Di Manlio Tummolo
RECENSIONE SU "AUTOPSIA DI UN FALSO" - DI MIMMO FRANZINELLI
ed. Bollati Boringhieri (Torino, 2011), pagg. 278
(Bertiolo - UD, gennaio 2013)
Non si deve necessariamente pensare che un giallo debba avere, per forza, qualche omicidio nella trama, sia nella realtà, sia nel romanzo, anche se generalmente un morto è considerato necessario ai fini di suscitare interesse nel grande pubblico. Si può ben avere un “giallo” anche quando si tratta di un semplice lavoro letterario o simile. Mimmo Franzinelli, storico archivista (autore anche dell’interessante “Il Duce Proibito”, raccolta commentata e crifica di fotografie di Mussolini, vietate per varie ragioni estetiche e politiche, pubblicata da Mondadori, collana Scie, Milano, 2003), nel suo testo critico sui “diari veri o presunti” in corso di pubblicazione a cura dell’editrice Bompiani, dimostra largamente che non è così, seguendo un metodo analogo a quello che Lorenzo Valla adoperò per smontare la pretesa autenticità della Donazione di Costantino nel XV secolo, fondando con ciò stesso la critica filologica e documentaristica tuttora valida nello studio storico. Vediamo di ricapitolare i fatti più recenti: Marcello Dell’Utri, noto senatore del PDL, acquisendo il possesso o la proprietà di alcuni diari attribuiti a Mussolini e scritti apparentemente di suo pugno, dopo vari tentativi con varie case editrici, è riuscito a farne pubblicare alcuni (del 1939 per primo, e più recentemente del 1937) ad opera della casa editrice Bompiani. Di qui è sorta, o meglio risorta, un’ormai antica polemica (che risale agli anni ’50) sull’autenticità di quei manoscritti. Dalla polemica è anche derivata la decisione di intitolarli “I Diari (veri o presunti) di Mussolini”. A dire il vero, sarebbe bastato chiamarli soltanto “presunti”, in quanto il “presunto” può indicare sia il vero, sia il falso, l’inautentico, ma fatto passare per vero o ritenuto vero.
Più corretto ancora, sarebbe stato intitolarli “I Diari Immaginari di Mussolini”, perché infatti, come dimostra la lunga e complessa storia, sono frutto di immaginazione, talvolta con velleità poetiche, piuttosto che uno sforzo di ricostruire un reale atteggiamento di Mussolini nei confronti di se stesso, del popolo italiano, del regime fascista e così via. Perché la prima cosa che questo strano lavoro mette in mostra è che tra il fantomatico autore e il personaggio storico, vi sia un abisso, proprio a cominciare dal modo di esprimersi, di raccontare, di riassumere. Ovviamente, questo soprattutto appare a chi abbia un mentalità da storico, ovvero da studioso critico degli eventi umani, e non da giornalista o gazzettiere, colui che racconta i fatti giorno per giorno, dando per buona ogni superficialità o apparenza, ovvero ciò che può far comodo in un determinato momento, ciò che può produrre profitto o, perlomeno, fama e successo. Sulla differenza tra le due mentalità, vi invito ad entrare nel mio sito cliccando su: “La storia, secondo gli storici e secondo i giornalisti”. Il giornalista ha sempre fretta di pubblicare per poter vivere e guadagnare, lo storico viceversa si commisura con le lunghe durate della storia umana, se non dell’intero pianeta. Quindi ha pazienza, esamina, studia, confronta. Ed ecco che nella vicenda fa presto a risalire agli anni Cinquanta, quando due brave donne di Vercelli, madre e figlia, Rosetta Prelli in Panvini e Amalia Panvini Rosati, passano dall’innocuo hobby dell’imitazione della scrittura di Gabriele D’Annunzio e di Benito Mussolini, al tentativo di far passare per autentici presunti diari ed agende di Mussolini, diligentemente scritti dalla figlia Amalia, e questo tentativo è sollecitato da problemi economici, dovendo acquisire la proprietà di un palazzo che altrimenti sarebbe venduto, con conseguente sfratto.
