giovedì 7 novembre 2013

L'italiano? Uno zombi che si aggira nel supermercato di una classe dirigente in svendita

Di Gilberto M.



Se dovessimo scegliere un’immagine per l’Italia? Tra le tante metafore quale sarebbe l’icona da appuntare nella sua storia dal dopoguerra? Un pozzo nero? Il buco proverbiale nel quale si nasconde ogni sorta di depravazione e di mistero? O forse quel teatro dell’assurdo dove si è sempre in attesa di Godot che non arriva mai? Attesa di una buona amministrazione in favore di tutti i cittadini, di una solidarietà sociale in nome del benessere collettivo e di uno sviluppo rispettoso dell’ambiente. Sogni senza fondamento, illusioni di un paese dove le strutture profonde rimangono sempre uguali a sé stesse e dove i cambiamenti sono solo di facciata? L’emblema italico, è quel fondo paludoso nel quale ogni movimento è come rallentato e invischiato in strani legami, remore, cavilli, schemi, arzigogoli, eufemismi, incongruenze, giochi di prestigio, inganni... illusioni da prestidigitatore. Un immaginario collettivo costruito su una impalcatura di luoghi comuni, di immagini interiorizzate attraverso un apprendimento metodico fatto di scuola del conformismo e di televisione dal formato standard, un italiano stilizzato secondo il canone del cliché e mediante la forma mentis della metànoia (la mera apparenza teatrale del cambiamento, solo un calcolato effetto retorico).

La società del dopoguerra, dopo un periodo di assestamento dovuto al trauma del fascismo, ha costruito una macchina di pensiero fondata sui cicli iterativi, un po’ come i ‘nidi di for’. Nel linguaggio di programmazione un ciclo for…next è un ciclo iterativo che consente di ripetere un gruppo di istruzioni ‘n’ volte. Il loop all’interno di un algoritmo ordina all’elaboratore di eseguire ripetutamente un ciclo di istruzioni (while…do; repeat…until; do…while ecc.) In qualche caso si può dare un ciclo infinito (un errore di programmazione?) che senza un opportuno debugging costituisce la premessa per iterazioni, subroutines, come nei frattali, figure spesso belle ed insulse, nel ripetersi senza interruzione di uno stesso motivo su scala sempre più ridotta.

I nidi di for dell’italiano medio, quel loop nel quale si trova intrappolato più o meno volontariamente, costituiscono lo schema nel quale la creatività e la sua proverbiale fantasia vengono progressivamente ridotte a stereotipi, schemi pedissequi in cui la verità è data per acquisita e certificata, idee del mondo iperuranio che viaggiano da una testa ad un’altra, via etere, insieme a un invisibile certificato di conformità e idoneità, l’imprimatur del consenso, secondo i dettami vuoi della moda del momento e vuoi di quella capacità di replicazione e di variazioni sul tema fondate su puri assunti ideologici e/o moralistici.

Non c’è nessun ambito della cultura (e subcultura) che sia immune dal morbo del loop iterativo. Dalla televisione al cinema, dalla letteratura alla filosofia, perfino dalla tecnologia alla ricerca scientifica. Il fenomeno non è solo italiano, ma nel caso dell’Italia assume modalità davvero incisive, così profonde da costituirne il carattere peculiare del nostro sistema psico-attitudinale. La varietà dell’offerta radiotelevisiva, ad esempio, non deve ingannare. La televisione fin dal suo esordio nei primi anni ’50, ma soprattutto a partire dagli anni ’70, ha costituito e costituisce la formazione di quel modello di pensiero fondato su ricorsività spacciate con l’enfasi retorica e la supponenza di una vera attività cerebrale (simulazione di una testa pensante). Dietro a molti format c’è quella struttura mentale fatta di quasi-concetti, quasi-idee, quasi-pensieri, null’altro che banalità altisonanti nelle quali la retorica più insulsa si mescola al sentito dire, alle voci che corrono, all’imitazione e allo scimmiottamento di altre idee, ma banalizzate in un crescendo di spiegazioni e ragionamenti insulsi e ripetitivi. 

