domenica 8 febbraio 2015

Nonostante i 1129 operai morti la Benetton fa orecchie da mercante. Firma la petizione e costringila a risarcire chi è stato costretto a morire sul lavoro...


Siamo in Bangladesh, è il 23 aprile 2013 e i 3122 operai che cuciono abiti maglie e jeans per gli occidentali sono ancora vivi. Nella costruzione in cui lavorano qualcuno sente strani rumori e si accorge delle crepe che si stanno aprendo nelle colonne portanti. Arrivano gli ispettori della sicurezza e chiedono a tutti di andarsene al più presto, invitandoli a non ripresentarsi al lavoro. L'edificio è di nove piani, compresi i sotterranei in cui esistono dei parcheggi, ma gli ultimi tre sono abusivi. Sono stati costruiti grazie ai permessi rilasciati al proprietario dai suoi amici politici. Non va bene e non si può fare, visto che l'edificio è stato progettato per sei piani, compresi i sotterranei. E non va bene soprattutto ospitare fabbriche tessili nei piani abusivi, sotto vi sono negozi banche appartamenti e uffici, coi loro macchinari che pesano e vibrano 24 ore al giorno e con generatori immensi che vibrano e pesano ancora di più. In ogni caso, quel giorno l'edificio viene sgombrato in attesa di ulteriori verifiche. Ma il proprietario non ci sta. Il suo nome è Sohel Rana e chiama i giornalisti, li fa entrare nel Rana Plaza (l'edificio pronto al collasso) e li fa filmare le colonne portanti che, dice, non presentano crepe al loro interno... è l'intonaco che ha crepato, non le colonne che erano e restano solide. Grazie a questo, alle sue implicazioni politiche e al fatto che chi lavora per marchi internazionali prestigiosi ha scadenze da rispettare, i proprietari delle fabbriche di abbigliamento ordinano ai loro lavoratori (fra cui ragazze che percepiscono uno stipendio mensile dai 43 euro al mese a fronte di 12 ore di lavoro al giorno, comprese le domeniche) di tornare al lavoro il giorno successivo.

E il giorno successivo tutti tornano e si siedono di fronte alle macchine da cucire perché chi sta a casa viene licenziato... e in Bangladesh non si può perdere neppure quel piccolissimo introito che aiuta la famiglia a mangiare. Tornano al lavoro perché non solo le aziende locali, ma anche le multinazionali europee e americane devono guadagnare vendendo vestiti a modo che non costino troppo. Tornano perché la New Wave Buttons e la New Wave Style hanno consegne da rispettare, maglie e jeans da consegnare alla Adler Modemärkte, alla Auchan, alla Ascena Retail, alla Benetton, alla Bonmarché, alla Camaïeu, alla C&A, alla Cato Fashions, alla Cropp (LPP), alla El Corte Inglés, alla Grabalok, alla Gueldenpfennig, alla Inditex, alla Joe Fresh, alla Kik, alla Loblaws, alla Mango, alla Manifattura Corona, alla Mascot, alla Matalan, alla NKD, alla Premier Clothing, alla Primark, alla Sons and Daughters (Kids for Fashion), alla Texman (PVT), alla The Children’s Place (TCP), alla Walmart e alla YesZee.

Per cui il 24 aprile di primo mattino i 3122 operai tessili entrano nell'edificio pericolante. Fra loro donne con bambini molto piccoli, perché chi non sa dove lasciare i figli li porta negli asili nido presenti nelle aziende. Il lavoro inizia, ma non dura molto perché un generatore di corrente vibrando scuote la struttura che alle 8.45 - dopo un boato - implode. Alle 8.47 tutte le persone presenti sono sepolte sotto ferri e calcinacci, sotto una immensa nuvola di polvere che non lascia scampo alla speranza. I piani superiori si sono accatastati uno sull'altro. Saranno 1129 i lavoratori che moriranno. Ma non va bene neppure a chi viene estratto vivo dalle macerie, perché tantissimi resteranno mutilati per la vita. 

Questa tragedia scuote il Bangladesh. La struttura appartiene a un noto e facoltoso uomo politico locale, esponente di spicco della Lega Popolare Bengalese, un partito solo a parole del centro-sinistra in cui le collusioni aiutano il facile guadagno, e la rivolta operaia è forte, con manifestazioni e disordini popolari che pretendono la pena di morte per l'uomo politico che nel frattempo si rende introvabile. Però, grazie alla rivolta che non si ferma, viene poi arrestato come i proprietari delle fabbriche tessili che lavorano per le multinazionali mondiali sfruttando gli operai e pagando una manodopera a bassissimo costo. Fra queste multinazionali c'è la Benetton, accusata dieci anni prima per il lavoro fatto fare a terzisti cinesi, che non ammette di aver fatto ordini alle aziende presenti in quella struttura. Ma le foto incastrano la multinazionale italiana, fra l'altro proprietaria anche di "Autostrade per l'Italia", perché il marchio "United Color Of Benetton" è su molte maglie ritrovate fra le macerie. E la Benetton deve ammettere e accettare - come previsto dall'Arrangement (un meccanismo di calcolo dei risarcimenti basato su standard internazionali e supervisionato da più organi di controllo del Bangladesh e mondiali) - di versare una quota per risarcire le famiglie delle vittime. Ma non è così che fa, perché ancora oggi, e sono passati quasi due anni, è l'unica delle grandi multinazionali occidentali a non aver contribuito, coi 5 milioni di dollari previsti, al fondo stanziato per i risarcimenti.

L'azienda si difende divulgando dati sulla beneficenza messa in pratica in Bangladesh dopo la tragedia. La beneficenza è una cosa (anche apprezzabile, seppur più apprezzabile ancora sarebbe se non sfruttasse gli operai sottopagati dei paesi poveri), ma i risarcimenti dovuti per impegni presi sono tutt'altro. Già è brutto sapere che troppe aziende italiane sfruttano un certo tipo di manodopera sottopagata, già è brutto sapere che migliaia, fra bambini, ragazzi e ragazze sfruttate, sono morte a causa del crollo di edifici in cui cucivano abiti italiani... ma ancora peggio è sapere che chi ha profitti superiori a 130 milioni di euro l'anno, anche grazie alle scelte commerciali che lo hanno portato a sfruttare le convenienze proposte da mercati in cui la manodopera è quasi schiavizzata, fa orecchie da mercante per non pagare quei cinque che aiuterebbero anche i mutilati della tragedia del Rana Plaza.

Per questo Avaaz.org ha organizzato una petizione online che si prefigge di raccogliere almeno un milione di firme prima che la Benetton si presenti alla settimana della moda di Milano. Chissà, magari se la pubblicità negativa scalfisce anche leggermente l'immagine colorata dell'azienda, fatta di ragazze e bambini, qualcosa si muoverà...




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