Articolo di Gilberto Migliorini
Ci sono trasmissioni in tv che segnano
lo spirito della nostra storia nazional-popolare. Spettacoli che con tutto il
loro pathos rappresentano quell'italiano che non cresce mai, che rimane come Pinocchio
un eterno burattino, non un bambino, solo un piccolissimo robot, un automa estasiato nel guardare quel mondo convenzionale di piccole cose, quel teatrino senza tempo
dove tutto è sempre diversamente uguale (il mondo dei peluche e dei trenini di
legno, delle bamboline e dei giocattolini, delle canzoncine e delle filastrocche). Per
quanto qualche grillo parlante (spiattellato sul muro) cerchi di risvegliare
nel piccolo protagonista di legno un attacco di dignità e di consapevolezza, il
nostro burattino rimane avvinto a quello spettacolo di marionette dove lui
recita per interposta persona, con un ventriloquo che lo fa parlare e lo fa
cantare.... come se davvero fosse lui il protagonista e non un pupattolo mosso
dai fili insieme ad Arlecchino e Pulcinella.
Ci sono format che rappresentano l’incantesimo nel quale il protagonista è
stato irretito dentro un sogno ad occhi aperti, su un piccolo palcoscenico che
sembra grande come il mondo, ricco di humor e di procaci fondoschiena… pieno di
ogni ben di dio compreso l’ospite che fa tendenza e l’avvenente letterina. C’è
l’orchestra e la scenografia con l’immancabile scala che ascende a un cielo
etereo, i nostri sogni irraggiungibili. È il grande spettacolo della canzone… o
una recita parrocchiale, la minuscola scenografia di un carillon dove due
pupazzetti pirlano al suono di un’orchestrina, compunti e inamidati nel loro
ruolo di istrioni? Solo patetici fantoccini che sanno far l’inchino ed emettere
una voce stridula al suono di un organino? Forse robottini che recitano la loro
parte a memoria, come due scolaretti che hanno imparato la lezione e sanno che
bisogna filar dritto come Pippo cammina
dritto?
Sembra tutto vero, tutto drammaticamente autentico, lo specchio nel
quale l’italiano vede incorniciata la sua identità, quel piccolo mondo antico
che da sempre lo tiene imprigionato in un labirinto canoro, in uno spettacolino
sfolgorante di paillettes, povero e insignificante, ma ricco di una comicità compassata
e puerile, di canzonette che ripetono pedissequamente il loro leit-motif di parole, parole, soltanto parole... È
come tornare a quei ludi infantili su un palcoscenico del carnevale,
all'oratorio, con i coriandoli e le stelle filanti, le mascherine, i frizzi e i
lazzi, e le fanciullesche battute che strappano il riso al nostro giudizioso e
solerte bamboccio. Ride il pupazzo con quell'aria tra l’ingenuo e il faceto,
furbescamente perché conosce già la battuta: gliel'hanno detta tante volte e in
tutte le salse, in tutti i mesi dell’anno e in tutte le stagioni. Quell'effetto
sonoro è come un abracadabra, la parola magica che gli hanno sussurrato facendo vibrare un sonaglio mentre era steso sul suo
lettino, munito di farfalline girevoli attaccate a un filo.
Lui,
il tapino, fa vibrare un vocalizzo come se volesse dir la sua, provare a
raccontare. No, poverino, la sua lallazione è solo per gioco, sa gridare,
biascicare, farfugliare… ma non certo parlare o addirittura argomentare. È la
replica di un’antica operina, l’immagine convenzionale che ripropone il
medesimo schema, la solita musica, la stessa malia dove il nostro burattino si
trova invischiato: una recita dove si ride graziosamente del niente, dove l’eterno
marmocchio batte le mani a comando e fa una smorfia ai due volti che gli
sorridono ammiccanti e serafici, sull'orlo della sua incubatrice nel suo minuscolo
mondo di muppets. Lui è sempre
quell'anima candida, sono i suoi sogni di eterno fantolino, rassicuranti anche
quando al risveglio non vede più il trenino e guardandosi allo specchio scopre
che forse è un po' invecchiato, pur rimanendo piccino piccino. Ma a lui piace stare ancora nel teatrino di
Mangiafuoco, giocare con i cerchi e i birilli: le antiche canzoni, i vecchi
ricordi, le immagini in fotografia... come se il mondo fosse così come allora e
lui, il pinocchietto, conservasse ancora l’identità che gli è stata cucita
addosso, come un vestitino.