Se poi è l’ambito politico a rappresentarsi e a rappresentare le idee incorrotte e i sacri crismi del mondo iperuranio, allora si tratta di un loop all’ennesima  potenza, quel déjà vu di iperboli, enfasi, sdegno, ellissi, allegorie, epiteti, invettive, reticenze, prosopopee, sineddochi… tutto l’armamentario delle figure retoriche, una catacresi di antiche metafore a soccorrere una povertà di parole e di idee, un vuoto zen di pensiero che sfiora l’atarassia, una imperturbabilità anche quando il paese va in rovina. Basta per l’appunto una carota, agitata sotto il naso, per rendere tutti felici e contenti. Alla povertà di pensiero fa da contraltare una astuzia e un fiuto per i quali non c’è bisogno di approfondimenti concettuali, le scelte sono quelle dettate da interessi del momento: affarismo, trasformismo, do ut des, l’uovo oggi, finché la barca va…, una mano lava l’altra... Insomma si tratta di quello spirito italico del compromesso e dell’amoralità, nel migliore dei casi, e della corruzione e del nepotismo nel peggiore.

Forse la dottrina del vuoto zen ci può soccorrere nel tentativo di comprendere quella realtà socio-politica nella quale siamo immersi. Partire dal vuoto per poter eseguire un’opera di riempimento. Certo anche per la fisica quantistica il vuoto costituisce un pullulare di particelle. Nel nostro caso il loop, come certe immagini zen, è il permanere nella vacuità della mente. Lo zen televisivo non è altro che il riprodursi di quel vuoto ricco di idee preconfezionate, predigerite, omogeneizzate, omologate e standardizzate… quei contenuti fotocopia nel quale ogni format ne richiama un altro in un processo di replicazione. La TV autoreferenziale è appunto la ricorsività infinita, con piccole e insulse varianti, di strutture di pensiero normalizzato, senza neppure l’horror vacui per una monotonia reiterata indefinitamente e riproposta fino allo sfinimento. Strutture ripetitive come certe neoplasie.

La creatività è bandita, il pensiero divergente risulta pura eresia, l’argomentazione al di fuori del luoghi comuni è blasfema. Basta ascoltare un programma televisivo seriale e nazional-popolare per ottenere il campionario conforme a un sistema inferenziale codificato secondo il trito-pensiero, la replicazione alla nausea di forme mentis invariabilmente identiche, la spettacolarizzazione di nullità che occupano tutto il rettangolo del monitor come se si trattasse di veri personaggi, di persone reali e non di avatar. Lo spettatore è per lo più affezionato a trasmissioni (format) dove il niente la fa da padrone, un po’ come certe partite di calcio dove domina la melina, quel fingere di mandare la palla da qualche altra parte che non sia quella zona grigia di misteriose ellissi a centrocampo. Come in certi blog dove la discussione ristagna in estenuanti palleggi perfettamente identici, assolutamente impermeabili a qualsiasi forma di contraddittorio e di ragionamento, dove basta insomma darsi ragione o darsi torto usando suggestivi eufemismi...

La cultura italiana (salvo qualche rara eccezione che in quanto quasi-normale fa scandalo e scatena polemiche) è ormai da tempo immemorabile ostaggio di quei circuiti mentali che solerti amministratori del bene pubblico, dalla scuola alla pubblica amministrazione e fino all’organo legiferante, hanno trasformato il nostro paese in quell’immenso supermercato dove si aggirano gli Zombi (come nel film del 1978, diretto dal George A. Romero, il secondo film della tetralogia dei morti viventi). Il pensiero iterativo dei nostri maître à penser sta lentamente zombizzando tutta la società in un contagio generale che trasforma le persone in ignavi che fanno zapping tra i canali televisivi vagando da un programma a un altro tanto più posseduti quanto più i format sono banali, prosaici e mediocri. La fissità funzionale (rigidità da baccalà) replica all’infinito sempre i medesimi schemi: povertà concettuale di argomenti dove la retorica ammorba ogni ragionamento e dove i motori inferenziali sono espressi da quel mondo politico che vive di idee insulse e meschine spacciate come ascesa dei sublimi gradi dell’essere...  I morti viventi sono i consumatori di programmi spazzatura con l’imprimatur del Minculpop che si dà da fare anche sul piano legislativo a perorare la causa del conformismo e della retorica più becera ed accattivante (quegli specchietti per le allodole per dimostrare che la politica fa qualcosa e nascondendo la polvere dei veri problemi sotto il tappeto dell’emotività e della più proverbiale demagogia).

