Gora Kalwaria, Polonia - 17 aprile 2011 - ricostruzione processo a Gesù |
Saggio di Manlio Tummolo
(Bertiolo, UD - febbraio / giugno 2013)
PREMESSA
Avvertenza: Il testo inviato fa parte di un saggio più lungo di natura storica e teologica sulla figura di Gesù Cristo. Su “Volandocontrovento” verrà pubblicata la Premessa, la parte processuale e l’intera bibliografia, con note relative a quanto inviato. Si specifica che le parentesi quadre con carattere tondo, costituiscono note che, per ragioni di immediatezza non possono essere rinviate al termine dello scritto; i numeri viceversa rappresentano quelle note che costituiscono riferimenti bibliografici o specificazioni più dettagliate.
Nella speranza di non sollevare
suscettibilità di natura religiosa, va
ricordato che la prospettiva storica non può, né deve essere mai fideistica (di
qualunque fede si tratti), ma sempre razionale e critica, per cui non può
accettare visioni miracolistiche o mitologiche come realtà avvenute, Nello studio storico, come in ogni altro
settore scientifico, deve vigere un assioma estremamente chiaro, senza scadere
tuttavia in vuoti e facili scetticismi che negherebbero ogni forma d‘esistenza
e di essere. Si può credere per “fede” (nel senso di punto di partenza o di conclusione finale di un ragionamento dato) in tutto ciò che la ragione e l’esperienza sostengano plausibile, ossia possibile o probabile, ma non si può credere in nulla che ragione ed esperienza considerino impossibile. La fede,
in quanto legge logica e non sentimentale od emotiva, va considerata come punto
di partenza (princìpi logici immanenti nel pensiero umano) e come punto di
arrivo, conclusione definita, ma non necessariamente definitiva e completa, del
procedimento logico, in quanto acquisizione di conoscenza della realtà, ossia
della verità come fatto gnoseologico. Essendo per definizione il miracolo un
fenomeno che va contro ragione ed esperienza,
esso è da ritenersi impossibile, dunque non credibile. Definito Dio come l’Essere assolutamente
perfetto [1], non possiamo immaginarcelo come Colui che vìola le Leggi da Se
stesso fondate. In Lui Pensiero, Volontà
e Azione, non solo coesistono, ma per definizione coincidono nel loro obiettivo,
nel mezzo, non necessariamente e immediatamente nel risultato, essendo la
materia su cui opera l’azione divina, per definizione, entità sottoposta alla
legge dell’inerzia, dunque alla resistenza all'azione esterna, quindi
procedente con gradualità e mediatezza dei risultati ottenuti. La gradualità dell’attuarsi della Legge
Divina nel mondo fisico si qualifica Progresso o Evoluzione. Il ripercorrere nella conoscenza umana tale
progresso o l’attuarlo nella vita politica, sociale, economica, scientifica,
artistica, ecc., costituisce il Progresso
compiuto o da compiersi
dall'Umanità.
Quindi, anche il tema che desidero affrontare qui, ha questo carattere critico e razionale, per quanto lo consenta un tema evidentemente molto complesso e che non ha riscontri storici obiettivi, salvo pochi frammenti di autori non cristiani. Va altresì rilevato che tutta la documentazione rimasta del grandissimo fenomeno religioso cristiano, che si ricollega strettamente alla precedente religione ebraica, si basa su fonti a-storiche, nel senso che a loro volta sono caratterizzate invece dall'assoluta fede miracolistica, su cui si è costretti a lavorare, e che pertanto vanno considerati fonti dominanti, ma soggette a critica razionalistica. Quanto, viceversa, non moltissimo, appare in testi non cristiani, o si tratta di interpolazioni (come in Giuseppe Flavio “Antichità Giudaiche”), oppure di frammenti come dello scritto “Contro i Cristiani” di Celso (178 d.C.), frammenti riportati a titolo di confutazione da parte di Origene, o qualche cenno, non del tutto chiaro in Svetonio, Tacito, Plinio il Giovane. Negli stessi Vangeli, poi considerati apocrifi, ovvero non rivelati, non necessariamente falsi, ma non ispirati da Dio, non trasmessi come opera profetica o apostolica, abbiamo versioni diverse, talvolta contraddittorie. Ci si dovrà chiedere perché i Vangeli vennero trasmessi in quattro versioni, di cui tre “sinottiche” (ovvero, parallele e molto simili), la quarta un tantino diversa, soprattutto in quanto affermante in modo netto la divinità di Gesù, cosa che le altre non facevano. Per il resto abbiamo frammenti e brani, a volte anche lunghi, di Vangeli apocrifi, accettati però come veri da gruppi religiosi cristiani, spesso ampi, ma più tardi considerati eretici. Per questo i punti saldi dell’intera vicenda, vanno considerati l’Editto Costantiniano del 313 d. C, il Concilio di Nicea (325 d. C.), che emana il celebre “Credo”, e quindi tutta la teologia trinitaria avviatasi al trionfo (sia pure non immediato), l’Editto di Teodosio (380 d.C.) che pone fuori legge le svariate religioni politeiste e le versioni “eretiche” del Cristianesimo, ed infine l’Editto di Teodosio II del 448 d. C, in cui si ordina la distruzione di tutte le false opere di natura religiosa, ovvero non solo quelle del politeismo in senso proprio (qualificato “paganesimo” dai Cristiani), ma anche della filosofia religiosa neoplatonica (Giuliano l’Apostata, soprattutto), e quelle ormai considerate “eretiche”.