Se questa appare la storia nei suoi termini minimi, la realtà è ben più complessa, perché vi sono ammissioni, confessioni, ma anche ritrattazioni, particolarmente da parte della figlia Amalia, perizie grafiche sull’inchiostro, sulla carta, sui singoli contenuti, quasi tutti negative rispetto alla pretesa autenticità degli scritti. Per questa vicenda, i cui complessi contorni è bene leggere sul libro oppure cercare su Google, le due donne ed altre persone subirono processi, due gradi di giudizio, per falso ideologico e per truffa già nel 1957 – 1960, che non ebbe i riscontri carcerari previsti solo grazie all’amnistia di quegli anni. Questi Diari, stando alla storia, avrebbero dovuto essere distrutti (secondo la sentenza), ma viceversa sparirono per riapparire più volte fino alla pubblicazione operata da Bompiani, e riapparvero non come un fatto letterario, ma appunto come un preteso documento storico.
L’assurdo di questo documento, immediatamente percepibile anche da chi non è uno storico professionista ma cultore di studi storici, è il basso livello culturale e stilistico dei testi, malgrado pretenziosità talvolta poetiche, la frequenza di errori ortografici riconoscibili come tali in quanto ripetuti in frequenti occasioni, e non semplice effetto di frettolosità nello scrivere, ma soprattutto una colossale schizofrenìa che manifesterebbe il preteso autore, in quanto ciò che scrive sul Diario, specialmente nell’anno 1939, è spesso l’esatto contrario di ciò che diceva e faceva in pubblico. Parrebbe un vano tentativo di giustificarsi in opposizione ai più credibili Diari di Ciano o di Bottai, o di altri personaggi dell’epoca e del regime. Del resto, appare difficile pensare, malgrado molti ed autorevoli pareri contrari, che Mussolini, impegnatissimo in politica, nel governo, con amanti varie, nell’attività sportiva, nel giornalismo, e così via, avesse avuto anche il tempo per compilare Diari personali sistematici, e non piuttosto semplici note occasionali per qualche fatto personale per lui essenziale (come fu in modo accertato, la nascita dell’ultimo figlio Romano, morto alcuni anni fa e noto musicista di jazz, padre di Alessandra Mussolini).
Ora, proprio l’evidente assurdità di questi documenti avrebbe dovuto convincere la Magistratura del tempo ad un atteggiamento meno formalmente severo e più sostanzialmente critico, come pur la invitò a fare l’avvocato difensore delle due donne. Ma si sa che i magistrati ed i giuristi in generale hanno poco spirito storico, in senso opposto allo scarso senso storico dei giornalisti: il giurista infatti considera il tempo come un eterno istante iperuranico ed immutabile al di fuori dalla variabile realtà quotidiana; viceversa, il giornalista vede nella realtà solo il quotidiano e non capisce la direzione in cui i singoli eventi si evolvono. Se si può dir così, il giurista è parmenideo, il giornalista eracliteo, il primo coglie la Realtà come immutabile, il secondo come il moto a scatti della pellicola cinematografica. L’uno e l’altro non riescono ad inquadrare il tempo come legge di evoluzione continua, sulla base di rapporti tra causa ed effetto, e tra ciò che resta e ciò che muta.
Se questa appare la storia nei suoi termini minimi, la realtà è ben più complessa, perché vi sono ammissioni, confessioni, ma anche ritrattazioni, particolarmente da parte della figlia Amalia, perizie grafiche sull’inchiostro, sulla carta, sui singoli contenuti, quasi tutti negative rispetto alla pretesa autenticità degli scritti. Per questa vicenda, i cui complessi contorni è bene leggere sul libro oppure cercare su Google, le due donne ed altre persone subirono processi, due gradi di giudizio, per falso ideologico e per truffa già nel 1957 – 1960, che non ebbe i riscontri carcerari previsti solo grazie all’amnistia di quegli anni. Questi Diari, stando alla storia, avrebbero dovuto essere distrutti (secondo la sentenza), ma viceversa sparirono per riapparire più volte fino alla pubblicazione operata da Bompiani, e riapparvero non come un fatto letterario, ma appunto come un preteso documento storico.