Un pubblico sempre più assuefatto alle veline e agli ideologismi di regime pare forse sull’orlo di una crisi di nervi? Non proprio. L’immagine della ribellione ai raggiri e alle malversazioni, nella società massmediatica, è quella per lo più del tirare a campare, dell’affinare gli strumenti dell’opportunismo, del dare credito a chi la spara più grossa e fa le promesse più allettanti, del prendere la strada improbabile del paese dei balocchi insieme all’omino di burro che con voce melliflua e in falsetto illustra le delizie che ci aspettano (quelle eterne promesse che vengono agitate davanti al naso di un popolo di eterni pinocchietti). Per il resto si fa come Don Ferrante, l’erudito manzoniano, eroe e martire di una cultura ammuffita, attribuendo alla cattiva influenza delle stelle tutti i mali passati e futuri, leggendo gli oroscopi nella speranza che la sorte torni finalmente a favore. 

Il processo di deculturizzazione portato avanti dalla televisione (pubblica e privata) è andato di pari passo con la privatizzazione degli spazi pubblici, la svendita del patrimonio del paese e il progressivo smantellamento dei processi di solidarietà e responsabilizzazione sociale (un sistema di regole condivise e finalizzate alla consapevolezza dei diritti e dei doveri del cittadino in quanto elettore e fruitore). La demagogia in ogni ambito è diventata un sistema di governo per trasformare l’italiano in italiota, cioè in una parodia del cittadino attivo e consapevole. L’homo italicus è diventato lo zimbello di un potere che usa la menzogna e l’inganno per convertirlo in un robottino che si muove a comando, che sa dir di sì quando serve e di no quando conviene, in un opportunismo e una furbizia che gli fanno credere di fare il proprio interesse... e invece non fa altro che prendersi delle patacche. Insomma, lo zombi addestrato a fare il consumatore sia che si tratti di merci sia che si tratti di idee. I pensieri e i ragionamenti sono stati progressivamente atrofizzati sotto forma di procedure standard, processi iterativi, cicli for…next, appunto.

In questo scenario la figura dell’intellettuale è davvero emblematica di un percorso dove l’ideologismo la fa da padrone. Non tanto l’ideologia esplicita di chi si richiama a qualche sacro testo (non importa di quale ismo si tratta, dove si può arrivare alla cecità assoluta e finanche alla paranoia nei confronti degli eterodossi e dei dissidenti), quanto quel richiamo a un pensiero implicito, una formazione o deformazione professionale, che comporta una sorta di discromatopsia. Purtroppo letture monocordi e un pensiero strutturato secondo i dettami dei luoghi comuni (conditi da presunzione e arroganza) conduce al marcusiano One-Dimensional Man. Il mondo viene riguardato attraverso gli occhiali deformanti di quegli strumenti concettuali che si ritengono infallibili e indiscutibili: il passepartout di idee preconcette, bigotte e moralistiche, ma così semplici e spalmabili da poter essere consumate come snack a colazione. Ciò che caratterizza tanta parte dell’intellettuale è quel corredo di idee (spesso assunte inconsapevolmente) con le quali il mondo viene interpretato secondo un copione (o un ricettario di cucina). 

