Il 14 Febbraio del 2004, Marco Pantani, che da oltre quattro anni e mezzo si sentiva costretto a vivere al margine della società che si dice civile, quella che quando vinceva lo cercava per farsi bella e vantarsi agli occhi del mondo, venne trovato privo di vita, ucciso da una overdose di cocaina. Da qualche tempo la cocaina era entrata a far parte della vita di Marco e non fu difficile convincere l'opinione pubblica che la sua morte fosse un evento ormai atteso da tutti gli addetti ai lavori. La sera stessa, su un programma di Rai 2 ci furono personaggi dello sport che dissero di aspettarsi una fine simile. Quindi la procura cosa doveva cercare, se non i pusher che l'avevano rifornito di droga, prima di chiudere il tutto a chiave nell'oblio senza porsi qualche domanda in più? Marco in quei giorni era un uomo solo che non voleva aiuto e non vedeva futuro. Chi gli voleva bene era preoccupato, anche la sua manager che gli scrisse una lettera per cercare di toccargli le corde giuste e fare in modo che decidesse di curarsi. Sua madre aveva addirittura parlato con chi gli dava la droga, minacciando una denuncia nel caso avessero continuato a rifornirlo. Inoltre si era accordata con Muccioli, l'uomo giusto di San Patrignano, che se Marco fosse stato d'accordo l'avrebbe accolto a braccia aperte per disintossicarlo. Ma Marco non si è curato, oppure non si è potuto curare, perché è morto nella stanza di un residence che non aveva mai frequentato e che non conosceva. Perché andare proprio lì? Questa era la prima domanda da porsi, quella che avrebbe potuto aiutare e far capire che forse qualcuno aveva deciso di sbarazzarsi di un ostacolo troppo ingombrante. Ripercorriamo a grandi linee i suoi ultimi giorni e cerchiamo di capire se il Pirata si è voluto uccidere o se c'è la possibilità che qualcuno l'abbia voluto morto.
Partiamo da Gennaio 2004: dopo essere stato a Cuba Marco si ferma a casa della sua manager. Da anni sta psicologicamente male a causa delle accuse infamanti che si è sentito sputare addosso, e da qualche tempo è in crisi perché la sua fidanzata lo ha lasciato senza possibilità d'appello. Da quel giugno del '99 non ha più la tranquillità che serve per vivere sereni. La stampa lo ha massacrato e continua a tirarlo in ballo, tutti credono che sia un atleta dopato (ma l'autopsia dimostrerà che di doping ne ha assunto veramente pochissimo in vita sua) e lui ne soffre come non è possibile immaginare. Per capirlo almeno un minimo, occorre pensare a quanto accadde mentre si allenava su strada e sentì un uomo gridargli: "Pirata di merda!". Lui non gli rispose, ma la rabbia fu talmente tanta che tornò a casa, prese una sega e tagliò in due la bicicletta. Ecco, forse anche quel signore, aizzato e convinto dai media, contribuì a creare il disagio che Marco credette di alleviare con la cocaina. Chi gliela forniva si qualificava come amico, ma la realtà è che quando si conoscono le debolezze di chi possiede tanti denari da spendere, è facile creargli attorno una rete di amicizie fasulle buone solo a spillar quattrini. Gli amici di Marco erano altri. Uno lo aveva voluto a casa sua per stargli vicino, un altro lo sentiva più volte al giorno e insieme andavano ovunque. Almeno fino al 9 ottobre 2003, quando morì in un incidente stradale alquanto particolare. Un incidente avvenuto sulla via Pisignano, la strada che segna il confine fra i comuni di Cesena e Ravenna, una strada dritta che più dritta non si può che per una buona parte costeggia l'aeroporto militare del XV° stormo.
Capire la dinamica non fu facile, tanto che ci si accontentò delle parole di un uomo che disse di averlo visto sbandare e che non c'era nessuno in strada dietro o davanti al suo pulmino da lavoro. Fatto sta che l'amico di Marco, alle 19.30 (non alle tre di notte), in quel lungo rettilineo fece trecento metri incredibili: prima cercando di non finire in un fossato e poi zigzagando a destra e a sinistra finendo per capottare diverse volte e distruggersi in un campo. Il guidatore fu sbalzato fuori e morì non prima di aver lasciato sull'asfalto 30 metri di frenata, di aver ripreso in mano la vettura ed essere tornato dritto in carreggiata, per un tratto non c'erano segni di frenata, ed aver infine cercato di inchiodare nuovamente prima di iniziare a ribaltarsi fino a finire nel campo a quasi 50 metri dalla strada. La stranezza sta nel fatto che per fare tante frenate, tornare dritto e infine finire a quel modo, il furgone doveva percorrere quei 300 metri ad una velocità vicina ai 200 km l'ora! Impensabile! Oppure, ma nessuno ha indagato vista la testimonianza, doveva esserci qualche grosso veicolo che da dietro lo tamponava cercando di farlo uscire di carreggiata in una strada larga e lunga, nonché dritta, mai molto frequentata e buia. Comunque sia accaduto, non s'è correlato l'episodio all'amicizia stretta col Pirata e quattro mesi dopo, quando anche Marco morì, nessuno ha pensato che l'incidente potesse correlarsi alla tragedia del residence Le Rose.
Ma torniamo a Milano. Marco da qualche giorno è ospite della sua manager e in casa sua ha un alterco con il padre. Qualche giorno dopo, Marco si trasferisce in un hotel della metropoli lombarda. Sta male, non riesce a dormire e un dottore gli prescrive degli antidepressivi. Glieli fa avere la sua manager assieme alla lettera di cui parlavo in precedenza. Dopo aver trascorso sette giorni in quell'albergo, chiede di poter pagare il conto e se è possibile trovare un taxi che lo porti a Rimini. Senza bagagli, se non uno zaino (nell'albergo lascia tre giubbotti da neve e al fratello della manager le chiavi di una sua auto), Marco si dirige verso Rimini e fa girare il tassista fino a quando non si trova sulla parallela del lungomare, su Viale Regina Elena dove, all'altezza di un negozio di scarpe, scende e paga la corsa: 680 euro. Il tassista lo vede camminare a piedi e farsi sempre più piccolo. Non è diretto al residence, che neppure conosce, ma all'abitazione dell'ex capo della sua fidanzata, uno di quegli "amici" che lo ha rifornito di droga. In quell'appartamento convivono due ragazzi, uno è di Napoli e di cocaina ne trova quanta ne vuole. Però al citofono non risponde lui, la madre di Marco l'aveva minacciato e forse anche per questo era tornato a Napoli. Ed allora si è detto che Marco ha cercato un altro pusher, un galoppino dell'uomo tornato a Napoli, e una volta trovatolo si sia sistemato autonomamente nel residence che si trovava a cavallo fra via Regina Elena e il lungomare, a pochi passi dall'abitazione del napoletano: il residence Le Rose, appunto. Nessuno voleva dargli la "roba", disse il pusher a processo, ma dopo aver visto i contanti che Marco aveva con sé (12.000 euro), e dopo aver telefonato a Napoli, il 9 febbraio 30 grammi di cocaina sono arrivati dalla Campania a Rimini, nella stanza del ciclista.