Quindi, anche il tema che desidero affrontare qui, ha questo carattere critico e razionale, per quanto lo consenta un tema evidentemente molto complesso e che non ha riscontri storici obiettivi, salvo pochi frammenti di autori non cristiani. Va altresì rilevato che tutta la documentazione rimasta del grandissimo fenomeno religioso cristiano, che si ricollega strettamente alla precedente religione ebraica, si basa su fonti a-storiche, nel senso che a loro volta sono caratterizzate invece dall'assoluta fede miracolistica, su cui si è costretti a lavorare, e che pertanto vanno considerati fonti dominanti, ma soggette a critica razionalistica. Quanto, viceversa, non moltissimo, appare in testi non cristiani, o si tratta di interpolazioni (come in Giuseppe Flavio “Antichità Giudaiche”), oppure di frammenti come dello scritto “Contro i Cristiani” di Celso (178 d.C.), frammenti riportati a titolo di confutazione da parte di Origene, o qualche cenno, non del tutto chiaro in Svetonio, Tacito, Plinio il Giovane. Negli stessi Vangeli, poi considerati apocrifi, ovvero non rivelati, non necessariamente falsi, ma non ispirati da Dio, non trasmessi come opera profetica o apostolica, abbiamo versioni diverse, talvolta contraddittorie. Ci si dovrà chiedere perché i Vangeli vennero trasmessi in quattro versioni, di cui tre “sinottiche” (ovvero, parallele e molto simili), la quarta un tantino diversa, soprattutto in quanto affermante in modo netto la divinità di Gesù, cosa che le altre non facevano. Per il resto abbiamo frammenti e brani, a volte anche lunghi, di Vangeli apocrifi, accettati però come veri da gruppi religiosi cristiani, spesso ampi, ma più tardi considerati eretici. Per questo i punti saldi dell’intera vicenda, vanno considerati l’Editto Costantiniano del 313 d. C, il Concilio di Nicea (325 d. C.), che emana il celebre “Credo”, e quindi tutta la teologia trinitaria avviatasi al trionfo (sia pure non immediato), l’Editto di Teodosio (380 d.C.) che pone fuori legge le svariate religioni politeiste e le versioni “eretiche” del Cristianesimo, ed infine l’Editto di Teodosio II del 448 d. C, in cui si ordina la distruzione di tutte le false opere di natura religiosa, ovvero non solo quelle del politeismo in senso proprio (qualificato “paganesimo” dai Cristiani), ma anche della filosofia religiosa neoplatonica (Giuliano l’Apostata, soprattutto), e quelle ormai considerate “eretiche”.