Purtroppo l’adozione di qualche tipo di occhiali colorati comporta, oltre al fenomeno della dissonanza cognitiva (che impedisce di modificare le idee anche di fronte all’evidenza), anche quello di riguardare le cose dalla sola prospettiva che si conosce, quella dell’orticello nel quale si è deciso di far crescere le proprie certezze. L’intellettuale è in genere votato vuoi a piantar patate, vuoi a seminar carote, vuoi a raccogliere melanzane, insomma si dedica a quella monocoltura che non lo impegni troppo sul piano delle idee (poche ma ‘buone’) e su quello delle scelte metereologiche (va dove ti porta il vento). Quando è in vena di trasgressioni si affida alle polemiche spaccando il capello in quattro e in otto per giungere alla conclusione tautologica del signor de La Palice.

Il processo di influenza sociale non ha dunque riguardato solo il volgo machiavellico. L’acculturazione e la speciazione hanno coinvolto tutta la piramide sociale dalla base fino al vertice (si fa per dire), vuoi quella intellighenzia ideologica (le teste d’uovo dall’apparenza pensante) e vuoi quell’uomo pratico che dovrebbe fare gli interessi produttivi della nazione, entrambi in qualche modo raffigurati da quei sedicenti rappresentanti della ceto dinamico e operoso. L’immagine di personaggi che agiscono in vista di un fine (l’interesse generale) è però quanto mai labile e indeterminata. La moderna società è fatta più che altro di forze che agiscono nella testa di chi ci governa, ma che costituiscono più le pulsioni istintive (dalle parti basse) che agiscono sulla base di egoismi come referenti dei gruppi di potere. L’immagine di processi decisionali di natura razionale è più che altro indotta da un ottimismo di maniera per dare l’illusione che tutto è sotto controllo. Gli automatismi istituzionali, mentali e istintuali, la fanno da padrone. La società industriale e post industriale è più che altro una società irrazionale dove la programmazione del nostro futuro è sotto l’azione di forze in conflitto per la spartizione del potere, non certo per un modo diverso di intendere il bene comune. 

Le lobby costituiscono astrazioni in divenire. Nessuno controlla niente, i processi di autoregolazione sono costituiti da feedback anonimi e modulati in gran parte dagli automatismi delle forze negoziali. Paradossalmente le società avanzate sono molto più irrazionali e aleatorie delle società tradizionali dove la cultura rappresentava un processo di tipo olistico e dove i processi decisionali erano sotto il controllo di uomini e non di macchine. Le nostre società sono ormai meccanismi senza controllo se non quello degli automatismi che muovono la logica produttiva e di mercato (delle merci e delle idee) e soprattutto gli egoismi individuali dei gruppi che detengono il potere. La locomotiva del progresso non sembra sotto il controllo di nessuna intelligenza veramente consapevole.

Il caso italiano ha però un surplus di argomenti che fanno capo a un sistema corrotto, vuoi ideologicamente da un malaffare che ha origini lontane, vuoi nel sistema di potere del connubio (metaforico) trono e altare, e vuoi in quel trasformismo che fuori metafora significa corruzione e interessi privati nella cosa pubblica. Di fatto gli ultimi decenni di politica parlamentare hanno trasformato il paese in un gigantesco ipermercato dove la gente trascorre le ore comprando, mangiando, dormendo all’in-piedi col sottofondo di una musica ipnotica. Il centro commerciale è diventato il simbolo di un paese trasformato in un teatro di effetti speciali, scenografie con le palme di vetroresina, i fast food con i cibi dal sapore di cartone, i manichini nei quali ci si specchia nelle vetrine, e quegli immancabili giochi di gommapiuma dove tutti possiamo finalmente ritornare bambini. Un’esistenza trascorsa tra tavoli sweet service, gnam gnam, pizze e patatine, intimo, luxury, disney, games, gadgets. L’isola dello shopping center, l’utopia comprata a rate: il salotto di truciolato e lo smatphone di ultima generazione, quello con il sistema di controllo incorporato per la sorveglianza di massa. 

