Quando si subisce la giustizia di certi investigatori, di certe procure e di certi giudici, che diventa ingiustizia se dopo più di otto anni di pene psicologiche, che comportano la rovina economica (se si è innocenti e si vuole giustizia), e dopo aver rinunciato alla prescrizione un giudice ti assolve perché il fatto non sussiste, la rabbia e la disperazione lasciano posto al disprezzo. Solo la Legge del Disprezzo può condannare chi usa la scure del potere per distruggere la vita altrui senza motivo.
Dopo giorni di attese infinite, arrivò ciò che bramavo più di ogni altra cosa: l’interrogatorio. Finalmente potevo spiegare le mie ragioni a chi mi aveva voluto in carcere: il sostituto procuratore Diana De Martino, della Direzione Distrettuale Antimafia, e il procuratore aggiunto di Roma, Italo Ormanni. Le loro indagini, coordinate anche dal tenente colonnello Giovanni Arcangioli (ora in rovina, a causa di una borsa da cui sparì un’agenda, ma al tempo uno dei più importanti detective dell’antimafia), si erano indirizzate su di me e non sapevo il motivo per cui mi avevano ingabbiato. Sapevo solo che sul mio conto si stavano sbagliando. Perciò quel martedì 11 ottobre 2005 si prospettava come un giorno importantissimo. Avrei visto in faccia chi mi stava disintegrando l’esistenza e chiarito in maniera corretta tutta la serie di malintesi che i due procuratori non avevano compreso. Inoltre, se il problema erano le venti lettere trovate a casa di Claudia, mi sarebbe stato facile confutarne diciannove, visto che non le avevo scritte io. Ero certo che con poche parole li avrei convinti della mia innocenza. In fondo non serviva una cultura superiore per capirlo, e nella mia mente quel viaggio si presentava come una sorta di scampagnata liberatoria. Che ingenua persona ero! Quella notte mi chiamarono e mi fecero uscire dalla cella. Una guardia mi disse di aspettare in piedi fra gli sbarramenti, uno davanti e uno dietro, formati da linee colorate sul pavimento; linee che non avrei dovuto oltrepassare senza un suo ordine. Dovetti aspettare in quel metro quadrato per oltre due ore. Il furgone della Polizia Penitenziaria, che aveva il compito di tradurmi dal carcere di Modena alla Procura di Roma di Piazzale Clodio, era in ritardo. Quando arrivò cercai fra i volti una guardia amica, si fa per dire, che, mi aveva detto, sarebbe stata fra gli agenti di scorta. Invece si presentarono in quattro, due dei quali vecchi clienti della mia, purtroppo, ex palestra, a cui avevo pure scontato l’abbonamento al momento dell’iscrizione, che subito mi condussero a braccetto su un “furgone di ultima generazione” (ma solo per chi lo guidava, non per i detenuti). Per farla breve, mi sarei dovuto sedere in una bara di lamiera fra due pareti chiuse, di cui una sola forata per permettere all’aria di arrivare al mio naso, in cui a fatica passavano le spalle. In quel loculo di ferro sarei dovuto restare per almeno dodici interminabili ore, il tempo occorrente per raggiungere Roma e tornare a Modena. Anche se non proprio convinto, mi infilai a forza in quella colombaia, intenzionato a resistere pur di andare dai due procuratori a spiegare la verità. Ma le ginocchia toccavano la parete di fronte e mi accorsi di essere come quei “morti apparenti” tumulati vivi. Mi era impossibile resistere dodici ore in quella posizione obbligata, per cui alzai la voce per chiedere di cambiare veicolo. Gli agenti, fra cenni d’intesa che subito non capii, acconsentirono al cambio del furgone e mi fecero salire su un cellulare che non aveva bare di lamiera ma gabbie per uccelli adatte a uno o due pappagallini, non a un essere umano. Quando mi spinsero in una di queste e vidi a terra diversi mozziconi di sigarette, una lattina di birra schiacciata e uno sputo oramai secco, mi tornarono alla mente i cenni d’intesa visti poco prima. Col mio mal di schiena cronico, dovuto a tre ernie discali operate a livello lombo sacrale, in quella specie di veicolo dal tettuccio basso riuscivo a stare solo accucciato o in piedi con il capo chino. Quindi il viaggio, sempre sorvegliato attentamente da due agenti, lo feci per intero accovacciato a terra, nella gabbietta, fra i due seggiolini e la sporcizia. In quelle ore mi fu tolta ogni dignità e ogni onore di uomo. Mi sentivo una bestia rara costretta a vivere fra i rifiuti, un mostro umano osservato e deriso. Fu peggio, molto peggio del giorno in cui fui arrestato e di quelli passati in cella: drammatici come poche altre cose al mondo, ma almeno decorosi. Con l’inizio di quel vergognoso viaggio da detenuto, il mio cervello e la mia anima persero la cosa più importante: la dignità era morta e dentro sentivo una crepa che si allargava irreparabilmente. Avevo perso me stesso e la rabbia che provavo non riusciva a calmarsi. Nessuno in quegli attimi mi poteva avvicinare, ero troppo nervoso e pensavo continuamente a mia madre. Se in quell’istante fosse stata male la persona che più di tutte amo e amavo? Se fosse stata ricoverata d’urgenza o avesse subito violenze? O anche, più semplicemente, avesse avuto bisogno del mio aiuto immediato? Cosa avrei fatto?