Il trionfo
della dottrina trinitaria della Divinità fa sì che Gesù, detto il Cristo, risulti
“Persona” divina, eterna alla pari del Padre e dello Spirito Santo, incarnatasi
sulla Terra per la salvezza dell’intera umanità nel terrificante sacrificio
della Croce, un supplizio usualmente
adottato dai Romani contro gli schiavi ribelli (cfr. Spartaco). L’affermazione assoluta della Trinità
comporta la persecuzione di ogni dottrina che non condividesse tale concezione
di Dio. Più o meno contemporaneamente,
la proclamazione teodosiana dell’assolutezza ed assolutismo del Cristianesimo
coesiste con la politicizzazione della Chiesa, che si affermerà poi ancora
maggiormente con l'istaurazione del potere temporale dei papi, non solo
sull'Italia centrale (come di fatto), ma sull'intero pianeta (come di
Diritto). La Chiesa Cattolica
(universale) Apostolica Romana si arroga così il potere di conversione e di
repressione su tutte le altre concezioni religiose con l’uso della forza. La Chiesa si fa dunque Stato, si fa pure
Impero, quindi adotta l‘impostazione giuridica dello Stato fondata appunto
sulla Forza. Da elemento rivoluzionario,
come fu fino a Costantino escluso, diventa elemento reazionario e violento,
repressivo ed oppressivo. Per non
apparire fazioso, va anche aggiunto che questo carattere assolutistico fu poi
assunto dalle Chiese cristiane scismatiche (orientali) e da quelle, ancora più
frammentarie, protestanti. Checché
dicano alcuni, occorse aspettare la formazione di un pensiero laico, ovvero
neutrale ma non necessariamente negativo, tra le religioni, a partire dal
socinianesimo, da Giordano Bruno, da Miguel Serveto, Locke, ecc. (secoli XVI - XVII), per l’affermarsi di un
principio di reciproca tolleranza, e poi di reciproca accettazione delle diverse
concezioni religiose o antireligiose (soprattutto con l’Illuminismo), dopo la
metà del secolo XVIII. Oggi tale
concezione viene nuovamente negata dal costituirsi, verso la fine del secolo
XX, di varie forme di integralismo e fanatismo in tutte le religioni, di cui la
più pericolosa nei fatti appare attualmente quella islamica, che pure, a suo
tempo, fu la più tollerante e “laica” delle tre religioni rivelate o di
derivazione abramica [2].
In questo periodo
che, per la successiva tradizione cristiana, è l’inizio dell’Era detta, non si
sa bene perché, Volgare (nel senso di Era del popolo ?), la Palestina è una
piccola regione in una zona molto periferica dell’Impero, senza nemmeno più
l’importanza strategica di un tempo, che riprenderà successivamente con le
guerre bizantino-persiane e l’espansione araba, la quale regione è assoggettata
a domini stranieri dai tempi degli Imperi assiro e babilonese, malgrado varie
ribellioni (importante soprattutto quelle dei Maccabei contro i Diadochi, o
sovrani macedoni ed ellenistici, miranti all'affermazione della pluralità delle
fedi religiose (soprattutto politeiste) e della cultura greca. Da tempo ormai, la religione mosaistica ha
assunto posizioni non più unitarie. La
prima “eresia”, se così può essere definita, è quella dei Samaritani, che ha
assorbito alcune posizioni politeiste di derivazione mesopotamica (dalla prima
diaspora ebraica). Vi sono poi quattro
grandi gruppi religiosi, quello dei Farisei (pretesi ortodossi e formalisti estremi, credenti nella resurrezione dei
corpi), quello dei Sadducei (neganti tale resurrezione e pure ogni forma di
immortalità dell’anima), gli Esseni (non
presenti nei Vangeli, ma nei testi di Giuseppe Flavio, e dei quali si sono
trovati documenti nelle grotte di Qumran), i quali erano già organizzati in
forma monastica ed in parte misogini, escludendo le donne dalla loro comunità,
ma ciò non vale forse per tutti, gli
Zeloti (coloro che oltre ad essere fanatici nella fede, erano anche guerrieri e
ribelli ad ogni presenza o dominio stranieri) e, fra questi stessi una sorta di
“terroristi” dell’età antica: i “Sicari” (ovvero pugnalatori), i quali
uccidevano i loro nemici infiltrandosi tra la folla. Mentre Farisei e Sadducei ormai non
ostacolavano (almeno non apparentemente) il dominio romano, del quale si
proclamavano fedeli sudditi, e mentre gli Esseni cercavano di trovare un Regno
dello Spirito nell'isolamento, in attesa di avvenimenti apocalittici non
dipendenti dall'uomo, ma solo dalla volontà di JHWH (Jehowah o Jahweh), gli
Zeloti e il loro sottogruppo dei Sicari agivano in forma violenta, di
resistenza attiva, ai Romani, il cui politeismo veniva energicamente rifiutato.