È il miraggio del benessere perfino con la sauna e la palestra anaerobica, le performances da guinnes world record di consumatori testimonials e attivisti del marchio che suscita emozioni subliminali: un vivaddio meglio perfino del nirvana. La tv ha allargato lo scenario con un pantheon di personaggi più o meno stravaganti: imbonitori, venditori, commentatori, opinionisti, ideologisti, persuasori… una cultura dell’usa e getta, del mordi e fuggi, dell’improvvisazione e del relativismo. Un palinsesto costruito sul niente che parla e blatera delle bazzecole e delle pinzillacchere. Un chiacchiericcio insulso e slavato del quale molti non riescono più a fare a meno: la droga quotidiana di una pseudocultura ammannita come fosse il verbo eterno, la parola che atterra e che consola. L’italiota è stato partorito dopo un laborioso travaglio, dove la scuola pubblica ha fornito importanti elementi di conferma di un ruolo passivo sia del docente sia del discente indicando il modello del buon replicante. La cultura del conformismo che la classe politica ha voluto a fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica è rappresentata bene da un ideologismo di maniera che ha lo scopo di indottrinare secondo i sacri principi demoscopici - il socing, la neolingua orwelliana - quelli per intenderci interpretati secondo il verbo italiota, un cittadino formato ai principi della riproducibilità acritica e passiva, spacciata per il verbo della democrazia e della tolleranza.

La distruzione operata sulla società italiana negli ultimi trent’anni di governo ‘democratico’ credo abbia pochi esempi in altri paesi del mondo nel quale i suoi governanti e oppositori abbiano agito di conserva. Si tratta del più vasto e profondo sperpero di risorse umane, tecnologiche e culturali che una società (in tempo di pace) abbia mai esperito in un lasso di tempo così breve. La dissoluzione è avvenuta in modo continuo e sistematico, quasi apparentemente indolore. Dall’oggi al domani, quindi in poche generazioni, lo scenario è radicalmente mutato, irriconoscibile per chi si fosse risvegliato da un lungo letargo e riaprendo gli occhi avesse visto il paesaggio alieno che si presentava alla sua vista. Il cambiamento è stato conseguito pervicacemente, progressivamente, con un piano senza reticenze e senza incertezze. Alla fine, però, sembra davvero che tutto sia sempre stato così come oggi ci appare. Il nostro retaggio storico, si dice così, perduto e dissolto nella cultura culinaria del fastfood, nei messaggi criptici dei telefonini, nel vuoto esistenziale delle nuove generazioni senza prospettive, senza ideali e senza lavoro. Un deserto dove spicca il profumo di pollo arrosto e patatine fritte, la musichetta del cellulare, frammenti di discorsi sul goal annullato alla squadra di casa, il vagolare di abiti trendy un po’ kitsch con dentro il loro nuovo acquirente dall’aria spaesata e il vuoto di un attivismo inconcludente e ripetitivo: il ciclo for... next

Ci si abitua sempre a tutto, l’anomalo diventa normale, il difforme acquista i caratteri dell’ortodossia, perfino il mostruoso appare tutto sommato soltanto qualcosa di eccentrico e fondamentalmente innovativo. Chi ha distrutto l’Italia con la complicità di sostenitori, oppositori, fiancheggiatori, amici e nemici, l’ha fatto con una efficienza e un consenso quasi generale, come se appunto, al di là di alcuni dettagli, l’approvazione fosse pressoché unanime. Il sistema democratico ha funzionato egregiamente, l’italiano è stato complice e collaboratore di chi ha portato e sta portando il paese sul lastrico. Maggioranze e opposizioni fotocopie - concertate al di là di quella teatralità parlamentare delle figure retoriche e delle finzioni del contraddittorio - hanno collaborato fattivamente anche quando usavano (e fingevano di adottare) il linguaggio dell’opposizione. Il risultato? La svendita del paese a un affarismo senza scrupoli e senza morale; la distruzione della cultura in nome degli stereotipi e della retorica; il compromesso e il negoziato sulla base di interessi settoriali; la devastazione di ogni forma di onestà e di correttezza in nome dell’efficienza e dell’opportunismo.