L’assurdo di questo documento, immediatamente percepibile anche da chi non è uno storico professionista ma cultore di studi storici, è il basso livello culturale e stilistico dei testi, malgrado pretenziosità talvolta poetiche, la frequenza di errori ortografici riconoscibili come tali in quanto ripetuti in frequenti occasioni, e non semplice effetto di frettolosità nello scrivere, ma soprattutto una colossale schizofrenìa che manifesterebbe il preteso autore, in quanto ciò che scrive sul Diario, specialmente nell’anno 1939, è spesso l’esatto contrario di ciò che diceva e faceva in pubblico. Parrebbe un vano tentativo di giustificarsi in opposizione ai più credibili Diari di Ciano o di Bottai, o di altri personaggi dell’epoca e del regime. Del resto, appare difficile pensare, malgrado molti ed autorevoli pareri contrari, che Mussolini, impegnatissimo in politica, nel governo, con amanti varie, nell’attività sportiva, nel giornalismo, e così via, avesse avuto anche il tempo per compilare Diari personali sistematici, e non piuttosto semplici note occasionali per qualche fatto personale per lui essenziale (come fu in modo accertato, la nascita dell’ultimo figlio Romano, morto alcuni anni fa e noto musicista di jazz, padre di Alessandra Mussolini).
Ora, proprio l’evidente assurdità di questi documenti avrebbe dovuto convincere la Magistratura del tempo ad un atteggiamento meno formalmente severo e più sostanzialmente critico, come pur la invitò a fare l’avvocato difensore delle due donne. Ma si sa che i magistrati ed i giuristi in generale hanno poco spirito storico, in senso opposto allo scarso senso storico dei giornalisti: il giurista infatti considera il tempo come un eterno istante iperuranico ed immutabile al di fuori dalla variabile realtà quotidiana; viceversa, il giornalista vede nella realtà solo il quotidiano e non capisce la direzione in cui i singoli eventi si evolvono. Se si può dir così, il giurista è parmenideo, il giornalista eracliteo, il primo coglie la Realtà come immutabile, il secondo come il moto a scatti della pellicola cinematografica. L’uno e l’altro non riescono ad inquadrare il tempo come legge di evoluzione continua, sulla base di rapporti tra causa ed effetto, e tra ciò che resta e ciò che muta.
Vediamo di capire meglio la questione sul piano giuridico e storico-giuridico: non è un reato inventarsi il presunto Diario di qualcuno, compresi personaggi storici, purché si faccia capire con chiarezza che si tratta di opera letteraria inventata e non un atto autentico attribuito al protagonista della storia. Vincenzo Cuoco nel suo “Platone in Italia”, si inventò l’incontro di Platone con parecchi filosofi e pensatori magno-greci (soprattutto pitagorici) e con qualche pensatore italico autoctono del tempo. Questa narrazione, fondata sul fatto biografico effettivo (Platone in effetti era stato in Italia, soprattutto in Sicilia, ospite di Dioniso o Dionigi di Siracusa), è però del tutto fantasiosa, relativamente ai dialoghi o a singoli episodi. Questa fantasia, pur dichiarata nello stile dell’epoca come riferita a scritti reali (un preteso avo di Cuoco), era tuttavia riconoscibile come tale, non per nulla venne definita subito come “romanzo filosofico” in cui, sia per ragioni di gusto dell’epoca, sia per difendersi dalla censura, si attribuivano ad altri affermazioni proprie. Lo stesso fece, precedentemente, Gian Battista Vico, quando scrisse il “De antiquissima Italorum sapientia...” dove attribuì, particolarmente ai Latini pre-romani, idee che in realtà erano soltanto sue o di derivazione pitagorico-platonica, o anche neoplatonica. Nel primo Ottocento molti letterati europei adottarono la forma pseudoepistolare, o il finto documento, per raccontare non degli antichi, ma del pensiero filosofico o politico allora attuale. Vi era anche chi scriveva opere anonime o chi usava pseudonimi, appunto per evitare sanzioni allora durissime.
Farlo oggi, per puro divertimento, non è per nulla proibito, ma bisogna sia chiaro che il documento non sia, neppure ipoteticamente, attribuibile al preteso autore, che è in realtà solo il protagonista di un romanzo in forma diaristica. Nella contemporaneità, proprio discutendo del caso Panvini, Lucio Ceva scrive al Franzinelli che anche lui, nel testo “Asse pigliatutto”, si era immedesimato nei personaggi storici facendoli scrivere o parlare in modo non reale, ma immaginato e pur coerente col loro pensiero originale (p. 251). E la prima regola è, evidentemente, quella di non scrivere imitando alla perfezione o quasi nel testo la scrittura di quel personaggio. Già l’imitazione della scrittura è un fatto che ci pone nel rischio di un falso, anche se poi cerchiamo (come fatto dalla signora Amalia Panvini) di truccare le cose, dicendo di avere una scrittura molto simile e pertanto confondibile, il che poi risulta falso alla prima prova materiale. La cosa diventa passibile di reato, quando si vuol mistificare questo nostro lavoro come opera originale del personaggio che l’avrebbe stilato. Qui siamo già nell’ordine del falso ideologico. Se poi usiamo quest’atto per scopi di profitto, entriamo nella truffa; oppure, anche quando senza un diretto lucro pretendiamo tuttavia di capovolgere, a scopi politici, il giudizio storico su quel personaggio stesso che, considerato negativamente, apparirebbe invece un sant’uomo calunniato dalla storia.