Anche degli Zeloti nulla si dice nei Vangeli, se non perché l’apostolo Simone lo Zelota (Vangelo di Luca, 6-15 [3], viene qualificato come tale o come ex-zelota. Il perché di tali silenzi (come quello sui Sicari e sugli Esseni) costituisce una chiave di interpretazione della prima versione, probabilmente orale (detta dagli studiosi “Fonte Q”, da “Quelle”, “sorgente” in tedesco), della vita di “Cristo”poi ritrascritta in più testi, di cui solo quattro considerati “rivelati”, non è di immediata comprensione, in quanto tutta l’opposizione di Cristo sembra rivolta solo contro Farisei e Sadducei, ma forse proprio questo silenzio rivela le due radici ebraiche del successivo Cristianesimo, ovvero Esseni e Zeloti, la radice pacifica, mistica, spiritualista, e la radice ribelle, rivoluzionaria, antiromana, che si tradurranno proprio nella descrizione della figura del “Cristo” [4]. Sebbene nei Quattro Vangeli canonici, e pure in quelli apocrifi, ciò non appaia, la Palestina d’allora non era poi granché diversa da quella d’oggi, in una guerra talvolta aperta e talvolta strisciante (in forma di guerriglia), non tanto a scopi nazionali o protonazionali, quanto religiosi. Per gli Ebrei del tempo, non suscitava l’ira tanto il dominio straniero nel senso politico, quanto la serie di culti politeisti che venivano di fatto imposti, insieme a quella che era considerata idolatria, ovvero uno dei peccati peggiori. Per questo i Maccabei avevano sostenuto le loro battaglie contro i sovrani ellenistici, e - seppure in misura minore - contro i Romani. Per gli Ebrei del tempo doveva apparire, secondo le varie profezie, un Messia guerriero, inviato da Dio, che doveva liberarli dal dominio romano e da ogni forma di idolatria e di politeismo. Accettavano la dominazione straniera quasi una giusta punizione e abiezione per i loro peccati, punizione imposta e voluta da JHWH stesso, ma al tempo stesso sapevano che JHWH poi li avrebbe liberati, come dalla schiavitù babilonese, ad opera di un condottiero, inviato da Lui stesso.
Vi era però già in formazione un’altra corrente di pensiero che rappresentava sì un Messia liberatore, ma questa liberazione sarebbe stata non militare o politica, quanto spirituale. Dio non avrebbe avuto bisogno di eserciti, né umani, né angelici, ma della Sua sola Volontà Onnipotente. Questa sarebbe bastata ad annientare e a cancellare ogni dominatore. Questa tendenza è presente nel gruppo esseno, di cui sono prova i papiri, le pergamene e i documenti ritrovati a Qumran, attraverso un’escatologia che risente anche della concezione zoroastriana della perenne lotta tra Ahura Mazda (Colui che agisce col solo pensiero) e Ahriman (il boicottatore dell’azione di Dio). Vi si parla di una Lotta tra i Figli della Luce contro i Figli delle Tenebre, di un Maestro di Giustizia e di un Maestro d’Empietà. E, nondimeno, nel simbolismo fortemente bellico degli Esseni, come tale almeno risulta dai rotoli ritrovati a Qumran, non è sempre facile sapere fin dove il significato (una guerra degli spiriti) non venisse travisato dal significante (una guerra vera e propria). Questa ambivalenza si ritroverà poi, con maggiore o minore accentuazione nel Cristianesimo, non solo antico, ma anche attuale. La tendenza maggiormente pacifica e spiritualista viene espressa da Isaia, che si può considerare quasi un vero “eretico” rispetto al desiderio di riscossa puramente materiale e militare, perennemente frustrato, degli Ebrei. Ciò che Isaia propone è una visione liberatoria dello Spirito, tendenzialmente rivolta all'intera umanità, per l’ovvio motivo che solo in un mondo pacificato perfino nel Regno animale, vi potrà essere l’affermazione della Verità divina. La vittoria militare dura quanto dura, ma non è mai definitiva. Anche per Daniele, la successione degli Imperi è segno della fragilità dello Stato umano. Il tema, pur coesistendo con quello di uno Stato politico-religioso, sarà ripreso dal Cristianesimo stesso. Soprattutto il Cattolicesimo, con la propria affermazione nell'Impero, tenderà a far coincidere il Regno (spirituale) di Dio con lo Stato Pontificio, o Regno temporale sull'intero pianeta.