Il proprietario dell'appartamento in cui abitava il pusher napoletano, che nulla seppe, neppure dai suoi "collaboratori", né della presenza di Marco in Romagna né del crimine, almeno questo disse in aula, dopo essere stato condannato due volte per aver venduto a Marco cocaina purissima, venne assolto in cassazione perché il fatto non costituiva reato. Quindi, anche per i giudici romani lui non sapeva che Marco alloggiava nella camera D del 5° piano del residence Le Rose, quello di fronte al suo appartamento. E torna la domanda: chi lo aveva indirizzato in quella sorta di albergo? Oggi è una domanda lecita dato che si sa che vivere in quel residence, chissà se Marco lo sapeva, in pratica significava non essere sicuri perché, anche se un giocatore di basket dormiva in una stanza di quel piano (ma se ne andava prima di mezzogiorno e tornava a sera tarda), Marco era l'unica anima presente durante la giornata. Il cestista comunque i rumori, come di un qualcosa di pesante che sbattesse sulle pareti, la mattina del 14 febbraio li ha sentiti provenire dalla camera di Marco, ma neppure lui si è preoccupato di andare a chiedere cosa stesse accadendo. Lui sapeva che in quelle camere poteva entrare chiunque, visto che l'ingresso dai garage consentiva l'accesso ai piani senza doversi qualificare alla reception? Forse sì o forse no, dato che questa strada alternativa all'ingresso principale fu accertata solo durante i processi, prima di questi nessun inquirente aveva cercato di scoprire se si poteva entrare nel residence senza passare dalla reception. Quindi Marco non aveva difese. Non le aveva e non le ha avute neppure quando ha chiesto aiuto. Infatti la mattina di quel 14 febbraio fece due telefonate di aiuto alla reception (l'ultima alle 10.55), telefonate in cui chiedeva di chiamare la polizia perché c'erano due persone in camera sua che lo importunavano, telefonate a cui non si è dato seguito nonostante i rumori strani provenienti dalla sua stanza, come se qualcuno stesse cercando qualcosa, rumori di mobili spostati e di sedie cadute ascoltati da tre persone: oltre al giocatore di basket li sentì anche la donna delle pulizie e la receptionist salita al piano dopo l'ultima richiesta d'aiuto (ma non bussò alla porta di Marco e nonostante quei rumori non chiamò il 113). Tutto molto ma molto strano, come il fatto che proprio il 14 febbraio, guarda le coincidenze, l'impianto di videosorveglianza del residence ebbe un malfunzionamento, come lo ebbe quello della farmacia situata a pochi metri di distanza.
Nonostante questa situazione stranissima, si è detto che a Rimini Marco abbia consumato dosi industriali di cocaina. E lo si è detto perché tantissima era nel suo corpo e perché un pusher ha dichiarato di avergliene venduti 30 grammi. Eppure nessuno, né la donna delle pulizie (che per quattro giorni aveva pulito la camera senza notare nulla di strano), né i soccorritori, né i poliziotti intervenuti per primi (che se ne sono andati senza far nulla ed hanno lasciato che in quella camera entrasse chiunque), ha rinvenuto quelle cose particolari sempre presenti nelle stanze di chi si droga. E dato che Marco è morto per un'overdose sei volte superiore a quanta ne bastasse per mandare in overdose chiunque, è di fatto stranissimo trovare nella camera di un drogato solo piccole tracce di polvere di cocaina, sparsa qua è là, senza che ci siano né carta stagnola né bustine in plastica (dove erano conservati i 30 grammi di coca?), né alcolici (tutti i consumatori di cocaina li bevono perché quando inizia a scemare l'effetto l'alcool lo riattiva). A tutto questo si aggiunge un altro fatto certo: chi è entrato nella stanza dopo la sua morte si è trovato di fronte all'esito finale di una battaglia cruenta che Marco non aveva combattuto da solo, visto che le sue dita erano intonse e senza graffi. C'era sangue sul divano e sul pavimento, un rigurgito (vomito) che presentava tracce di pane misto a piccole dosi di cocaina, resti di cibo cinese nel cestino dell'immondizia (ma se nel suo stomaco c'era pane, cosa c'entra il cibo cinese che, fra l'altro, odiava? Inoltre la sera precedente si era fatto portare, dopo averle ordinate, omelette al prosciutto e spremute d'arancio), un lenzuolo legato a cappio nella ringhiera che portava al soppalco, a far credere al pensiero di una impiccagione, sedie, tavolo, microonde, televisore e frigorifero rovesciati a terra (a far pensare che volesse impedire l'accesso alla camera - ma chi l'ha trovato morto è entrato comodamente), il materasso, senza fodera e imbottitura, sul pavimento e in bagno una situazione anche peggiore: il condizionatore parzialmente smontato (ma non si son trovati né un cacciavite né nessun altro attrezzo idoneo a svitare viti) e gli infissi e i mobili strappati dal muro.
