella parte dedicata a Ottaviano Augusto, sostiene che il padre Ottavio combattè e represse nel 60 a. C, ovvero due anni dopo la morte di Catilina bande ribelli di spartachiani e catilinari, associati (probabilmente si trattava di sopravvissuti, riorganizzatisi o anche, forse quei componenti dell’esercito catilinario a Fiesole, che lo stesso Catilina allontana prima della battaglia, in quanto infidi o male armati o non addestrati).  Il punto significativo è quest’associazione, non voluta tra Catilina ma dal suo amico Lentulo, tra schiavi e ribelli romani, realizzatasi dopo la morte [6].  Potrebbe tuttavia anche darsi che si trattasse di persone che si spacciavano per seguaci dei due grandi ribelli, e magari semplici criminali.

Infine va rilevato che, invece, sono andati perduti i lbri dell’opera storica di Tito Livio che tratterebbero di questo periodo, ridotti in riassunti scarsamente significativi.

Relativamente alla storiografia più recente, va ricordato che gli stessi rivoluzionari (fin dalla Rivoluzione Francese per tutto l’Ottocento, con l’eccezione  di Carlo Pisacane) videro nella ribellione di Catilina, a differenza di quelle dei Gracchi e di Spartaco, semplicemente l’azione di un nobile demagogo, che voleva recuperare privilegi perduti, seguendo la tradizione storica negativa.  Pure Marx ed Engels, per quanto sostenitori della lotta di classe, non videro in Catilina un rivoluzionario vero e proprio, e ne accettarono l’immagine negativa.

Nel secolo XX, invece vi furono molti seri tentativi di rivalutare la figura di Catilina, da parte dello storico inglese W. Allen “In defence of Catilina”, puntando soprattutto sul boicottaggio ed i brogli contro di lui, riconosciuti dalle stesse fonti antiche;  dai nostri Eugenio Manni, Concetto Marchesi, ecc.  citati nella bibliografia in calce al presente lavoro.  Se non erro, ma non ho l’opera sottomano,  Marchesi tradusse o scrisse un commento nel saggio “Il came di terracotta” sulla riabilitazione di Catilina da parte dell’Allen.

Catilina fu anche soggetto di svariati drammi, tra cui quello celebre di Ibsen.  Che io sappia, non venne nai ricordato in qualche film storico, pur avendo la sua storia molti spunti del giallo spionistico e di natura politica ed aspetti romantici (i suoi amori a cui alludono Cicerone e Sallustio).  Non essendoci rimasto di lui nulla, se non frammenti di dubbia autenticità riportati  da Sallustio, né versioni meno ostili nei suoi confronti, è praticamente quasi impossibile ricostruire in positivo (nel senso fotografico del termine) la sua figura, ma solo in negativo (sempre fotograficamente inteso), ovvero sottolineare le colossali contraddizioni delle fonti antiche, e quindi formulare ipotesi su quello che fu il suo reale programma politico-sociale.  Il resto, viceversa, potrebbe essere argomento di qualche romanzo storico, oggi forse non di moda nel senso almeno che ebbe nell’Ottocento.

LOTTA POLITICA E MILITARE DI CATILINA

Lucio Sergio Catilina nacque a Roma nel 108 a. C, due anni dopo in una piccola città (Arpino, presso l’attuale Frosinone) nacque il suo grande rivale Cicerone.  Erano dunque quasi coetanei, ma mentre il grande filosofo ed oratore era di modeste origini, il rivoluzionario romano nasceva da famiglia dell’antico patriziato etrusco quasi del tutto impoverito, sebbene molto fiero delle proprie origini, come si vedrà nella risposta che diede a Cicerone in Senato, quando lo accusò di essere un semplice “inquilinus urbis Romae”, ovvero una sorta di locatario, affittuario nella città: il patriziato immigrato con i Tarquini nel VII – VI secolo a C..  Tutto e tre i componenti il suo nome Lucio (praenomen) Sergio (nomen) Catilina (cognomen) erano di netta origine etrusca, benché latinizzati [7].  Questo è un dato perlopiù trascurato ma interessante, perché è un  indizio della sopravvivenza di gruppi ancora legati alla civiltà o tradizione etrusca nella Roma del I secolo a.C..  I due principali protagonisti della rivolta, Gaio Manlio Vulsone, al quale si deve la formazione dell’esercito rivoluzionario presso Fiesole, e lo stesso Catilina hanno nomi etruschi ed appartengono a gentes etrusche.  Il terzo comandante dell’esercito  catilinario a Pistoia è “quendam Faesulanus”,  ovvero un tale di Fiesole, ovvero un Etrusco (qualcuno sostiene trattarsi, viceversa, di un semplice colono sillano stanziatosi a Fiesole:  ma questo è dubbio, in quanto Sallustio lo avrebbe probabilmente specificato:  altro era essere fiesolani, altro coloni romani a Fiesole),  Ora, senza anticipare quanto si dirà a tempo debito, osservo che gli storici, seguendo sempre la tradizione, riducono a due i grandi partiti politici e sociali a Roma, l’uno il conservatore, rappresentato soprattutto nel Senato (tuttavia costituito con tutti coloro che avevo ricevuto cariche pubbliche, e solo a quel titolo vi partecipavano:  a quel tempo il numero dei senatori si aggirava sui 900), l’altro, il popolare, rappresentato soprattutto nei Comizi Tributi.  E’  una visione un tantino imprecisa, perché ambedue questi orientamenti presentavano suddivisioni all’interno. Poi si commette un errore grossolano quando si sostiene che il partito popolare era rappresentato da forze militari o militariste, quali i Mariani, i Cesariani, più tardi gli Antoniani e gli Augustei.  Si confondono i loro programmi demagogici, ai fini di raccattare (già allora…) voti dal popolo, promettendo molto, offrendo i “ludi circenses” (come Cesare, Antonio e soprattutto Ottaviano), al fine di rimbecillire la popolazione e distorglierla, anche con le frumentationes (donazioni periodiche e gratuite o a bassissimo prezzo di grano ai meno abbienti), dall’occuparsi della vita politica, una strategia tuttora esistente, ma senza – ahinoi -  le frumentationes o misure alternative, anzi con tagli drastici di quanto spettante (per fare un parallelo, come se oggi ci offrissero litri di banzina sottocosto o telefonini in regalo).  La situazione romana fu, almeno dal II a. C., molto più complessa di quanto è ricordato dai vari Autori:  tra le stesse forze popolari vi furono contrasti ed orientamenti diversi, come dimostrano misure diverse presentate dai tribuni della plebe;  così il partito senatorio, specialmente nel I secolo a.C., si presentava tutt’altro che compatto di fronte a Mario e Silla, Cesare e Pompeo, Bruto e Cassio contro Ottaviano e Antonio, e così di seguito.  Si trattava spesso di gruppi e di movimenti, o organizzati in modo assai variabile ed elastico, sulla base di programmi elettorali occasionali e su personalismi, o sulla base di una gerarchia militare.  In Roma antica, partiti nel senso moderno non sussistono, malgrado lo spirito organizzativo di cui si è detto, applicato allo Stato ma non alle parti politiche.  Questo spiega anche l’estrema incendiabilità dei contrasti fra tali gruppi, per nulla disciplinati da menti politiche.

Appare dunque lecito supporre che il partito costituito da Catilina, assumendo carattere rivoluzionario, “estremista”, mirasse da un lato a ridare i beni agli Etruschi che Silla aveva fatto confiscare o distruggere in  quanto alleati di Mario; dall’altro a sostenere l’esigenza di limitare i poteri del Senato che, ormai da due secoli, aveva abusato del proprio ruolo di sola consulenza alle alte cariche dello Stato (consoli, pretori, tribuni)  [8].  Fu proprio questo sforzo, esercitato da Catilina per un ripristino dei poteri comiziali, ovvero di una sostanziale democrazia, anche a carattere sociale, cancellando le tavole (registrazioni) dei debiti e le pesantissime misure ad esse collegate per i più poveri con rischio di venir ridotti alla schiavitù, a terrorizzare il Senato e, quindi, prima a boicottarne l’attività politica, poi addirittra da spingerlo sulla strada della vera e propria ribellione armata.   La pomposa retorica contro di lui, non solo in Cicerone, ma anche in Sallustio e storici successivi, mirante a rappresentarlo come un mostro devastatore e sterminatore, che vuole incendiare tutto l’Impero, e al contempo di farlo vedere come un vizioso, corrotto, a capo di viziosi e di corrotti, va letta nella dimensione, non solo innovatrice, ma specificamente rivoluzionaria del tentativo catilinario.

Potevano Catilina e parte dei suoi uomini essere considerati sillani, ovvero seguaci di Lucio Cornelio Silla, già nemico di Gaio Mario e sostenitore dei nobili, dei ricchi e del Senato?  Stando alla tradizione derivata da Cicerone e da Sallustio, in effetti Catilina sarebbe stato seguace di questa corrente soprattutto data la sua origine interamente patrizia.  Né vi sarebbe stato nulla di strano questo balzo politico, visto che Cicerone era pur passato dall’essere simpatizzante di Gaio Mario) in quanto come lui “homo novus”, ossia non nato a Roma e di modesta origine,  per poi spostarsi sulle posizioni conservatrici e senatoriali.  Catilina avrebbe fatto un percorso inverso.  Ma se osserviamo le dichiarazioni messegli  in bocca da Sallustio, non viene mai esaltato Silla o il tentativo di restaurazione dei poteri tradizionali o pseudotali, da questo fatta. Catilina invece critica fortemente il potere oligarchico, dei senatori e dei cavalieri, i quali si arricchivano alle spalle dei popoli soggetti a Roma e, ovviamente, degli stessi cittadini romani indebitati.  Viene accusato, come  ho riportato nella Premessa, di aver ucciso di sua mano il console Gratidiano e di averne consegnato la testa a Silla stesso, dimenticando che, probabilmente, Catilina allora militava nell’Esercito regolare, e vi compiva l’addestramento, per cui  - anche se il fatto fosse vero (come lo rimproverò Cicerone), si trattava di un atto di guerra.  I mariani non erano certo da meno nelle loro proscrizioni degli avversari, quando Silla si allontanò dopo una prima restaurazione del potere, per andare a combattere in Oriente contro Mitridate re del Ponto (uno Stato sorto, sulla costa del Mar Nero, dalla disgregazione dei grandi Regni ellenistici).   Essendo allora in  guerra civile, e non esistendo convenzioni tipo quella di Ginevra, al di là di pochi princìpi di Diritto naturale individuati dalla filosofia ellenica del Diritto, ci si ammazzava senza troppi scrupoli. Per cui, l’allora giovane Catilina sottoposto ad un comando militare, lo avrebbe eseguito.  Si aggiunge il fatto della testa:  qui bisogna specificare che quello che sembra un atto di barbarie, in realtà aveva un motivo specifico:  sappiamo ad esempio che Scipione l’Africano, vincendo Asdrubale, arrivato con rinforzi per Annibale, gli fece tagliare la testa e gettarla nell’accampamento cartaginese (II Guerra Punica), per far sapere con certezza di riconoscibilità materiale ad Annibale che suo fratello era sconfitto ed ucciso.  Così successe allo stesso Catilina dopo morto, e ugualmente a Cicerone.  Pure Pompeo fu ucciso e gli fu tagliata la testa, consegnata a Cesare per dimostrargli la morte del rivale, ma Cesare se ne sdegnò e fece uccidere il faraone Tolomeo.  Lo scopo, per quanto crudele possa sembrare oggi, era quello di dimostratre nei fatti (allora non esistevano fotografie e i ritratti potevano essere di invenzione),  che un tale nemico era stato ucciso.

Dunque poteva darsi che, in gioventù, Catilina avesse militato nell’Esercito regolare di Silla, ma è certo che nei due discorsi riportati da Sallustio non se ne fa cenno.  Invece si nota largamente il suo sostegno alle popolazioni impoverite dalle guerre civili e, quando si pone alla testa del suo piccolo Esercito, mostra l’aquila argentea di Mario.  Perché  ?  Le fonti (la cosa era già ricordata da Cicerone nella “Prima Catilinaria”, scritta  - come tutti  suoi discorsi  - a posteriori, e forse quindi non già conosciuta al momento di pronunciarli realmente: una cosa era la pronuncia del discorso basato su appunti anche di tipo stenografico, ma improvvisato, altra la stesura finale, quella che ci è rimasta) non lo specificano.  Potrebbe trattarsi di preda di guerra, o forse un simbolo per indicare un’adesione ideale. Taluni storici, tra cui Eugenio Manni, tendono a sottolineare che ex-mariani ed ex-sillani si fossero associati, perché ugualmente insoddisfatti della restaurazione del potere senatoriale, ma sembrerebbe logico che, in analoghe condizioni, nel 1947 – 1950, ad esempio, fascisti e comunisti si alleassero per combattere il governo democristiano e dell’allora centro parlamentare, in quanto forze di opposizione?  Per quanto, mariani e sillani no  avessero ideologie rigide come noi nel dopoguerra,  è tuttavia difficile immaginare che si riunissero a pochi anni di distanza dalla prima guerra civile.  Probabilmente si tratta di una preda di guerra che, in quanto segno consolare, Catilina pretendeva di assumere per i suoi diritti boicottati dal Senato al consolato.   Del resto, se non parla di Silla, non accenna neppure a Mario nei suoi discorsi, come si vedrà, egli sottolinea viceversa, alla maniera dei Gracchi, i suoi intenti politici e di natura sociale a favore delle classi più povere e delle persone immiserite da guerre, proscrizioni e confische.

Ancora: si  è visto che Sallustio, per non dire di Cicerone, attribuisce a Catilina i vizi peggiori ed una serie di processi che egli avrebbe superato pagando i giudici.  Già, ma con quale denaro, se dicono che fosse indebitato?  Eppure, è lo stesso Cicerone a dire nell’orazione “Pro Caelio” che l’uomo era tanto abile nelle sue simulazioni di onestà che ne era stato attratto.  Celio, tra le varie accuse, era stato considerato come amico di Catilina. Qui è lo stesso Cicerone che scrive [9] : “…  Infatti Catilina ebbe – come ritengo voi ricordiate – moltisimi indizi non chiari, ma tuttavia latenti di grandissime virtù.  Aveva dimestichezza con molti uomini malvagi, ma simulava di essere ossequiente agli uomini migliori.  Vi eranoi n lui molti allettamenti della dissolutezza;  vi erano anche alcuni incitamenti all’attività e alla fatica.  Vizi sfrenati ardevano in lui;  era forte anche la passione dell’arte militare…  Egli per poco ingannò una volta me stesso, me, dico, poiché mi sembrava e buon cittadino e desideroso di amicizia verso tutti i migliori, e sicuro e fedele amico…”.

 E’  interessante qui rilevare la stessa descrizione per contrapposizioni che poi Sallustio riprenderà.  L’avvocato Cicerone, quando gli serve, irride un avversario o esalta un suo patrocinato e così, a questo scopo, arriva anche ad esaltare un antico nemico personale.  Quando si arriva alle “Filippiche”, arriva ad elogiare le doti personali di Catilina in contrapposizione a quelle  di Marco Antonio che se ne vantava seguace : “Quanto poi al fatto che si vanta di assomigliare a Catilina, gli è sì uguale in scelleratezza, ma gli è inferiore in attività ed energia. Quello, pur non avendo a disposizione un esercito, di punto in bianco se lo formò;  costui ha invece perduto quell’esercito che aveva ricevuto…” [10].

Stante dunque la testimonianza dello stesso Cicerone, in un  momento finale della sua vita, quando non aveva più necessità di aggravare con espressioni retoriche quelli che, secondo lui, erano gli aspetti più pericolosi di Catilina, quest’ultimo doveva essere persona ben più positiva e, se vogliamo “moderna”, di quanto rimane nella tradizione successiva della letteratura romana, ma anche della manualistica contemporanea.  Ma, in sostanza, che cosa del programma di Catilina poteva colpire i Romani, tanto da escluderlo completamente, da considerarlo nemico del Popolo Romano, dal cancellarne ogni raffigurazione ed eventualmente anche opere scritte, di cui non rimane neppure un cenno ?  Non certo il suo programma pubblico o elettorale, non dissimile da quello in voga tra i tribuni della plebe, come la cancellazione dei debiti, ma forse alcune questioni che un conservatore romano, un senatore, non potevano sopportare:  una era la partecipazione femminile all’attività politica, l’altra la questione della schiavitù.  Si è ricordato che Catilina era di origine etrusca ed è noto che, fra gli Etruschi, la donna era considerata in modo paritario all’uomo nella vita familiare e sociale.  Ciò è dimostrato soprattutto, oltre che dalle narrazioni, sia greche sia romane, nei sarcofaghi dove le ossa dei coniugi sono conservate insieme e dove vengono raffigurati vicini sul lettino della sala da pranzo [11]; ciò suscitava un terribile scandalo soprattutto tra i Greci, alquanto misogini, mentre i coniugi etruschi si coprivano con uno stesso lenzuolo o mantello, addirittura nudi.  Al di là di questi particolari, per dirli modernamente alquanto “gossip”,  è  noto che le donne etrusche avevano una vita pubblica di non lieve importanza, come dimostra la storia di Tanaquilla (Tanaquil in etrusco), per l’affermazione come re di Servio Tullio  -  in etrusco Mastarna.  Ora è pure assodato dalla testimonianza di Sallustio, ma anche di Cicerone, che alla “congiura” avesse partecipato Sempronia, parente dei Gracchi, donna di cui Sallustio, come fa per Catilina, esalta le doti di bellezza, di intelligenza e di cultura, ma di comportamento ed animo virile, e molto attiva, si presume tra le donne affinché agissero  - come avviene  - sui mariti a sostegno dell’elezione di Catilina.  Forse alla congiura, nello stesso modo, agì la moglie di Catilina Aurelia Orestilla, che, come si è visto, Sallustio qualifica molto bella ma poco onesta.  E’  chiaro che, per la società repubblicana romana, la donna  doveva essere in condizioni di totale subordinazione prima al padre, poi al marito. Potrebbe dunque essere lecito pensare che, viceversa, Catilina per la sua antica tradizione familiare considerasse importante il ruolo pubblico della donna e paritario nell’ambito della famiglia.  Quando è costretto all’esilio, Sallustio segnala che avesse affidato  la protezione della moglie alla cura di Quinto Catulo, senatore del gruppo avversario [12], ma che egli considerava onesto e leale.  Se si sforza di lasciarla in mani sicure (ma di quanto avvenne della moglie dopo la sua morte, non ne sappiamo assolutamente) per proteggerla da vendette, voleva dire che il loro rapporto era ottimo, solidale e senza incrinature.  Catilina dichiara, non come un’eventuale vergogna, ma quasi come un vanto che moglie e figlia di primo letto della moglie, lo avessero aiutato con la loro personale ricchezza a saldare un debito per conto altrui (ovvero, doveva esserne stato garante).  Della moglie, diffamata da Sallustio come donna più bella che onesta, sorvoliamo, ma se fosse stato vero che i due avessero un tempo tramato per l’uccisione del figlio maschio della donna, che ostacolava, tali nozze, ci si spiega come mai la sorella avrebbe comunque aiutato Catilina ?  Qualcuno potrebbe sostenere che avesse ignorato che le avesse ucciso il fratello, ma su quali basi puramente ipotetiche e diffamatorie si potrebbe sostenere questo ?  Come per altre accuse contro di lui, non risulta che avesse mai avuto condanne e il suo cursus honorum (carriera politica ed amministrativa), fino al consolato non ebbe ostacoli.  Come tutti i Romani dedito alla vita pubblica, fu questore, edile, pretore (e pretore voleva anche dire essere uomo di legge e giudice, non va dimenticato), senza ostacoli, i quali cominciano quando Catilina, dopo essere stato propretore [13] in Africa (allora l’ex-territorio della distrutta Cartagine), presentandosi quale candidato al consolato comincia ad avere i primi problemi, con l’accusa di peculato, malversazioni, maltrattamento delle popolazioni locali (un’accusa quasi sempre usata contro i candidati), e l’accusa di aver violato una vestale che, come le suore cattoliche, devono rimanere assolutamente caste, se non vergini fin dalla loro accettazione.   Ebbene, chi lo vuol difendere, senza che poi ce ne fosse bisogno ?  Niente po’ po’ di meno che lo stesso Cicerone, come è dimostrato in una lettera al suo amico carissimo Attico, nel luglio del 65 a. C., esattamente due anni prima la presunta congiura di Catilina: “In questi giorni sto pensando di assumere la difesa di Catilina, mio competitore  [nel senso anche attuale di rivale nelle elezioni, solo che oggi lo usiamo imitando gli Anglosassoni, i quali però usano appunto un termine latino]. Abbiamo i giudici di nostro gradimento e di massimo gradimento dell’accusatore [e, malgrado ciò, si accusò Catilina di essere stato  assolto perché aveva corrotto i giudici !!].  Se verrà assolto, spero che nella campagna elettorale mi sarà di un certo appoggio…” [14].

Come stiamo verificando la storia sulla congiura di Catilina, è assai più complessa di quanto appaia nella tradizione manualistica dell’”uomo malvagio e perverso, sebbene di nobile origine”.   Come avrebbe riconosciuto nell’orazione in favore di Marco Celio, Cicerone dunque, ancora due anni prima della “congiura” e durante la pretesa prima “congiura” di Catilina, pur avversario politico, si sarebbe offerto di essergli avvocato, ma pare che di questa difesa Catilina non avesse avuto bisogno: ovviamente per aver “corrotto” i giudici,  sulla cui serietà in generale è testimone lo stesso  Cicerone (sempre lui !!!) [15].  Uno dei motivi della successiva ostilità di Cicerone per Catilina va probabilmente fatto risalire, sul piano personale, di aver ottenuto l’assoluzione senza bisogno del suo formidabile aiuto forense.  Ma concludiamo il discorso sul “femminismo” di Catilina:   è, peraltro, interessante, che nel suo discorso programmatico egli, contrapponendo secondo la classica tradizione tribunizia le condizioni di vita tra ricchi e poveri, egli dica “dei mortali” in generale, invece che, come in altri punti “viri” (ovvero, uomini maschi), probabilmente perché ascoltato anche da donne, che, come Sempronia, avevano “coraggio ed ingegno virile”.  In sostanza, egli sostiene che nessun essere umano può sopportare queste brutali differenze economiche.  La presenza femminile nel movimento doveva essere apprezzata anche dai suoi seguaci tanto è vero che proprio l’amore di una donna per il suo uomo e il tentativo di salvargli la testa (lo vedremo nell’esposizione sallustiana), fece scoprire prematuramente i tentativi catilinari di rivolta, che tanto terrorizzarono i conservatori ed i senatori romani  [16].