Anche degli Zeloti nulla si dice nei Vangeli, se non perché l’apostolo Simone lo Zelota (Vangelo di Luca, 6-15 [3], viene qualificato come tale o come ex-zelota. Il perché di tali silenzi (come quello sui Sicari e sugli Esseni) costituisce una chiave di interpretazione della prima versione, probabilmente orale (detta dagli studiosi “Fonte Q”, da “Quelle”, “sorgente” in tedesco), della vita di “Cristo”poi ritrascritta in più testi, di cui solo quattro considerati “rivelati”, non è di immediata comprensione, in quanto tutta l’opposizione di Cristo sembra rivolta solo contro Farisei e Sadducei, ma forse proprio questo silenzio rivela le due radici ebraiche del successivo Cristianesimo, ovvero Esseni e Zeloti, la radice pacifica, mistica, spiritualista, e la radice ribelle, rivoluzionaria, antiromana, che si tradurranno proprio nella descrizione della figura del “Cristo” [4]. Sebbene nei Quattro Vangeli canonici, e pure in quelli apocrifi, ciò non appaia, la Palestina d’allora non era poi granché diversa da quella d’oggi, in una guerra talvolta aperta e talvolta strisciante (in forma di guerriglia), non tanto a scopi nazionali o protonazionali, quanto religiosi. Per gli Ebrei del tempo, non suscitava l’ira tanto il dominio straniero nel senso politico, quanto la serie di culti politeisti che venivano di fatto imposti, insieme a quella che era considerata idolatria, ovvero uno dei peccati peggiori. Per questo i Maccabei avevano sostenuto le loro battaglie contro i sovrani ellenistici, e - seppure in misura minore - contro i Romani. Per gli Ebrei del tempo doveva apparire, secondo le varie profezie, un Messia guerriero, inviato da Dio, che doveva liberarli dal dominio romano e da ogni forma di idolatria e di politeismo. Accettavano la dominazione straniera quasi una giusta punizione e abiezione per i loro peccati, punizione imposta e voluta da JHWH stesso, ma al tempo stesso sapevano che JHWH poi li avrebbe liberati, come dalla schiavitù babilonese, ad opera di un condottiero, inviato da Lui stesso.
Vi era però già in formazione un’altra corrente di pensiero che rappresentava sì un Messia liberatore, ma questa liberazione sarebbe stata non militare o politica, quanto spirituale. Dio non avrebbe avuto bisogno di eserciti, né umani, né angelici, ma della Sua sola Volontà Onnipotente. Questa sarebbe bastata ad annientare e a cancellare ogni dominatore. Questa tendenza è presente nel gruppo esseno, di cui sono prova i papiri, le pergamene e i documenti ritrovati a Qumran, attraverso un’escatologia che risente anche della concezione zoroastriana della perenne lotta tra Ahura Mazda (Colui che agisce col solo pensiero) e Ahriman (il boicottatore dell’azione di Dio). Vi si parla di una Lotta tra i Figli della Luce contro i Figli delle Tenebre, di un Maestro di Giustizia e di un Maestro d’Empietà. E, nondimeno, nel simbolismo fortemente bellico degli Esseni, come tale almeno risulta dai rotoli ritrovati a Qumran, non è sempre facile sapere fin dove il significato (una guerra degli spiriti) non venisse travisato dal significante (una guerra vera e propria). Questa ambivalenza si ritroverà poi, con maggiore o minore accentuazione nel Cristianesimo, non solo antico, ma anche attuale. La tendenza maggiormente pacifica e spiritualista viene espressa da Isaia, che si può considerare quasi un vero “eretico” rispetto al desiderio di riscossa puramente materiale e militare, perennemente frustrato, degli Ebrei. Ciò che Isaia propone è una visione liberatoria dello Spirito, tendenzialmente rivolta all'intera umanità, per l’ovvio motivo che solo in un mondo pacificato perfino nel Regno animale, vi potrà essere l’affermazione della Verità divina. La vittoria militare dura quanto dura, ma non è mai definitiva. Anche per Daniele, la successione degli Imperi è segno della fragilità dello Stato umano. Il tema, pur coesistendo con quello di uno Stato politico-religioso, sarà ripreso dal Cristianesimo stesso. Soprattutto il Cattolicesimo, con la propria affermazione nell'Impero, tenderà a far coincidere il Regno (spirituale) di Dio con lo Stato Pontificio, o Regno temporale sull'intero pianeta.