Insomma, un quadro inquietante che unito ai giubbotti e alle chiavi dell'auto, che dovevano essere a Milano e invece si son trovati nella stanza (come sono arrivati a Rimini?), oltre ai tanti biglietti lasciati sul comodino (in alcuni era scritto: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata” - "Con tutti Marte e Venere segnano per sentire") ci sarebbe stato da perderci mesi e mesi di indagini per capirci qualcosa, se non anni... invece in soli 50 giorni si giunse all'archiviazione. Un comportamento strano, come quello del patologo che si è tenuto il cuore di Marco nel frigo di casa sua per una nottata (perché aveva paura che glielo rubassero, ha detto) e non ha notato le ferite alla nuca, al naso, al collo, sul sopracciglio e dietro le orecchie... patologo che in perizia ha parlato di un doppio edema senza dare spiegazioni su come si sia sviluppato e senza fare alcun prelievo: ad esempio per trovare tracce di dna estranee sotto le unghie del cadavere, o per capire se invece che dalla bocca, fosse entrata dall'ano una supposta di cocaina. In poche parole, le stranezze erano talmente tante (non le ho inserite tutte) che se i media avessero calcato un pochino la mano, se non avessero convinto tutti del fatto che Marco era un cocainomane che voleva morire, la metà bastavano a far drizzare i peli di un procuratore. Inoltre, c'è da dire che qualcuno non voleva che i peli si rizzassero. Infatti al giornalista francese Philippe Brunel, uno degli inquirenti disse di avere ricevuto pressioni dal Ministero dall'Interno per concludere in fretta l’indagine. Ma come si possono chiudere indagini in cui non si trovano spiegazioni valide neppure alle cose più banali? Ad esempio: perché le mutande gli uscivano di molto dai pantaloni molto abbassati, come se il corpo fosse stato trascinato o rivestito in fretta (ecco il motivo per cui controllare se qualcosa fosse stata spinta all'interno dall'ano)? Come si possono chiudere le indagini senza aver neppure capito come siano potuti accadere gli avvenimenti precedenti e successivi al decesso? Ad esempio: come spiegare le tantissime telefonate intercorse fra i pusher in quel pomeriggio del 14 febbraio, quando Marco era probabilmente già morto?
E ancora: "Come spiegare il motivo per cui tre medici abbiano dato tre diverse ore della morte?"
C'è chi ha scritto che sarebbe morto dalle 11.30 alle 12.30 - chi invece è certo che sia morto fra le 14.00 e le 17.00 e chi alle 19.00 di sera. Insomma, il rompicapo era sul tavolo della procura e serviva risolverlo in modo chiaro controllando anche i peli del sedere di chiunque fosse stato in quel residence, di tutti gli impiegati, dei proprietari, di chiunque avesse frequentato Marco in quei giorni. Invece da quella stanza non furono rilevate né le tracce di dna né le impronte, preferendo non infierire sul campione sventurato dipinto dai media dopato e prossimo al suicidio. Poteva Marco suicidarsi al residence le Rose di Rimini, quando in quindici minuti sarebbe potuto andare a casa sua, a Cesenatico (gli bastava chiamare un taxi)? Per i periti della procura Marco era impazzito e quel giorno si è comportato da matto smontando un condizionatore con le unghie, visto che mancava il cacciavite, ma senza rovinarsele e senza graffiarsi la punta delle dita, preparando un cappio con un lenzuolo ma non usandolo, visto che non è morto impiccato, sbrancando un materasso e tirando via mobili, elettrodomestici e sedie, perché vedeva i fantasmi (due per la precisione), naturalmente pericolosi, viste le richieste di aiuto (l'ultima alle 10.55) non esaudite. Ed è davvero incredibile che Marco Pantani, non un nome qualunque, abbia chiamato al telefono una receptionist chiedendole di telefonare alla Polizia, e lei invece di riagganciare e digitare subito 113 abbia cercato di capire il motivo per cui doveva chiamarla. E' incredibile che una volta accertati i rumori di mobili caduti a terra, la stessa receptionist sia tornata alla hall senza fare nulla di più che aspettare la fine del suo turno. Perché non si voleva che la Polizia entrasse in quel residence? Chi c'era nelle altre camere? Qualcuno non registrato che non doveva apparire? E' incredibile anche che nessuno abbia mai appurato questa situazione.
D'altronde, quando si parla di Marco tutto pare incredibile. La sua vita è incredibile, la sua forza di volontà, quella che gli ha fatto superare incidenti gravissimi, è stata incredibile. Quella forza di volontà che avrebbe trovato un'altra volta solo che qualcuno lo avesse difeso di fronte ad accuse altrettanto incredibili. Perché è incredibile che uno come lui, considerato il più Grande in base a quanto affermato dai migliori ciclisti di ogni epoca, avesse subito nel 1999 il trattamento riservato duemila anni prima ai condannati a morte. Linciato e denigrato sulla pubblica piazza dai media e da quelle stesse persone che aveva contribuito ad arricchire e a far diventare famose. Incredibile la sua immagine mandata in onda mentre esce da un albergo scortato da otto carabinieri. Dopo questo trattamento, che nessuno impedì, non avendo più la mente sgombra da ombre, Marco non riuscì più a stare bene in quella casa con le ruote che era stata sua e dalla quale si è poi allontanato perché schifato. Quella casa occupata anche da chi non era degno di viverci. Ad esempio, da quelli che avevano detto di sentirlo come un figlio, quando vinceva per distacco, e il 6 giugno gli sputarono addosso. I pochi che si sono chiesti il vero motivo della sua esclusione dal Giro d'Italia del '99 lo hanno fatto a posteriori. I suoi colleghi della "Mercatone Uno" parlarono delle stranezze avvenute il 5 giugno '99 solo dopo il funerale di Marco. Raccontarono, non tutti lo sanno perché non c'è stata la reclame mediatica che ci doveva essere, la verità scomoda che tutti sapevano e bisbigliavano: cioè che a Madonna di Campiglio si eseguì un'autentica e mortale esecuzione e che il condannato a morte era proprio il Pirata. Tutti i giornalisti sapevano del complotto e nessuno ha mai scritto nulla.
Fu un complotto - dissero Marco Velo e Marcello Siboni, gregari del Pirata, raccontando la verità scomoda che doveva restare all'interno del circuito. Già la sera del 4 giugno - racconta Velo - cominciarono a girare voci che Marco il giorno dopo sarebbe stato escluso dal Giro. Mi ricordo che la sera eravamo nella stanza di uno di noi: eravamo tutti felici, scherzavamo, ridevamo e pensavamo a come ci saremmo divisi il premio per la vittoria del Giro. Ma il clima cambiò alle 22-22.30 perché nella stanza cominciarono ad arrivare telefonate di gente che era presente a una festa dell'organizzazione e chiedeva se fosse vero che l'indomani Marco non sarebbe partito.
Tanto per capirci, i ciclisti ci dissero che la sera precedente alla penultima tappa, quando ancora non si sapeva neppure chi sarebbe stato scelto per le analisi antidoping, giravano già le voci della sua esclusione. Ma passiamo alla notte e arriviamo al momento in cui si riempirono le fiale di sangue di nove atleti, fra cui Marco.