Altro aspetto temibile per i tempi, soprattutto dopo la rivolta di Spartaco ed altre numerose, era la questione dello schiavismo in Roma.   Possiamo considerare Catilina un  antischiavista e con quali limiti ?  Il punto da cui partire è, tuttavia, la concezione che nell’antichità classica, si aveva della schiavitù come condizione sociale ed economica:  Platone ed Aristotele, più che giusta in sé (ma non sembrano porsi il problema), la considerano una condizione inevitabile.  Sarà lo stoicismo a concepire in modo egualitario la natura umana, e quindi la sostanziale iniquità della schiavitù.  Ma dall’impostazione teorica al tentativo pratico ci voleva molta strada, finché il filosofo Blossio di Cuma (II secolo a. C.), per primo, a quanto si può sapere, formulò l’esigenza dell’eliminazione della schiavitù. Il suo pensiero fu ripreso da un erede al trono di Pergamo (Anatolia occidentale, attuale Turchia, nei pressi dell’antica Troia e dell’Ellesponto), Aristonico, il quale tentò non solo una prima insurrezione organizzata e pericolosa di schiavi, ma di creare un vero Stato “utopico” Heliopolis, la Città del Sole, un modello a cui più tardi si ispirarono vari utopisti e il nostro Tommaso Campanella, che scrisse un’opera su questo argomento.  La rivolta di Aristonico fu soffocata e il suo “ideologo” Blossio di Cuma dovette fuggire.  Tanto la teoria di Blossio, quanto l’esperimento di Aristonico, furono seguiti con interesse dai due fratelli Gracchi, e divennero tema di discussione pure a Roma.  Tracce dirette ed esplicite non ne abbiamo, perché la liberazione degli schiavi e l’eliminazione della schiavitù potevano allora sembrare assolutamente irrealizzabili, ma ne rimane traccia nel Diritto Romano e nel Codice di Giustiniano quando si fa distinzione tra Diritto naturale, per cui si proclama l’innata uguaglianza tra gli uomini e il Diritto positivo che, viceversa, impone differenze sociali e, pertanto, la legalità della schiavitù.

Ora  queste discussioni furono rese attuali dalle rivolte di schiavi e particolarmente da quella di Spartaco [17].  La schiavitù è una condizione sociale ed economica, per cui un uomo, la sua famiglia, vengono considerati oggetti di proprietà, che si possono vendere o comprare, o anche uccidere.  Del mondo occidentale, gli ultimi a rinunciarvi furono gli USA nel 1865, alla fine della Guerra di Secessione, il Brasile nel 1878.  In antico si poteva diventare schiavo per tre ragioni:  essere prigioniero di guerra, e non nelle condizioni  economiche per riscattarsene;  essere debitore insolvente (secondo le XII Tavole, addirittura il debitore insolvente, con più creditori, poteva essere fatto a pezzi e spartito tra questi), ovviamente essere figlio o moglie di schiavo.  Lo schiavo poteva anche essere emancipato ed allora passava nella categoria dei liberti.   Possiamo chiederci:  i catilinari erano anti-schiavisti e per quale tipo di schiavitù lo erano ?  Tra le fonti antiche, solo Sallustio affronta indirettamente la questione, e non in modo molto esplicito. Sicuramente la liberazione degli schiavi, sia prigionieri di guerra, sia debitori insolventi, non rientrava nei programmi di Catilina, se non nella forma tribunizia della cancellazione dei debiti e il rifacimento dei registri.  Poiché, a seguito della guerra civile tra Mario e Silla, molti erano gli sconfitti, molti i confiscati, molta la povertà crescente e, quindi, l’insolvenza dei debitori, ecco che la questione della cancellazione dei debiti diventava pressante, soprattutto per le forze più autenticamente popolari.  Sicuramente questo rientra nei programmi pubblici di Catilina.  Ma la vera e propria abolizione della schiavitù per debiti non rientra viceversa nel programma pubblico.  Doveva tuttavia esser tema di discussione interna.  La rivolta di Spartaco o quella, ben precedente, di Euno in Sicilia, con la loro violenza vendicatrice, non consigliavano (è presumibile) Catilina a volere l’abolizione della schiavitù per tutti, almeno non nelle condizioni del tempo. Sebbene, come scrisse Sallustio, egli mirasse a “cose troppo alte”, è difficile immaginare che arrivasse a sostenere una liberazione universale.  E’, viceversa, più probabile che egli mirasse all’abolizione della schiavitù per debiti o per sola parentela, il che già doveva suscitare ire e scandalo (con conseguenti diffamazioni, calunnie, ecc., rimaste poi nella storiografia successiva).  Tuttavia non si spinge troppo oltre:  doveva rimanere una dottrina segreta, forse da realizzare dopo un’eventuale vittoria politica.  Ma da che cosa deduciamo tutto questo? Quando Catilina esce da Roma, tallonato da agenti “con licenza di ucciderlo”, inviati dal buon legalitario Cicerone,  Publio  Cornelio Lentulo, rimasto a Roma, gli manda una missiva (che fu intercettata) dallo stile fortemente lapidario, quasi un telegramma (qualcuno oggi lo qualificherebbe un “pizzino”), dove esattamente si dice : “Chi io sia, lo saprai da quello che ti mando.  Fa di valutare in quale cimento ti sei messo, ricordati d’essere uomo. Considera che cosa richieda la situazione. Fa appello a chiunque, anche i più umili” [18].  I  più umili della società sono gli schiavi, ma a questa lettera, per capirne meglio il contenuto, va associata quella che Gaio Manlio Vulsone, ormai raccolte le forze ribelli prima dell’arrivo di Catilina, scrive a Marcio Re : “ Chiamiamo a tesimoni gli dèi e gli uomini, imperator [nel senso originario e autentico di “comandante vittorioso”, proclamato tale dai soldati e dal Senato, per cui poteva celebrare il trionfo], che non abbiamo preso le armi contro la patria né vogliamo fare male ad alcuno, ma per difenderci dalle ingiustizie:  siamo sventurati, stretti dal bisogno. Gli usurai esosi, inesorabili, hanno tolto a molti di noi la patria, a tutti l’onore e le sostanze. A nessuno è stato concesso di fruire della legge   [19] in base alla quale… chi aveva perduto il patrimonio restava libero:  tanta fu la crudeltà degli usurai e del pretore…  noi non vogliamo il governo dello stato né le ricchezze, che sempre suscitano guerra… Vogliamo la libertà:  la libertà che un vero uomo non perde che con la vita…  non ci costringete a cercare in che modo morire, facendo la più tremenda vendetta del nostro sangue…” [20].

Il tono di Gaio Manlio sembra umile, inizialmente, perché scrive a nome degli “infimi”, ma alla fine esprime la minaccia.  Siamo pronti a morire, lasciando, come dirà anche Catilina,  un’ampia vendetta del proprio sangue, ovvero cadranno anche molti nemici, non  si morirà come pecore.

Dunque  “infimi” vanno intesi sia coloro che rischiano carcere e schiavitù, sia i già schiavi per debiti che, come dice Sallustio, affluiscono numerosi al campo, per ripetere, insieme ai ribelli romani, l’impresa di Spartaco.   E’  pure noto però, che, sempre da Sallustio, Cicerone utilizzasse proprio molti schiavi, con promessa di liberazione, quali informatori, spie e sabotatori dell’azione di Catilina.  Si presume anche per questo motivo che, prima della battaglia finale, Catilina allontani soprattutto questi schiavi, in quanto considerati poco sicuri, e resteranno sul campo solo uomini liberi sia Romani, sia Etruschi.  Di questi schiavi, probabilmente poi dispersi per l’Italia, parla - come si è detto -  Svetonio, quando ricorda che furono poi sconfitti e massacrati  dal padre di Ottaviano, futuro Augusto e Imperatore.  Malgrado ciò, il comandante Petreio, quello che a Pistoia riesce a vincere Catilina, parla ai suoi soldati dei catilinari qualificandoli come “latrones”  termine largamente utilizzato in senso spregiativo contro schiavi ribelli, banditi.

Il dibattito fra Lentulo e Catilina verteva dunque, non tanto sul piano ideologico e sociale, quanto sull’utilizzazione concreta di questi in combattimento o nell’azione cospiratrice.  Gli schiavi, infatti, per la loro facile strumentalizzabilità,  ebbero un ruolo significativo per minare la rivolta catilinaria nel suo interno.  Mentre Lentulo  non se ne  accorge e accoglie “cani e porci”,  pur di far numero, Catilina preferisce una rigorosa selezione e vuole gente che combatta e muoia per un ideale, non per il puro interesse personale, ancorché giusto ed ammissibile.

Dalla parte opposta, il timore evidente è che si saldassero forze sociali diverse, praticamente emarginate dai centri di potere effettivo, ma schiaccianti per numero.  Se a questi si fossero aggiunti perlomeno coloro che erano stati ridotti alla schiavitù per debiti e, forse, anche i gladiatori, ovvero nemici sconfitti in guerra (come già con Euno e Spartaco), la forza del numero sarebbe stata soverchiante.  Di qui l’esigenza del Senato di prevenire tale coagulazione di forze, e l’opera di Cicerone si rivelerà indubbiamente efficace e molto decisa in questo senso.  Egli riuscirà a cogliere i preparativi di Catilina nel bel mezzo del guado e a stroncarla.  Non altrettanto tiuscirà a lui e al Senato, nel caso delle forze militari ribelli di Marco Antonio e di Ottaviano Augusto.

Per entrare direttamente nella descrizione della “congiura”, seguirò la narrazione di Sallustio, per poi inserire il contenuto delle quattro Orazioni Catilinarie (meglio sarebbe definirle anti-catilinarie)  pronunciate da Cicerone in Senato o davanti al popolo.  Ancora a breve premessa, va detto che sui tempi di questa “congiura”, che poi viene precedeuta da un ipotetico primo tentativo nel 66/65 a. C (in realtà si tratta solo della prima campagna elettorale di Catilina per il consolato), va tenuto in considerazione che a quel tempo non  esisteva neppure il calendario giuliano o cesariano, rimasto in vigore fino al XV secolo in occidente e fino alla rivoluzione sovietica nella Russia, ma persisteva il vecchio calendario di Romolo, rivisto da Numa Pompilio.  Figurarsi come due personaggi leggendari e forse mai esistiti, potevano essere stati gli inventori di un calcolo annuale del tempo.  I Romani partivano dall’anno della fondazione di Roma, 753 a. C e calcolavano poi gli anni successivi sui consoli;  inoltre, fino a Gaio Giulio Cesare i giorni complessivi erano 355, 10 di meno dei nostri, e - come si può capire - febbraio è il residuo di un calendario fondato sul ciclo lunare e non solare, essendo soltanto di 28 giorni.  Insomma, certe discrepanze nella descrizione cronologica degli eventi si deve anche al fatto che i fatti erano anteriori alla riforma giuliana, mentre le narrazioni (sicuramente quella di Sallustio, ma forse anche i discorsi rifatti di Cicerone, posteriori a tale riforma). Il tutto dà alla narrazione l’impressione di un film accelerato, che ricorda quelli iniziali della storia del cinema.

Sallustio comincia il suo racconto con considerazione di carattere  generale, anche di filosofia della storia.  Dichiara, nella sua premessa, di aver svolto attività pubblica e politica nella sua giovinezza, e fa un’affermazione che colpisce per la sua attualità.  La riporto perché ci dimostra, una volta di più, che i problemi italiani, che noi pensiamo recenti, in realtà sono ben antichi, un vizio che ci trasciniamo da oltre 2000 anni almeno : “…  Tra i politici, infatti, non trovai senso d’onore ma impudenza, non probità ma corruzione, non rettitudine ma avidità…”[21].   Non vi ricorda forse qualcosa, o cari lettori ?   Dunque, passano i millenni, ma certo malcostume rimane.  Sallustio dice che da giovane anch’egli fu in parte trascinato da questo andamento, pur mantenendo ancora  un certo idealismo, nella smania di potere che  riconosce a se stesso.  Poi però, anche a causa delle violentissime guerre civili, preferì ritirarsi a vita privata. Qualcosa di simile accadde ai ben più moderni Dante, Machiavelli e Guicciardini, costretti a scegliere se asservirsi al sistema o rinunciare alla politica, preferendo nel caso dei due finali, lo studio storico.  Dante invece si dedicò alla filosofia e alla poesia, come ben sappiamo.  Allora come ora,  nella vita ci si trova di fornte ad un bivio:  o adeguarsi allo schifoso sistema vendendo la propria coscienza, o dedicarsi allo studio e, per chi può, ai soli affetti familiari. Ma ciò non  basta quando la spada del nemico ti entra in casa, quando la violenza penetra nel tuo domicilio, quando lo strapotere e la sopraffazione minacciano pure la tua stessa sopravvivenza.

“... Narrerò dunque in breve con la maggior esattezza possibile la congiura di Catilina, impresa che mi sembra tra le più memorabili sia perché quel piano criminoso non aveva precedenti, sia perché mai s’era avuta una minaccia così grave per lo Stato…” [22].

Se ci limitiamo ai fatti poi narrati, e la relativamente facile repressione del moto, specialmente il confronto con le altre guerre civili e le guerre contro gli schiavi, l’affermazione di Sallustio appare una pura esagerazione retorica.  Nondimeno, tale valutazione appare negli scritti di Cicerone e in quello di storici successivi, che dovevano essere forniti di altre fonti e testimonianze.  La rivolta di Catlina non fece quindi paura per i fatti concreti, ma per l’enorme rischio corso.  Egli doveva apparire non solo un sovvertitore dei rapporti tra le classi sociali, ma un sovvertitore anche dei rapporti familiari, soprattutto tra padre e figlie, mariti e mogli.  Appare evidente che, se il suo piano avesse potuto avere un integrale sviluppo, le stesse guerre civili o la guerra di Spartaco (non vorrei arrivare addirittura ad Annibale), apparivano cose di minor grave pericolo.  Ecco quindi il segno, l’indizio di una strategia che, seppure stroncata, faceva indubbiamente paura, e questa non poteva essere altro che l’unione di forze sociali numerose ed, eventualmente, agguerrite.

Sallustio poi fa quella descrizione di Catilina e dei suoi sostenitori che io ho posto in premessa, e che ovviamente non riprendo.  Proseguo pertanto con la successiva narrazione.  Sallustio ne approfitta anche per fare una sintesi della storia romana e coglie nella fase successiva alle guerre puniche e macedoniche il punto di svolta. Vede in Silla colui che fa degenerare lo spirito pubblico di Roma, ma trascura del tutto di notare come l’azione vendicativa di Silla segue, non precede, le violenze di Mario, ma queste, a loro volta traggono motivo dagli abusi del Senato nei confronti dei tribuni maggiormente riformatori.  Sallustio vede nelle confische e nei conseguenti rapidi arricchimenti anche la radice della classe che sostenne Catilina, ovvero secondo lui, gente arricchitasi presto e impoveritasi anche più presto a causa delle dissipazioni.  Insomma, nella corruzione generale, era facile l’affermarsi di avventurieri ambiziosi e Catilina ne sarebbe stato il capo deale.  Egli, non  si sa con quali risorse, riusciva ad attrarre soprattutto i giovani, che egli trasformava in veri criminali.  Ma ecco qui un’altra punta di iceberg:  ad un certo punto Salustio dice che Catilina si pose l’idea di un’azione rivoltosa  perché “… il senato non sospettava di nulla;  regnava la calma e la sicurezza;  la situazione gli era propizia…” [23].

Eppure, poche righe sopra, sostiene che egli spingeva questi giovani ad addestrarsi al compimenti di reati e di violenze.  Ora, dove venivano compiuti se regnava la calma e la sicurezza, e il Senato dormiva tranquillo ?   Secondo l’uso romano, di cui si è detto, alle calende di giugno dell’anno in cui furono consoli Lucio Cesare (parente del futuro condottiero) e Gaio Figulo (secondo la nota, anno 64 a. C.:  ma allora nel 65 che cos’era successo ?),  Sallustio sostiene che egli convocava questi sostenitori, ad uno ad uno.  Dopo questo sondaggio individuale (in realtà tipico di una candidatura elettorale, dove si sondano i capi dei vari gruppi per un futuro sostegno), Catilina avrebbe convocato 9 senatori, 4 cavalieri e “molti altri, infine venuti da colonie e municipi dove appartenevano alle migliori famiglie” [24].    Nondimeno, tutti costoro erano”…nelle peggiori strettezze e i più spregiudicati…”.   Dunque, le migliori famiglie di Roma e dell’Italia erano formate dai peggiori delinquenti, o li avevano come propri elementi.  Il che ci spiega il grado di obiettività di Sallustio e delle sue fonti (Cicerone in testa).  E’ facile, viceversa, dedurne che questi personaggi appartenevano alle classi più importanti di Roma e delle città italiche.   Sallustio aggiunge, cone del resto sosteneva lo stesso Cicerone,  che i giovani avevano molta simpatia per Catilina e le sue idee, come spesso avviene, in quanto i giovani amano le novità, ma amano anche persone in buona fede, non sempre e non necessariamente, ma spesso, per la loro stessa struttura mentale e morale [25].   Sallustio aggiunge che amche Marco Licinio Crasso era sospettato di farvi parte, ma lo smentisce, mentre non dice nulla di Cesare, di cui era sostenitore.  Come rilevato,  i due, seppure di tendenze demagogiche, avevano una mentalità ed una tattica completamente diverse da quelle di Catilina.  E questa era la vera smentita.

Sallustio poi ritorna indietro al precedente piano, che sarebbe stato formulato circa due anni prima sotto il consolato di Lucio Tullo e Marco Lepido.  Catilina fu imputato di peculato e gli fu impedito di candidarsi. Come è facile intuire,l’assenza di un preciso calendario in quell’epoca, rende oggi difficile inquadrare i fatti con precisione, visto che non di tutti i periodi consolari è possibile avere i dati nominativi, e perché spesso i loro nominativi coincidono anche con altri personaggi, contemporanei o successivi [26].  Questo piano sarebbe consistito in attentati e progetti di assassinio dei prossimi due consoli, e da lì, addirittura, occupare la penisola iberica:  questo attribuirebbe a Catilina una visione addirittura imperiale.  Ma in Spagna ?  Perché in Spagna ? Forse perché vi era ancora in corso la guerra iniziata da Sertorio contro i Romani ?  Ma questo dimostrerebbe simpatia di Catilina per i mariani, e soprattutto per Sertorio, non certo per Silla, anche se è sempre ammissibile una conversione ideologica, il che tuttavia è discutibile, visto che recenti avversari politici non avrebbero avuto fiducia nel convertito.  Dice poi che del preparativo qualcosa trapelò;  nondimeno Catilina, invece di calmarsi, va anche più in là, ed avrebbe meditato il massacro di molti senatori.  Come dire (qui siamo vagamente al comico):  siccome non sono riuscito ad uccidere due consoli, mi preparo per ammazzare 100 senatori, così tanto per confortarmi.  Ma appare improbabile che, se i preparativi per colpirne due vengono scoperti o prevenuti, io riesca a preparare lo sterminio di 100, che richiederebbe un’organizzazione ben più numerosa.  Alle none di febbraio [27] si tenta il colpo grosso, ma Catilina era stato “precipitoso”, e, colmo dei colmi, i congiurati armati erano però troppo pochi.  Insomma, come organizzatore di rivolte era alquanto ingenuo.  Fallisce l’assassinio di “due”, medita di colpirne “molti”, ma al suo servizio ha solo “pochi” attentatori. Certo che, se avesse avuto a sua disposizione una quantità di esplosivo, il colpo sarebbe riuscito sicuramente. Ma, ahinoi, a quel tempi non esistevano esplosivi, e ci vollero circa 1300 anni perché li inventassero.  Catilina, dunque era nato troppo presto.  Bene, facciamo finta di credere alla cattiva fiaba:  ma come si spiega allora, che tutto era tranquillo, nessuno sospettava né lui, né i suoi, sicché poi potè addirittura raccogliere un esercito ?  Insomma, misteri inspiegabili dell’età romana…

Fallito questo secondo feroce tentativo, ecco che Catilina  indìce una riunione, della quale, per la prima volta è riportato un suo intero discorso, di cui citerò gran parte.  Oltre al discorso, Sallustio aggiunge altre cose con parole sue che dovrebbero essere riassuntive.  Generalmente gli storici vedono in questi discorsi una pura produzione letteraria, se non nel contenuto, nella forma. Pur tuttavia, relativamente alla lettera che gli avrebbe mandato Lentulo, il testo coincide esattamente con quello riportato nella III Catilinaria (V cap.) da Cicerone.  Segno che Sallustio doveva avere a disposizione copie di documenti di queste lettere.  Viceversa, il discorso di Catilina era pronunciato “a braccio”, ma potevano esisterne trascrizioni in forma stenografica (si sa che Cirerone usava appunto forme di stenografia per riportare i propri discorsi, quanto più vicini all’originale).   Comunque sia, vedremo ora, con le presunte parole di Catilina, sia il suo modo di esprimersi, sia i suoi progetti politici, tenendo viceversa separato quello che poi vi aggiunge (di suo ?) Sallustio : “S’io non fossi certo del vostro coraggio e della vostra fedeltà [28], il momento propizio si presenterebbe invano, invano avremmo la grande speranza di prendere in pugno il potere e io, dovessi fare assegnamento su animi pavidi e vani, non rischierei il certo per l’incerto.  Ma poi che in molti ed ardui cimenti [quali ?] vi ho visti agire da prodi, o miei fidi, l’animo mio ardì concepire questa impresa, la più difficile, la più alta; anche perché ho compreso che avevamo in comune il bene e il male [altra nota sulla traduzione:  il testo latino, dice “i beni ed i mali”, non il “bene e il male”,  che farebbe intendere che erano malvagi che condividevano le stesse azioni delittuose];  e volere le stesse cose, rifutare le stesse, è questa la vera amicizia [insomma, letta così la celebre frase di Catilina sembrerebbe che egli dice che si è amici quando si cambiano idee in contemporanea;  viceversa Catilina dice più propriamente “eadem velle, eademque nolle, ea firma amicitia est”, il che per essere comprensibile in italiano va tradotto:  “Condividere le medesime cose o idee, e il non accettare del pari altre contrarie, quella è salda amicizia”.  In breve, per Catilina l’amicizia non consiste nell’andare a bere insieme un bicchiere di vino Falerno al Thermopolium, magari chiacchierando di donne ed avventure amorose, o di corse dei cavalli e di lotta tra gladiatori,  ma il condividere medesimi ideali, avere identici progetti, rinnegare insieme altre cose.  Insomma, un vero programma di viziosi e di assassini !]. "… l’animo mio si infiamma al pensiero del futuro che ci attende, se non rivendichiamo la nostra libertà [29].  Da quando la repubblica è caduta in balìa d’ un pugno di potenti, a loro versano i tributi i re e i tetrarchi, a loro pagano imposte popoli e azioni;  gli altri, noi tutti, coraggiosi, onesti, nobili e non nobili, non siamo stati che volgo, senza autorità, senza prestigio, sottomessi a coloro  ai quali, se lo stato fosse efficiente [ancora sulla traduzione:  Catilina dice:  “… si res publica valeret…”, il che significa una repubblica, non tanto efficiente, quanto in salute, vigorosa, autentica. “Vale”  vuol dire appunto “Stai bene,  sii sano, ecc.”.  In sostanza, Catlina sostiene che, se vi fosse una repubblica sana, le differenze che egli critica non vi sarebbero.  Popoli e classi sociali non sarebbero dominate da quella cricca di padroni -  30], dovremmo far paura [meglio: “incutere timore, rispetto”]. Così, influenze, potere, onori, ricchezze appartengono a loro e a quelli che godono dei loro favori;  a noi hanno lasciato sconfitte elettorali, insicurezza, processi, miseria.  Fino a quando, o miei prodi, siete disposti a sopportare ? [31]  Non è preferibile morire da forti che consumare ignominiosamente un’esistenza misera…?"