La fatina dai capelli turchini si è un po’ appesantita, gracchia come una
cornacchia, ma il burattino la vede bella come allora. E come allora vede la propria immagine di sempre, la casetta, l’orsacchiotto e la Barby nella
sua cameretta di fantolino.
Il teatrino del niente… la
straordinaria performance del genio italico, la quintessenza della nostra
storia e della nostra proverbiale fantasia, del nostro estro, del nostro
patrimonio di idee e di cultura. Il luogo della memoria, la nostra identità
fatta di pochi ingredienti, sempre uguali, un po’ come un piatto di spaghetti
con il sugo, come l’americano di
Sordi, identità costruita a tavolino... stereotipo e condanna a ripetere indefinitamente il nostro
cliché. Fugaci allusioni alla politica, per ridere della parodia e del
quotidiano teatro dell’assurdo, come se riguardasse qualche popolo alieno, come
se non fossimo noi i protagonisti della tragicommedia che ci vede quotidianamente
alle prese con chi ci governa. Un sarcasmo simulato, un’ironia che sembra
più che altro un sussiegoso e rispettoso baciamano al potere. Stereotipi per
ridere della nostra melensa e ottusa pochezza come se quella fosse il nostro
genio straordinario e inarrivabile.
Un pastrocchio di barzellette insulse per
non scontentare nessuno e per ribadire la par
condicio, la lottizzazione di un servizio televisivo in cui il cittadino è
solo un manichino. Giusto un po' di peperoncino, qualche battuta
irrispettosamente rituale, una simulazione di pluralismo, ma non troppo, per
non turbare le anime candide ancora avvolte nei loro sogni da bambini, per non svegliare
i frugoletti che ascoltano nel loro sonno sereno la favola bella che ieri mi illuse, che oggi mi illude. La cultura
sotto forma di concentrato, succedaneo, minestrone… magari Dante in vernacolo
come fosse una bistecca alla fiorentina, con quell'aspirato che fa del poeta
trecentesco un emulo della vita è bella, un cantastorie per fantoccini, un
pittoresco luogo comune fatto per dare un vernissage letterario a uno
spettacolo canoro insulso e monocorde tra uno spot pubblicitario e un promo di
se stesso. Qualche vecchia cariatide a ricordare che la nostra storia è fatta
di polene, di statue, di orpelli, di miti intramontabili e insignificanti: salvo
per una tv autoreferenziale per la quale è vero solo l’intruglio che negli
ultimi trent'anni ha scodellato polenta sul desco degli italiani, trasformandoli
in salsicce e cotechini.
Personaggi che popolano il video come se fossero
inscritti da sempre nei pixel dello schermo, che costituiscono oggetti perenni
del panorama massmediatico, abitanti di sempre del nostro immaginario e dell’etere,
le facce che non smettono mai di popolare i nostri sogni e i nostri incubi. Una
televisione dove i cittadini sono comparse, i figuranti di qualche studio
televisivo incollati a sedie e poltroncine: come a dire che gli
italiani esistono veramente, che non sono solo fantasie ed ectoplasmi.
Sono lì solo
per far scena. E se si azzardano a parlare senza essere interpellati, se solo
osano alzare un braccio per fare una domanda senza prima essere stati istruiti a
dovere su cosa si può dire o non dire… apriti cielo, interruzione di servizio
pubblico, di spettacolo, lesa maestà penalmente rilevante. No, non si fa! Ciascuno al suo
posto, non disturbare il manovratore. C’è chi intona la solita canzone, quella
che abbiamo ascoltato tante volte e non abbiamo mai compreso veramente, e chi
siede in sala ed ascolta rapito il più insulso spettacolo del mondo e si
addormenta al dolce suono di una ninna-nanna. Articolo di Gilberto Migliorini
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