La mattina presto del 5 giugno 1999 - sostiene Roberto Pregnolato, massaggiatore del Pirata - mezz'ora dopo il prelievo fatto a Marco, i giornalisti al seguito del Giro già sapevano il risultato. Mezz'ora dopo, cioè prima che il sangue fosse stato esaminato, ci siamo capiti? E cosa dire della fiala in cui inserire il sangue? Fiala che per regolamento andava scelta fra tante dal ciclista sottoposto al test e che invece scelse uno degli analizzatori?
Quando accadde il fattaccio a nessuno, stranamente, fu possibile fare un breve ragionamento logico e subito dopo l'annuncio della sua estromissione (quindici giorni di stop per il rischio salute, non una squalifica) i quotidiani sportivi gli spararono addosso titoloni fatti solo del pregiudizio mass-mediatico... chi li impose? In primis quella "Gazzetta Rosa", organizzatrice del Giro, diretta da Candido Cannavò: chi da anni si era dichiarato padre putativo di Marco e che in pompa magna gli diede del traditore drogato. Eppure ci voleva poco a capire che a partire da quell'anno si poteva scommettere anche sul ciclismo, che la vittoria di Marco, certa e scontata sin dall'inizio ma data alla pari (scommettevi centomila lire ne vincevi duecentomila), sarebbe costata oltre duemila miliardi di lire ai bookmakers regolari e clandestini, una cifra da capogiro che non si voleva pagare.
Partiamo da Gennaio 2004: dopo essere stato a Cuba Marco si ferma a casa della sua manager. Da anni sta psicologicamente male a causa delle accuse infamanti che si è sentito sputare addosso, e da qualche tempo è in crisi perché la sua fidanzata lo ha lasciato senza possibilità d'appello. Da quel giugno del '99 non ha più la tranquillità che serve per vivere sereni. La stampa lo ha massacrato e continua a tirarlo in ballo, tutti credono che sia un atleta dopato (ma l'autopsia dimostrerà che di doping ne ha assunto veramente pochissimo in vita sua) e lui ne soffre come non è possibile immaginare. Per capirlo almeno un minimo, occorre pensare a quanto accadde mentre si allenava su strada e sentì un uomo gridargli: "Pirata di merda!". Lui non gli rispose, ma la rabbia fu talmente tanta che tornò a casa, prese una sega e tagliò in due la bicicletta. Ecco, forse anche quel signore, aizzato e convinto dai media, contribuì a creare il disagio che Marco credette di alleviare con la cocaina. Chi gliela forniva si qualificava come amico, ma la realtà è che quando si conoscono le debolezze di chi possiede tanti denari da spendere, è facile creargli attorno una rete di amicizie fasulle buone solo a spillar quattrini. Gli amici di Marco erano altri. Uno lo aveva voluto a casa sua per stargli vicino, un altro lo sentiva più volte al giorno e insieme andavano ovunque. Almeno fino al 9 ottobre 2003, quando morì in un incidente stradale alquanto particolare. Un incidente avvenuto sulla via Pisignano, la strada che segna il confine fra i comuni di Cesena e Ravenna, una strada dritta che più dritta non si può che per una buona parte costeggia l'aeroporto militare del XV° stormo.
Capire la dinamica non fu facile, tanto che ci si accontentò delle parole di un uomo che disse di averlo visto sbandare e che non c'era nessuno in strada dietro o davanti al suo pulmino da lavoro. Fatto sta che l'amico di Marco, alle 19.30 (non alle tre di notte), in quel lungo rettilineo fece trecento metri incredibili: prima cercando di non finire in un fossato e poi zigzagando a destra e a sinistra finendo per capottare diverse volte e distruggersi in un campo. Il guidatore fu sbalzato fuori e morì non prima di aver lasciato sull'asfalto 30 metri di frenata, di aver ripreso in mano la vettura ed essere tornato dritto in carreggiata, per un tratto non c'erano segni di frenata, ed aver infine cercato di inchiodare nuovamente prima di iniziare a ribaltarsi fino a finire nel campo a quasi 50 metri dalla strada. La stranezza sta nel fatto che per fare tante frenate, tornare dritto e infine finire a quel modo, il furgone doveva percorrere quei 300 metri ad una velocità vicina ai 200 km l'ora! Impensabile! Oppure, ma nessuno ha indagato vista la testimonianza, doveva esserci qualche grosso veicolo che da dietro lo tamponava cercando di farlo uscire di carreggiata in una strada larga e lunga, nonché dritta, mai molto frequentata e buia. Comunque sia accaduto, non s'è correlato l'episodio all'amicizia stretta col Pirata e quattro mesi dopo, quando anche Marco morì, nessuno ha pensato che l'incidente potesse correlarsi alla tragedia del residence Le Rose.
Ma torniamo a Milano. Marco da qualche giorno è ospite della sua manager e in casa sua ha un alterco con il padre. Qualche giorno dopo, Marco si trasferisce in un hotel della metropoli lombarda. Sta male, non riesce a dormire e un dottore gli prescrive degli antidepressivi. Glieli fa avere la sua manager assieme alla lettera di cui parlavo in precedenza. Dopo aver trascorso sette giorni in quell'albergo, chiede di poter pagare il conto e se è possibile trovare un taxi che lo porti a Rimini. Senza bagagli, se non uno zaino (nell'albergo lascia tre giubbotti da neve e al fratello della manager le chiavi di una sua auto), Marco si dirige verso Rimini e fa girare il tassista fino a quando non si trova sulla parallela del lungomare, su Viale Regina Elena dove, all'altezza di un negozio di scarpe, scende e paga la corsa: 680 euro. Il tassista lo vede camminare a piedi e farsi sempre più piccolo. Non è diretto al residence, che neppure conosce, ma all'abitazione dell'ex capo della sua fidanzata, uno di quegli "amici" che lo ha rifornito di droga. In quell'appartamento convivono due ragazzi, uno è di Napoli e di cocaina ne trova quanta ne vuole. Però al citofono non risponde lui, la madre di Marco l'aveva minacciato e forse anche per questo era tornato a Napoli. Ed allora si è detto che Marco ha cercato un altro pusher, un galoppino dell'uomo tornato a Napoli, e una volta trovatolo si sia sistemato autonomamente nel residence che si trovava a cavallo fra via Regina Elena e il lungomare, a pochi passi dall'abitazione del napoletano: il residence Le Rose, appunto. Nessuno voleva dargli la "roba", disse il pusher a processo, ma dopo aver visto i contanti che Marco aveva con sé (12.000 euro), e dopo aver telefonato a Napoli, il 9 febbraio 30 grammi di cocaina sono arrivati dalla Campania a Rimini, nella stanza del ciclista.