Ora le due Panvini, e particolarmente la figlia, incapparono nei due reati, intanto per l’imitazione quasi perfetta della scrittura mussoliniana, poi per averlo fatto passare, o aver lasciato che passasse, come documento originale di Mussolini, sia per scopi finanziari, sia per scopi politici (pur la donna dichiarandosi non fascista o simpatizzante del fascismo, ma questo in quegli anni era anche ovvio, perché altrimenti si finiva per cadere in un terzo reato, quello di apologia del fascismo, tuttora vigente).
Torniamo ai nostri giudici: se avessero avuto una mentalità storica, non avrebbero affatto ordinato (cfr. pag. 245 del testo del Franzinelli) senza riuscirvi, il che è ancora peggio dal nostro punto di vista, la distruzione materiale di quegli atti. Se questi fossero stati conservati in un sicuro archivio, come “corpo del reato”, nessuno li avrebbe poi utilizzati a scopo di pubblicazione, se non come eventuale opera letteraria (del tipo “I Diari Immaginari di Mussolini”) . Invece i poveretti fecero il contrario e non seppero neppure far eseguire l’operazione, come pur si usava fare fin dai tempi di Protagora e di Socrate, con molta maggior efficacia. Nella sentenza del Tribunale di Vercelli, del 15 novembre 1960, ci si rifà all’art. 480 del Codice di Procedura Penale, non più vigente dal 1989 che però non parla di distruzione, bensì di cancellazione, spiegata nel successivo art. 481. Ne riporto alcuni passi, secondo l’edizione a me disponibile Giuffrè (I Cinque Codici - Milano) del 1974 : “Art. 480". - La falsità di un atto pubblico o di una scrittura privata, accertata con sentenza di condanna (...) deve essere dichiarata nel dispositivo della sentenza stessa. Con lo stesso dispositivo deve essere ordinata la cancellazione totale o parziale [già la “parzialità” della cancellazione dimostra che cancellazione e distruzione non sono usati come sinonimi, ma con significato ben diverso, come si vedrà all’art. 481],secondo le circostanze, e se è il caso la ripristinazione, la rinnovazione o la riforma [anche questi atti impossibili, se il documento venisse distrutto materialmente] del documento, con la prescrizione del modo con cui deve essere eseguita. La cancellazione, la ripristinazione, la rinnovazione o la riforma non è ordinata quando può pregiudicare interessi di terzi non intervenuti come parti nel procedimento”.
In concreto, come si doveva eseguire questa “cancellazione” che non è “distruzione”? Ecco come si esprime il successivo art. 481: “Art. 481" (...) La cancellazione totale del documento si effettua mediante annotazione della sentenza in margine di ciascuna pagina del medesimo, e mediante compilazione del processo verbale, in cui si attesta questo adempimento, con la dichiarazione che il documento non può avere alcun effetto giuridico. Il documento rimane allegato al processo verbale, e una copia di questo è lasciata in sostituzione del documento a chi lo possedeva o lo aveva in deposito, quando costui la chiede dimostrando di avervi legittimo interesse. (...) Se il documento era in deposito pubblico è restituito al depositario unitamente ad una copia autentica del processo verbale a cui deve rimanere annesso. Se il documento era posseduto da un privato, il cancelliere lo conserva annesso al processo verbale e rilascia copia alla detta persona, quando lo chieda dimostrando di avervi legittimo interesse. Tale copia vale come originale per ogni effetto giuridico...”.
Per cancellazione va dunque intesa una sorta contraria di autenticazione, nel senso che si dichiara quel tale documento falso e senza effetti giuridici. Tale cancellazione, come l’autenticazione, è annotata sul documento stesso.
