Lidia quindi non era tornata in treno e nemmeno doveva partire. Lidia alla stazione di Mozzate aveva un appuntamento con la morte. Un appuntamento preso con qualcuno che la conosceva, qualcuno che ha aiutato l'assassino e presto sarà assicurato alla giustizia, perché i numeri di cellulare non si cancellano dai tabulati. Ma chi in effetti e ad ogni costo la voleva morta, era l'ex convivente e ai carabinieri è bastato scavare un minimo nel passato dei due per indirizzarsi da subito su di lui. Ma l'incredibile in un primo momento sembrava giocare a favore del sospettato, perché il suo datore di lavoro gli aveva fornito un alibi che pareva inattaccabile. Se Dritan era rimasto in pasticceria sino alle 19.00, come affermava il Mengoni, non poteva essere alla stazione di Mozzate alle 19.30 (ora dell'aggressione). Questo perché fra le due località vi sono più di 360 km e per percorrere il tragitto occorrono dalle tre ore e mezza alle quattro ore.
E dato che si parla di andata e ritorno, come minimo il tempo perso dall'assassino, quello in cui un alibi gli era indispensabile, era di sette / otto ore. Per cui non gli serviva un alibi da poco, ma più testimoni che l'appoggiassero in tutto e per tutto: testimoni che inizialmente sembrava avere. Però Lidia nel 2010 aveva denunciato Dritan per maltrattamenti in famiglia e solo nel 2013, prima di arrivare a una condanna già sicura, ritirò la denuncia. Il motivo del ritiro? Vivevano ancora insieme e avevano un figlio in comune. Ma poi era scappata da quella casa (e chissà se e vero che in Albania aveva avuto una relazione col cugino, come dice l'assassino). Ed ecco che ai carabinieri è nata la classica pulce che li ha quasi obbligati a insistere e cercare di trovare incongruenze nei racconti: sia del Demiraj, sia del Mengoni, sia della nuova convivente riminese. Chi crede che sia facile resistere arroccati su un fortino di menzogne si ricreda, perché raccontare ai carabinieri la stessa identica favola più volte non è affatto semplice (se il racconto è basato sulle bugie). E ancora più difficile è farla narrare in maniera identica a tre persone differenti. Alla fine, infatti, la favola si è dimostrata un racconto horror interpretato da almeno quattro persone: l'assassino e i suoi fiancheggiatori.
In poche parole, a Mozzate Dritan c'è andato con un coltello acquistato il giorno prima e c'è andato con la nuova convivente, mi aveva detto che andavamo a farci un giro (dice lei), perché lui Lidia doveva ucciderla ad ogni costo se non tornava a Rimini (ma non aveva con sé la nuova fidanzata?) anche sapendo che si sarebbe rovinato la vita e non avrebbe più visto i figli. E mentre il suo avvocato afferma che Dritan non vedeva l'ora di confessare, ma ai giornalisti domenica non aveva detto che neppure sapeva che Lidia fosse morta?, chi gli ha fornito il falso alibi dice che lo ha fatto senza sapere dell'omicidio ma per fargli un favore perché aveva due figli ed era seguito dagli assistenti sociali. Se noi fossimo tutti puffi ci augureremmo che nessun altro fatto di cronaca nera coinvolgesse più chi lavora in via del Volontario a Rimini. Perché si potrebbe finire col dire che è un posto sfigato visto che non è che porti proprio bene se si considera che, oltre a questo omicidio con annessi e connessi, la titolare della precedente pasticceria nel 2010 si scontrò, casi della vita, con un furgone che trasportava pane e dolci e dopo una settimana, purtroppo, morì all'ospedale di Cesena. Se si considera che nel 2012 un albanese fu fermato appena in tempo dalla Polizia: aveva un coltello e una mazza e stava per uccidere un fornaio del locale (questioni ancora di corna) e già gli aveva bucato le gomme dell'auto per impedirgli la fuga.
Se non fossimo puffi, invece, ci dovremmo augurare l'impossibile. Cioè che tutti possano finire in galera in base a quanto stabilisce la legge. Ad esempio che Dritan Demiraj sia condannato all'ergastolo e non a 16 anni come Massimo Parlanti (vergogna assoluta) ed altri che per aver confessato hanno ottenuto dalla giustizia, come accade nei supermercati col due per uno, sconti del 50% su quanto avrebbero dovuto pagare. E c'è da augurarsi che nessun giudice si impietosisca neppure dei testimoni. Tutti consapevoli del fatto che il Demiraj fosse ossessionato dalla sua ex (e nessuno ha fatto nulla per aiutarlo: forse non sarebbe diventato un assassino se avesse passato qualche mese in terapia), tutti consapevoli di aver aiutato un assassino (in caso contrario avrebbero raccontato subito la verità) che tale resterebbe sempre e in ogni caso, anche se Lidia si fosse comportata con lui come non avrebbe dovuto.
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1 commento:
sono sempre dello stesso pensiero ,
se uno è colpevole alla fine confessa .
ci sono casi di colpevolezza lampante ,ma nonostante il reo continua a mentire , ma è inutile le colpevolezza è evidente
poi ci sono gli inquirenti accorti ,preparati ,senza pregiudizi , che capiscono subito la verita' . alla fine hanno successo e il colpevole confessa ,
poi esistono gli inquirenti con pregiudizi figli di un un contesto retrogarado , che ragionano senza logica , evanno avanti cosi' .generando a loro volta omicidi - saluti
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