"Ma, in verità,  e chiamo a testimoni gli dèi e gli uomini [secondo Sallustio era “nemico degli dèi e degli uomini”:  e dunque ?], ormai abbiamo la vittoria in pugno.  Siamo giovani e non ci manca l’ardire; essi al contrario li hanno logorati gli anni e gli agi…  C’è un uomo al mondo, un vero uomo intendo [più esattamente Catilina dice:  “chi dei mortali, che abbia ingegno o coscienza virile…”], disposto a tollerare che vi sia chi anche dopo aver profuso tesori per edificare sul mare, per spianare i monti, guazza nell’oro mentre a noi manca persino il necessario?…  noi non abbiamo neppure un tetto… spendano in tutti i modi… Noi, invece, a casa siamo nelle strettezze, fuori casa nei debiti… E dunque, perché non vi risvegliate?  Eccola, ecco quella libertà che tante volte avete invocata, e, con essa, ricchezze, onori, gloria:  è tutto là, a portata di mano… Più che le mie parole vi siano di sprone il momento, il pericolo, il bisogno, le splendide prede.  Servitevi di me come capo e come gregario [Sallustio dice “imperator vel miles”, comandante o soldato semplice:  ricorda terribilmente la frase di Garibaldi a Roma, nel luglio 1849, quando disse che preferiva essere o soldato semplice, o dittatore illimitatissimo.  Altre analogie si hanno poi nella marcia verso Venezia, che però si concluse a S. Marino, sempre nel 1849];  il mio cuore, il mio braccio non vi verranno meno [il testo latino dice ”Né l’animo, né il corpo, vi mancherà”.  Il “mio” è aggiunto dalla traduttrice].  Queste cose, spero, le farò con voi quando sarò console…” [32].

Pare evidente, soprattutto dalla frase finale, che Sallustio mescola, con una certa abilità, un discorso elettorale con quello di preparazione della congiura.  Ma gli “incollamenti” appaiono abbatanza evidenti. Infatti, se tutta questa azione serviva per diventare console, per mezzo di una regolare elezione, che bisogno c’era di invocare l’uso della forza e della ribellione armata ?   Poi vi è la descrizione delle enormi differenze sociali per Catilina intollerabili, non solo secondo lui, ma per qualunque persona avesse animo o mente virile.  E’  lo stile classico delle orazioni tribunizie.  Infatti, Plutarco riportando un discorso di Tiberio Gracco nella Vita dei Gracchi, dice esattamente:  “Perfino le belve che si aggirano per l’Italia hanno tane e covili dove rifugiarsi;  noi in nessun luogo abbiamo una casa…”.  Appare anche curioso come l’oratore si identifichi sempre verbalmente nelle condizioni economiche degli ascoltatori.  Infatti né i Gracchi, né Catilina erano talmente poveri da non avere una propria abitazione (si è visto che la moglie Orestilla lo aveva aiutato nel pagamento di certi debiti da garanzia):  ma, per far sentire l’identità tra ascoltatore ed oratore,  dicono “noi”, invece che “voi” .   Per rendere poi più feroce il tutto, alle domande degli astanti, Sallustio con discorso indiretto riporta che Catilina promette:  abolizione dei debiti, proscrizione dei ricchi, magistrature, sacerdozi, e poi il saccheggio.   Alla fine di questi progetti, in cui si mescolano classiche promesse  elettorali (come l’abolizione dei debiti) e minacce di proscrizione, massacri e saccheggi (il che sarebbe stato ben curioso), alla fine di questo un po’  confuso programma dice:  “… Quando li vide tutti infiammati, li esortò ancora a adoprarsi per la sua elezione e sciolse la seduta” [33].   Ma, scusatemi,  sembra coerente il tutto?  si promettono proscrizioni, tipiche della precedente guerra civile, massacri, saccheggi, e poi si chiede: “Sostenetemi alle elezioni” ?    Che logica vi sarebbe ?  Se aveva progetti di violenza, non avrebbe chiesto voti, ma denaro e, soprattutto, armi e uomini, cosa che farà viceversa più tardi.  Ora è chiaro che Sallustio, anche per dare subito un’immagine violenta ed aggressiva di Catilina, ne trascrive il discorso mescolando il programma elettorale con il progetto insurrezionale che, certo, vi è stato, ma successivo e quale risposta al boicottaggio del Senato, quando capisce che lo si ostacolerà in tutti i modi, anche illegittimi, pur di impedire che egli possa realizzare da console appoggiato dai ceti sociali più numerosi e poveri, un programma di ridistribuzione delle risorse interne e di quelle provenienti dai popoli confinanti alleati o assoggettati, un netto balzo in avanti nelle condizioni economiche e sociali.  Vuole persone attente e consapevoli, non gente addormentata o che segue solo i propri interessi.  Cicerone, come vedremo, distinguerà perfino sei categorie di simpatizzanti per Catilina, ovviamente mettendovi anche figure losche, per diffamare l’intero movimento.  Ma la fine degli avvenimenti dimostra la vera tempra di quegli uomini, che, sia pure a denti strettissimi sarà riconosciuta da Cicerone, da Sallustio e da alcuni autori successivu (Dione Cassio).

Tanto per rendere l’episodio più satanico, Sallustio riporta con beneficio del dubbio la notizia di un sacrificio umano (ma non si sa di chi:   chi sarebbe stato sacrificato ?  uno schiavo ?  qualcuno para perfino di un bambino.  Infatti la formula del giuramento doveva essere seguita dalla libazione di una coppa di vino misto a sangue umano, il tutto poi seguito da esecrazioni.  Lo stesso Sallustio non vi crede, lo aggiunge per dare colore esecrando alla storia.  Nondimeno di questa accusa su fanno latori anche taluni storici moderni, come Eugenio Manni, il quale ricorda riti analoghi delle religioni orientali alla dea Cibele, sostenendo che erano stati importati dalle legioni di Silla al ritorno dalle spedizioni contro Mitridate e soci.  Piccolo particolare però:  di tutti questi uomini, pur dichiarandoli “sillani” non si dice mai che fosser stati in oriente e quindi a conoscenza di riti sanguinari della dea Cibele o altra personalità divina.  E poi, non  si era detto, da parte sia di Cicerone, sia di Sallustio che Catilina era “nemico degli dèi e degli uomini”, quindi probabilmente ateo o agnostico in materia religiosa ?  E allora che ci sta a fare addirittura un sacrificio umano nella Roma del I secolo a.C, soprattutto nella sua parte ideologicamente più evoluta ?  Appare evidente l’intento diffamatorio e calunniatorio, sia per le continue contraddizioni, sia perché non  risulta affatto che qualche schiavo o figlio di schiavi sia stato fatto scomparire ad opera di Catlina o di qualcuno dei suoi.  E’  dunque presumibile che la libazione sia avvenuta solo con una bella coppa di vino puro, e null’altro [34].   E qui comincia la parte giallo-spionistica della congiura. Occorre sapere  - narra Sallustio –  che tra i congiurati vi era un certo Quinto Curio che amava una nobildonna, di nome Fulvia.  Curio era un vero chiacchierone e narrò all’amante della congiura vantando ricchezze future.  Fulvia, altra pettegola, raccontava a destra e a manca di questi preparativi, la cui fama arrivò alle aguzze orecchie di alcuni senatori e  al console allora in carica (dunque, da quella riunione sarebbero passati circa due anni, stando ai vaghi calcoli che si possono fare, basandosi sui diversi consolati) Marco Tullio Cicerone, il quale è tuttora celebre come oratore politico e forense, avvocato di parte civile e degli imputati (come ogni avvocato serio, del resto), come filosofo e letterato, ma pochi lo conoscono nella veste di capo della Polizia, di organizzatore di agenti e provocatori, come pur risulta dal testo di Sallustio.  Si deve essenzialmente a lui l’indagine inquisitoria sulla rivolta e la sua repressione in Roma, non certo per la parte militare, dove Cicerone, malgrado un certo vanto per una piccola spedizione in Cilicia (Anatolia, Turchia attuale),  non ebbe mai particolare propensione. E bisogna riconoscere che, come capo della Polizia politica, dimostrò un’abilità ben superiore a quella di taluni capi attuali [35]. 

Intanto Catilina:  “… escogitava ogni giorno nuovi progetti, apprestava depositi d’armi in tutta Italia in punti strategici,deponeva denaro suo o imprestato da amici [ma non erano tutti debitori, morti di fame, Catilina compreso ?] a Fiesole in casa d’un certo Manlio, che fu il primo a dichiararsi per la guerra. Fu in quel tempo, a quanto dicono, che associò a sé persone di ogni categoria,  nonché parecchie donne [ecco lo scandalo, la fonte del peccato !  le donne !], di quelle che tenevano un tenore di vita costoso facendo mercato del proprio corpo [ovvio,  “ e te pareva”, direbbero i Romani d’oggi…  Se le donne si davano alla politica, tanto peggio se rivoluzionaria, sicuramente facevano mercato del proprio corpo] e poi, quando l’età aveva posto un freno non al lusso ma alla possibilità di procurarselo, si erano coperte di debiti.  Per loro mezzo Catilina contava di poter sollevare gli schiavi urbani, dar fuoco all’Urbe [e poi che se ne faceva del consolato tra i ruderi ?], associare all’impresa i mariti di quelle donne oppure asassinarli” [36].

Il perfido  Catilina non conosceva vie di mezzo, o amici, o persone da uccidere.  A questo fine, secondo la versione senatoriale ripresa da Sallustio, sfuttava il suo fascino di seduttore spingendo anzianotte matrone romane o a convincere i mariti rimbambiti, o direttamente a passarli per le armi.   La condottiera tra queste donne di “malaffare” politico,  era Sempronia (discendente dalla famiglia dei Gracchi), la quale sintetizzava al femminile gli opposti estremismi del carattere di Catilina (di lei però, come delle altre, non si dice quale fine fecero).  Questa donna, dice il puritano Sallustio, aveva compiuto più azioni temerarie di parecchi uomini, apparteneva a famiglia patrizia, aveva bellezza, marito e figli, era istruita in letteratura greca e latina, cantava, suonava, con una grazia maggiore di quella dovuta ad una donna (ma la grazia non è tipica delle donne, piuttosto che degli uomini?),  ma esercitava incentivi alla lussuria (ovvio…), non aveva pudore o dignità di matrona.  Non si sapeva se valutasse meno il denaro (dunque, era generosa) ovvero il buon nome, e  - massima colpa – sollecitava gli uomini (suppongo, al peccato…Ma chi ha detto che la pudibonderia è nata col Cristianesimo ?) precedendo le loro richieste, non pagava i debiti ed era una depravata. Ma era pure intelligente (!!!), componeva versi, era spiritosa e sapeva esprimersi, a seconda dei casi con modestia, con garbo, con sfrontatezza,  ed era, perfino !!!, umoristica.  Mah, sembra di leggere una critica retriva su molte donne moderne.  Io direi:  erano queste le peccatrici di Catilina ?  Non mi sarebbe spiaciuto conoscerle e frequentarle !

Fatto questo quadro tremendo delle peccatrici catilinarie, Sallustio riprende la descrizione delle operazioni spionistiche di Cicerone, il quale convince Fulvia a far confessare Curio dei preparativi  della rivolta.  Riesce, altresì, a persuadere Gaio Antonio, già consocio della congiura (secondo le versioni ufficiali)  a stare dalla sua parte, ma Gaio Antonio, zio se non erro di Marco Antonio, l’ultimo nemico di Cicerone,  non sarà troppo convinto nemmeno alla fine, quando, con la scusa della gotta, scaricherà al vice Petreio il compito di affrontare Catilina in battaglia.  Questo Gaio è uno dei prototipi dei nostri attuali partitocrati, uno di quei personaggi che si schierano sempre col più forte e il vincitore.  Cicerone è abbastanza abile perché usa questi personaggi come sua “quinta colonna”, doppiogiochisti,  che lo tengono regolarmente informato di ogni mossa di Catilina.  Qui, ricollegandosi al discorso iniziale, si spiega come fallissero i primi attentati, organizzati quando Catilina viene sabotato anche alle seconde elezioni. 

Uscendo dal semi-farsesco racconto di Sallustio, si spiega un fatto molto semplice, molto ovvio:  Catilina è un rivoluzionario, ma al tempo stesso tenta di presentarsi in piena regolarità alle elezioni per il Consolato.  Gli avversari lo boicottano per il suo programma e per i suoi avanzati intenti sociali ed economici.  Creano quindi cortine fumogene, una catena di calunnie.  Quando si vede impossibilitato ad assumere la carica secondo le leggi, egli comincia ad organnizzare alla radice una forza militare popolare che sarebbe stata temibile e ragguardevole, se l’indiscutibile abilità poliziesca di Cicerone non fosse riuscita ad anticiparla, sabotandola prima, stroncandola poi a Roma e sul campo di battaglia.  Catilina, tuttavia, riesce, malgrado tutto, ad organizzare un suo forte nucleo armato a Fiesole, a cui pone come capo Gaio Manlio Vulsone.  Medita un’insurrezione simultanea anche nel Piceno (Marche) e in Puglia.  Predispone piani di rvolta a Roma stessa, e, capendo ormai che le difficoltà sono ordite da Cicerone, decide di farlo assassinare. Ma il traditore Curio informa Cicerone del piano [37].   Era d’uso tra i Romani importanti, la visiita alla mattina dei loro “clientes”,  chiamata “salutatio”.  Quando il personaggio potente si appresta ad uscire di casa, questi servili amichetti andavano ad onorarlo, salutandolo ed augurandogli pieno successo.  Una prassi che, eccettuate le forme, perdura notoriamente anche ora, notando come cambino le forme, ma la mentalità e la sostanza continuino.  In compenso, potevano aver denaro o un’abbondante colazione.  I due attentari, quimdi, si mescolano tra i “clientes” e l’avrebbero pugnalato se,  preavvisato da Curio, Cicerone non avesse impedito loro di entrare, sventando il grave tentativo.

Intanto, Gaio Manlio, in Etruria coordina i preparativi propriamente militari dell’insurrezione, si rivolge (al contrario di quanto si andava narrando) non ai coloni sillani ivi instaurati (salvo pochi, già impoveriti), ma ai cittadini etruschi che avevao perduto i loro campi proprio combattendo contro Silla o sostenendo Mario.  Ciò pone un’ulteriore ipoteca di dubbio sulla versione del “sillanesimo” di Catilina e del suo vice.   E’  assai difficle immaginare che recenti discordie così violente potessero essere state dimenticate.

Quando Cicerone capì che Catilina non se ne sarebbe stato calmo a godersi i boicottaggi elettorali, ma si predisponeva ad una partita mortale, informò il Senato  che deliberò lo stato d’allarme con la nota formula “affinché la Repubblica non subisse danno”.  Tale formula, alquanto eufemistica, indicava un grave pericolo e attribuiva ai consoli tutti i poteri necessari, anche spietati, per la repressione.  Giungeva altresì al Senato un’informazione secondo cui Gaio Manlio Vulsone i6° giorno delle Calende di novembre (sarebbe stato il 26 ottobre del 63 a:C.)  aveva costituito una forza armata.  In quest’occasione si hanno quei miracolosi eventi, di cui Cicerone e il fratello discutono nel dialogo “Sulla Divinazione”.  Come lo stesso Cicerone racconta, questi “eventi” vennero strumentalizzati quali segni divini di avvertimento, da utilizzare con la plebe ignorante e superstiziosa..  Più seriamente vi erano anche notizie di assembramenti militari e di rivolte di schiavi.   Va pure ricordato, per rendersi conto del carattere insurrezionale di questi movimenti e della loro gravità, che Silla aveva fatto estendere il pomerium (confine sacro entro il quale non si potevano portare armi ed armati) dalla città di Roma all’intera penisola, fino al fiume Rubicone, in Romagna, che diverrà famoso quando Cesare, traendo il dado, sarebbe passato con le sue legioni oltre, e puntato direttamente su Roma.   Catilina non oltrepassa il Rubicone, ma predisponde all’interno del “pomerium” la sua piccola armata rivoluzionaria, composta per la gran parte da gente povera o impoverita, dalle più modeste classi sociali.   Si ripete in sostanza qualcosa di analogo a quella che in Asia Minore era stata la rivolta di Aristonico.  E’  difficile dire quale fosse stata la più grave.

In conseguenza, i consoli inviano truppe tanto verso Fiesole, quanto in Puglia ed in Campania.  Si promise pure la libertà a quegli schiavi che avessero dato informazioni sul movimento insurrezionale e perfino i gladiatori venivano mobilitati.  Sallustio altresì aggiunge che l’intera città era terrorizzata, comprese le donne (immaginiamo le buone matrone caste e pure, non quelle sopra descritte, fautrici di Catilina), le quali gemevano per la paura e pregavano gli dèi che le salvaguardasse dalle mani lubriche dei ribelli [38].

Intanto Catilina, di tutto questo rumore popolare e senatoria, pareva incurante oppure non se ne accorgeva (?).  Era stato denunciato da Lucio Paolo per sovvertimento dell’ordine pubblico  (Legge Plauzia), ma si presentò ugualmente in Senato.  Questo stesso fatto dimostra, senza alcun dubbio, che egli in quanto già pretore e propretore,  egli stesso era un senatore.  Molti di voi avranno in mente quel celebre affresco del pittore Cesare Maccari in Senato che rappresenta con molta eleganza (ma non altrettanta esattezza storica) la seduta senatoriale, in cui si vede al centro della scena Cicerone, già con capelli bianchi, e Catilina che lo ascolta seduto, isolato dagli altri, che lo osservano con sdegno, e colmo d’ira.  La scena è storicamente inesatta: andrebbe meglio se rappresentasse una delle Filippiche contro Marco Antonio, dato che Catilina era più anziano di due anni rispetto a Cicerone e che, se lo si rappresenta giovane, Cicerone lo era ancora di più.  E’ in questa seduta che Cicerone pronuncia la prima, la più violenta e la più lunga delle Quattro Catilinarie.   Perché Catilina, ben sapendo di essere ormai sotto tiro (aveva o non aveva ricevuto la denuncia di Lucio Paolo ?)., si presenta ugualmente nel Senato.  Si è visto che Sallustio gli attribuiva capacità di simulazione e dissimulazione notevoli, ma la sua presenza era comunque una sfida al potere senatoriale. Sapeva che  prove dirette per accusarlo non  sussistevano (o almeno così riteneva), e va ad ascoltare o a difendersi.  Che non ci fossero prove contro di lui è dimostrato dal fatto che nessuno lo arresta, nessun può indirgli un processo, che mai ci fu, ma solo una reciproca dichiarazione di guerra.  Le fonti, a questo punto, non appaiono chiare, anche perché quello che noi riteniamo la Prima Catilinaria è una rielaborazione a posteriori del reale discorso di Cicerone, che Sallustio elogia, ma non riporta (non riporta nessuna delle quattro orazioni, neppure in riassunto).  Sicché è da supporre che quel discorso, così bello e così forte, è un po’ come la successiva orazione a favore di Milone.  Cicerone, astuto organizzatore, facondo, non era però un coraggioso, e temeva che Catilina lo aggredisse.   Quindi il reale discorso fu assai meno ardente ed efficace di quello celebre e che ha essenziale carattere letterario.  Comincia con la frase celebre del   “Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra…”, che sembra il rullo di un tamburo, uno squillo di tromba, un attacco simile alla Quinta Sinfonia di Beethoven.  E’ l’8 novembre del 63 a.C, nel Tempio di Giove Statore : “ Fino a quando abuserai, Catilina, della nostra pazienza ?  per quanto tempo ancora codesta tua condotta temeraria riuscirà a sfuggirci?  A quali estremi oserà spingersi il tuo sfrenato ardire?  Né il presidio notturno sul Palatino né le ronde per la città, né il panico del popolo, né l’opposizione unanime di tutti i cittadini onesti, né il fatto che la seduta si tenga in questo edificio, il più sicuro, ti hanno sgomentato e neppure i volti, il contegno dei presenti?  Le tue trame sono scoperte, non te ne accorgi ?  Non vedi che il tuo complotto è noto a tutti…Ciò che facesti la notte scorsa e la precedente, dove ti recasti, quali complici convocasti, quali decisioni prendesti, credi tu ci sia uno solo che non ne sia informato? O tempi, o costumi !  di tutto questo, il Senato è a conoscenza, al console non sfugge, e tuttavia costui vive.  Vive ? che dico, si presenta in Senato, partecipa alle sedute. Prende nota di ciascuno di noi, lo designa con lo sguardo all’assassinio,  e noi, i potenti !, riteniamo d’aver fatto abbastanza  per la patria se riusciamo a sottrarci all’odio, ai pugnali di costui.  A morte te, Catilina, da tempo si doveva condannare per ordine del console,  su te doveva ricadere tutto il male che da tempo vai tramando a nostro danno…” [39].

Al di là dell’effetto letterario, splendido, bisogna dire che l’atteggiamento di Cicerone  è pieno di contraddizioni già in questo primo periodo.  Accusa Catilina di essere un nemico dello Stato, di essere informato, con tutto il Senato, delle sue trame, ma si limita a dirgli che egli meriterebbe la morte immediata, per cui poi fa una serie di elogi a tutti coloro che uccisero persone sospette di rivolta o di semplice inimicizia al Senato, ripercorre  tutta la storia romana per citare esempi precedenti di uccisione illegale di vari personaggi (colpisce che ci metta anche i Gracchi), ma si guarda bene dall’arrestare Catilina che, pure, nell’aula sembra  - a dire dello stesso Cicerone -  del tutto isolato.  Come si  detto, il discorso non è un resoconto stenografico reale, ma è un rifacimento a fini letterari. Pur tuttavia linee, passaggi e contenuti sono quelli.  Si tratta di una vera requisitoria.  Ma vediamo viceversa che ne dice lo stesso Cicerone in privato e per lettera al suo amico Attico : “…  Tutta questa vecchia storia, che io nelle mie orazioni… sono solito dipingere con vari colori, cioè con toni fiammeggianti e stile vigoroso,  - tu conosci la mia ampollosità…  Se mai mi aiutarono giri di frasi, battute ad effetto, sillogismi, figure retoriche, fu in quel momento.  Che più ?  Uno scroscio d’applausi.  E di fatti questo era il tema:  la serietà del Senato, la concordia dei cavalieri,. il consenso di tutta l’Italia, la sparizione dei resti della congiura, i bassi prezzi, la tranquillità.  Tu conosci già in tale materia il rimbombo delle mie parole.  Esso è stato così alto che io sono più breve proprio perché penso che tu l’abbia udito da costà…” [40].