La minacciata distruzione, seguita però da sparizione degli atti (secondo il Franzinelli ad opera dell’avvocato delle due donne, con la cooperazione - more solito – di un cancelliere e la complicità di qualche altro magistrato competente del caso), si dovette all’amnistia che, cancellando il reato, non consentì di eseguire la sentenza, che, se avesse proseguito il suo iter, in terzo grado sarebbe stata annullata almeno sotto questo aspetto visto il gravissimo equivoco tra cancellazione e distruzione materiale . Equivoco gravissimo, perché la procedura è ben descritta e va intesa come annotazione di condanna per falso. Resta pure la questione se questi manoscritti, con scrittura falsificata di Mussolini, si dovessero considerare atti pubblici oppure privati: come è narrato nel testo del Franzinelli, se ne erano interessati perfino i servizi segreti del tempo (l’antico e celebre SIFAR). Perché? Occorre sapere che la figura di Mussolini, nel secondo dopoguerra e fino circa agli anni Sessanta, era soggetta ad una damnatio memoriae, tanto che era vietato sentire i suoi discorsi, anche se con soli intenti di documentazione storica, in pubblico (ad esempio, in una conferenza). Girando gli sceneggiati sull’epoca, si evitava di mostrare l’attore che potesse rappresentarlo, lo si vedeva solo di spalle, mai in faccia. Ebbi occasione di sentirne la voce, per la prima volta, in televisione alla fine degli anni ’60 (il discorso della dichiarazione di guerra, 10 giugno 1940), mentre però non lo si faceva vedere, ma soltanto girando scene sulle facciate dei palazzi circostanti di Piazza Venezia. Questa, tutto sommato infantile (perché articoli e saggi su Mussolini erano frequentissimi invece sui settimanali più diffusi), damnatio memoriae, venne a cessare solo con le prime riforme della RAI-TV negli anni ’70.
Sui dischi, distribuiti spesso da settimanali o in vendita negli appositi negozi, c’era l’avviso del divieto di pubblica audizione degli stessi. Mussolini oratore, insomma, faceva paura ancora ad oltre 20 anni dalla sua morte, il che ci dice molto sulla qualità morale della repubblica instauratasi dopo il 1948. Ciò spiega almeno in parte anche la complessità della storia di questa falsificazione e il ripetersi delle apparizioni di questo falso. La sparizione degli originali Panvini non consente tuttavia allo storico di poter accertare con pienezza se il testo pubblicato da Bompiani su richiesta di Marcello Dell’Utri sia esattamente lo stesso (perché poi Amalia Panvini sulla base di fotocopie rifece ulteriori diari, in periodo successivo - cfr pag. 42 del testo Franzinelli), anche perché non è difficile supporre che esistessero altri falsificatori a scopi politici o di lucro (o entrambi). Potrebbe anche trattarsi dunque di imitazioni compiute da altri. Oppure quelli che Amalia Panvini fece diffondere negli anni ’70, in un numero più limitato di agende.
Per fortuna o per disgrazia, in questo caso pur complesso non si utilizzò mai il trucco della scrittura medianica, ovvero quella procedura spiritistica per cui l’anima di qualcuno, in veste di fantasma, detta o suggerisce silenziosamente alla persona-medium di scrivere qualcosa, esattamente con la scrittura che aveva da vivo. In tal caso dovrebbe trattarsi di personaggio relativamente recente che utilizzava una scrittura su fogli e non su tavolette. Riguardo alla lingua, l’avrebbe dovuta dettare nella sua lingua (es., greco, latino, celtico, ecc.) e non nella nostra, altrimenti il trucco sarebbe evidente. Fortunatamente non risulta che si giungesse mai a questo: forse avrebbe aggiunto un mistero più profondo, pertanto più attraente, ma si vede che i vari personaggi impegnati in questa serie di operazioni vollero rimanere attaccati alla realtà, malgrado tutto.
Un fatto è comunque molto difficile: Amalia Panvini (la figlia) si attribuì l’intera stesura e, durante il processo, disse che sfornava ogni volumetto per ciascuna settimana (cfr. pag. 38, Franzinelli). Il che, così posto, è difficile da credere. La donna si sarebbe dovuta comunque documentare su giornali e libri dell’epoca, il che implica non poco tempo, pur volendo ammettere che non facesse altro in quegli anni. Inoltre scrivere tutto questo con lentezza è tutt’altro che semplice, proprio perché non è facile imitare un’altra scrittura in modo ordinato (tanto è vero che i famosi copisti del Medioevo ci impiegavano anni, adottando una scrittura regolare e impersonale, tipo quella che poi divenne a stampa).