L’esistenza di
più Vangeli (derivato dal greco, Evangelo
significa Buon Messaggio, Buona Novella), ovvero di più narrazioni della vita e
dell’azione di “Cristo” in terra, è prova ulteriore della non-divinità di
questi testi. L’Antico Testamento, al di
là di alcune ricapitolazioni o riassunti al suo inizio, non contiene più testi
su un medesimo argomento, pur essendovi anche lì più narrazioni, ma non
considerate canoniche, ovvero regolari, ovvero direttamente rivelate da Dio ai
profeti. Stranamente della vita di
“Cristo” vi sono quattro versioni, di cui tre simili, una un tantino diversa,
con una premessa che troppo dimostra l’influenza della filosofia ebraica (Filone
d’Alessandria) per la presenza di un “Logos” che viene fatto coincidere con
“Cristo” stesso. E' pure impensabile, come si dirà ulteriormente,
che un apostolo avesse approfondite conoscenze filosofiche nel I secolo d. C. Non è credibile, altresì, che Dio dica a Matteo una cosa, a Marco una
seconda, a Luca una terza e a Giovanni un’altra, mentre è immaginabile che
altri apostoli o seguaci cristiani si creino in testa loro versioni diverse
sulla vita di Cristo. Ovviamente,
nessuno dei credenti cristiani riesce a rispondere ad una tale domanda. Marcione, considerato eretico, accettò
viceversa solo una parte del Vangelo di Luca e poche altre, mirando a rigettare
l’Antico Testamento e il Dio vendicativo in esso rappresentato, e piuttosto ad affermare un Dio assolutamente
buono, degno dell’insegnamento di “Cristo”. Ma pare l’unico tentativo storicamente noto, mentre al contrario la
tendenza era alla moltiplicazione all'infinito di più narrazioni, tutte pretese
rivelate da Dio. Intanto vediamo di chiarire
il significato dei termini: è canonico ciò che
dalla Chiesa cristiana (non solo cattolica) viene considerato rivelato da Dio ai quattro distinti autori. E’ sinottico il Vangelo che segue una certa
linea parallela, facilmente rintracciabile negli altri (i primi tre). E' apocrifo il Vangelo non considerato rivelato, ma semplice narrazione umana non
sempre credibile. Gran parte della vita di “Cristo” bambino fa parte dei
Vangeli apocrifi. Di questi, proprio per
la loro natura non rivelata, in quanto umana, o parziale o inventata di sana
pianta, venne eliminata o trascurata una vasta parte, per cui ora abbiamo solo
frammenti.
Dal punto di
vista storico, il secolo in cui viene operata una severa selezione è tra il IV
e il V, a causa della durissima lotta interna contro le eresie, ovvero quei
Cristianesimi non considerati ortodossi (di giusta o retta fede). Ma per poter essere considerati tali, per
evitare che essi forniscano documenti e prove contrarie ad una certa concezione
della persona del “Cristo”, occorreva procedere all'eliminazione dal Canone di
moltissimi testi. Perché tutto questo? E' ragionevole pensare che nel I secolo dell’Era Volgare (ovvero dopo
“Cristo”) le versioni della sua vita e
della sua azione, educativa e predicatoria,
fossero tutte orali, anche a causa dell’alto grado di analfabetismo.