E’  facile notare molto autocompiacimento, quasi un narcisismo verso le proprie doti oratorie da parte di Cicerone, ma si svela anche la verità:  ovvero che il suo discorso contro Catilina, letterariamente bellissimo, è però giudiziariamente un bluff.  Cicerone  non ha in mano prove certe e legittime contro Catilina, ma mira a provocarlo e a far sì che egli stesso, uscendo da Roma (è quello che in sostanza gli chiede) e andando in esilio, si dichiari colpevole di tutto ciò che gli viene addebitato.  Se questo è ragionevole ipotizzare, occorre dire che egli fu anche un fine psicologo che sa giocare con abilità sui sentimenti e le reazioni degli altri.  Si sa poi che queste doti non gli riuscirono né con la morte di Clodio, né tantomeno con quella di Cesare, ma nei confronti di Catilina, per una serie di circostanze favorevoli, per il carattere assolutamente rivoluzionario (anche perché non fondato su manovre politiche di fazioni), per l’intransigenza assoluta dell’avversario, la tattica gli riesce alla perfezione.

Torno alla “Prima Catilinaria”:  l’elenco di episodi che Cicerone riporta di esecuzioni immediate e sommarie, a titolo di minaccia contro Catilina, dimostra, malgrado non sia questa l’intenzione dell’oratore, come ben prima delle guerre civili del I secolo a.C., vi erano gravi violenze interne, e parrebbe di iniziativa del Senato o della sua parte conservatrice, piuttosto che da tribuni con idee sociali troppo avanzate per quel tempo.  E, dunque, dal Senato che viene l’ammaestrameto e la consuetudine alla violenza.  Ancora, egli avvisa Catilina che è già in vigore il senatus consultum ultimum per la sua sommaria condanna a morte.  Spiega altresì, o rivela in quel momento, la preparazione insurrezionale condotta in Etruria ad opera di Gaio Manlio. Cicerone, fra l’altro, si rimprovera di aver tardato l’esecuzione della deliberazione senatoriale contro Catilina, ormai considerato nemico del popolo romano.  Cicerone dice apertamente poi di aver tardato tale esecuzione in attesa che anche i peggiori scellerati si convincano della correttezza della misura, scusa alquanto tenue e magra, visto come poi agì nei confronti di Lentulo e soci.  Espone altri eventi sull’organizzazione della rivolta, onde dimostrargli di essere a conoscenza di ogni suo passo;  gli ricorda perfino l’adunanza nella casa di Via dei Falcari  (quartiere dei fabbricanti di falci:  come mille anni dopo e più, gli artigiani romani erano riuniti in corporazioni dislocate in quartieri diversi) e i dettagli del piano insurrezionale, con annessi incendi;  svela ancora l’attentato, di cui si è detto, in casa sua.  Ma dopo tutto questi strombettare, che fa Cicerone ?  Gli consiglia di andarsene da Roma, raggiungere con tutti i suoi seguaci le forze dislocate a Fiesole.

Poi, per manfestargli il massimo disprezzo, gli elenca tutte le sue (presunte) depravazioni, la seduzione, politica o fisica non è ben chiaro, di adolescenti, l’ammaestramento di giovani all’omicidio (già visto in Sallustio, che in realtà, non fa che copiarlo da Cicerone;  le sue seconde nozze dopo aver ucciso il figlio della seconda moglie, ma, qui, sapendo di averla sparata grossa,  aggiunge : “… Non mi soffermo:  lascio volentieri che non se ne parli, affinché non si sappia che nella nostra Città un reato così orrendo è stato commesso ed è rimasto impunito.  Mi astengo altresì dal soffermarmi sulla rovina dei tuoi averi:  te ne accorgerai alla scadenza delle prossime Idi [15 novembre, data di scadenza dei crediti]…” [41].

Per fargli ben capire quanto il suo servizio di spie sia ben organizzato, gli dice anche dell’aquila di Mario, usata come stemma militare.  Gli indica il suo isolamento nel Senato e la paura e l’odio che egli incute ai concittadini, tanto che tali sentimenti potrebbero trasformarsi in volontà aggressiva nei suoi confonti.  Mette in bocca alla patria un immaginario discorso in cui Catilina viene esortato ad andarsene.  Ma Cicerone, nella foga, aggiunge pure che questo personaggio, per dare garanzia della propria innocenza, si offriva di essere tenuto in custodia prima presso la casa di Marco Lepido, il quale però rifiutò,  poi perfino nella stessa casa di Cicerone, in quanto console [42].  Affermazioni piuttosto curiose, se fosse vero che Catilina stava attentando alla sua vita e che Cicerone lo sapesse con certezza.  Parrebbe che, o per obiezione di Catilina, o per formula retorica, Cicerone si contro-obietti : “Presenta un rapporto in Senato”;  Catilina gli avrebbe gridato (supponiamo) che anzi sollecitava un tale decreto e che, se vi fosse stato, sarebbe andato in esilio.  Ancora curiosamente, Cicerone si ribatte :  “No, non presenterò alcun rapporto:  ciò ripugna al mio costume” [43].  Qui si dà, dal nostro punto di vista, la zappa sui piedi:  presentare un formale rapporto di accusa o di denuncia, era contro il suo costume (?!), ma diffamare, calunniare, e spararle grosse, sembrerebbe invece di sì.  Il console si fa forte del tacito assenso dei senatori per le sue affermazioni e diffide contro l’avversario, cose che, altrimenti, il Senato gli avrebbe impedito di dire.  Prosegue ancora sollecitandolo ad andarsene con tutti i suoi fautori, e nuovamente si immagina un discorso della patria e dell’Italia che lo rimproverano per non aver celermente proceduto alle esecuzioni sommarie in difesa della Repubblica.  Cerca anche di prenderlo in giro per le sue capacità di forza e resistenza fisica alla fame, alle veglie e al freddo (anche qui è fonte della descrizione sallustiana) e gli dice che così potrà metterle alla prova.  Conclude poi i senatori a sostenerlo all’unanimità.  Ma, malgrado le sue roboanti esclamazioni, nessuno alza una mano su Catilina, nessuno lo caccia dal Senato.  Sarà Catilina stesso (lo si capisce quando riprenderò la narrazione sallustiana) a provocare una forte reazione del Senato, che fino allora sembra tacere (approvando ? non approvando ?  non è chiaro).

Il giorno dopo Catilina esce dalla città e Cicerone, stavolta nel Foro (sembrerebbe quindi in assemblea aperta al pubblico),  ribadisce con foga accresciuta le sue opinioni sull’avversario :
I, 1  Finalmente, o Quiriti [il termine equivale a Curiati, si riferisce ai guerrieri romani in armi, la prima assemblea popolare;  poi esteso a tutti i  cittadini romani, prescindendo da origini o condizioni pubbliche, ma con diritto di voto], L. Catilina, audace fino al delirio, spirando malvagità da tutti i pori, teso perfidamente a promuovere la rovina della patria, a minacciare voi e questa Città col ferro e col fuoco, l’abbiamo espulso dall’Urbe o, se volete, l’abbiamo lasciato andar via, o, meglio ancora, quando è partito l’abbiamo accompagnato con i nostri saluti.  Se n’è andato, è fuggito… quel mostro nefando non provocherà più sciagure entro queste mura a queste mura…” [44].

Altra curiosità:  Cicerone informa il popolo dell’uscita di Catilina in tre versioni per nulla concordanti:  una è quella della cacciata, l’altra di un’uscita indisturbata, la terza con accompagnamento e saluti,  perfino di buon viaggio.  Ironia ?  O ripete le versioni circolanti per la città ?  Sta di fatto che Catilina esce da Roma, si avvìa  per l’Aurelia, dichiarando di andarsene in esilio.  Anche questo verrà esaminato con la descrizione data da Sallustio.   Secondo quest’altro discorso, ormai Catilina sarebbe piegato e perfino in lacrime, per non essere riuscito nel suo piano insurrezionale.  Cerca poi di spiegare perché non lo ha fatto uccidere subito, e in questo si arrabatta più con la retorica, che non con chiarezza. Ma sembrerebbe di capire che non lo ha fatto in quanto i suoi numerosi (e dovevano dunque essere tanti) seguaci sono rimasti in Roma e, non essendo tutti individuati, avrebbero almeno in parte eseguito i suoi piani di rivolta.  Per confortarsi ricorda che le sue foze, a confronto dell’esercito regolare (cita Metello e le reclute in addestramento:  va ricordato che le forze più potenti sono in oriente con Pompeo), sono miserande, addirittura si spaventerebbero per un solo editto del pretore (propaganda denigratoria, com’è poi dimostrato in Sallustio e nelle successive opere di Cicerone stesso, già ricordate). Irride, o tenta di farlo anche riguardo ai rimasti a Roma,”lustri di pomate e sgargianti di porpora”, ma tuttavia avrebbe preferito, malgrado le denunciate mollezze, che uscissero. Dice pure:  se Catilina stesso ha avuto paura scappando, anche gli altri, rimasti in Roma, lo imitino.  Si vanta, e nessuno infatti può togliergli questo merito storico, di aver scoperto la congiura contro lo Stato.  Prosegue poi con la diffamazione rimproverando questo rivoluzionario temibile, come pur deve riconoscere, di essere un pedofilo o amante di adolescenti, di essere pieno di vizi e di avere tra amici e sostenitori persone della peggior specie (giovinastri, vecchioni disoccupati, e schiavi rbelli), ma al tempo stesso ne ammette l’alta cultura o classe sociale.  Mentre si prende il merito della cacciata di Catilina e della scoperta della congiura, nondimeno ribatte all’accusa di averlo cacciato in esilio, cosa che non gli poteva spettare (dice).  Ma anche qui è ben curioso:  si vanta che avrebbe potuto farlo uccidere sommariamente, ma non di poterlo mandare in esilio, malgrado il decreto senatoriale.  Se avesse potuto, allora avrebbe mandato tutti gli altri in esilio.  Ma la contraddizione sta appunto nel segnalare la gravità, nel dire di avere le prove, e nondimeno pare che gli sfugga il fatto di avere le mani legate, ovvero, malgrado la deliberazione del Senato, egli non aveva poteri giuridici idonei.  E’, pertanto, molto probabile che tali poteri vengano in realtà dati ai consoli non con la seduta della Prima Catilinaria, bensì appena quando a Roma si viene a sapere che, invece di andare a Marsiglia in esilio,  Catilina va presso il campo di Fiesole, alla testa dei rivoltosi.  E’  in quel momento che sarebbe scattata la vera azione repressiva, sia in Roma contro Lentulo, sia  contro le forze ormai operative in Etruria ed altrove.  Nel rielaborare retoricamente la vicenda, tanto Cicerone, quanto Sallustio rimescolano evidentemente i fatti  [45] .

Come se non l’avesse già detto e ripetuto,  Cicerone sottolinea le molteplici qualità di Catlina, ma dicendo che le ha acquistate nei vizi, ad esempio sostenendo che sa sopportare freddo, fame e veglie praticando adultèri e delitti, il che appare alquanto incongruo.  Così pure dei suoi uomini, che erano solo delinquenti, debitori insolventi e gaudenti, gente che cerca prostitute e orge, e blatera di incendi della città, abbracciati mollemente a donne di malaffare.  Si capisce la foga, ma anche allora chi avrebbe potuto credere a queste idiozie ?   A questo punto svela anche che non era vero che si dirigesse in esilio verso Marsiglia, ma verso il campo di Fiesole, prendendo la strada meno diritta, ovvero l’Aurelia invece della Cassia.  Di ciò si vedrà tornando a Sallustio, come preavvisato.  Qui poi, come fanno i giuristi, distingue le sei categorie dei malfattori di Catilina:  i debitori insolventi, che  - dice Cicerone – resteranno delusi dalle speranze di cancellazione proposte da Catilina, in quanto sarà il console, ovvero Cicerone stesso, a far vendere all’asta i loro beni (ma come, non sarebbe stato proscritto e ucciso dai rivoltosi ?  come avrebbe potuto far vendere all’asta qualcosa ?);  la seconda categoria è quella sempre di debitori insoventi, ma cooperatori della rivolta (per cui i primi erano solo elettori, non rivoluzionari);  la terza categoria è quella di uomini attempati, ma ancora robusti per l’assiduo esercizio delle armi (e qui cita Gaio Manlio, che egli qualifica come soltanto centurione), tutti  - secondo Cicerone ex-sillani, brava gente, ma stordita dall’improvviso arricchimento, che si sono indebitati con spese sontuose;   la quarta categoria è una mescolanza di tutte le altre, gente rovinata da tempo, indolenti, non capaci d gestire i propri interessi, numerosi, ma al tempo stesso per nulla animosi.  Vi è pure una quinta categoria, quella dei veri e propri criminali. Nell’ultima fa un ultimo quadro di viziosi e pericolosamente subdoli   Sono sei categorie, in realtà riducibili a due, volendo:  gli ex- sillani ormai in crisi per la perdita del potre e tutta una turba di viziosi o di incapaci debitori insolventi.  Per confortarsi e placare gli ascoltatori, così aggiunge : “…  Ma in sostanza che cosa vanno cercando questi miserabili ? porteranno al campo le donne ? e come potranno farne a meno, ora che le notti sono già così lunghe  [non dimentichiamo che il discorso avviene in giornate come quelle in cui sto scrivendo, ovvero nella prima decade di novembre] ?  e come affronteranno le brinate e le nevi dell’Appennino ? a meno che non pensino d’esser adatti a sopportare il freddo meglio degli altri per aver danzato tante volte nei festini senza niente addosso…” [46].

Perché li descrive in questo modo ?  Nel sarcasmo e nella diffamazione serpeggia in lui la paura, che cerca di esorcizzare in questo modo. Ma anche per dimostrare alla plebe che ascolta, come sarà facile batterli e scoraggiare così eventuali tentativi all’interno della città.  Solo, ripeto, chi avrebbe potuto credere a questa teatrale rappresentazione    da commedia, conoscendoli nella loro realtà ?  Lo stesso Cicerone deve ammettere che le voci circolanti sull’episodio non erano poi tutte a favore delle sue azioni, e come dovrà poi ammettere qualche anno dopo, si trattava di uomini di ben altra tempra.  Sotto un certo aspetto, Cicerone è realistico, contrappone le forze regolari di cui Roma e i municipi d’Italia dispongono a quelle, forse numerose, ma mal combinate, addestrate, equipaggiate, di Catilina.  Più avanti elenca i provvedimenti presi soprattutto a Roma:  ora anche qui emerge la contraddizione.  Se gli uomini di Catilina fossero stati quei poveri disgraziati che descrive, se le forze da contrapporgli erano così sicure,  come mai è costretto a predisporre misure di sicurezza perfino nella città ?  evidentemente perché il successo non era ancora così accertabile.  Qui cita pure i gladiatori, verso i quali, per non ripetere una seconda rivolta di Spartaco, dice di aver assunto misure per reprimere ogni tentativo iniziale.  Conta sulle capacità di Quinto Metello Celere per reprimere ogni tentativo di Catilina di ricongiugersi ai Galli (transpadani e narbonensi, ovvero dell’Italia settentrionale e dell’attuale Provenza), turbolenti e bellicosi per definizione.  Un ricongiungimento tra queste popolazioni e il resto delle forze catilinarie in Italia poteva essere esplosivo, ed infatti dice che questa terribile rivolta, quale mai poteva avvenire in Italia, sarebbe stata soffocata da lui, da un comandante civile, togato, e non da un militare, senza eccessi repressivi.  Anche qui si nota una certa spacconerìa visto che aveva pur dichiarato che le forze armate regolari avrebbero avuto facile ragione di una turba di rabbiosi e disordinati viziosi.  Ma evidentemente si prende il merito (come pure la responsabilità) di tutto ciò che sta facendo.  Conclude la sua roboante tiritera con i segni miracolosi degli dèi ed esorta alla preghiera.

Il 3 dicembre del medesimo anno, pronuncia la Terza Catilinaria, sempre nel Foro al popolo riunito.   Dice di aver salvato Roma dalla rivolta.  E come ?   Qui entra in gioco l’azione di Publio Lentulo, il capo del gruppo romano.  Costui, rimasto a Roma, con altri congiurati [47], era in contrasto con Catilina per l’utilizzazione degli schiavi nella rivolta.  Lentulo, come risulta dalla lettera intercettata dagli agenti di Cicerone, invitava Catilina a rivolgersi agli “infimi”, alludendo appunto agli schiavi, anche se non è accertato in modo assoluto (potevano essere i cittadini romani più poveri, ma evidentemente il segnalare questo punto da parte di Cicerone, come di Sallustio, è indicativo dell’alta probabilità che si trattasse appunto degli schiavi).  Lentulo vuole formare un’alleanza fra cittadini romani liberi e poveri con gli schiavi.  Catilina non accetta questo, probabilmente perché capisce che i ricordi della rivolta di Spartaco incombono ancora e sarebbe stato controproducente.  E’  pure probabile che distiguesse tra gli schiavi per debiti e gli schiavi di guerra, come appunto era stato Spartaco,  Ma  Lentulo vuole fare anche politica “internazionale”.  Cerca dunque contatti con un’ambasceria di Galli Allobrogi (nelle attuali Savoia e Val d’Aosta), ma sarà questo suo grossolano affidarsi e contare su chiunque a tradirlo.  Lentulo era uomo ambizioso, ed appartenendo alla famiglia dei Corneli, riteneva di essere destinato a diventare console egli stesso.  Si può desumere, anche dal successivo discorso di Catilina il giorno della battaglia, che egli fosse un estremista verboso, ma alquanto confusionario.  Si dimostra poco cauto in tutto, e Cicerone, da ottimo capo di Polizia, riesce a far cogliere in flagrante gli Allobrogi, grazie alla loro collaborazione (i Galli sperano di averne dei riscontri se il console vince), in trattativa con Lentulo ed altri; inoltre intercetta numerosi messaggi,  inviati a Catilina dai congiurati rimasti a Roma;  si tratta probabilmente di informazioni sui preparativi di difesa in città, spostamenti di truppe e, soprattutto, esortazioni a Catilina a muoversi. C’è in effetti una reciproca confusione, a quanto può risultare dai testi:  Lentulo, Cetego ed altri si aspettano che Catilina marci su Roma, come avevano fatto Mario, Silla e avrebbero fatto Cesare e Marco Antonio (ma questi avevano a disposizione legioni complete ed addestrate, mentre Catilina aveva forze poco preparate ad una guerra campale).  Catilina viceversa organizza una sorta di guerriglia o di preparazione a questa, aspetta la rivoltà a Roma, che getti nel caos le difese interne, per poi scendere a sud.  Due strategie diverse, ma appare evidente che Catilina si rendeva conto di non poter utilizzare forze tali da affrontare legioni regolari, ancorché non veterane come quelle allora in oriente.  Sta di fatto che Lentulo si fa scoprire con facilità da Cicerone, non manda a Catilina lettere in codice, ma facilmente comprensibili e, per giunta, con i suoi sigilli riconoscibili.  Era facile per gli agenti di Cicerone arrestare i messaggeri, far loro consegnare con la forza  il messaggio scritto, le cui caratteristiche  esteriori riportavano appunto a Lentulo.  Il resto era un gioco abbastanza facile, costringendo Lentulo, Cetego ed altri capi catilinari di Roma a riconoscere i sigilli e a far confessare il resto.  Più o meno la descrizione è confermata da Sallustio, per cui è facile vedere che la sua fonte, più forse altre a noi ignote (la maggior parte dovevano essere versioni orali e non scritte), erano le stesse Catilinarie.  Si parla anche di uno scontro in occasione dell’incontro con gli Allobrogi, il che chiarisce, con la resistenza armata, la natura illegale di quell’incontro, così i partecipanti vengono arrestati.  Seguono convocazioni di Statilio (uno dei capi), Cetego, ed infine Lentulo.  Curiosamente Cicerone, riferendosi a questo, dice che Lentulo nella notte precedente non aveva dormito, per scrivere la lettera (in realtà poche righe, già sopra citate) “contrariamente alle sue abitudini”.  Lentulo dunque non era di quelli che si davano alle lussurie notturne con donnacce ed efebi ?

Per essere al sicuro da accuse di abuso, Cicerone convoca addirittura i senatori, fa perquisire la casa di Cetego ad opera dl pretore Sulpicio, e vi si trova un “ingente deposito di pugnali e di spade”.  Volturcio, con promesse di impunità, confessa di essere stato incaricato della trasmissione di quella lettera a Catilina, dove appunto lo si esortava a far insorgere gli schiavi.  Qui il console accusa Lentulo di voler essere il terzo Cornelio, dopo Cinna (mariano) e Silla, ad impadronirsi di Roma:  parla addirittura di “regnum” , nel senso odiato dai Romani, di potere assoluto e dispotico (com’era stato quello di Silla che, tuttavia, alla fine si dimise dal potere e morì del tutto sereno e tranquillo, malgrado le proscrizioni e i massacri, che gli furono addebitati contro i mariani).  Cetego poi, secondo Cicerone, cercò prima di giustificare la armi dicendo di esserne collezionista (!!!), poi però di fronte alle continue prove, ovvero altri messaggi in tavolette di cera per esortare gli Allobrogi alla rivolta,  messe in mostra, tace del tutto.  Infine anche Lentulo viene interrogato sui messaggi intercettati.  Lentulo, a difesa, si rivolge agli Allobrogi, forse sperando che neghino il progetto di azione comune, ma questi confermano.  Alla fine, anche Lentulo confessa.  Infine tocca a Gabinio.  Tutti, di fronte all’irrefutabilità degli atti e delle testimonianze degli ambasciatori allobrogi, appaiono ormai schiantati, con gli sguardi a terra o reciprocamente furiivi    Come si era anticipato, i nove congiurati catturati vengono sottoposti a custodia cautelare presso cittadini sicuri [48].

Va rilevato a questo punto che la procedura utilizzata da Cicerone è tuttora di estremo interesse:  egli, come detto, agisce da ottimo capo di Polizia, che non procede ad arresti indiscriminati, per poi ricavarne confessioni più o meno forzate, ma inserisce suoi agenti e doppiogiochisti tra le file avversarie.  Opera con una catena di informatori e confidenti da fare invidia alle Polizie moderne.  Anche qui si dimostra come la Roma repubblicana fosse stata un gioiello di organizzazione.  Grazie a questa sua opera, dove le capacità di analisi filosofica coincidono esattamente con quelle di investigazione scientifica, di alto livello per i tempi, ma anche modello valido tuttora, egli riesce nell’intento dimostrativo per quanto riguarda la congiuura.  Cicerone non disponeva certo dei mezzi tecnici d’oggi, ma sapeva seguire le sue piste, e trovare le prove senza fatica eccessiva, ma con molta costanza.  Così ha dalla sua tanto testimonianze mal confutabili, quanto prove materiali precise (armi e lettere).  Una volta avuto in mano tutto questo, entra in azione e sgomina l’organizzazione avversaria.  Certo, fu facilitato dalla superficialità del gruppo lentuliano, troppo propenso a mandare in giro lettere con tanto di sigilli personali e  disinvolti tentativi di avvicinare persone poco affidabili da un punto di vista ideologico e politico.  Pur ammettendo tutto ciò, bisogna riconoscere con obiettività che l’opera di Cicerone fu veramente attenta, prudente ed efficace.  Non altrettanto può dirsi per l’altra fase in cui agisce, non più da capo di Polizia, ma da giudice.