Va pertanto supposto che la donna non lavorò da zero, ma probabilmente su qualche brogliaccio già precedentemente scritto da qualcuno e poi ritrascritto da lei in scrittura “mussoliniana”, Denis Mack Smith fu ingannato sull’autenticità di questo materiale, proprio dalla presenza di dettagli molto specifici (incontri con persone dell’epoca) che richiedevano una conoscenza dei fatti non indifferente. (pag. 56 – 57, Franzinelli); perfino Renzo De Felice, che pur li aveva considerati falsi, ebbe qualche dubbio successivamente (cfr. pag. 72); il paleografo Armando Pistruci intuisce, a mio parere in modo realistico, una cooperazione tra un ignoto autore dei Diari, come contenuti, e le due donne che hanno ritrascritto il lavoro nella scrittura “mussoliniana” (pag. 57), ma di questo ignoto autore (forse il padre, morto abbastanza presto) nulla si è mai saputo.
Secondo il Franzinelli, Mack Smith si è fatto ingannare sull’autenticità dei Diari, o meglio delle affermazioni in essi contenute, in quanto ha sempre ritenuto Mussolini persona poco seria (pag. 70). Al processo citato seguì, con meno clamore, un ricorso in appello dove la pena venne ridotta soprattutto alla madre. Sia per ragioni d’età che per aver cooperato solo nella diffusione e non nella stesura, malgrado poi la donna avesse asserito di aver scritto anche lei ma che la figlia fosse più brava nel farlo (pag. 49). Ma Amalia Panvini ritrattò in più occasioni, asserendo la tesi iniziale che, negli ultimi mesi di guerra, un certo Zerbino, ministro dell’Interno della Repubblica Sociale, avesse portato a casa del padre l’intero pacco di agende e quaderini, che originariamente, risalirebbe addirittura al 1920, in gran parte spariti, distrutti o asportati dai vari archivi. Non tanto accertata è l’esistenza del primo documento manoscritto originale di Mussolini, a cui ispirare la scrittura di tutto il resto. Sembrerebbe da qualche fotocopia riportata in un libro, ma non sarebbe del tutto improbabile che qualche documento originario scritto di pugno di Mussolini fosse effettivamente stato portato lì, da questo Zerbino o da chi altro, e avesse ispirato le due donne nell’opera di contraffazione ed imitazione. Naturalmente tutte vaghe ipotesi, in quanto nei processi nulla è emerso, se non confessioni del falso da parte della sola figlia e successive ritrattazioni. Un gioco, questo delle ritrattazioni e nuove versioni, che sappiamo pure molto attuale, un po’ per paura di pene più severe, un po’ per l’orgoglio di aver avuto in possesso effettivamente documenti originali.
Potrebbe pure trattarsi di una forma di schizofrenìa presente nel soggetto falsificatore quando in questi convive, oltre a quella normale (prevalente) una seconda personalità che si identifica nel soggetto falsificato, fornendogli quelle giustificazioni che in vita non avrebbe potuto dare. Anche questa ipotesi non venne, a quel che risulta, presa in considerazione, probabilmente perché il comportamento di Amalia Panvini, soprattutto, cercando di farne un uso economico, dimostrava di essere in perfetta capacità di intendere e di volere, per cui era più facile vedere in lei una tentata truffatrice che non una squilibrata.