Il proprietario dell'appartamento in cui abitava il pusher napoletano, che nulla seppe, neppure dai suoi "collaboratori", né della presenza di Marco in Romagna né del crimine, almeno questo disse in aula, dopo essere stato condannato due volte per aver venduto a Marco cocaina purissima, venne assolto in cassazione perché il fatto non costituiva reato. Quindi, anche per i giudici romani lui non sapeva che Marco alloggiava nella camera D del 5° piano del residence Le Rose, quello di fronte al suo appartamento. E torna la domanda: chi lo aveva indirizzato in quella sorta di albergo? Oggi è una domanda lecita dato che si sa che vivere in quel residence, chissà se Marco lo sapeva, in pratica significava non essere sicuri perché, anche se un giocatore di basket dormiva in una stanza di quel piano (ma se ne andava prima di mezzogiorno e tornava a sera tarda), Marco era l'unica anima presente durante la giornata. Il cestista comunque i rumori, come di un qualcosa di pesante che sbattesse sulle pareti, la mattina del 14 febbraio li ha sentiti provenire dalla camera di Marco, ma neppure lui si è preoccupato di andare a chiedere cosa stesse accadendo. Lui sapeva che in quelle camere poteva entrare chiunque, visto che l'ingresso dai garage consentiva l'accesso ai piani senza doversi qualificare alla reception? Forse sì o forse no, dato che questa strada alternativa all'ingresso principale fu accertata solo durante i processi, prima di questi nessun inquirente aveva cercato di scoprire se si poteva entrare nel residence senza passare dalla reception. Quindi Marco non aveva difese. Non le aveva e non le ha avute neppure quando ha chiesto aiuto. Infatti la mattina di quel 14 febbraio fece due telefonate di aiuto alla reception (l'ultima alle 10.55), telefonate in cui chiedeva di chiamare la polizia perché c'erano due persone in camera sua che lo importunavano, telefonate a cui non si è dato seguito nonostante i rumori strani provenienti dalla sua stanza, come se qualcuno stesse cercando qualcosa, rumori di mobili spostati e di sedie cadute ascoltati da tre persone: oltre al giocatore di basket li sentì anche la donna delle pulizie e la receptionist salita al piano dopo l'ultima richiesta d'aiuto (ma non bussò alla porta di Marco e nonostante quei rumori non chiamò il 113). Tutto molto ma molto strano, come il fatto che proprio il 14 febbraio, guarda le coincidenze, l'impianto di videosorveglianza del residence ebbe un malfunzionamento, come lo ebbe quello della farmacia situata a pochi metri di distanza.
Nonostante questa situazione stranissima, si è detto che a Rimini Marco abbia consumato dosi industriali di cocaina. E lo si è detto perché tantissima era nel suo corpo e perché un pusher ha dichiarato di avergliene venduti 30 grammi. Eppure nessuno, né la donna delle pulizie (che per quattro giorni aveva pulito la camera senza notare nulla di strano), né i soccorritori, né i poliziotti intervenuti per primi (che se ne sono andati senza far nulla ed hanno lasciato che in quella camera entrasse chiunque), ha rinvenuto quelle cose particolari sempre presenti nelle stanze di chi si droga. E dato che Marco è morto per un'overdose sei volte superiore a quanta ne bastasse per mandare in overdose chiunque, è di fatto stranissimo trovare nella camera di un drogato solo piccole tracce di polvere di cocaina, sparsa qua è là, senza che ci siano né carta stagnola né bustine in plastica (dove erano conservati i 30 grammi di coca?), né alcolici (tutti i consumatori di cocaina li bevono perché quando inizia a scemare l'effetto l'alcool lo riattiva). A tutto questo si aggiunge un altro fatto certo: chi è entrato nella stanza dopo la sua morte si è trovato di fronte all'esito finale di una battaglia cruenta che Marco non aveva combattuto da solo, visto che le sue dita erano intonse e senza graffi. C'era sangue sul divano e sul pavimento, un rigurgito (vomito) che presentava tracce di pane misto a piccole dosi di cocaina, resti di cibo cinese nel cestino dell'immondizia (ma se nel suo stomaco c'era pane, cosa c'entra il cibo cinese che, fra l'altro, odiava? Inoltre la sera precedente si era fatto portare, dopo averle ordinate, omelette al prosciutto e spremute d'arancio), un lenzuolo legato a cappio nella ringhiera che portava al soppalco, a far credere al pensiero di una impiccagione, sedie, tavolo, microonde, televisore e frigorifero rovesciati a terra (a far pensare che volesse impedire l'accesso alla camera - ma chi l'ha trovato morto è entrato comodamente), il materasso, senza fodera e imbottitura, sul pavimento e in bagno una situazione anche peggiore: il condizionatore parzialmente smontato (ma non si son trovati né un cacciavite né nessun altro attrezzo idoneo a svitare viti) e gli infissi e i mobili strappati dal muro.
Insomma, un quadro inquietante che unito ai giubbotti e alle chiavi dell'auto, che dovevano essere a Milano e invece si son trovati nella stanza (come sono arrivati a Rimini?), oltre ai tanti biglietti lasciati sul comodino (in alcuni era scritto: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata” - "Con tutti Marte e Venere segnano per sentire") ci sarebbe stato da perderci mesi e mesi di indagini per capirci qualcosa, se non anni... invece in soli 50 giorni si giunse all'archiviazione. Un comportamento strano, come quello del patologo che si è tenuto il cuore di Marco nel frigo di casa sua per una nottata (perché aveva paura che glielo rubassero, ha detto) e non ha notato le ferite alla nuca, al naso, al collo, sul sopracciglio e dietro le orecchie... patologo che in perizia ha parlato di un doppio edema senza dare spiegazioni su come si sia sviluppato e senza fare alcun prelievo: ad esempio per trovare tracce di dna estranee sotto le unghie del cadavere, o per capire se invece che dalla bocca, fosse entrata dall'ano una supposta di cocaina. In poche parole, le stranezze erano talmente tante (non le ho inserite tutte) che se i media avessero calcato un pochino la mano, se non avessero convinto tutti del fatto che Marco era un cocainomane che voleva morire, la metà bastavano a far drizzare i peli di un procuratore. Inoltre, c'è da dire che qualcuno non voleva che i peli si rizzassero. Infatti al giornalista francese Philippe Brunel, uno degli inquirenti disse di avere ricevuto pressioni dal Ministero dall'Interno per concludere in fretta l’indagine. Ma come si possono chiudere indagini in cui non si trovano spiegazioni valide neppure alle cose più banali? Ad esempio: perché le mutande gli uscivano di molto dai pantaloni molto abbassati, come se il corpo fosse stato trascinato o rivestito in fretta (ecco il motivo per cui controllare se qualcosa fosse stata spinta all'interno dall'ano)? Come si possono chiudere le indagini senza aver neppure capito come siano potuti accadere gli avvenimenti precedenti e successivi al decesso? Ad esempio: come spiegare le tantissime telefonate intercorse fra i pusher in quel pomeriggio del 14 febbraio, quando Marco era probabilmente già morto?