La quarta orazione contro Catilina ed i suoi viene pronunciata due giorni dopo, ovvero il 5 dicembre del 63 a. C., tenuta al Senato nella sede, che doveva vessere abituale, del Tempio di Giove Statore.  In quel periodo Catilina è ancora in Etruria tallonato da due eserciti. La città, malgrado la cattura del gruppo lentuliano, era ancora in fermento.  Cicerone, non più al popolo, ma ai senatori, cerca di spiegare il proprio operato, sempre calcando sui sentimenti, soprattutto di paura, di odio e di vendetta.  A sentire le sue descrizioni dei due giorni trascorsi, non rivela per nulla la tranquillità dei cittadini, dei familiari, dei senatori.  Certo, esagerazioni, perché per dirla con Omero, la bilancia di Giove ormai pendeva a favore di Cicerone e della dirigenza governativa.   E nondimeno la consapevolezza che Catilina fosse tutt’altro che un avversario da deridere, appariva chiara.  Probabilmente, malgrado la stagione di autuno avanzato, si temeva un continuo afflusso di ribelli, specialmente schiavi e persone ormai in miseria, prossime a diventarlo.  Ma si temeva amche il sordo brontolìo della plebe romana che voleva la liberazione dei lentuliani, o vendicarsi per il loro arresto.  La partita che, per dirla in termini calcistici, era 1 : 0, a favore del console, nondimeno era tutt’altro che finita.  Cicerone, ripetute in quella sede le prove acquisite, e mette ai voti le deliberazioni proposte per punire i rivoltosi.  Secondo Duilio Silano, dovevano essere prontamente uccisi;  secondo Gaio Giulio Cesare (da taluni considerato complice, in realtà cercava di guadagnarsi demagogicamente il favore del popolo),  dovevano essere lasciati vivi, ma incarcerati in varie località e con la confisca di tutti i loro beni [49]. Stando a Cicerone, e a Sallustio, sembra che il Senato fosse titubante, non certo verso i rei, ma per timore della reazione popolare.  Chi spingerà la maggioranza ad orientarsi verso la pena di morte, inflitta rapidamente  senza rispettare le procedure, sarà Catone, detto il Giovane, poi l’Uticense, uccisosi quando Cesare riuscirà a vincere le ultime resistenze dei Pompeiani.   Cicerone attribuisce proprio in tale occasione a Casare l’appartenenza al partito popolare, ma sottolinea pure che proprio i popolari espressero lodi e rigraziamenti per la rapida repressione del moto catilinario.  Ricorda ancora la legge Sempronia, stabilita a seguito della morte dei Gracchi,  tutelava i cittadini romani, ma i nemici del popolo romano, come dichiarati dal Senato, perdevano automaticamente ogni diritto di cittadinza e, quindi, le garanzie giudiziarie.  Per essere più convincente, il console ricorda ai senatori che Catilina è ancora libero ed in armi, e potrebbe minacciare la città:  segnala che, se arrivasse, non sarebbe più sicura nessuna matrona romana, né le madri, né le figlie, né le vergini, neppure gli adolescenti  (ah, ma che vizioso !), ed infine nemmeno le Vestali, le sacerdotesse del sacro fuoco di Vesta, doverosamente caste.  Tutte potevano essere violate (altro che Berlusconi e i suoi bunga-bunga !!!).  Il console elenca pure tutte le forze mobilitate in difesa del Senato e dei consoli, in caso di tumulti popolari, anche se poi sostiene che, a loro favore, erano tutti unanimi (ed allora perché tante preoccupazioni ?).   Si aspetta dunque un voto favorevole per la morte onde intimidire ogni eventuale ribelle e le stesse forze di Catilina che ancora attendono la rivolta in Roma [50].

L’intervento di Catone, a favore della morte, anzi dell’immediata esecuzione dei congiurati in arresto (il gruppo lentuliano, ma ben altri oltre a quei nove, dovevano esservi, e di cui parla pure Cicerone),  è decisivo.  Catone propone che, per tener tranquilla la popolazione ancora in fermento, si concedesse in via straordinaria una frumentatio, una cessione di grano gratuita o a prezzi bassissimi.  Come si vede, il motto “panem et circenses  invocato dalla plebe per gran parte della storia dell’Impero, era già una forte arma politica.  Non vi era ovviamente più una coscienza civica piena (se mai vi fosse stata) nella cittadinanza più numerosa e povera.  Se erano in rivolta, se protestavano, ecco la consegna di un “piatto di lenticchie”, e tutto passava nel dimenticatoio, compreso lo sdegno per la cattura di gente che, ben o male, si era battuta per il loro interesse.  Il marcio quindi dell’Impero viene già da questo periodo.  Ci si accontenta di promesse, di benefici casuali e provvisori, enorme difficoltà nel capire che la soluzione dei problemi sociali fosse ben più complessa.  Di qui comincia a fornarsi, almeno relativamente ai documenti che abbiamo, quella mentalità del facile accontentamento che caratterizza la storia d’Italia anche, ahinoi, contemporanea ed attuale. Una radice malefica che dura da oltre 2000 anni.

La questione straordinaria (il termine è tecnico nel Diritto penale romano), che oggi diremmo contemplasse reati che dal nostro vigente Codice Penale sono così qualificati proprio all’inizio del Libro Secondo: attentati contro l’integrità dello Stato, portare le armi contro lo Stato, istigazione ai militari a disobbedire alle leggi, associazioni sovversive e con finalità di terrorismo, apologia sovversiva, attentato contro il capo dello Stato, attentato per finalità terroristiche, attentato contro la Costituzione, insurrezione armata, devastazione saccheggio e strage, guerra civile, usurpazione di comando militare, venne risolta con rapidità.   I prigionieri vennero condotti al Carcere Tulliano o Mamertino (antica cisterna etrusca) dove, nel buio vennero strangolati ad uno ad uno:  stessa fine compiuta con Giugurta e più tardi Vericingetorige.  Al popolo ammassatosi per chiedere l’integrazione processuale con l’appello al popolo (ultima istanza) davanti ai Comizi,  Cicerone apparve pronunciando un solo verbo (proprio lui, sempre così facondo) di sinteticità cesariana o laconica :  “Vixerunt”  (“vissero”, nel senso che era inutile protestare, ormai l’atto decisivo era compiuto:  l’esecuzione sommaria dei congiurati).   Il popolo, confortato dalla frumentatio,  rinunciò in quel momento a reagire con la violenza.  Il colpo dato pareva decisivo.  In realtà, non lo fu affatto e Cicerone scontò poi questo atto nel resto della sua vita, prima con l’esilio e la confisca dei beni imposti dal tribuno Publio Clodio per l’rregolarità della procedure, poi più tardi dalla tardiva vendetta di Marco Antonio che lo fece decapitare, con l’assenso di Ottaviano.  Occorre ricordare che in base a tre leggi, la Valeria, la Porcia e la Sempronia (queste denominazioni derivano o dal propositore o dal console che le attuava), imponevano che ogni cittadino romano, di fronte a reati molto gravi che prevedevano la pena di morte, aveva diritto alla “provocatio ad populum” (letteralmente, “chiamata davanti al popolo”, ovvero appello), quindi di essere ri-giudicato in ultima istanza.  Cicerone, nel corso della “Quarta Catilinaria”, aveva detto che tale legge valeva bene per i cittadini romani, non per coloro che non venivano considerati più cittadini, ma anzi “nemici del popolo romano”: questo, a parere di Cicerone quale giurista, faceva perdere loro ogni diritto costituzionale ed ogni garanzia giudiziaria.  Nondimeno, le cose non dovevano essere interpretate in questo modo, visto che poi Clodio riuscì (corrompendo i giudici, secondo Cicerone, ma questa è una tesi discutibile in quanto faziosa) a farlo condannare all’esilio, per essere reintegrato dopo la morte di Clodio stesso.  Infatti, c’era un giro vizioso nel ragionamento di Cicerone e dei senatori a lui fedeli:  per poter dichiarare “nemico del popolo romano” qualcuno, occorreva sottoporlo ad un processo in cui l’imputato si sarebbe potuto difendere.  Vediamo invece che i lentuliani vengono bensì arrestati, ma il processo, discusso appunto nel Senato, non previde una difesa degli imputati, non poterono neppure tentare di giustificarsi. Arrestati ai primi di dicembre, già il 5, massimo 6 novembre, vengono trucidati.  Ovviamente si tratta di situazione indubbiamente eccezionale, ma è dichiarato dallo stesso Cicerone, che ne fa ripetute apologie, l’esecuzione era sommaria, anche di semplici sospettati di rivolta, o di sovvertimento delle istituzioni (a causa di proposte di legge favorevoli alla massa dei poveri),  che le regole processuali non dovevano venir eseguite.  Il Senato quindi dimostra di aver agito in modo illecito, difendendo non tanto Roma, o la popolazione, o le vergini, o gli adolescenti  come tuonava il console, ma semplicemente il proprio potere oligarchico.   Di qui, la relativa pace sociale stabilita da Silla, con misure durissime, viene a crollare del tutto e ad avviare la Repubblica Romana verso nuove guerre civili, all’instaurazione prima di una forma velata di monarchia semi-assoluta, ma formalmente elettiva;  quindi a divenire un Impero retto da muilitari che decidevano su chi nominare “imperator”, in origine semplice comandante vittorioso meritevole del trionfo, poi divenuta carica a tutti gli effetti monarchica, ancorché sempre formalmente elettiva fino alla fine dell’Impero d’Occidente (476 d.C).,  Tale elettività del resto fu ereditata perfino dal Sacro Romano Impero fondato da  Carlo Magno (800 d. c.) e crollato sotto Napoleone (1806)  [51].

Riprendiamo, dunque, la narrazione sallustiana, che ho interrotto per dare alla versione ciceroniana nel vivo della vicenda la dovuta priorità, altrimenti si doveva andare e tornare in modo un po’  disordinato, oltreché ripetitivo  Siamo al punto in cui Cicerone pronuncia e conclude il suo forte atto d’accusa.  Sallustio, a differenza di altri, non ne riporta il testo, nemmeno in modo riassuntivo:  questo per il fatto assai probabile che essa era disponibile e consultabile per gli interessati, non altrettanto poteva dirsi per scritti o testi tramandati di Catilina, probabilmente già distrutti (quando Sallustio scrive le sue opere, Cesare era morto, per cui si parla del 44 a. C.),  e quelli dei due futuri rivali Cesare e Catone.  Sallustio si limite a definire la “Prima Catilinaria”  quale “orazione magnifica ed utile alla Repubblica” :  evidentemente ne apprezzava sia la forma che i contenuti.  Sallustio ora non riporta il discorso di Catilina in risposta, che molto probabilmente dovette essere assai ironico.  Lo storico romano, anche per seguire l’immagine di un Catilina “simulatore e dissimulatore”,  sostiene che all’inizio il tono sembrava contrito, scongiurava i senatori di non dar credito alle voci calunniose su di lui, in quanto aveva sempre beneficato i poveri, ma qui il tono cambia (il discorso è sempre indiretto).  Egli, vero romano di nobile stirpe,  non aveva certo aspettato per i suoi benefici un Cicerone, un “inquilino della città di Roma”.  Se fosse un romano d’oggi, direbbe (forse) con la classica spocchia “So’  romano de Roma, non un burino come te, Marco Tullio…” con questo console venuto dalla provincia di Frosinone a dettare legge.  Beninteso, le parole citate non furono queste, ma reinterpreto il senso, perché il passaggio del tono apparentemente umile allo sprezzante sarcasmo dimostra come Catilina considerasse il suo rivale.  Riporto ora quanto scrive Sallustio nella citata traduzione, dove si vede che l’uomo, benché completamente solo in quel momento tra irca 900 senatori: “… Poiché seguitava a proferire contumelie, si levarono clamori, lo chiamarono nemico della patria, parricida, ed egli allora furente ‘ Ebbene  - gridò [il testo latino propriamente dice “inquit” ovvero “disse” e non “gridò”: questo denota il suo sangue freddo, malgrado la frase successiva] – poiché mi vedo circondato da nemici e spinto nel precipizio [è un’aggiunta della traduttrice:  Catilina dice “praeceps”, ovvero  “sono minacciato, spinto con violenza, cacciato…”] estinguerò il mio incendio con una catastrofe’…” [52].

Anche qui la traduzione non rende bene la frase:  più che minacciare Roma di incendio, cone vorrebbero far credere i suoi nemici e i loro traduttori al seguito, Catilina sostiene che, essendo evidentemente accerchiate da persone tutte preventivamente orientate contro di lui (anche se ciò doveva immaginarselo), non  avrebbe esitato ad andare fino in fondo nell’azione già decisa.  Esce dunque rapidamente dal Senato, senza che alcuno osi interporsi, e nondimeno se nelle mani di Cicerone vi fossero state quelle prove che diceva (e che viceversa avrebbe avuto soltanto con i documenti in mano agli Allobrogi e alla loro testimonianze) avrebbero dovuto bloccarlo.   Non era forse il Semato circondato da uomini in armi come Cicerone stesso aveva declamato all’inizio dell’orazione ?  Eppure nessuno lo ferma né in quel momento, né poi.  Anzi, Sallustio sostiene che egli riflettè a lungo sullo svelamento della congiura e questo rendeva impossibile una rivolta in città.  Sempre Sallustio sostiene che allora Catilina decide di partire ed avviarsi verso Fiesole per riunirsi alle forze di Gaio Manlio, prima che Cicerone potesse mobiliate le sue (ma non erano gà mobilitate ?). Ordina quindi ai suoi seguaci Lentulo e Cetego di preparare la città alla rivolta, ma già sappiamo come essa andò a finire.  Intanto, Gaio Manlio, in attesa di Catilina e incerto sulle notizie che, ben o male arrivano da Roma, scrive a Quinto Marcio Re la già ricordata lettera, in cui giustifica la sollevazione in armi dei poveri a causa degli usurai e dei pretori, ma chiede che siano assunte misure a favore dei debitori.  Minaccia in caso contrario l’azione bellica.  Marco Re gli replica di deporre le armi, e di presentare suppliche, ma ben sapendo come la faccenda poteva concludersi, non se ne fece nulla.  Catilina stava arrivando.    Qui, sempre sulla base delle affermazioni ciceroniane riprese anche da Sallustio, Catilina cercò di ingannare il Senato avviandosi per la Via Aurelia (che notoriamente  percorre la costa in prossimità del mare) invece che per la Cassia.  In realtà ci si dimentica il fattore geografico e quello climatico.  In linea d’aria, per raggiungere Fiesole la Via Cassia era sicuramente più breve e diretta, ma in realtà percorreva, come ora, territori collinari e montuosi.  Si era inotre in novembre, e, come lo stesso Cicerone dice,  il tempo meteorologico era piuttosto tendente al freddo.  Se Catilina avesse voluto, come sostengono altri, recarsi a Marsiglia in esilio, avrebbe mandato un messaggio a Manlio consigliando di sciogliere le forze ed attendere momenti migliori [53].  Certo  Catilina aveva anche un altro motivo per percorrere l’Aurelia fino ad arrivare alla valle dell’Arno e risalire fino a Fiesole (notoriamente vicina all’attuale Firenze), per riunirsi alle forze ivi raccolte.  Ormai le carte erano scoperte, Catilina sapeva benissimo che non lo avrebbero lasciato in pace, attentatori (come scrive a Quinto Lutazio Catulo) inviati da Cicerone, lo tallonavano lungo la strada, dimostrando che il Senato non aveva alcuna intenzione di lasciarlo vivo e tranquillo, benché in quel momento la realtà rivoluzionaria del suo movimento non era ancora del tutto assodata.  E’  lungo la strada che Catilina manda a Quinto Lutazio Catulo la lettera in cui gli raccomanda di proteggere la propria moglie Orestilla da eventuali vendette:  di che poi successe alla donna, nessuno dice nulla.  Catilina dunque arriva fino ad Arezzo con Gaio Flaminio e da lì punta su Fiesole.  Intanto Senato e consoli decretano Catilina e Manlio nemici di Roma, fissano un ultimatum verso i loro sostenitori affiché si arrendano senza grosse punizioni,  ma Sallustio osserva, in contrasto con quanto asserito da Cicerone sulle sei categorie di aderenti : “… eppure, vi furono cittadini pervicacemente decisi a perdere se stessi e la repubblica.  Infatti, ad onta dei due decreti del Senato, non vi fu uno da tanta massa di popolo che, allettato dal premio, rivelasse qualcosa su la congiura, né uno che disertasse dal campo di Catilina:  tanta era la virulenza del male…”[54].

I Catilinari, dunque, erano gente di tempra dura, altro che viziosi finiti per caricarsi di debiti. Sallustio, pur ex-cesariano ed appartenente al “partito popolare” (non quello democristiano, per carità, quello demagogico-militarista alla maniera dei Mario e dei Cesare), vede anch’egli come fumo agli ochi i ribelli di Catilina ma, sia pure a denti strettissimi, deve riconoscere che non erano facili da manovrare.  Infatti,  aggiunge ancora che non solo i fuoriusciti erano “alienati”, ma  anche la plebe romana (probabilmente artigiani, modesti lavoratori manuali, proletari)  approvava   - egli dice -  le iniziative di Catilina.  Poi, seguendo Cicerone, classifica negativamente tutti questi simpatizzanti, la cui maggioranza, tuttavia, non doveva essere politicamente attiva, ma solo elettori nei concilia plebis e nei Comizi Tributi.  Rimesso in vigore il tribunato da Pompeo e Crasso, sostiene lo storico romano,  molti giovani seguivano quella strada riprendendo l’azione riformatrice graccana.  Allontanatosi Pompeo per la guerra contro Mitridate, re del Ponto (l’attuale Mar Nero, sulla costa turca),  molti di questi ne approfittavano per sobillare la plebe e tenere sotto controllo gli avversari.  Anche Sallustio ribadisce che, se Catilina e i suoi avessero vinto,  vi sarebbero stati massacri terribili, ma qui non fa che ripetere la roboante propaganda ciceronina, tanto è vero che nessuno di questi sostiene che, durante la permanenza dell’esercito catilinario a Fiesole e durante gli ultimi due o tre mesi di preparazione, venisse commessa una qualche violenza sulle popolazioni o sui capi locali.  Erano indisturbati e non disturbavano.  Non hanno commesso  né stragi né violenze, né incendi;  nondimeno arrivando alle migliaia di combattenti, qualche danno avrebbero potuto farlo, Neppure risulta che guarnigioni isolate venissero distrutte [55].  Ma su eventuali masacri o incendi reali, non una parola da parte nemmeno di Cicerone o di Sallustio, o di chi sia.  Sallustio poi si ricollega ai fatti della città, già visti con Cicerone.  Narra, senza differenze significative, del tentativo di attrarre nelle operazioni insurrezionali gli ambasciatori degli Allobrogi e del tradimento che costoro, fosse per paura del consolato o perché non approvavano una simile azione, diffidenti dei ribelli di Lentulo, dopo una prima apparente adesione, compirono svelando il tutto, tramite il loro patrono (protettore) Quinto Fabio Sanga, a Cicerone, ma non solo,  collaborando attivamente per “incastrarli”, facendoli cogliere sul fatto.   Repressione del movimento avviene pure nelle Gallie, cisalpina o transpadana  (la “Padania” di Bossi) e nell’attuale Provenza, o Gallia Transpadana (la conquista dell’intera Gallia doveva avvenire solo più tardi con Cesare).  Il moto risulta facilmente reprimibile proprio per la fretta, e talvolta (come a Roma)  per una certa disinvoltura nell’azione,  tattiche sicuramente superficiali, ma comprensibili, visto che organizzare insurrezioni era qualcosa di poco sperimentato. Era facile, dunque scoprirsi, all’occhio attento dei militari romani.  Si è già parlato di Roma e dell’abile repressione compiuta da Cicerone:  Sallustio non aggiunge cose diverse, per cui è facile dedurre che utilizza, oltre che la propria ed altrui memoria diretta dei fatti, anche la fonte ciceroniana.  Compiuti gli arresti di Lentulo e compagnia, questi vengono condotti in Senato [56], per quella specie di processo (in realtà un semplice interrogatorio), già descritto.  Di Lentulo in particolare si sottolineano le sue ambizioni, più che politiche, in quanto si diceva (anche Cicerone lo afferma) che, stante una profezia dei Libri Sibillini (ovvero della Sibilla  Cumana),  Roma sarebbe stata dominata per la terza volta da un appartenente alla gens Cornelia, di cui faceva parte Lentulo.  Egli quindi si sarebbe considerato il terzo Cornelio che avrebbe avuto pieni poteri in Roma, dopo Cinna (mariano) e Silla.  Ovviamente, non avendo altre fonti a disposizione, non si può dire se tale dicerìa corrispondesse o meno alla convinzione di Lentulo, ma considerato il suo comportamento, può ritenersi attendibile che egli si considerasse il futuro e prossimo dominatore di Roma  (i Romani, è noto, erano abbastanza superstiziosi, malgrado il loro grande senso pratico ed organizzativo, quindi nulla di strano sulle aspettative di Lentulo;  si può supporre, per induzione, che questo fosse anche motivo di frizione con Catilina, il vero organizzatore della rivolta).

Sallustio, altresì, descrive anche l’accusa fatta contro Crasso e Cesare, relativamente ad una partecipazione alla congiura, e aggiunge che Cicerone, in base ad alcune pressioni, fa considerare tale Lucio Tarquinio (anche questo di lontana ma evidente origine etrusca) testimone non solo inattendibile, ma pure lo minaccia di arresto se non ritratta (come si vede, nihil sub sole novi).  Questo Tarquinio sosteneva la complicità di Crasso, mentre Quinto Catulo e Gaio Pisone  sollecitavano Cicerone ad incolpare Cesare, addirittura (sostiene il cesariano Sallustio) tentando di corromperlo (anche qui nihil sub sole novi).  Ma Cicerone risultò su questo piano irremovibile, malgrado Cesare fosse già in odio a molti, come si vedrà dopo il suo discorso legalitario in Senato.  Sia Pisone, sia Catulo (che doveva essere quello stesso a cui Catilina raccomanda la moglie Orestilla) avevano motivi d’odio personale verso Cesare, sia per ragioni politiche che giudiziarie.  Sallustio sostiene che, uscendo dal Senato dopo l’intervento (ricordato da Cicerone) per il rispetto delle norme sull’esecuzione di condanna a cittadini romani (egli prevedeva una forma di ergastolo, nonché di “domicilio coatto” o “confino”, per i Lentuliani),  Cesare ricevette minacce a mano armata da parte di individui non precisati [57].    Come ho più volte ribadito, l’accusa a Crasso e Cesare di aver partecipato alla congiura, fondata unicamente su una certa collaborazione elettorale precedente la stessa, deriva dalla visione dei “partiti“ romani come una sorta di raggruppamenti anglosassoni, conservatori da un lato (pro Senato ), “popolari” (pro classi povere) dall’altro.  Le diverse strategie utilizzate dimostrano che non esisteva un “partito popolare” unico, ma forze democratico-rivoluzionarie e forze demagogico-militariste, con il solo obiettivo comune di indebolire fortemente il potere del Senato, per divergere poi su tutto il resto.  Questa impostazione elimina alla base il sospetto che Crasso e Cesare, come ritiene qualche storico ingenuo,  fossero stati “catilinari” o che Catilina fosse stato un prototipo per il modello “Cesare”.