Le argomentazioni del Franzinelli, che criticano la pretesa autenticità di questi Diari, sono sempre accettabili e serie, salvo in alcuni punti dove, ad esempio, confronta le recenti annotazioni di Clara Petacci alle dichiarazioni stesse (cfr. pagg. 122 – 128). Anche se autentiche come autrice, sono state secretate per motivi di sicurezza: la solita coda di paglia di un regime che si è instaurato in modo apparentemente democratico, ma in realtà semplice frutto di imposizione straniera e controllato da uno Stato estero, anche militarmente con la presenza di forze armate sul territorio (e questo a ben oltre 67 anni dalla fine della II Guerra Mondiale e a 24 dalla fine della tanto millantata minaccia sovietica !!). Uno Stato satellite solo formalmente indipendente, che trema, o tremava, per ogni sciocchezza, quale potrebbe essere stata la serie di note di Clara Petacci, povera donna, la cui unica colpa fu quella di innamorarsi disperatamente di un capo di Governo e di morire per lui in modo orribilmente triste. Note innocue sulla vita quotidiana con Mussolini e certe sue dichiarazioni riportate in modo ovviamente personale. Lo stesso Franzinelli, da storico, dichiara che i diari e simili non vanno considerati come atti storici “oggettivi” (quali solo la documentazione ufficiale o, perlomeno, pubblica, possono essere), ma puramente “soggettivi” e pertanto passibili di travisamenti, di faziosità, di falsi veri e propri (p. 192).
Franzinelli confronta taluni episodi descritti nei Diari della Bompiani con le annotazioni della Petacci, per sottolineare parecchie notevoli differenze; tuttavia, proprio sulla base di quanto egli riconosce come metodo storico, il procedimento non è corretto. Un po’ più credibili, viceversa, i Diari di Ciano e di Bottai, ma anche questi vanno presi con pinze e con le molle, soprattutto quando riportano opinioni di Mussolini e non fatti concreti, verificabili per altre vie.
Un esempio specifico può riguardare l’atteggiamento sugli Ebrei a cui Mussolini, finché non si adeguò dal 1938 all’antisemitismo hitleriano e nazista, fu tutt’altro che sfavorevole. Atteggiamento mantenuto nei Diari Bompiani mentre, viceversa, le annotazioni della Petacci descrivevano il contrario. Relativamente alle persecuzioni antiebraihce in Francia e in Dalmazia, varie fonti storiche (tra cui l’americano R.A.C. Parker in “Storia Universale Feltrinelli” - vol. 34, pag. 378 - e il dalmata Talpo Oddone, in uno dei testi pubblicati a cura dell’ Ufficio Storico Militare dell’Esercito Italiano) rilevano che l’atteggiamento mussoliniano non ebbe la ferocia fanatica degli hitleriani o del Governo Petain, almeno prima della Repubblica Sociale: molte vite infatti vennero salvate anche da fascisti. Così l’atteggiamento verso la Germania nazista che fu caratterizzato da molti ondeggiamenti e incertezze, per farsi alla fine trascinare quando la guerra sembrava volgersi nettamente a favore della Germania. Mussolini non aveva affatto quel carattere fermo e deciso che si vantava di avere: specialmente tra il 1939 ed il giugno 1940 fu afflitto da grave insicurezza ed indecisione, dovute soprattutto alla consapevolezza dell’enorme potenza militare raggiunta dalla Germania e dalla previsione di un suo dominio sull’Europa che stravolgesse la stessa politica italiana, pur allora dittatoriale e totalitaria, per cui non sarebbero del tutto irrealistiche le discrepanze tra le note dei Diari Bompiani e certe dichiarazioni pubbliche.
Tutt’altra questione nello stile e nell’ortografia, in molti errori sulla descrizione dei mezzi tecnici e militari del tempo, che dimostrano invece un livello culturale ben diverso tra il falsificante ed il falsificato, anche se poi Mussolini non ebbe questa enorme cultura, come si sa, ma comunque non quella del tutto traballante, sebbene con molte ambizioni, del falsificante. Amalia Panvini era laureata in chimica e pure docente di Scuola: nondimeno, se i testi Bompiani e quelli suoi fossero gli stessi, e non ulteriori elaborazioni di altri personaggi rimasti nell’ombra, dimostrerebbero una certa povertà linguistica, non certo esemplare per un’insegnante di Scuola secondaria, tralasciando pure le inesattezze tecnico-storiche, che in una donna del tempo potrebbero anche essere comprese.
In conclusione: un libro, quello di Franzinelli, meritevole di attenta lettura per chiunque si interessi di “giallistica” senza morti, di storia contemporanea e di metodo storico applicato.
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1 commento:
Carissimo MANLIO,
la tua versione del "giallo senza morti" relativa ai falsi diari di Mussolini, è ben configurata; anche se di "gialli" simili ne esistono ancora tanti, riguardanti l'uomo che per oltre un ventennio, è stato l'arbitro dei destini del nostro Paese.
Congratulazioni, Pino
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