E ancora: "Come spiegare il motivo per cui tre medici abbiano dato tre diverse ore della morte?"
C'è chi ha scritto che sarebbe morto dalle 11.30 alle 12.30 - chi invece è certo che sia morto fra le 14.00 e le 17.00 e chi alle 19.00 di sera. Insomma, il rompicapo era sul tavolo della procura e serviva risolverlo in modo chiaro controllando anche i peli del sedere di chiunque fosse stato in quel residence, di tutti gli impiegati, dei proprietari, di chiunque avesse frequentato Marco in quei giorni. Invece da quella stanza non furono rilevate né le tracce di dna né le impronte, preferendo non infierire sul campione sventurato dipinto dai media dopato e prossimo al suicidio. Poteva Marco suicidarsi al residence le Rose di Rimini, quando in quindici minuti sarebbe potuto andare a casa sua, a Cesenatico (gli bastava chiamare un taxi)? Per i periti della procura Marco era impazzito e quel giorno si è comportato da matto smontando un condizionatore con le unghie, visto che mancava il cacciavite, ma senza rovinarsele e senza graffiarsi la punta delle dita, preparando un cappio con un lenzuolo ma non usandolo, visto che non è morto impiccato, sbrancando un materasso e tirando via mobili, elettrodomestici e sedie, perché vedeva i fantasmi (due per la precisione), naturalmente pericolosi, viste le richieste di aiuto (l'ultima alle 10.55) non esaudite. Ed è davvero incredibile che Marco Pantani, non un nome qualunque, abbia chiamato al telefono una receptionist chiedendole di telefonare alla Polizia, e lei invece di riagganciare e digitare subito 113 abbia cercato di capire il motivo per cui doveva chiamarla. E' incredibile che una volta accertati i rumori di mobili caduti a terra, la stessa receptionist sia tornata alla hall senza fare nulla di più che aspettare la fine del suo turno. Perché non si voleva che la Polizia entrasse in quel residence? Chi c'era nelle altre camere? Qualcuno non registrato che non doveva apparire? E' incredibile anche che nessuno abbia mai appurato questa situazione.
D'altronde, quando si parla di Marco tutto pare incredibile. La sua vita è incredibile, la sua forza di volontà, quella che gli ha fatto superare incidenti gravissimi, è stata incredibile. Quella forza di volontà che avrebbe trovato un'altra volta solo che qualcuno lo avesse difeso di fronte ad accuse altrettanto incredibili. Perché è incredibile che uno come lui, considerato il più Grande in base a quanto affermato dai migliori ciclisti di ogni epoca, avesse subito nel 1999 il trattamento riservato duemila anni prima ai condannati a morte. Linciato e denigrato sulla pubblica piazza dai media e da quelle stesse persone che aveva contribuito ad arricchire e a far diventare famose. Incredibile la sua immagine mandata in onda mentre esce da un albergo scortato da otto carabinieri. Dopo questo trattamento, che nessuno impedì, non avendo più la mente sgombra da ombre, Marco non riuscì più a stare bene in quella casa con le ruote che era stata sua e dalla quale si è poi allontanato perché schifato. Quella casa occupata anche da chi non era degno di viverci. Ad esempio, da quelli che avevano detto di sentirlo come un figlio, quando vinceva per distacco, e il 6 giugno gli sputarono addosso. I pochi che si sono chiesti il vero motivo della sua esclusione dal Giro d'Italia del '99 lo hanno fatto a posteriori. I suoi colleghi della "Mercatone Uno" parlarono delle stranezze avvenute il 5 giugno '99 solo dopo il funerale di Marco. Raccontarono, non tutti lo sanno perché non c'è stata la reclame mediatica che ci doveva essere, la verità scomoda che tutti sapevano e bisbigliavano: cioè che a Madonna di Campiglio si eseguì un'autentica e mortale esecuzione e che il condannato a morte era proprio il Pirata. Tutti i giornalisti sapevano del complotto e nessuno ha mai scritto nulla.
Fu un complotto - dissero Marco Velo e Marcello Siboni, gregari del Pirata, raccontando la verità scomoda che doveva restare all'interno del circuito. Già la sera del 4 giugno - racconta Velo - cominciarono a girare voci che Marco il giorno dopo sarebbe stato escluso dal Giro. Mi ricordo che la sera eravamo nella stanza di uno di noi: eravamo tutti felici, scherzavamo, ridevamo e pensavamo a come ci saremmo divisi il premio per la vittoria del Giro. Ma il clima cambiò alle 22-22.30 perché nella stanza cominciarono ad arrivare telefonate di gente che era presente a una festa dell'organizzazione e chiedeva se fosse vero che l'indomani Marco non sarebbe partito.
Tanto per capirci, i ciclisti ci dissero che la sera precedente alla penultima tappa, quando ancora non si sapeva neppure chi sarebbe stato scelto per le analisi antidoping, giravano già le voci della sua esclusione. Ma passiamo alla notte e arriviamo al momento in cui si riempirono le fiale di sangue di nove atleti, fra cui Marco.
La mattina presto del 5 giugno 1999 - sostiene Roberto Pregnolato, massaggiatore del Pirata - mezz'ora dopo il prelievo fatto a Marco, i giornalisti al seguito del Giro già sapevano il risultato. Mezz'ora dopo, cioè prima che il sangue fosse stato esaminato, ci siamo capiti? E cosa dire della fiala in cui inserire il sangue? Fiala che per regolamento andava scelta fra tante dal ciclista sottoposto al test e che invece scelse uno degli analizzatori?