Sallustio poi riporta i discorsi, probabilmente abbastanza vicini all’autenticità, sia di Cesare (allora trentasettenne), sia di Marco Porcio Catone (ancora più giovane del primo), il primo dove appunto si propongono soluzioni non cruente per le condanne, pur durissime, da infliggere ai congiurati [58].  Il secondo, viceversa si richiama, come pena, alla morte per direttissima, secondo il mos maiorum (il costume degli antenati, praticamente in riferimento alla spietatezza delle XII Tavole), che prevedeva di trattare ribelli o traditori senza alcuna garanzia procedurale.  La proposta di Catone trionfa e la sentenza viene applicata con rapidità mediante strangolamento.  Il curioso è che, per questa condanna, pagò solo Cicerone in persona, mentre Catone, colui che fece decidere il Senato, non subì alcuna persecuzione, se non alla fine, a causa del suo affiancamento a Pompeo e alla conseguente disfatta dei pompeiani e senatoriali (anche qui spesso identificati in un unico gruppo).  In realtà,  Catone non era un “pompeiano”,  bensì un sostenitore del supremo potere del Senato, che non doveva coincidere in nessuna persona fisica particolare, e pertanto avversario di Cesare, quanto, sia pure in modo minore di Pompeo.   E’ anche interessante rilevare che Cesare argomenta pure in senso della filosofia del Diritto, probabilmente sulla base di precedenti argomentazioni greche:  egli osserva che la pena di morte, troncando rapidamente le sofferenze del condannato, non è certo proporzionale alla gravità dei reati contestati ai Lentuliani.  Dunque, è più opportuno far pagare loro i delitti per il resto della loro vita, piuttosto che eliminarli immediatamente.  Questo ragionamento, mutatis mutandis, si ritrova niente po’  po’ di meno che in Cesare Beccaria, proprio trattando della pena di morte,  più di 1700 anni dopo !   Così nulla di cui meravigliarsi se Quintiliano, circa un secolo dopo rispetto a Cesare, segnala l’inutilità della tortura per carpire informazioni, con argomenti per nulla dissimili da quelli di Beccaria.  E questo, tanto per dimostrare come certi princìpi siano frutto della razionalità umana, molto prima di quanto ci aspetteremmo, e nondimeno sempre disattesi per ragioni di comodità procedurale o di vero e proprio sadismo di chi condanna.   Altra cosa è la vendetta, ben altra l’applicazione della razionalità, se non della Giustizia, in questioni processuali [59].

Sallustio annota che degli arrestati furono strangolati Lentulo, Cetego, Statilio, Gabinio e Cepario.  Altri tre dei capi restanti, sembra riuscissero a fuggire, senza che poi se ne parli più.  Intanto Catilina riordina le proprie forze riuscendo a costituire due legioni, per un totale ipotetico di 6000 - 8000 uomini.  Si discute in merito al numero esatto, ma si può ben capire che, trattandosi di forze non regolari, non potevano corrispondere all’organico formale del tempo (dai 4000 ai 6000 legionari per ciascuna legione).  Altri, senza regolare armamento ed equipaggiamento, dovevano presumibilmente costituire bande irregolari, piuttosto adatte a forme di guerriglia che non a scontri in campo aperto.  Alontana gli schiavi, in quanto, secondo Sallustio, non voleva associare la causa dei cittadini poveri con quella di schiavi (da presumere ex-prigionieri di guerra o acquistati, non cittadini caduti in schiavitù per debiti:  ma questa distinzione non è certa).  Temeva probabilmente rigurgiti di “spartachismo” e conseguenti timori delle popolazioni, oltreché motivi disciplinari.  Tutto ciò però è ipotesi in quanto né Sallustio né altri entrano in dettagli, ma un allontanare gli schiavi, dopo averli prima accolti, con quella motivazione sembrerebbe un tantino contraddittorio.   Tallonato dalle legioni regolari, Catilina, per almeno due mesi, si sposta tra i monti (il che suscita perplessità in quella stagione e in condizioni che in quell’epoca dovevano essere pressoché proibitive).   L’armata ribelle si sposta dunque da Fiesole verso Pistoia.  Se ne desume che segua strade irregolari, sia perché allora non sussistevano tutte le strade di oggi, sia per sfuggire all’inseguimento avversario, nella speranza di potersi spostare nella Gallia Cisalpina (oggi  Lombardia e Piemonte), trovando sostegno nelle popolazioni galliche, ancora irrequiete.  Quinto Metello Celere, intanto,  dislocava forze dalla parte nord dell’Appennino, onde bloccarlo appena sceso a valle in direzione del Po.  Dalla parte sud, si muoveva, viceversa, Gaio Antonio, quello stesso che era stato suo alleato alle elezioni consolari.

Sapendo ormai di essere in “scacco matto”,  a Catilina non restava che affrontare il nemico più debole o, perlomeno, quello che gli era stato amico ed alleato fino a non molto tempo prima, ovvero Gaio Antonio,  e decide di affrontarlo militarmente proprio nei campi di Pistoia, nella zona presumibile della tuttora esistente strada che conduce al Passo della Porretta, ponendosi con le spalle alla catena montuosa per impedire ogni possibile accerchiamento.    Sa che ormai la partita è perduta, ma si tratta di reggere non solo l’onore militare di colui che si considerava un console legittimo, in quanto boicottato da brogli elettorali, ma anche perché non aveva alcuna intenzione di fare la fine di Lentulo, di cui era informato.  Aggiungo, prima di passare al suo discorso alle forze ribelli, discorso che segnala un temperamento d’acciaio e che Sallustio riporta non tanto nel senso dell’autentico testo, quanto per i contenuti (si presume riportati da spie, in quanto nessuno sopravvisse tra i catilinari, per poterlo riportare) e per l’atteggiamento,  che non è ben certo (causa i problemi di datazione tra diversi sistemi di calendario, tra quello attribuito a Numa Pompilio allora vigente, o quello di Cesare, che però sarebbe partito successivamente).  Infatti la maggoranza degli storici identifica nel 5gennaio del 62 a. C il giorno della battaglia;  altri nei primi giorni di marzo.  Considerato che ai piedi dell’Appennino Toscano in gennaio non faceva caldo particolare (come ognuno sa, l’effetto serra è qualcosa di molto recente),  è difficile pensare che si combattesse tra una nevicata e l’altra, qualche valanga, scarsamente forniti di cibo;  né gli storici rilevano che l’allora popolazione di Pistoia rifornisse i ribelli con vivande e vino per scaldarsi, pur riconoscendo che il movimento in battaglia riscalda i corpi e i cuori, nondimeno appare difficle immaginare uno scontro in un periodo in cui, di solito, le truppe del tempo (e non solo) si ritiravano nei quartieri d’inverno. Quindi, a rigore di logica e di clima, è più ragionevole che lo scontro avvenisse ai primi di marzo, se non addirittura più avanti.  E’  pur curioso che gli storici fissino una data trascurando il passaggio ad un diverso sistema di calcolo, e pure le condizioni climatiche.

Tornando alla descrizione sallustiana, visto che era impossibile procedere verso nord (allo sbocco si sarebbero trovate di fronte le più agguerrite legioni di Metello Celere), che vi era qualche speranza che Gaio Antonio non dimenticasse la vecchia alleanza, benché solo elettorale,  Catilina decide di passare all’azione e quindi si rivolge ai suoi combattenti con un discorso secco, da comandante, e non certo con la pompa usata normalmente in Senato o in tribunale.  Lo riporto per una caratterizzazione psicologica del personaggio, il tocco finale, in quanto prova che l’uomo, ben lungi dal’essere un vizioso capo di viziosi, era persona tutta d’un pezzo, dal carattere intransigente e deciso: “ So bene, soldati, che le parole non infondono coraggio né fanno d’un vile un eroe [già l’attacco dimostra come fosse uomo di poche chiacchiere e poco portato a credere che basti la parola, ben ricamata, a trasformare in guerrieri dei pecoroni] e che il discorso del generale non rende valoroso un esercito di pavidi.  In guerra si manifesta il coraggio che ciascuno possiede per natura o per la sua formazione:  è inutile esortare chi non è stimolato dall’amore di gloria o dai pericoli,  la paura gli tura le orecchie… Come certamente sapete, soldati, Lentulo con la sua negligenza e la sua viltà [giudizio durissimo, forse anche motivato da informazioni non del tutto precise, sottovalutando così l’abilità indiscutibile di Cicerone nel condurre l’opera di indagine e di repressione ] ha provocato un danno immenso a se stesso e a noi;  mentre attendevo rinforzi da Roma, mi era impossibile trasferirmi in Gallia.  Perciò in questo momento voi tutti vi rendete conto, quanto me, quale sia la nostra situazione. Ci sbarrano la strada due eserciti, uno sulla via di Roma, l’altro su quello della Gallia.  Anche se ci bastasse l’animo di restare più a lungo in questi luoghi, ce lo impedirebbe la scarsità di grano e d’altri generi alimentari [come testimonia Cesare nelle sue opere, il legionario romano si nutriva essenzialmente di pane],  in qualunque direzione si voglia andare, si deve aprire la strada con il ferro… vi invito ad essere forti e risoluti…, tener presente che il vostro braccio porta la ricchezza, l’onore, la gloria, e soprattutto la libertà e la patria.  Se vinceremo, sarà tutto nostro:  ci verranno date vettovaglie…, i municipi e le colonie [nel senso romano del termine, città fondate dai veterani romani in territori conquistati] ci apriranno le porte.  Se la paura ci farà retrocedere, tutto si volterà contro di noi…:  noi ci battiamo per la patria, la libertà, la vita;  a loro [i nemici] poco importa combattere per il potere di pochi [Catilina segnala ai suoi che gli avversari sono semplicemente dei mercenari, soldati in senso letterale, non volontari, non rivoluzionari, non idealisti]. Siate dunque più arditi all’attacco, memori della virtù antica; avremmo potuto trascorrere la vita ignominiosamente in esilio;  alcuni di voi… vivere a Roma di carità… non si passa dalla guerra alla pace se non da vincitori… sperare salvezza nella fuga… è pura follìa.  Nei combattimenti, il maggior pericolo lo corrono quelli che hanno più paura:  l’audacia è la miglior difesa. Quando vi considero, soldati…, spero molto nella vittoria… I nemici non possono accerchiarci:  lo impedisce l’angustia dei luoghi.  E se la fortuna non vorrà favorire il vostro valore, badate a non cadere invendicati e piuttosto che farvi catturare per essere sgozzati come pecore, battetevi da prodi. E se lasciate ai nemici la vittoria, che sia pagata a prezzo di lutti e di sangue” [60].

Rude, chiaro, senza fronzoli, realistico:  il discorso di Catilina è da vero militare che spiega sinteticamente le ragioni del combattimento, incoraggia ma senza illusione e, soprattutto, dice alla fine:  se dovete essere sconfitti, che questa non sia per il nemico una passeggiata.  Se dovete essere uccisi, fatelo con l’arma in pugno, non come bestiame da macello.  Che non fossero solo parole, lo dimostra la descrizione di Sallustio.  Costui, come tutti gli storici romani, come ben più tardi Dione Cassio ed altri,  stima il coraggio anche nei nemici.   Se ha precedentemente mentito, mistificato sulla situazione, qui, come avverrà perfino nel poco coraggioso Cicerone, non riesce a mentire, e Catilina con tutti i suoi ne esce giganteggiando, come colui che, per un ideale, sa morire combattendo.  Non faranno la fine di Spartaco e dei suoi, a cui probabilmente molti di loro pensano, non finiranno barbaramente appesi ad una croce, o buttati nel circo in pasto alle belve:  muoiono tutti sul campo di battaglia, nessuno ferito alla schiena (ovvero in fuga), nessuno senza aver dato all’avversario altrettante perdite umane.

Intanto, Gaio Antonio, col pretesto di un attacco di gotta, se ne sta rintanato nella tenda e affida a Marco Petreio il suo luogotenente e veterano il comando attivo delle operazioni.  Anche questo è un comandante di poche parole, anche questo fa il suo bravo discorso, in cui qualifica gli avversari come “latrones” [61], gente facilmente battibile, gente che fuggirà non appena vedranno i legionari romani.   I due schierano le rispettive forze,  ma Catilina, coraggioso sì ma non fesso, si pone sulla parte alta del pendìo che sale fuori da Pistoia e con la montagna alle spalle, in modo che Petreio non possa accerchiarlo e infatti non ci riuscirà.  Allontana i pochi cavalli e organizza uno scontro di opposte fanterie.  Questo per parificare tutti nella medesina condizione, dal comandante al più umile gregario, in modo da servire da stimolo e da esempio.  Sull’ala destra  pone al comando Gaio Manlio, sull’ala sinistra un “tal Fiesolano”: il nome rimane ignoto, e si è incerti se fosse stato un Etrusco oppure un colono già sillano stabilito nella zona.  Catilina si pone al centro del proprio schieramento.   Sul fronte opposto Petreio si pone a cavallo ed incita le sue truppe, lanciando il segnale d’attacco. La battaglia comincia, i Catilinari, approfittando del terreno ad essi più favorevole  (veramente Sallustio parla di terreno pianeggiante, ma ciò sarebbe in contrasto col pjano esposto ai suoi da Catilina stesso;  del resto chi conosce Pistoia e dintorni sa bene che la parte pianeggiante è breve e comunque in pendìo ovviamente perché si addossa all’Appennino), contrattaccano immediatamente.  Mentre nella tattica normale si passava dal lancio di frecce, quindi delle aste, Sallustio dice che, dopo il primo lancio di frecce, lo scontro avviene violentissimo subito con le spade, quindi corpo a corpo.   Anche qui, a fissare la reale figura di Catilina, ecco la descrizione quasi cinematografica, che ne fa Sallustio : “Catilina, con alcuni armati alla leggera [velites], si prodiga in prima linea, soccorre quelli che si trovano in difficoltà, sostituisce i feriti con uomini sani, provvede a tutto, s’impegna di persona, spesso colpisce il nemico, adempie contemporaneamente alle funzioni di valoroso soldato e di comandante efficientissimo…” [62].

Non male, dunque, per un violatore di vergini, di vestali e di adolescenti, un vizioso e corrotto, indebitato e corruttore!

Quando Petreio si accorge che i catilinari non sono quei pecoroni che supponeva, pronti alla fuga  o a farsi ammazzare, fa intervenire la sua riserva, il corpo scelto della coorte pretoria.  Ora anche qui vi è in Sallustio un’incongruenza: egli sostiene che la ccorte pretoria sfonda il centro, al cui comando vi è Catilina, ma sostiene che, viceversa, cadono tra i primi Gaio Manlio e il Fiesolano, che invece comandavano rispettivamente l’ala destra e l’ala sinistra.   E’  probabile che egli, dopo un primo tentativo sul centro, non pienamente riuscito, decida di sferrare l’attacco alle ali.  Ciò doveva essergli possibile per la superiorità numerica e per gli effetti della stanchezza sulle forze catilinarie, le quali non disponevano evidentemente di riserve, e che tuttavia vendono cara la pelle, come si usa dire.   Sallustio termina infatti la descrizione della battaglia con la scena finale, già riportata in Premessa: non c’è un vero sfondamento, né ancor meno un accerchiamento. I Catilinari cadono ad uno ad uno senza abbandonare il posto a loro affidato: ovviamente da non prendersi alla lettera, ma mantenendo le proprie posizioni. Catilina, vista ormai perduta la battaglia, praticamente da solo si lancia sulle schiere nemiche e, a guisa di un eroe omerico, ne uccide diversi prima di essere a sua volta colpito [63].

Come testimoniano Cassio Dione e Svetonio, il movimento non venne del tutto annientato in quell’occasione, ma privo di un capo valido, probabilmente si sgretolò i  gruppi isolati.  Con la battaglia di Pistoia e la fine della rivolta catilinaria si conclude un’epoca storica ed un progetto di speranza:  le lotte genuinamente popolari e rivoluzionarie cessano per essere sostituite da operazioni militari di guerra civile tra frazioni di eserciti regolari, siano questi favorevoli al Senato e al mantenimento del suo predominio, oppure a singoli capi e personalità influenti e potenti (come più tardi tra Cesare e Pompeo, e tra Giunio Bruto con Cassio contro Ottaviano e Marco Antonio).  Dissolte anche le forze senatoriali, la lotta resterà, praticamente per secoli, tra comandanti con le loro rispettive legioni.  Il progetto di riscossa sociale, tra i Gracchi e Catilina, si dissolve e la plebe proletaria ed agricola romana si trasformerà nella plebaglia sanguinaria che desidera solo “panem et circenses”, non curandosi più di sollevarsi in un popolo cosciente di sé.  Vi saranno ancora rivolte, ma non per un miglioramento generale, bensì solo per soddisfare esigenze momentanee di sopravvivenza e di divertimento.  Un popolo rincitrullito che, malgrado resistesse per alcuni secoli ancora, fu alla fine sommerso dalle ondate barbariche, salvandosi come memoria solo grazie al fatto che nella parte occidentale il Cristianesimo, come Chiesa romana, si sostitui all’Impero senescente  e morente, e ne salvò in parte la cultura, la lingua, le istituzioni, i riti, e determinati simboli.

NOTE: 

[1]    Di sciocchezze sull’Italia e la sua storia se ne dicono tante.  Perfino Benedetto Croce cadde in questo errore grossolano nella sua “Storia d’Italia”.  Con maggior precisione il suo alunno Luigi Salvatorelli vide proprio nella guerra sociale, o meglio nella sua conclusione positiva con la concessione della cittadinanza romana a tutti gli Italici, la nascita di un’Italia politicamente intesa, almeno come Stato “federale”, nel senso antico di Stato legato da un patto e, in parte, anche nel senso attuale di Stato con un’unica Costituzione, ma legislativamente caratterizzato da autonomie. Il nome di Italia sembra nato in Calabria col nome di “Vitulia”, terra dei vitelli.  In realtà il termine è usato dai popoli federati di Roma, che lo inseriscono nelle loro monete col simbolo del toro sabellico che lotta con la lupa di Roma, e costituiscono perfino una capitale nella città di Corfinio (Sannio).  Il termine, in un primo tempo, si estese alla parte sub-appenninica, ne restavano escluse le isole e la parte settentrionale (Gallia Cisalpina o Transpadana).  Questa venne inserita invece  con Augusto (I secolo a.C.) e Virgilio si sente già “italiano”.  Quando rappresenta i fuggitivi da Troia,  essi devono cercare l’Italia, non il solo Lazio o o la sola Roma, per decreto del Destino (“Eneide”, Libro III vv. 163 – 171), e nelle “Georgiche”  il mantovano Publio Virgilio Marone, quindi con probabili ascendenze celtico-etrusche, canta l’Italia in questo modo: “… Il suolo italico  non fu sconvolto da tori spiranti / fuoco dalle narici, seminati i denti del mostruoso drago / né vi spuntò una messe di guerrieri irta di elmi e di fitte lance / ma traboccò di pregne biade e del massico / umore di Bacco;  lo occupano oliveti e floridi armenti. /  Di qui avanza in campo eretto il cavallo da guerra / di qui, o Clitunno, le bianche greggi e il toro, / solenne vittima, molte volte aspersi dalle tue acque sacre, / guidarono i trionfi romani ai templi degli dèi. /  Qui è sempre primavera e, in mesi non suoi, estate; / duplice è la fecondità del bestiame, duplice la fruttuosità degli alberi…/  Aggiungi tante egregie città e fervore di opere, / le numerose rocche costruite dall’uomo su scoscese / montagne,/ i fiumi che scorrono ai piedi di antiche mura. /   A che ricordare il mare che lo bagna in alto e in basso ? /  e gli ampi laghi ?  e te, vastissimo Lario, e te, /  Benaco che sorgi in flutti e in fremito marino? / A che ricordare i porti e la diga sul Lucrino / la distesa marina che irata vi si frange con alto fragore, / laddove l’onda Giulia risuona del riflusso delle acque / e il ribollire del Tirreno penetrò nel lago d’Averno? /…  Questo generò i Marsi, stirpe di duri guerrieri, / e la gagliardìa dei Sabelli, e i Liguri resistenti alla sventura, e i  Vosci /  armati di spiedi, e i Deci, i Marii, i gloriosi Camilli, / gli Scipìadi aspri in guerra. E te, grandissimo Cesare /…  Salve, grande genitrice di messi, terra Saturnia, / grande madre di eroi: per te incedo fra antichi / fasti di gloria e d’arte, osando dischiudere le sacre fonti, / e canto il carme di Ascra per le città romane…”.

(Publio Virgilio Marone,  “Le Georgiche” , Libro II, vv.  140  -  176;  ed. it. BUR, Milano,  2007,  con testo a fronte,  commento di Antonio la Penna e Riccardo Scarcia, traduzione di Luca Canali,  pagg. 203 – 209.  L’elogio all’Italia, un canto che mai potrà ripetersi con lo stesso entusiasmo, prosegue ancora.   Virgilio ricorda l’antichità e la gloria non solo dei Romani, ma anche quella delle popolazioni ad essa associate, ormai un tutt’uno pressoché indistinguibile.  E questo lo scriveva un “padano”, come direbbe oggi qualcuno, a cui si associò un altro “padano”  lo storico Tito Livio, di Padova.   Ma già Cicerone, proprio descrivendo la reazione degli Italici, in sostegno del Senato, e contro Marco Antonio, identifica l’Italia, non solo a sud del Rubicone e dell’Appennino Emiliano, ma anche in quella che allora era  chiamata Gallia Transpadana o Cisalpina, nonché la Venezia (nord-est): cfr. XII Filippica, cap.  4 – 12,  ed. it. BUR (Milano,  2003),  testo latino a fronte, trad. a cura di Giovanni Bellardi, pagg. 453  -  471.   Cfr. pure  Marta Sordi,  “Il Mito Troiano e l’eredità etrusca di Roma” ed. Jaca Book ,  Milano, 1989.  Il mito troiano, portato in Italia probabilmente dagli stessi Etruschi che ne raffigurano episodi nelle tombe, non caratterizza soltanto i primordi della storia di Roma, ma anche quella degli antichi Veneti, quando si narra che Antenore, eroe troiano, arriva nel nord-est d’Italia e fonda Padova.  Non solo, ma è Tito Livio stesso, padovano, a ricordare che furono gli Etruschi a dare una certa unità alla penisola, conquistandola dall’attuale Lombardia fino alla Campania.  Il mito troiano, tuttavia rovesciato, vale anche nell’Italia meridionale, di cui molte città si dicono fondate da eroi greci (es.  Diomede), vagando nel Mediterraneo oppure per scelta.  Non è easgerato dire che la prima idea di un’”unità” della penisola e del nord nasce proprio dal comune riferimento alla guerra di Troia, che trova negli Etruschi e nei Greci i principali narratori alle popolazioni italiche autoctone o di più antica immigrazione.