Soprattutto, quando cominciarono ad affluire elementi politeisti convertiti,
mantenere la tradizione originale (assai più vicina all’ebraismo o mosaismo)
divenne sempre più difficile. Molti
cominciarono, già verso la fine del I secolo, a riportarle in testi scritti,
attribuendole a questo o a quel personaggio. Questi testi girarono segretamente finché il Cristianesimo era fuori
legge e perseguitato, perciò era difficile anche materialmente
confrontarli. E' facile immaginare che le versioni circolanti
nel III e IV secolo fossero già molto diverse da quelle del I e del II secolo. Oltre alla versione cristiana, del resto
circolavano anche versioni ebraiche, rimaste fedeli, in cui la figura del
“Cristo” era vista assai negativamente ed in modo sprezzante. Ne è prova quella serie di frammenti
riportati da Origene in una sua confutazione sull'opera di Celso, personaggio
senza altri riscontri (forse un ebreo romanizzato, come Giuseppe Flavio),
autore di un Discorso sulla Verità”, poi qualificato come “Contro
i Cristiani” [5], dove vengono utilizzate contro i Cristiani versioni
negative sulla figura del preteso "Cristo". Anche il Talmùd rappresenta negativamente quello che per gli Ebrei era un eretico pericoloso, un bestemmiatore degno di morte.
Con l’Editto Costantiniano di Milano (313 d.C.), con la proclamazione quindi della libertà di predicazione e di diffusione, con il Concilio di Nicea (325 d. C.), con l’Editto di Teodosio a Tessalonica sul divieto delle credenze politeiste residue e contro le eresie cristiane, fino all’Editto di Teodosio II e Valentiniano III del 16 febbraio 448 in cui vengono fatte distruggere le opere di Porfirio e di Giuliano l’Apostata (doppiamente interessante, perché da giovane educato cristianamente) contro il Cristianesimo, ed insieme ad esse tutto ciò che allora era considerato “pagano” (politeista) o filosofico anticristiano, c’è un’intensa opera di selezione e rielaborazione dei testi evangelici, tale da renderli quelli che oggi conosciamo. Il resto costituisce un cumulo di frammenti, da resti di papiri antichi, da citazioni riportate dagli Apologisti e dai primi Padri della Chiesa, mai comunque in modo integro ed imparziale. Molti degli Apologisti, e lo stesso Origene che credeva all'eternità del mondo, verrebbero considerati eretici rispetto al successivo Canone della fede cristiana. E molti vennero considerati tali fin dall'antichità, quali Marcione e Tertulliano aderente alla setta dei Montanisti, millenaristi convinti dell’arrivo di “Cristo” per la fine del mondo e il giudizio finale. Sulla natura del “Cristo” quindi sussistette una varietà notevole di convinzioni, a partire da quella puramente umana di Fotino e degli “Adozionisti” [6], sulle quali occorreva adoperare in modo drastico. E' facile, quindi, intuire che ci sono rimasti quattro Vangeli completi, o quasi, per soddisfare quattro correnti diverse all'interno della tendenza trinitaria della Chiesa. Sulla loro antichità (ovvero che fossero i primi Vangeli scritti), non vi è nessuna prova, in quanto furono rielaborati, riordinati e resi quelli che oggi appaiono, sostanzialmente accettati da tutte le versioni del Cristianesimo (forse con eccezione dei Copti).
La Chiesa, ormai estesa e dominante nell'Impero Romano, sebbene poi diviso con Arcadio ed Onorio (divisione di carattere più amministrativo che non politico-giuridico, come prova l’Editto di Teodosio II e Valentiniano III) [7], diventata da oltre mezzo secolo Chiesa ufficiale di Stato, deve darsi anche istituzioni molto forti, gerarchiche, analoghe a quelle imperiali, capaci poi nell'Occidente europeo di diventare pressoché uniche a resistere di fronte alle valanghe barbariche. Quest’opera, di natura politica, si affiancava all'opera di consolidamento teologico, quale necessaria premessa e giustificazione, onde evitare il più possibile frazionamenti interni di natura religiosa. Venne dunque eseguita un’opera, anche “filologica”, in proporzione alla possibilità del tempo, per avere testi quanto più credibili possibile, che evitassero l’ulteriore formarsi di eresie. In certo modo, i quattro testi sono uno prova dell’altro, sebbene resti assurdo che Dio si mettesse a rivelare quattro versioni simili, ma non identiche, a quattro personaggi diversi. Ciò che si spiega come fatto storico, non è spiegabile sul piano strettamente religioso. Si segue una metodologia, per l’Antico Testamento era già stata compiuta dai Masoreti (nel I secolo d. C.), che costruirono un testo canonico uniforme, forse anche in risposta alla dottrine di Filone d’Alessandria che, seguendo una linea neoplatonica, voleva interpretare in senso simbolico l’intero Antico Testamento, per adeguarlo alla razionalità della filosofia. Ma al tempo stesso si trattava di accontentare quattro correnti interne, ognuna col proprio testo “canonico”. Per non far preferenze e visto che si confermavano una con l’altra, vennero date per buone tutte e quattro. L’ultima, in particolare, in quanto è anche l’unica che asserisce in modo netto la divinità del “Cristo”, in quanto Logos.