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Giunti a Roma, dopo essersi fermati per una merenda a base di panini con la porchetta, le guardie imboccarono la strada della Procura. E qui iniziai ad avere problemi di altro tipo e a pensare che quanto mi stesse accadendo non poteva essere vero.
«È un incubo» mi dicevo «è solo un brutto sogno e adesso mi sveglio sudato e mi accorgo che sono in affanno perché mi insegue un pazzo. Mi sveglio, adesso mi sveglio! Caso mai col cuore in gola, ma mi sveglio e dopo aver sfondato la botola che divide l’oscurità dalla luce, mi ritrovo a casa mia».
Ma non raggiunsi la luce, perché ciò che mi stava accadendo non era assolutamente un incubo. La sofferenza mi fece ricordare che da bambino chiedevo sempre a mio padre di avvicinarsi ai furgoni della Polizia per vedere la faccia «del cattivo». Lui ogni volta mi diceva che non era affar mio e dovevo guardare avanti senza girarmi. Mentre ero ingabbiato in quel cellulare, pensavo a questo, pensavo a mio padre morto due anni e mezzo prima, pensavo a cosa avrebbe provato se mi avesse visto in quella situazione vergognosa. Addirittura arrivai a ringraziare la morte che lo aveva portato con sé, quasi a credere che per lui fosse meglio non avermi visto in gabbia. Nella mia poca lucidità mentale, pensai che vedendomi in quello stato avrebbe potuto impazzire dal dolore e morire. A star rinchiuso in quell’uccelliera mi vergognavo, ma mi vergognai ancor di più al momento di scendere dal furgone. Piazzale Clodio era gremito e mi sentii addosso gli occhi di tutti i passanti. Fu il colpo di grazia che minò la mia psiche. Fu la fine di tutto ciò che ero, la fine di tutto ciò che avevo costruito in vita mia. Un’onta e un’umiliazione che si inseguivano a vicenda, senza darmi tregua.
Fortunatamente, in tribunale trovai i volti calmi dei miei avvocati: Alessandro, penalista, e Alba, civilista. Ad Alba devo molto. Come ho già scritto, è una cara amica, che non mi aveva abbandonato durante i giorni trascorsi in carcere e che mi sorrise ancor prima di entrare nell’ufficio della procura di Roma. Durante l’interrogatorio, oltre ai miei legali e ai due magistrati, erano presenti il cancelliere e due dei carabinieri che avevano condotto le indagini. Il tenente Luigi Mancuso (poi promosso capitano) e il maresciallo Alessio Padula (poi promosso maresciallo capo).
I procuratori Diana De Martino e Italo Ormanni, come volevasi dimostrare, mi contestarono una ventina di manoscritti rinvenuti in casa di Claudia. Contenevano preparazioni chimiche, ovvero cicli di prodotti, anche dopanti, da usare in prossimità delle gare. In realtà, il foglio che avevo scritto io era uno solo: poche righe in cui consigliavo a Claudia cosa assumere nelle dodici settimane che precedevano il concorso di Miss Universo 2002, la competizione annuale svoltasi a Newcastle, in Inghilterra, il dodici ottobre di quell’anno, quindi diciassette mesi prima del suo decesso. Se però si considera che lo scrissi tre mesi prima della gara, si deve convenire sul fatto che risaliva a venti mesi dalla morte di Claudia. Pensare che c’entrasse qualcosa, dato che gli altri scritti erano chiaramente successivi al mio, mi pareva utopia e cercai di spiegarlo. Ma Italo Ormanni da me voleva solo dei sì o dei no. E quando tentavo di precisare, alzava la voce, e urlando diceva:
«Lei non deve farci capire, lei deve dirci o sì o no!»