La coscienza dell’unità fisica, culturale, giuridica dell’Italia è, pertanto, ben più antica del 1861.  Ma non è qui il luogo per farne tutta la storia, perché ci vorrebbero libri interi.  Dalle guerre sociali fra Italici e Romani del I secolo a.C,  il binomio Roma-Italia diventerà inscindibile, malgrado poi cambiamenti di capitale, situazioni disgregatrici e tutto quello che avvenne in circa 1400 anni di storia.

[2]   Quando si intende parlare di “organizzazione” nell’antica Roma, non va inteso un semplice processo tipicamente anglosassone di “equilibrio tra poteri” (il checks and balances, col metodo dei pesi e contrappesi che tanto entusiasma i nostri moderni costituzionalisti, sempre pronti a scopiazzare cose altrui), ma ben altro:  come si deduce dal celebre apologo di Menenio Agrippa sul rapporto tra patrizi e plebei come quello tra stomaco e braccia, e sul quale i grandi economisti moderni dovrebbero meditare  molto a lungo,  il concetto romano di organizzazione non è analogo ad un orologio meccanico a cucù, oppure al celebre turco che gioca a scacchi, ma quello di un organismo vivente dove, come si è detto, ogni organo ha una precisa funzione.  Il senso dell’apologo di Menenio Agrippa è naturalmente da vedere in un’ottica popolare, non certo filosofica, ma il succo della concezione è questo:  ogni classe sociale rappresenta un organo di quel corpo vivente che è lo Stato, regolato da leggi.  La rottura di queste relazioni, dove un organo svolga o voglia svolgere funzioni non proprie, l’Organismo finisce per corrompersi e morire.  Possiamo pure pensare alla costituzione interna della Legione, la quale, a dfferenza dello schieramento oplitico ellenico e della falange macedone, non si limitava a muovere compatta contro il nemico, per sfasciarsi quando una parte cominciava a cedere, ma memore delle esperienze delle guerre sannitiche, si distingueva in sotto-reparti.  Ogni blocco o quadrato era distinto in tre file:  quando la prima (hastati) stanca dal combattimento, retrocedeva, la sostituiva la seconda fila, quella dei principes.  Logorata anche questa, appare la fila dei triarii.  In tal modo, la Legione romana poteva contrapporre al nemico forze relativamente più fresche rispetto al nemico. Ma non basta: la Legione si distingueva in coorti, manipoli, centurie, in modo da scomporsi e ricomporsi ad ogni necessità.  Ogni reparto poi era retto con una gerarchia ben precisa, poi imitata da tutti i moderni Eserciti. In tal modo, i Romani potevano affrontare nemici anche superiori di numero e in qualunque condizione di terreno, nell’eventualità della morte del comandante aveva pronto un subordinato che lo sostituisse.  Nessun altro popolo del tempo seppe mai avere corpi militari di tale elasticità e manovrabilità.   A ciò si aggiungevano le grandi capacità ingegneristiche di quel popolo che, con pazienza e temacia (la cosa appare chiara anche nel celebre assedio di Alesia da parte di Cesare contro i Galli, da lui stesso descritto), sapeva erigere sbarramenti che separassero decisamente la città assediata da eventuali rinforzi esterni pur numerosi, o di costruire in quei tempi un ponte di legno per attraversare il fiume Reno, non quello romagnolo, ma quello che separa Francia e Germania.

[3]  Per dirla esattamente alla latina sarebbero le “Orationes in Catilinam”: “in” ha valore di “contro”, mentre a favore si dice “pro” come in italiano.   Riguardo alla strumentalizzazione di fenomeni climatici o fisici “strani” in senso politico ed anticatilinario, cfr.  “Sulla Divinazione”, Libro I, XI, 17  -  ed. it.  Garzanti (Milano, 1999), testo latino a fronte,  trad. Sebastiano Timpanaro,  pag. 17 (note alle pagg.  245 – 249), relativamente alle considerazioni del fratello Quinto Cicerone;  Libro II, III, 6  pag.  113, e nota di pag. 331.

[4]  Marco Licinio Crasso era uomo ricchissimo, un vero capitalista mai soddisfatto delle ricchezze.  Soffocò la rivolta di Spartaco, crocifiggendo lui e gran parte degli schiavi catturati nel 71 a. C. .   Alleato di Cesare, divenne con lui triumviro e proprio per brama di ricchezze si fece mandare in guerra contro i Parti.   Questo popolo, erede dei regni ellenistici seguiti all’Impero Persiano, occupante grosso modo l’Irak e l’Iran occidentale di oggi) aveva una tattica particolare fondata sulla veloce cavalleria.  Come anche gli Sciti, fingevano di fuggire, non senza lanciare colpi precisi di freccia (la celebre “freccia del Parto”);  quindi, stancato l’avversario, contrattaccavano improvvisamente, spesso vincendo il nemico.  I Romani, non addestrati a questa tattica e sempre privi di una numerosa e adeguata cavalleria, vennero spesso battuti. A Carre, nel 53 a. C, Crasso e il suo esercito vennero praticamente annientati. In particolare,  Crasso, catturato vivo, venne fatto uccidere dalla regina Tamiri con oro fuso versatogli in gola, vista la sua brama di ricchezze.   Sembra che molti legionari prigionieri venissero venduti come schiavi in Cina, e qualche ricercatore avrebbe individuato in una certa popolazione i loro discendenti.  Cesare, proprio nell’ultima fase della sua vita, voleva organizzare una spedizione contro i Parti, proprio per vendicare tale disfatta, ma la congiura di Bruto e di Cassio ne provocò la morte in Senato con diversi colpi di pugnale.  Da qui la nuova serie di guerre civili tra forze senatoriali  e quelle cesariane (Filippi), poi tra antoniani e augustei, per finire con la vittoria di Ottaviano ad Azio e la conquista dell’Egitto, ultimo regno ellenistico ancora indipendente.

[5]  Publio Virgilio Marone,  “Eneide”, Libro VIII, vv. 668 – 669;  ed. it. BUR (Milano,  2002), testo latino a fronte, trad. e commento di Riccardo Scarcia, vol. II, pag. 821.  E’  certo curioso che Dante, pur appellandosi a Virgilio come a proprio maestro ed ispiratore, si dimentichi completamente di Catilina    e lo ignori, mentre teoricamente avrebbe dovuto inserirlo tra i seminatori di discordie o tra i superbi, mentre non dimentica di mettere Bruto e Cassio perfino in bocca a Lucifero (nel posto peggiore dell’Inferno).  Dimenticanza voluta o involontaria sapendo anche che Catilina, nel Medioevo, era considerato il “padre” delle lotte intestine nella Valle dell’Arno ?   Non solo, ma Dante si rifà brevemente alle varie leggende medioevali su Catilina ricordandolo nel “Convivio”.  Forse la potente immagine di Farinata degli Uberti ricorda per certi versi l’immagine che di Catilina si aveva nella tradizione fiorentina.

[6] Gaio Svetonio Tranquillo “Vite dei Dodici Cesari” (contati a partire da Gaio Giulio Cesare a Domiziano), Libro II, “Divo Augusto”, III, 1  -  ed. it.  Rusconi, Milano, 1994, a cura di Gianfranco Gaggero,  pag.  203.  E’  importante ricordare che di questa battaglia o guerra condotta dal padre di Ottaviano contro spartachiani e catilinari uniti, probabilmente operanti con tecniche di tipo “partigiano” o di guerriglia, Svetonio è l’unico storico testimone.   Dimostra comunque che la lotta popolare, sociale e rivoluzionaria non era stata del tutto spenta dalla repressione di Cicerone e con la battaglia di Pistoia.

[7]   Vulso, –onis (Vulsone) è la latinizzazione del nome etrusco Velzna.  Manlius (altrimenti Manilius come il celebre studioso di astrologia) è pure esso considerato etrusco, anche se ignoro la forma etrusca originaria, e significa “nato di mattino”.    Del “quendam Faesulanus” non sappiamo nulla, ma doveva essere personaggio importante nel moto catilinario, se potè usufruire del comando in terza posizione, e probabilmente il capo di tutti gli Etruschi che vi aderirono.

[8]  Non è per nulla un caso che le deliberazioni senatoriali venissero sempre chiamate “senatus consulta”, non “leges”, in quanto era espressione di pareri maggioritari o unanimi all’interno di quell’organo,  mentre la legge era deliberata, almeno formalmente, dai soli Comizi.   E nondimeno di fatto i consulti del Senato avevano valore, diremmo oggi, di decreto con efficacia immediata, particolarmente il più tremendo di questi, il “senatus consultum ultimum”, che dava ai consoli i pieni poteri per la repressione di ogni tentativo di rivolta, con largo uso indiscriminato della pena di morte  (soprattutto gli schiavi ribelli venivano condannati alla crocifissione, che è un’orrenda pena di morte rallentata ed insieme una straziante tortura).

[9]  Marco Tullio Cicerone, “In difesa di Marco Celio”,  cap. VII, ed.  Società Editrice Dante Alighieri, Roma, 1957 testo in latino con trad. interlineare, pagg. 21 – 23 e  24 – 25.

[10]  M. T. Cicerone,  “Filippiche”, Quarta, 6, 15  - ed. it. BUR (Milano, 2003), trad. a cura di Giovanni Billardi, pag. 251.  Cfr anche, Seconda Filippica, ibidem, pagg. 101 e 201,   dove dice altra frase celebre:  “defendi rem publicam adulescens, non deseram senex;  contempsi Catilinae gladios, non pertimescam tuos” “Difesi la repubblica ancora giovane, non l’abbandonerò da vecchio;  non temetti le spade di Catilina, non temerò le tue [Antonio]. E’ anche divertente che si professi “adulescens”, quando in realtà, essendo nato nel 106,  nel 64 – 63 a. C, aveva oltre quarant’anni d’età, mentre in quel momento aveva sorpassato i sessant’anni.  Cfr. Ottava Filippica, pag. 353  e Tredicesima Filippica, pag. 497 (dove, sempre nel confronto, accosta Marco Antonio a Spartaco prima, a Catilina poi, ma sempre come modelli migliori).

[11]  Gli antichi, almeno delle classi  agiate, non pranzavano come noi seduti a tavola, ma distesi su lettini attorno a basse tavole riccamente imbandite, e serviti da schiavi, questo tanto fra i Greci, quanto fra gli Etruschi ed i Romani.

[12]  Ne riporta il testo, probabilmente molto vicino a quello originale, Sallustio :
“Ho sperimentato per prova la tua lealtà.  Mi’è stata di conforto nelle ore difficili e m’incoraggia a scriverti questa raccomandazione…  non ho il minimo senso di colpa. In nome di Dio, constaterai un giorno che quanto scrivo è la verità.  Esasperato dalle ingiustizie e dagli affronti, defraudato del frutto delle mie fatiche…, ho fatta apertamente mia la causa dei poveri [aggiunge anche che, proprio grazie all’aiuto di Orestilla e, perfino, della figlia, aveva potuto pagare i debiti, di cui era stato garante per conto d’altri, senza difficoltà]… perché vedevo insigniti di onori uomini che non ne erano degni e sentivo d’essere tenuto in disparte per sospetti infondati… Vorrei scriverti di più, ma mi dicono che si sta preparando qualche atto di violenza contro di me.  Ti raccomando Orestilla, l’affido alla tua amicizia [veramente il testo sallustiano non parla di “amicizia”,  ma della “Fides”, un principio giuridico molto importante nel Diritto romano, tradotto nel meno forte “buona fede”.  La Fides romana aveva un valore di sacralità religiosa inviolabile.  Catilina e Catulo non sono amici, anzi, ma Catilina conta sul rispetto e sulla lealtà di Catulo].  Difendila dalle offese, te lo chiedo in nome dei tuoi figli.  Addio”  (Gaio Crispo Sallustio,  “La Congiura di Catilina”, cap. XXXV,  ed. it. BUR (Milano, 1980),  resto latino a fronte, trad. Lidia Storoni Mazzolani, pag. 135.

[13]   Le cariche pubbliche duravano un anno con regolari elezioni presso i Comizi (Centuriati e Tributi;  quelli Curiati allora dovevano essere ormai in disuso.  I Comizi centuriati  comprendevano i cittadini capaci alle armi;  quelli Tributi tutti i cittadini maschi, patrizi, plebei, cavalieri, ecc.).  Non dovevano differire granché dalle elezioni moderne.  Dopo l’ottenimento della pretura si aveva un compito di amministratore nella province, cosiddetto “propretore” e, dopo il consolato, di “proconsole” con funzione maggiormente rilevante.  Questa carica consentiva spesso abusi soprattutto in sede fiscale,  E’ celebre il processo contro Verre, di cui accusatore fu proprio Cicerone e che lo rese famoso, perché riuscì a vincere l’allora primo oratore di Roma, Ortensio.

[14]  Cicerone è un classico avvocato, oggi diremmo sia difensore di imputati e sia di parte civile.  Riportato in “Le Catilinarie”, ed. it BUR (Milano,  1979),  con testo latino a fronte,  trad.  di Livia Storoni Mazzolani, Introduzione, Testimonianze ciceroniane su Catilina, pag. 64.  Lettere ad Attico, I, 2, I.
[15]  Generalmente si crede che i processi, civili e penali in Roma, sulla base di quante regole ci sono state trasmesse dal Codice Giustinianeo, fossero una cosa seria. Ma è lo stesso Cicerone che, in una lettera all’amico Attico del maggio 61 a.C,  a proposito di un processo contro Clodio e Curione difesi da Ortensio, ci descrive così la reale situazione che dimostra come, anche allora, tra lo scrivere, il dire e il fare passasse un’enorme differenza : “… io ammainai le vele vedendo bene l’inadeguatezza dei giudici; e non dissi nulla come teste, se non quello che era tanto noto e tanto confortato da testimoni da non poterlo tacere.  Perciò, se chiedi il motivo dell’assoluzione… ti dico che fu la miseria e la disonestà dei giudici:  e ciò è accaduto in grazia della trovata di Ortensio, il quale… non capì che era meglio lasciare costui (Clodio) nell’abiezione e nel fango piuttosto che affidarlo a un processo di esito incerto…" - "  non c’è mai stato in uno spettacolo di varietà una compagnia più indecente:  senatori malfamati, cavalieri al verde, tribuni non tanto danarosi quanto di infimo rango…" - "… E poi  -  badate, o buoni dèi, al fatto vergognoso  - certi giudici per giunta al compenso in denaro poterono passare alcune notti con signore d’alto rango e godersi i favori di nobili giovinetti che erano stati loro procurati…”.  In M.T. Cicerone,  Frammenti delle Orazioni Perdute”, ed. it.  A. Mondadori (Milano, 1971), testo latino a fronte, a cura di Giulio Puccioni, pagg. 102,  104  e 108.  Già a suo tempo si era visto che nella Grecia di Esiodo le cose non erano granché diverse, ma questo, scritto da Cicerone, avveniva nella “Patria del Diritto” per antonomasia.   Anche volendo fare la tara alle maldicenze di Cicerone, sempre poco “politicamente corretto” con i suoi avversari, nondimeno ne esce un quadro desolante sulla realtà giudiziaria romana,  eufemisticamente descritta nei sacri testi della storia del Diritto romano e di Diritto privato romano, dove di certo casi simili non vengono neppure supposti.  Una cosa è l’impostazione formale della giurisprudenza, altra l’effettiva realtà.   Se tutto il mondo è “paese”, anche ogni momento storico è un momento attuale.

[16]   Chiunque abbia una certa cultura umanistica, sa che alla base della fondazione della Repubblica Romana sta la celebre leggenda di Lucrezia, moglie di Bruto:  costei era insidiata da Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo, e presumibile erede al trono.  Mentre Bruto era al campo per una delle tante guerre contro i Latini (allora Roma era città storicamente etrusca, perfino nel nome), Sesto penetrò nella sua casa, violentò la moglie Lucrezia che si uccise per la vergogna.  Il marito tornò appena in tempo e seppe la causa del suicidio.  Da lì  i  Ramnes e Titienses (ovvero i discendenti di Romolo e dei Sabini) opposti ai Luceres i discendenti degli etruschi immigrati, insorsero contro la monarchia etrusca ed instaurarono la repubblica. Ne seguì tuttavia la spedizione di Porsenna, lucumone di Chiusi, il quale, malgrado l’accanita resistenza della città (anche qui i celebri episodi di Clelia, di Orazio Coclite e di Muzio Scevola che, secondo la tradzione annalistica e liviana convinsero Porsenna a togliere l’assedio), riuscì ad assoggettarla nuovamente, sia pure  per breve tempo.  Agli studiosi di storia etrusca, per quel poco che se ne può ricavare dai testi antichi e, soprattutto dalle iscrzioni e dai resti archeologici, è noto che in Etruria le rivolte di schiavi furono numerose;  inoltre gli Etruschi in contemporanea dovettero sostenere sia la penetrazione gallica, nella valle del Po, sia quella dei Greci e  dei Sanniti in Campania.  Questo può spiegare come il ripristino del dominio etrusco in Roma fu, tutto sommato, breve, e il patriziato romano/sabino riassumesse ben presto il controllo della situazione.  Da allora in avanti comincia l’espansione romana nel Lazio a spese dei Latini, dei Sabini, degli Equi, dei Volsci, degli Etruschi di Veio (potente città etrusca subito otre il Tevere, distrutta dopo un lungo assedio da Furio Camillo).  La Repubblica Romana nasce  proprio sulla base di un’idea della donna, moglie casta e pura, madre affettuosa e severa insieme, senza nessun grillo per la testa (modello classico la madre dei Gracchi, Cornelia).  L’idea etrusca di una donna libera, capace finanziariamente o politicamente, era qualcosa che terrorizzava le forze conservatrici romane, e perduranti ben oltre  tempi che affrontiamo qui e la maggior libertà o licenza di costumi della fine della Repubblca  dell’Impero.  Ma sappiamo che l’inferiorità giuridica della donna, come figlia e moglie, sono tipiche del Diritto civile romano ed ereditata poi dallo stesso Codice Napoleonico e derivati. Sul discorso programmatico, dove è inserita la frase che lo avvicina a Tiberio Gracco,  dirò più avanti, riportandone larga parte.  Qui rinvìo al cap. XX dell’opera di Sallustio .

[17]  Meno celebre, ma forse abbastanza grave, fu quella di Euno (soprannominatosi Antioco, come erede del Regno di Siria), in Sicilia tra il 135 e il 132 a. C. .

[18]  G. C. Sallustio, op. cit.,  cap. XLV,  ed. cit.,  pag.149.   La traduzione della Storoni Mazzolani forse non rende a pieno il senso del documento:  Sallustio dice “infimis”, ovvero gli ultimi nella scala sociale. Non si parla di schiavi.  Attenzione, siamo in una vera azione rivoluzionaria, quindi è necessario mantenere un grado di segretezza.  Infatti, anche il mittente non  scritto, bensì fatto dire al messaggero stesso.

[19]   Si trattava di legge sociale dei consoli Petelio e Papirio del 326 a. C., che vietava per i cittadini romani insolventi, sia il carcere, sia la schiavitù.

[20]  G. C. Sallustio, op. cit. , cap. XXXIII, ed. cit. pagg. 131 – 133.

[21]   ibidem,  cap. III, pag. 81.   Relativamente ad un possibile parallelo tra la nostra epoca di crisi, in realtà perdurante dal 1973 almeno e non  certo da pochi anni, è da notare come vi siano alcune forti somiglianze soprattutto nell’aumento di quella differenza economico-sociale che  viene chiamata “forbice” tra ricchi e poveri, e prevista del resto dalle dottrine sociali del tardo Settecento e dell’Ottocento, tale da preparare un guerra civile e di classi;  pur tuttavia a noi oggi mancano cervelli e cuori vigorosi, non abbiamo ora né i Gracchi, né i Catilina, né  i Cicerone, né i Catone, né Cesare, né Bruto, e neppure Marco Antonio ed Ottaviano:  abbiamo, a dirigerci, una massa non  di nani, né di insetti, né di lombrichi, bensì di batteri, di virus e di prioni, talvolta soltanto elettroni e neutroni rispetto a quelli, che furono veri giganti per la parola, per il pensiero, per l’azione.  Non abbiamo neppure la plebe romana che spesso insorgeva, chiedendo “panem et circenses”,  oggi abbiamo solo una plebaglia che chiede esclusivamente “circenses”  e si lascia portare via il “panem” dalla bocca e dalle mani, mentre guarda citrullamente la “televisionem” !   La tragedia attuale è oggi  tutta qui !

[22]   ibidem,  cap. IV, pag. 83.

[23]   ibidem,  cap. XVI,  pag. 103.

[24]  ibidem,  cap. XVII, pagg. 103 – 105.

[25]  In altra nota del testo Lidia Storoni Mazzolani  osserva che in questo gruppo dovevano esservi nel 66 a. C. (non meravigliamoci della divergenza di date, per il motivo di un diverso sistema del calcolo annuale, per cui gli episodi vengono descritti in modo cronologicamente confuso:  taluni parlano del 65 a. C., talaltri del 66 a.c.  Qui stesso si dice 64, e poi si parla del 66),  Gaio Giulio Cesare e Marco Licinio Crasso.  Ora, come ho osservato, che ci fossero o non ci fossero, non posso saperlo.  Malgrado sia anziano, allora ero di là a venire e non ho assistito.  Ma chiunque di noi sa che, quando vi sono riunioni politiche, vi sono varie presenze, non necessariamente persone che aderiscano alle proposte.  Talvolta appaiono anche disturbatori veri e propri.  E’  estremamente facile capire che né Cesare (felicemente ricco), né Crasso (ancora più felicemente ricco, sebbene bramoso di altre ricchezze), erano in condizioni vicine alla miseria.  Appare altresì evidente l’enorme differenza di metodologia di questi due, ben inseriti nel sistema politico e militare del tempo, a differenza dell’emarginatissimo Catilina,  fra costui e i due, che, in quanto vicini al partito e ai programmi popolari, non andavano certo oltre le elargizioni di giochi e di “frumentationes”  (lo stesso moralissimo Catone ne proporrà una per tenere buona la plebaglia, quando Lentulo e i suoi vennero strangolati nel carcere Tulliano), doveva esservi, checché ne dicano molti storici che seguono pedissequamente le versioni di Svetonio e di Plutarco  (ben lontani tuttavia dai fatti in  questione), un abisso di differenza ideologica, morale, e strategica:  basterebbe confrontare la fine di Catilina con la spada in pugno rimasto solo contro i nemci, quella di Crasso costretto a bersi oro incandescente, e quella di Cesare, fattosi pugnalare con la toga sugli occhi, per capirlo.   Come sempre in tali casi, va nettamente distinta la pura demagogia dalla lotta sociale dei Gracchi, di Spartaco e di Catilina.

[26]  Ad esempio, il Marco Lepido qui citato, non è lo stesso che partecipò, con Marco Antonio e Ottaviano, al secodo triumvirato, ma forse suo padre.  Siccome poi manca un’”anagrafe” dell’età romana, è difficile districarsi tra tutti questi nomi e avere le idee più chiari sui personaggi, sui fatti, sugli anni di questa congiura.  L’impressione che ne esce è lo scambiare un periodo di propaganda ed organizzazione elettorale con la preparazione di una congiura.