Quando accadde il fattaccio a nessuno, stranamente, fu possibile fare un breve ragionamento logico e subito dopo l'annuncio della sua estromissione (quindici giorni di stop per il rischio salute, non una squalifica) i quotidiani sportivi gli spararono addosso titoloni fatti solo del pregiudizio mass-mediatico... chi li impose? In primis quella "Gazzetta Rosa", organizzatrice del Giro, diretta da Candido Cannavò: chi da anni si era dichiarato padre putativo di Marco e che in pompa magna gli diede del traditore drogato. Eppure ci voleva poco a capire che a partire da quell'anno si poteva scommettere anche sul ciclismo, che la vittoria di Marco, certa e scontata sin dall'inizio ma data alla pari (scommettevi centomila lire ne vincevi duecentomila), sarebbe costata oltre duemila miliardi di lire ai bookmakers regolari e clandestini, una cifra da capogiro che non si voleva pagare.
Quindi il ragionamento, se iniziato, avrebbe dovuto portare lontano e forse alla verità. Quella mattina sarebbe partita la penultima tappa, l'ultima vera, e il controllo a sorpresa effettuato due giorni prima aveva detto che l'ematocrito di Marco era perfetto. E con l'ematocrito perfetto aveva vinto le ultime due tappe lasciando gli avversari ai piedi delle salite. Ricordo a tutti che nel '99 i ciclisti trovati con l'ematocrito alto non erano considerati dopati ma a rischio di salute, quindi venivano fermati per quindici giorni a titolo precauzionale. Il valore con cui al periodo si poteva correre senza rischi era 50, più un uno per cento di tolleranza, e Marco si disse avesse raggiunto i 52, per cui lo si fermò per quindici giorni. Sembra semplice a dirsi, ma in realtà cosa capitò quel giorno? Non è vero che i prelievi eseguiti il 4 giugno, dopo la tappa vinta, avessero dato esito positivo, come scritto da più parti, in realtà accadde che la mattina del 5 giugno, quella della partenza della penultima tappa, gli analisti dell'UCI, tre medici più il loro capo (per la precisione ed alla faccia), si presentarono nella camera di Pantani, altri medici andarono a controllare ulteriori otto ciclisti (che da giorni non contavano più nulla in classifica e non avevano faticato come Marco nelle ultime due tappe) per un prelievo a sorpresa. Non prelievi sorteggiati a caso, come dovrebbe essere per restare nelle regole, bensì prelievi mirati. Per cui venne prelevato il sangue ad una decina di ciclisti ed alle 9.30 vi fu la sentenza (quella che tutti conoscevano già prima delle otto). Tutti i corridori controllati gravitavano fra valori che andavano tra il 49.5 ed il 50.5 (valori consentiti) tranne uno, Marco Pantani che le macchine dicevano avesse, come detto in precedenza, 52, e questo gli costò il ritiro e la maglia rosa.
Ed ecco che l'unico modo rimasto per non buttare duemila miliardi fu usato. Quindi non era vero non ci fosse alcuna possibilità che perdesse il Giro D'Italia, come dicevano tutti (tranne alcuni carcerati che sapevano di dover puntare su altri corridori perché Marco avrebbe perso), una possibilità c'era, quella che puntualmente si è verificata. Forse tutto venne da sé, senza bisogno di imbrogli. Forse bastò controllare nuovamente i valori del sangue, dopo due tappe ad alta quota vinte, e sperare che la fatica di quegli ultimi due giorni, in cui aveva staccato tutti portandosi al comando con tanti minuti di vantaggio, e le tre notti passate in altura lo fregassero (l'ematocrito aumenta in alta quota). Oppure c'era qualcuno che non gli ha permesso di smaltire le tossine del giorno precedente... chissà. Leggiamo cosa dissero, dopo il responso dell'UCI, i responsabili della sua squadra: "Marco non riesce a capire, e non riusciamo neppure noi a farlo, cosa sia successo. Aveva già fatto due controlli prima e rientrava nella norma. O c'è una spiegazione scientifica, e do la parola al medico, oppure c'è un'altra ipotesi: se qualcuno voleva fare un attentato al ciclismo c'è riuscito perfettamente". Il medico, a cui fu data la parola, andò sul morbido e non accusò nessuno: "Do una mia interpretazione: ha dormito due notti in altura, passando dal freddo al caldo, bevendo poco. Mettendo insieme sforzi, disidratazione, altura, si può arrivare a questo valore anomalo. La sera precedente l'avevo controllato ed era a posto, così com'era a posto l'altro corridore, Velo, i cui valori rientravano nei limiti consentiti. Faremo comunque accertamenti". Altri dissero: "Era tanto tranquillo che se il giudice con i risultati fosse arrivato tre minuti più tardi l'avrebbe trovato a far colazione. Complotto? In questi momenti si pensa a tutto. Il ritiro della squadra? Sono uomini prima che corridori, hanno sposato in toto la causa di Pantani, sono solidali con lui e patron Cenni ha avallato la decisione. Andare al Tour? Se glielo propongo adesso mi manda a quel paese. Credo invece che quando tornerà a casa segherà in due la bici. A prescindere da ogni considerazione dico che la gente aveva il diritto di vedere Pantani sul Mortirolo".
Fu quindi davvero solo un caso che alla penultima tappa lo svegliassero di prima mattina per fargli le analisi? Fu davvero solo un caso che non gli fecero scegliere la provetta, com'era prassi, ma decisero loro in quale mettere il sangue? Fu un caso che in quel Giro d'Italia Marco fosse il portavoce di tutti i corridori e si battesse contro i controlli a sorpresa, quelli effettuati fra le due e le quattro di notte? Nulla fu fatto per caso, neppure nei giorni successivi quando, dopo una batosta psicologica del genere, nessuno pensò a lui uomo, nessuno pensò alla delusione del ciclista che capì di vivere in un mondo marcio in cui tutti gli chiedevano solo di giustificare quel valore e parlavano di doping (e pensare che l'anno successivo si variarono i parametri e Marco Pantani sarebbe risultato negativo ed avrebbe partecipato tranquillamente alla tappa). Perché l'anno successivo si cambiarono le regole? Perché la stampa non capì, o non volle capire, che il mostro da combattere non era il doping? Infatti Marco non fu trovato dopato. Ma anche se non fu trovato dopato, i giornali in rosa gli spararono addosso senza alcun rimorso o remora, la sua casa fu circondata da nugoli di giornalisti che volevano immortalarlo nel momento peggiore della sua vita, lui si chiuse in sé credendo che un trattamento del genere, dopo quanto aveva fatto per la sua categoria e per l'Italia sportiva, non lo meritava. Marco non era psicologicamente preparato a una cosa del genere e cadde in depressione. Non era quell'automa che altri pensavano, aveva un'anima sensibile che lo portò a vedere il lato negativo impedendogli di rialzarsi.