Ma porca boia! Come fai a capire che non c’entro con le tue indagini, se non mi fai spiegare? Tu e la De Martino mi accusate di aver fatto cose abominevoli in associazione con altri che non ho mai conosciuto, e lo sai, eppure vuoi che ti risponda con un sì o un no! Ma vuoi farmi parlare o hai ben altre mire per la testa? Possibile che non ti accorga di sbattermi davanti alla faccia dei fogli che non ho scritto io? L’interrogatorio, come avrete capito, non fu utile. A loro poco importava di me, visto che quel giorno cercarono di fare un fascio di tutta l’erba, tentando di addossarmi la paternità di tutti gli scritti. Per fortuna era evidente che la calligrafia non fosse mia ma di mani diverse. Alcuni manoscritti si riferivano a giugno, altri al luglio e all’agosto 2003, anno in cui io non seguivo più Claudia e lei si preparava senza il mio aiuto (fra noi ci furono litigi e in quel periodo non ci vedevamo) per il Grand Prix Jan Tana a Charlotte (Nord Carolina), in programma il 15 agosto di quello stesso anno.
Oltre a quelli citati, che precedevano la gara americana, ce n’erano altri che si riferivano a un periodo successivo. In poche parole: quei fogli mi scagionavano completamente, dato che nulla di serio mi si poteva imputare. Io avevo iniziato a seguire atleticamente Claudia, con allenamenti e consigli alimentari, nel maggio 2002. Parlavamo di tutto, perciò anche di prodotti chimici, ma lei si allenava da circa vent’anni e quando la conobbi aveva già vinto non solo il campionato italiano, ma anche l’europeo e il mondiale. Con me affrontò solo la preparazione per Miss Universo. Dopodiché, visti i frequenti e lunghi litigi, iniziò a farsi i fatti suoi estromettendomi dalla sua preparazione. Con questo voglio dire che per la supplementazione e dal punto di vista tecnico, Claudia si affidava un po’ a tutti, innamorandosi (agonisticamente) ora di un campione ora di un altro e seguendo, di conseguenza, le loro tecniche e i loro consigli. Alla fine è possibile che lei abbia fatto un collage di tutti i suggerimenti e li abbia combinati usando la sua esperienza e il suo istinto di atleta. Certamente fra professionisti si parla e ci si confronta spesso. Si discute di tecniche di allenamento (una vera e propria scienza), nutrizione (determinante per aumentare il muscolo magro e perdere grasso in eccesso) e supplementazione (importante per giungere al giorno della gara al top della forma). Fra me e Claudia, lo scrivo qui per come l’ho detto durante l’interrogatorio, nacque una forte intesa. Ma più la passione cresceva, meno ci confrontavamo dal punto di vista tecnico-agonistico. Più io cercavo di offrirle il mio aiuto e più lei lo rifiutava. Ovvero: fingeva di accettare i miei dettami per accontentarmi e non litigare, ma in realtà seguiva gli insegnamenti e i consigli di altri. E non solo romani, perché di sicuro seguiva quelli di uno dei più grandi atleti professionisti americani: Dexter Jackson.
Il suo altalenare, saltando da un atleta all’altro senza mai seguire gli insegnamenti completi di nessuno, l’ho riscontrato sia per sua stessa ammissione che a posteriori: varie mail e file contenuti nel suo Personal Computer si riferivano a preparazioni di altri professionisti. Inoltre, io vivevo a Modena e Claudia a Roma; quindi ci separavano cinquecento chilometri e a causa del lavoro ci vedevamo di rado, dato che entrambi eravamo proprietari e gestori di palestre, e nelle poche ore passate insieme facevamo di tutto fuorché parlare di body building. Il nostro rapporto, infatti, era diventato più stretto sotto altri aspetti. Anche questo è testimoniato dalle varie mail inviatemi e rinvenute sul suo PC. Fra l’altro, la perizia sul computer di Claudia l’ho chiesta io tramite il mio avvocato, i carabinieri non lo avevano mai sequestrato né controllato, nemmeno per verificare quale rapporto ci fosse fra me e lei e fra lei e altri atleti.
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