L’annientamento operato da una classe dirigente irresponsabile continua con lena efficiente e con tutti quei collaboratori disseminati nella cultura spettrale della vacuità. Non solo non ci sono segni di un cambiamento, ma il trend prosegue con fervore rinnovato, con lo zelo e la determinazione di chi non vuole lasciare incompiuto il lavoro. Occorre andare fino in fondo, smantellare qualunque residuo di Stato al servizio della collettività e della sua crescita culturale. Dal localismo, all’europeismo e al mondialismo sembra essere non l’amore per la nostra terra, per il belpaese, ma l’odio… a muovere i fautori di un capitalismo che non solo è selvaggio, ma è anche di una miopia senza luce e senza ratio. Il popolo italiota, la nuova entità transumana sorta dalle ceneri dell’italiano risorgimentale, si appresta a riceverne l’eredità: lo scempio di una terra non più amata, un paese senza prospettive e senza progettualità, un territorio violato costantemente dagli inquinanti materiali dei rifiuti tossici e da quelli immateriali delle idee meschine. Nessun segno di cambiamento. Da un lato il furore iconoclasta di chi si compiace dell’opera grandiosa con la quale il paese è stato messo all’incanto, dall’altro la rassegnazione di quei pochi che ancora vedono, pensano e sperano, nel ravvedimento di quella massa amorfa, inconsapevole ed ottusa (l’ottentoto della ottocentesca lettera semiseria del Berchet) che da decenni si fa abbindolare e menare per il naso. Con il miracolo della combustione, l’araba Fenice potrà risorgere dalle proprie ceneri in una Trasmutazione Alchemica? Di certo non con questa classe dirigente.    Gilberto M. 

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6 commenti:

Manlio Tummolo ha detto...

Carissimo Gilberto,

concordo in larghissima misura con quanto scrivi, anche se il contenuto è amarissimo. Vorrei aggiungere tuttavia, basandomi su motivazioni storiche, che ciò è dovuto alla dominazione straniera (soprattutto USA) in Italia, esercitantesi dal 1945 ad oggi, in forme materiali (occupazione di basi militari), ma soprattutto culturali, economiche, tecnologiche, molto più subdole ma ben più efficaci, col programma di devastare sistematicamente tutto ciò che vi era di specifico nella cultura italiana e, più in generale, europea (neo-latina, greca, celtica, germanica e slava).

L'Italia, che ha conosciuto secoli di svariate dominazioni ed invasioni straniere, è per questo molto fragile, anche per la presenza di una cultura universalistica rappresentata dal Cattolicesimo e poi dal materialismo marxista. Eppure, anche sotto le più tetre occupazioni straniere, esistevano punte emergenti, sia in sede letteraria ed artistica, che scientifica, che politica, ovvero, se vogliamo, culturale in generale.
Oggi, non esistono più neppure queste punte emergenti: siamo in una piattezza assoluta e desolante, sembra il suolo della Luna o di Marte, butterato da vari crateri.

Anonimo ha detto...

Carissimo Manlio

Occorre però dire che l'italiano ha dimostrato comunque una capacità di reazione proprio nei frangenti più difficili della sua storia, segno che nonostante tutto esiste anche una capacità di rigenerarsi (non a caso ho usato l'immagine dell'araba Fenice). Sicuramente nel paese ci sono ancora forze sane, sia pur minoritarie, in tutti gli ambiti della cultura e al di là degli approcci ideologici. Ma questo potrebbe essere argomento di ulteriori riflessioni.
Gilberto

Manlio Tummolo ha detto...

Gilberto Carissimo,

convengo anche sulla speranza, ma affinché non sia illusione, quelli che oggi sono giovani dovrannno sforzarsi in maniera eccezionale per recuperare quanto si va perdendo e, al contempo, creare un nuova e positiva condizione. Non si tratta solo di risalire la china, ma anche di uscire dal pozzo, scivoloso e maleodorante in cui siamo finiti.

Certo, l'Italia ha avuto anche aspetti e momenti ben peggiori di quelli che stiamo vivendo, ma furono superati grazie anche alla presenza delle "cime", che ora, ahiahiahinoi, sembrano del tutto assenti.