E il non essere creduto gli incupì gli occhi e lo spirito. Le sue parole furono: "Sono ripartito dopo dei grossi incidenti, ma moralmente questa volta credo che abbiamo toccato il fondo. Rialzarsi sarà per me molto difficile. Non lo avessero tartassato e rovinato mentalmente, quel 1999 sarebbe stato l'anno del nuovo bis. Non c'era nessuno come lui, avrebbe rivinto Giro e Tour ed ora racconteremmo un'altra storia. Ma al tour de France, pur potendo, non volle partecipare, troppo brutta la ferita che si portava appresso, e lasciò per qualche tempo il mondo della bici cercando di ritrovare quella serenità che lo rendeva forte. Ma non la trovò, perché ad ogni sussulto d'aria veniva perseguitato dalla giustizia sportiva e non solo. Sette volte fu portato a processo, sette volte i giornali parlarono di Marco Pantani dopato e recidivo. Come quando ci fu un blitz in un hotel di Sanremo e senza alcuna prova venne squalificato per otto mesi perché la giustizia sportiva presumeva che avesse assunto insulina. Non era vero, non c'era nulla contro di lui e lo disse anche Celestino Salami, l'avvocato del CAF che quella squalifica la annullò: "La tesi della procura Antidoping - spiega Salami - non stava in piedi, si basava esclusivamente su supposizioni. Non solo non esistevano prove sul fatto che quella siringa trovata dai Nas nella stanza 401 fosse stata utilizzata da Pantani, ma non esisteva neanche la certezza che Pantani ci fosse mai stato in quella stanza. C'erano ben due testimonianze, quella del portiere e quella della proprietaria dell'albergo, molto chiare a questo proposito: nessuno dei due poteva dire se Pantani fosse mai entrato in quella stanza".
La vita di Marco, deve essere chiaro, a causa di quelle analisi che lo tolsero dal Giro d'Italia impedendogli di vincerlo, e di vincere anche il Tour (che per la prima volta vinse un Lance Amstrong davvero superdopato, ed ora lo sappiamo), a causa di quelle accuse infamanti, non fu più la sua vita. Tartassato continuamente anche con riferimenti velati che lo dipingevano come uno che abitualmente aveva fatto uso di Epo, si ritirò in se stesso dimenticandosi di salvare il salvabile. L'autopsia appurerà poi che questa non era la verità, che l'Epo aveva solo sfiorato Marco. Al suo funerale troppe persone erano presenti e troppe erano assenti, troppe persone furono intervistate e troppe persone lo chiamarono amico... ma i veri amici non ti sputano in faccia, i veri amici ti aiutano e lottano con te contro i giganti del potere, se occorre. Gli "amici" che aveva Marco, quelli del suo periodo d'oro che lo esaltarono per mangiare in piatti d'argento, si sottomisero al potere e per il quieto vivere gli chiesero di sottomettersi. Si sa che al mondo ci sono giochi di potere che fanno paura e sono difficili da smantellare, quelli legati a doppio filo col denaro, sporco o pulito con l'inganno poco importa, ma se la stampa nel '99 avesse dato giuste informazioni anziché scrivere stupidità? Se avesse aiutato il Pirata perorando la sua causa anziché infossarlo? I suoi fans erano milioni e forse si sarebbero aperti tanti armadi, forse sarebbero usciti tanti scheletri e ora Marco sarebbe vivo e felice. Sono passati quindici anni da quel maledetto giorno di giugno e ancora la verità ufficiale nasconde a doppia chiave la realtà e i fantasmi del passato...
Ma di questo nessuno parla. Ora la stampa gioca con l'audience e si fa ricca nel parlare di una morte sospetta, di un delitto. Così gli "amici" tornano amici e tutto si fa ruotare sulla sua morte, tralasciando la causa che l'ha portato ad essere un consumatore di cocaina. In pochi torneranno a vangare fra le macerie di quel giro maledetto in cui la vittoria del Pirata sarebbe costata migliaia di miliardi di lire. Marco è morto nel 2004 e di questo lo share vuole che si parli. Con un ritardo pazzesco, i media danno finalmente vera voce alla famiglia Pantani fingendo di non conoscere le tante stranezze di cui ora si parla e si parlerà.
C'è da chiedersi dove abbiano vissuto quei giornalisti nazionali quando la madre di Marco si sgolava, sbatteva contro un muro di gomma e veniva invitata a ritirarsi, a lasciar perdere e a smetterla di parlare... per il suo bene.
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Ma di questo nessuno parla. Ora la stampa gioca con l'audience e si fa ricca nel parlare di una morte sospetta, di un delitto. Così gli "amici" tornano amici e tutto si fa ruotare sulla sua morte, tralasciando la causa che l'ha portato ad essere un consumatore di cocaina. In pochi torneranno a vangare fra le macerie di quel giro maledetto in cui la vittoria del Pirata sarebbe costata migliaia di miliardi di lire. Marco è morto nel 2004 e di questo lo share vuole che si parli. Con un ritardo pazzesco, i media danno finalmente vera voce alla famiglia Pantani fingendo di non conoscere le tante stranezze di cui ora si parla e si parlerà.
C'è da chiedersi dove abbiano vissuto quei giornalisti nazionali quando la madre di Marco si sgolava, sbatteva contro un muro di gomma e veniva invitata a ritirarsi, a lasciar perdere e a smetterla di parlare... per il suo bene.
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1 commento:
Estremamente drammatico ed estremamente interessante.
Ricordo che nel 1999, subito dopo il fattaccio, qualcuno ventilò la possibilità che non tutto fosse chiaro, ma venne presto zittito dal crucifige in nome dello sport "pulito".
E' da notare però che, almeno per quello che mi ricordo, nessuno diede adeguato rilievo alle anomalie relative a quel controllo messe in evidenza in questo articolo: come dici tu Pantani aveva molti fans e forse l'esito sarebbe stato molto diverso se si fossero sapute certe cose.
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