[27]  Le None sono il secondo gruppo di giorni del mese romano.  Non dimenticando l’incertezza sulle date conseguente alla differenza tra i calendari, il tentativo di assalto dovette essere effettuato tra il 5 e il 7 febbraio di quell’anno.

[28]  Per l’esattezza, il testo latino non parla necessariamente di coraggio ma di “virtus et fides”,  il che non implica forza, coraggio fisico, coraggio militare, o simili, ma semplicemte onestà e coerenza, mantenimento della parola data.  Fides è usato anche nei contratti di natura giuridica, tradotta da noi con “buona fede”.  Molto spesso i tradutori si lasciano prendere la mano forzando il testo.  Ibidem, cap. XX,  pag. 111.

[29] « In libertatem vindicamus »  è il motto (oggi diremmo “slogan, logo”) del movimento catilinario, usato anche da Gaio Manlio nella lettera a Marcio Re.  RIVENDICHIAMO LA LIBERTA’, sottinteso nel senso che vogliamo difenderci dalla schiavitù e dalla carcerazione per debiti.  Riassumeva ad uso popolare il programma sociale (non socialista, cone qualcuno anacronisticamente dice) dei Catilinari.

[30]  A questo punto i commentatori annotano che Catilina si riferisce al periodo post-sillano.  In realtà, non risulta alcuna allusione a Silla, di cui si pretende fosse stato seguace e combattente.  Egli allude, come lo stesso Sallustio fa nella sua presentazione storica, al periodo in cui il Senato, e la classe in esso dominante, ovvero i cavalieri, cioè i più ricchi, concentrarono il potere nelle loro mani, togliendolo di fatto, se non di diritto, ai Comizi Tributi, e considerarono la maggioranza del popolo una massa di pecore da comandare, mentre essi si impadronivano di tutte le ricchezze acquisite sugli altri popoli o sugli stessi cittadini romani per mezzo delle imposte.  Come si vede, anche in tema fiscale, in 2000 e più anni di storia, le cose in Italia non sono cambiate poi tanto !

[31]  Qui gli storici osservano che Sallustio, mettendo in bocca a Catilina questa frase, lo fa per irridere l’attacco che Cicerone fa nella Prima Catilinaria, il celeberrimo “Quousque tandem abutère, Catilina, patientia nostra ?…” (Fin quando, dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza” ?).   Mi pare un’interpretazione discutibile, in quanto il discorso sopra citato di Catilina è anteriore di circa due anni rispetto all’orazione di Cicerone. Sarebbe parso ai lettori del tempo una cosa anacronistica, come se, a titolo d’esempio, mettessimo in bocca a Berlusconi, ieri governante, una frase di Monti oggi governante. La cosa apparirebbe evidentemente assurda.  E’  una formula d’attacco, probabilmente comune nell’oratoria del tempo, quando si voleva suscitare una determinate reazione.  Potrebbe anche, semmai, essere vero l’inverso, ossia che fosse Cicerone, uomo non privo di umorismo e di sarcasmo, colui che si fa beffe di una frase spesso ripetuta da Catilina.

[32]   G. C. Sallustio, op, cit., ed. cit.,  pagg. 111 –113.

[33]   ibidem, cap. XXI, pag. 115.

[34]   ibidem, cap. XXII,  pagg. 115 – 117.

[35]   ibidem,  cap.  XXIII, pagg. 117 – 119.

[36]   ibidem, capp.  XXIV – XXV, pagg. 119 – 121.

[37]   ibidem, capp. XXVI  - XXVIII, pagg.  121 – 123.  Per la mentalità classica, l’attentato alla vita di un qualche potente, in particolare se tiranno, non era vista negativamente.  Lo si vede bene con Gaio Giulio Cesare, in Plutarco, ed anche nella tradizione greca.  Oggi a noi, inevitabilmente,  un tentativo di aggressione al console Cicerone fa un’impressione negativa, ma bisogna anche correlare il tutto al fatto che egli era la mente direttiva che aveva impedito a Catilina qualunque azione di carattere legale, con brogli ed ogni altro impedimento alle elezioni.  Ormai tra i due vi era una guerra, una questione di vita e di morte.  Questo spiega la decisione di eliminarlo.    dimenticherei di segnalare che tale aggressione era meno vile di quanto possa sembrare, perché i due uomini non affrontano Cicerone da solo, ma circondato da suoi non pochi “clientes” e, in quanto console, non privo di guardie del corpo.  Cesare, ad esempio, fu invece solo, accerchiato dai congiurati in Senato e avendo lasciato ogni difesa, essendosi accorto che tra di essi vi era Bruto, suo figlio adottivo (“Tu quoque, Brute, fili mi !”:  “Anche tu Bruto, figlio mio !”).  E, copertosi il capo con la toga, si lasciò pugnalare, dopo un primo tentativo di resistenza.

[38]  ibidem, capp. XXIX – XXXI,  pagg.  125 – 127.

[39]   M. T. Cicerone, “Prima Catilinaria” §§ 1 e 2,   ed. it. BUR (Milano, 1979), trad. e commento di Lidia Storoni Mazzolani, testo latino a fronte,  pagg. 87 – 89.

[40]   M.T. Cicerone,  “Lettere ad Attico” I, 14, 2, scritta il 13 febbraio del 61 a. C, poco oltre un anno dalla battaglia finale a Pistoia contro Catilina  -  riportato in “Frammenti delle Orazioni Perdute” a cura di Giulio Puccioni, ed. Mondadori (Milano, 1971),  testo latino a fronte, pag. 100.

[41]  M. T. Cicerone, op. cit., ed. cit., capp. I  -  VI, pagg. 89 – 99.

[42]   Per capire un simile fatto, ossia del darsi o essere messo in custodia da privati (del resto la cosa avvenne, in un primo momento, anche al gruppo di Lentulo), bisogna pensare ad un Diritto penale ancora legato alle tradizioni privatistiche e personalistiche delle XII Tavole.  Il fatto stesso che un’esecuzione sommaria, esercitata sulla base di un decreto senatoriale, potesse essere effettuata, senza reazioni a loro volta penali, da privati, dimostra appunto che la tradizione arcaica  era in parte ancora vigente, sebbene rigettata da leggi successive più progredite e garantiste.  Ma l’aspetto interessante di queste “Catilinarie”, proprio sul piano giuridico, è che dimostrano, fin da tempi lontani da noi, che una cosa è la procedura scritta, quella che poi si ritrova nel Codice Giustinaneo e nei manuali di Diritto romano, ben altra la triste realtà del tempo.

[43]  ibidem,  cap. VIII, 20, pag. 105.

[44]  M.T.C., « Seconda Catilinaria », ed. cit., pag.  117.

[45]  ibidem, capp. II – VI, pagg. 119  -  127.

[46]   ibidem,  capp. VII -  X,  pagg. 127 -  135.  Per la precisione, la frase citata è a pag. 135.

[47]   La data di questa terza orazione  è del 3 dicembre;  nondimeno Cicerone, riferendosi alla partenza di Catilina dice “pochi giorni or sono”, mentre invece si sarebbe trattato di quasi un mese (primi di novembre, con una certa elasticità di calcolo).  Vero è che tutto è relativo, ma dimostra come le date non siano state  ricostruite con esattezza.  Inoltre, ora riconosce e si vanta di aver cacciato fuori da Roma egli stesso, a differenza delle ambiguità della Seconda Catilinaria.  Forse perché il pubblico era diverso, o forse, essendo riuscito a prevenire la rivolta in città predisposta da Lentulo, ama dichiararsi il vero vincitore e coordinatore dell’azione.  Cfr.,  “Terza Catilinaria”,  cap. I, 1 – 4, ed. cit., pagg.  143 - 145 .

[48]  ibidem, ,  III Catilinaria,  capp. I – VI,  pagg.  143  - 157 . 

[49]  ibidem,  IV Catlinaria, capp. I – III,  pagg.  171 – 177.   Anche in questa occasione, si vede lì’enorme differnza tra le strategie di Catilina e di Cesare:  il primo era sempre su posizioni rivoluzionarie, anche quando cercava una strada legalitaria per compiere la propria rivoluzione;  Cesare è un demagogo, ma ben saldo su posizioni di superiorità della classe ricca;  il popolo, i poveri vanno ben che tenuti buoni con donativi, con giochi, con promesse, ma distolti da un esercizio diretto o, anche, parziale del potere.  Certo, in quell’adunanza, davanti al cumulo di prove contro di loro non poteva fare grandi cose, ma avrebbe potuto insistere sulla regolarità della procedura che, riguardando la vita di cittadini romani esigeva l’appello al popolo, nei Comizi Tributi.  Cesare, pare,  fece poco in questo.  Chiedeva solo di evitare la pena di morte, né si chiedeva le profonde ragioni di quella tentata ribellione sociale.  Proprio in tale occasione, Cicerone lo inserisce nel partito “popolare”, ma più esattamente sarebbe da qualificare in quello demagogico-militarista (nel prosieguo dei secoli, poi detto appunto  “cesarista”), come del resto Gaio Mario, Cinna e, più tardi, Marco Antonio ed Ottaviano.

[50]   ibidem,  capp. V  - XI (finale), pagg. 179 – 193.

[51]   La narrazione degli eventi successivi alla pronuncia del discorso di Cicerone il 5 dicembre si trova nell’opera di Sallustio che ora riprenderemo (capp. XXXVII – LV).

[52]  G. C. Sallustio, op. ed. citate,  cap. XXXI,  pag. 129.

[53]   Similmente avrebbe fatto, nel XX secolo e con ben altri mezzi di trasporto, il generale delle forze angloamericane Alexander in Italia nell’inverno 1944, quando consigliò ai partigiani di interrompere le loro azioni di guerriglia, cone se la cosa fosse materialmente possibile e le forze germaniche e quelle della RSI avrebbero rispettato anch’essi la tregua invernale, invece di fare, come hanno fatto, di concentrare le loro forze nella repressione del movimento partigiano.

[54]  ibidem, capp. XXXI  - XXXVI,  pagg. 129 – 137.

[55]   ibidem,  capp.  XXXVII – XXXIX,  pagg. 137 – 141.   La storia, è noto da tempo, si ripete.  Lo stesso accadde alla Spedizione di Sapri, quando Carlo Pisacane, con 300 uomini, sbarcò sulla costa campana, sperando nell’appoggio della popolazione che, anzi, lo aggredì al suono di campane,  aizzata dagli sgherri borbonici.  I Trecento, per dirla con Luigi Mercantini, erano descritti dalla Polizia borbonica come “ladri usciti dalle tane”, “ma non portaron via nemmeno un pane”.  Se i Catilinari fossero stati quei violenti sanguinari, violentatori di donne e di ragazzi, avrebbero dovuto infierire sulle popolazioni locali, o sui coloni ivi imposti da Silla.  Ma di ciò le fonti nulla dicono, per cui ne ricaviamo che le popolazioni locali aderirono del tutto spontaneamente alla rivolta, fornendo vestiario, cibo, armi, altrimenti una situazione così tranquilla e silenziosa senza nemmeno ricordare qualche rapina nei “thermopolia” (osterie, “bar” dell’antica Roma) o nelle locande per viandanti, malgrado la preparazione bellica, sarebbe del tutto inspiegabile.

[56]   I prigionieri romani non venivano, almeno finché ancora da giudicare, legati o incatenati, come poteva viceversa accadere a prigionieri di guerra e nemici non romani.  Sallustio usa un ternine tecnico che appare fraintendibile nella traduzione fatta dalla Storoni Mazzolani, a volte un po’  frettolosa o non competente in materia giudiziaria romana.  Il testo dice “manu tenere” che viene tradotto con un “tenere per mano”, il che fa sembrare i prigionieri come bambinetti da condurre a scuola.  In effetti, essi venivano tenuti attorno al polso, come un oggetto di possesso.  Infatti, in Diritto penale “manu tenere” ha un senso molto forte, vuol dire avere in proprio possesso la persona per farne quanto dovuto o voluto.  Il prigioniero avrebbe potuto anche tentar di fuggire, ma l’uomo che lo teneva per il polso era accompagnato da guardie armate, e questo sconsigliava la fuga.  Così Cicerone ed altri conducono tenendo per il polso i prigionieri, e non mano nella mano come fidanzatini di Peynet.

[57]  G. C. Sallustio, op.  ed. citate,  capp. XL  -  L,  pagg. 143 – 159.  Sallustio annota altresì di aver udito lo stesso Cicerone asserire di essere stato egli stesso a far circolare la notizia della complicità di Crasso nella congiura (ibidem,  fine cap. XLVIII, pag. 157).

[58]   Cesare cita una delle tre leggi che obbligavano il rinvìo ai Comizi Tributi in caso di pena di morte ad un cittadino romano, ovvero la Legge Porcia.  Le altre due, la prima più antica, la terza più recente, erano le leggi Valeria e Sempronia, quest’ultima di Gaio Gracco.  La guerra civile tra Mario e Silla avevano, tuttavia, se non  abrogato formalmente, comunque disapplicato in larga misura ciascuna di queste leggi, del resto fin dalla morte di Gaio Gracco stesso, avvenuta in un tumulto scatenato dai senatori contro di lui.

[59]   G.C. Sallustio, op. ed. citate, capp. LI  - LV,  pagg. 161  -  185.  Relativamente a Quintiliano,  cfr.  “Institutio oratoria”, Libro V, cap. IV,  ed. it. BUR (Milano, 2001) testo a fronte, trad. Calcante – Corsi, vol. II,  pag.  773.  Quando si studia Diritto romano, Quintiliano appare del tutto ignoto, mentre non lo è affatto in storia della letteratura latina.  Perché ?   Ritengo che apparisse scomodo tanto ai  giuristi contemporanei a lui, quanto ai successivi, perché  egli mirava ad una formazione completa e “scientifica”  (relativamente ai tempi ed alle conoscenze dell’epoca) del giurista.  I giuristi si limtano a considerarlo un “rètore”, mentre egli dispiega una conoscenza molto vasta dei princìpi e delle procedure giuridiche e processuali., nonché la parte pedagogica.didattica della formazione del giurista (avvocato, ovvero oratore forense).

[60]  G. C. Sallustio, op. ed. citate,  capp.  LVI – LVIII,  pagg.  185 – 191.  Il discorso di Catilina si trova alle pagg. 189 – 191.

[61]  Il termine “latro, - onis” in latino è un termine spregiativo, ma si rivolge non tanto al ladro o al predone da strada, come sembrerebbe letteralmente o etimologicamente, ma allo schiavo ribelle.  Sono “latrones” gli uomini di Spartaco, sono pure “latrones” gli Ebrei ribelli appesi con Gesù sulla croce.  Ma di questo riparlerò nel prossimo saggio sul processo a Gesù.  Qualunque ribelle viene qualificato come tale, non necessariamente i soli schiavi.  Ricorda da vicino il germanico “Achtung, Banditen” nelle zone di forte presenza partigiana nella Seconda Guerra Mondiale.

[62]    Siamo alla parte finale del racconto di Sallustio, capp.  LIX – LX, pagg. 191 – 195.  Il comportamento di Catilina quale comandante è a pag. 195.

[63]  ibidem, capp. LX – LXI,  pagg. 195 – 197.   Ingenti, sempre a quanto sostiene Sallustio, furono le perdite delle legioni regolari di Petreio, per cui la vittoria fu pagata a caro prezzo.

[64]  Cfr.  Cassio Dione,  “Storia romana”, opera in greco,  ed. it con testo a fronte BUR (Milano, 2000), trad.  Giuseppe Norcio,  Libro XXXVII, 10 (sulle origini della congiura) e 29  -  42,  pagg. 185 e 211 - 229.  Cassio Dione che segue la versione augustea della storia delle guerre civili attribuisce a Catilina il sacrificio umano di un bambino, ed aggiunge alcuni particolari, dovuti probabilmente alla fonte ciceroniana.  Riconosce tuttavia alla fine il valore dei combattenti catilinari.  Aggiunge anche la notizia, non data da Sallustio, ma forse da qualche scritto ciceroniano, che venne mozzata la testa di Catilina ed inviata a prova della sua morte.  A Pistoia vi è la tradizione medioevale che il corpo del ribelle romano fosse stato sepolto nella città, dove esiste oggi una torre detta di Catilina (che è anche un hotel).  Andai a Pistoia nell’ormai lontano 1987, ma allora nessuno pareva conoscere nulla della storia più antica della città, nemmeno in un’agenzia turistica (ignoravano zone archeologiche etrusche o romane)!    Cercando in una libreria un testo sula storia della città, mi dissero che era appena in pubblicazione.  Questo è dovuto perché la storia di Pistoia è soprattutto medioevale con un centro storico molto bello.   Teoricamente dovebbe esistere anche un sepolcreto o necropoli dei caduti (dai 3000 agli 8000, stando alle fonti), ma non pare esservene traccia (forse bruciati ?) . 

RIFERIMENTI  BIBLIOGRAFICI

Di carattere generale,  manuali universitari di storia romana e di storia del Diritto romano;  per la letteratura latina:

1)  Concetto Marchesi,  “Storia della Letteratura Latina” ed. Principato (Milano, 1969), vol. I.  
2)  Fernando Fasciotti e Michelangelo Marchi,  “Magister Ludi”, antologia scolastica  di brani latini con particolare spazio dato a Sallustio e Cicerone, ed approfondito commento,  ed.  D’Anna (Firenze, 1957). 
3)   Augusto Serafini,  “Storia della letteratura latina”, ed.  SEI  (Torino, 1965).

    Classici, opere generali:
4)  Appiano di Alessandria (95 – 165 d. C),  “Storia delle guerre civili”,  XIII  -  XVII.
5)  Cassio Dione Cocceiano (155 ca. – 230 ca. d. C) -,  “Storia Romana”, ed. it. BUR (Milano, 2000) con testo greco a fronte,  trad. Giuseppe Norcio, vol. I .
6)  Plutarco di Cheronea (50 ca – 120 ca d. C), “Vite Parallele”, specialmente “Vita di Cicerone” “Vita di Cesare”,  “Vita di Crasso”,  “Vita di Pompeo”,  “Vita di Catone Uticense o il Giovane”,  ed. it.  Mondadori (Milano, 1981), trad.  Carlo Carena, voll. 3.
7)   Gaio Svetonio Tranquillo (77 incerto -  130/140 d.C.),  “Vite dei Dodici Cesari”  ed. it Rusconi (Milano, 1990), specialmente “Vita di Cesare” e “Vita di Augusto”,  trad.  Gianfranco Gaggero.
8)  Publio Virgilio Marone (70 - 19 a.C),  “Georgiche”, ed. it.  BUR (Milano, 2007), trad. Luca Canali:  Eneide” , ed. it. BUR (Milano, 2002), testo latino a fronte, trad. Riccardo Scarcia, voll. 2.

     Classici, opere specifiche sull’argomento, ovvero su aspetti specifici dell’argomento in analisi:
9) Marco Tullio Cicerone (106 – 43 a. C),  “Orazioni contro Catilina” 4,  ed. it. BUR (Milano, 1979), testo latino a fronte, trad. Lidia Storoni Mazzolani; “Prima Orazione Catilinaria”  ed.  Carlo Signorelli (Milano, 1962), note di Antonio Pozzi; “Orazione a favore di Marco Celio” ed.  Dante Alighieri (Milano, 1957), testo latino con trad. interlineare, commento anonimo;  “Orazione a favore di Milone” ed.  Dante Alighieri (Milano, 1969) , testo latino con trad. interlineare, commento anonimo;  “Frammenti delle Orazioni Perdute” ed. it. Mondadori (Milano, 1971), a cura di Giulio Puccioni, testo latino a fronte;  “Sulla Divinazione” dialogo col fratello Quinto, ed. it. Garzanti (Milano. 1999), testo latino a fronte, trad.  Sebastiano Timpanaro.
10)  Marco Fabio Quintiliano (35 ca. – 100 ca. d. C.),  “Institutio Oratoria”,  Libri V – XII; ed.  BUR (Milano, 2001),  trad. Calcante e Corsi.  Il testo quintilianeo è essenziale perché documenta la procedura effettivamente utilizzata nei processi civili e penali, in un’epoca prossima al periodo repubblicano
11)  Gaio Crispo Sallustio (86 – 35 a.C),  “Sulla Congiura di Catilina” ,   ed. it.  BUR (Milano, 1980), testo latino a fronte, trad. Lidia Storoni Mazzolani.  Cfr.  “La Congiura di Catilina”, ed.  Dante Alighieri (Milano, 1980), testo latino con trad. interlineare, commento anonimo.

     Testi di autori moderni:
12)  W. Allen,  “In difesa di Catilina”,  saggio inglese del 1939 (probabilmente tradotto dal Marchesi, sopra citato, ne “Il cane di terracotta”, ristampato nel 1986 a Verona dall’Edizione del Paniere,  dove è definito come l’ultimo dei Romani autentici).
13)  Battistin, De Poli e Pallavisini, “I Gracchi”,  collana “I Grandi Contestatori”, ed.  Mondadori, (Milano, 1973)  con varie note sulla Roma tardorepubblicana.
13)  Emilio Gabba,  “Appiano e la storia delle guerre civili”, ed.  La Nuova Italia (Firenze,  1956),  analisi approfondita del testo appianeo e delle sue fonti, particolarmente Asinio Pollione, del quale tuttavia rimangono scarsi frammenti (probabilmente in quanto già fautore di Marco Antonio).
14)  Eugenio Manni,  “Lucio Sergio Catilina” ed. La Nuova Italia (Firenze, 1939), il quale dà credito al presunto sacrificio rituale secondo l’importazione dall’oriente dei legionari sillani.
15)  Giovanni Pavano,  “La Rivolta di Catilina”, ed. I Dioscuri (Genova, 1989):  rappresenta Catilina come un pre-Cesare, il quale a sua volta sarebbe stato catilinario; descrizione positiva di Catilina, ma su basi non fondate.   Presenta una ricca bibliografia.
16)  Marta Sordi,  “Il mito troiano e l’eredità etrusca di Roma”, ed. Jaca Book (Milano, 1989), specialmente il cap. V sulle lotte civili, ma anche l’importanza che il mito troiano ha nella storia dei popoli italici e particolarmente di Roma.
17)  Pietro Zullino,  “Catilina, l’inventore del colpo di stato”, ed.  Rizzoli (Milano, 1985), lavoro tipico di giornalista, poco propenso al metodo storico, confonde con disinvoltura mentalità ed eventi moderni con quelli antichi.  Vede in Catilina l’inventore del colpo di stato, che è in realtà stato “inventato” da Mario seguito da Silla, o ancora meglio preceduti dai senatori anti-popolari ed antigraccani del II secolo a. C..
    Vanno altresì considerati i commenti alle opere dei classici sopra riportati.   Spesso gli autori specifici (in modo particolare lo Zullino), per necessità narrative, tendono a romanzare la vita di Catilina, in realtà del tutto oscura, in quanto cancellata dalla “damnatio memoriae”, che comportava la distruzione dei ritratti e di eventuali scritti del “condannato”, o in suo favore, lasciando in circolazione solo le opere denigratorie.


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