Tuttavia, guai a non sperare e a non agire di conseguenza. In quel caso sì, sarebbe la morte certa di un popolo e di una cultura, qualcosa forse anche peggiore delle invasioni barbariche, quando avevamo i Boezio, i Cassiodoro, a raccogliere l'eredità romana e trasmetterla a noi.

Vito Vignera da Catania ha detto...

Carissimo Gilberto purtroppo non stiamo attraversando un buon momento, colpa di una crisi un po più lunga del previsto,però vedrai che ne usciremo,il popolo Italiano trova sempre il modo di risorgere dalle ceneri.Le idee di certo non mancano,il problema è sempre la mancanza di fondi da destinare per svilupparle,tanti progetti o nuove invenzioni magari in questo triste momento sono chiusi nei cassetti, vedrai che prima o poi basterà togliere un po di polvere e tante cose potranno realizzarsi.L'importante è che il politico si tolga quella"maglietta" con la scritta:saldi di fine stagione.Purtroppo in questo momento la nostra classe politica è quel che è,se non in svendita,ma poco ci vuole,tu vedi in giro qualche testa ben pensante? fuori il nome o i nomi,il partito non ha tanta importanza,l'importante è che gli funzioni il cervello.Buona notte carissimo Gilberto.

Anonimo ha detto...

Caro Vito
Siamo tutti in attesa della nuova araba Fenice. "Semel in anno licet insanire". Purtroppo secondo la tradizione il ciclo è di 500 anni. Hai voglia ad aspettare...
Ciao
Gilberto

Manlio Tummolo ha detto...

BALLS OF STEEL

Carissimi Gilberto e Vito Vignera,

le vostre osservazioni vengono proprio a fagiolo con la cronaca politica di questi giorni. Interrogato dalla stampa anglosassone sulla stima che si ha di lui nella UE, il nostro premier non ha saputo fare altro che vantarsi che ha saputo mostrare gli attributi. La stampa anglosassone ha tradotto la frase in questi termini balls of steel, ovvero "palle d'acciaio", intese dunque come testicoli. Non dunque si celebra la "testa", bensì il "testicolo". Ecco il livello non solo italiano, ma occidentale, di espressione e di intelligenza. Non si elogiano più le doti morali, intellettuali, psicologiche,o almeno il materiale cervello, ma le doti fisiche sessuali di stallone o di toro, come se oggi il carattere dell'uomo, in quanto UOMO, consistesse nelle proprie capacità sessuali.

Ma proprio qui si rivelano le contraddizioni, la basso-piattezza dei nostri tempi, la devastante ignoranza, e non nella sola Italia.

Storicamente vorrei ricordare il generale bizantino Narsete, noto eunuco, che seppe sbaragliare i Goti di Totila, Vitige e Teia (VI sec. d. C), che certo non erano ometti da poco o "guerrieri per finta o per caso", recuperando l'intera Italia, dopo le prime vittorie di Belisario e la riconquista gotica di Totila, all'Impero di Giustiniano. Malgrado, per motivi non conosciuti, Narsete fosse privo di balls, nondimeno era un guerriero e un comandante di prim'ordine, certo non imitabile dai cialtroni presenti oggi in Europa e nel mondo. Poi questa gente ancora si lamenta dei maschilismi e dei "machismi", delle fallocrazie, tuttora esistenti, vantano gli orgogli gay e simili cianfrusaglie.

Ciò che fa cadere le braccia ed altre parti pendule del corpo, è il livello plebeo, da osteria del porto, di esprimersi, da parte di un professore universitario, per giunta capo di sgoverno, e dei suoi apprezzatori internazionali.

La stoltezza è infine quella di definire "palle d'acciaio" i testicoli che, notoriamente, sono costituiti di materia viva, organica, elastica, molto sensibile,contrattile, necessariamente non dura. Che si tratti dunque di protesi ? E che le metta in mostra e se le faccia toccare, vuoi per scaramanzia, vuoi per provarne la durezza, da parte dei vari sgovernanti europei ?