Relativamente poi alla storia iniziale della Chiesa vennero accettate successive versioni dagli Atti degli Apostoli, alle Lettere apostoliche, all’Apocalisse di Giovanni (forse l’autore del Quarto Vangelo), rappresentante il “Cristo” Trionfante e Re della Terra. Per tutte le fedi cristiane, salva mia eventuale ignoranza, il Nuovo Testamento termina appunto con l’Apocalisse, mentre tutto il resto è considerato opera umana di apologisti e predicatori, senza valenza rivelazionistica. Viceversa, nei testi apocrifi vi sono versioni ulteriori, addirittura su Giuda l’Iscariota (il traditore di “Cristo”) e su Ponzio Pilato, il giudice romano che condannò “Cristo” alla croce: santificato in certe versioni, condannato in certe altre. Così pure altre Apocalissi.
Con l’Editto Costantiniano di Milano (313 d.C.), con la proclamazione quindi della libertà di predicazione e di diffusione, con il Concilio di Nicea (325 d. C.), con l’Editto di Teodosio a Tessalonica sul divieto delle credenze politeiste residue e contro le eresie cristiane, fino all’Editto di Teodosio II e Valentiniano III del 16 febbraio 448 in cui vengono fatte distruggere le opere di Porfirio e di Giuliano l’Apostata (doppiamente interessante, perché da giovane educato cristianamente) contro il Cristianesimo, ed insieme ad esse tutto ciò che allora era considerato “pagano” (politeista) o filosofico anticristiano, c’è un’intensa opera di selezione e rielaborazione dei testi evangelici, tale da renderli quelli che oggi conosciamo. Il resto costituisce un cumulo di frammenti, da resti di papiri antichi, da citazioni riportate dagli Apologisti e dai primi Padri della Chiesa, mai comunque in modo integro ed imparziale. Molti degli Apologisti, e lo stesso Origene che credeva all'eternità del mondo, verrebbero considerati eretici rispetto al successivo Canone della fede cristiana. E molti vennero considerati tali fin dall'antichità, quali Marcione e Tertulliano aderente alla setta dei Montanisti, millenaristi convinti dell’arrivo di “Cristo” per la fine del mondo e il giudizio finale. Sulla natura del “Cristo” quindi sussistette una varietà notevole di convinzioni, a partire da quella puramente umana di Fotino e degli “Adozionisti” [6], sulle quali occorreva adoperare in modo drastico. E' facile, quindi, intuire che ci sono rimasti quattro Vangeli completi, o quasi, per soddisfare quattro correnti diverse all'interno della tendenza trinitaria della Chiesa. Sulla loro antichità (ovvero che fossero i primi Vangeli scritti), non vi è nessuna prova, in quanto furono rielaborati, riordinati e resi quelli che oggi appaiono, sostanzialmente accettati da tutte le versioni del Cristianesimo (forse con eccezione dei Copti).
La Chiesa, ormai estesa e dominante nell'Impero Romano, sebbene poi diviso con Arcadio ed Onorio (divisione di carattere più amministrativo che non politico-giuridico, come prova l’Editto di Teodosio II e Valentiniano III) [7], diventata da oltre mezzo secolo Chiesa ufficiale di Stato, deve darsi anche istituzioni molto forti, gerarchiche, analoghe a quelle imperiali, capaci poi nell'Occidente europeo di diventare pressoché uniche a resistere di fronte alle valanghe barbariche. Quest’opera, di natura politica, si affiancava all'opera di consolidamento teologico, quale necessaria premessa e giustificazione, onde evitare il più possibile frazionamenti interni di natura religiosa. Venne dunque eseguita un’opera, anche “filologica”, in proporzione alla possibilità del tempo, per avere testi quanto più credibili possibile, che evitassero l’ulteriore formarsi di eresie. In certo modo, i quattro testi sono uno prova dell’altro, sebbene resti assurdo che Dio si mettesse a rivelare quattro versioni simili, ma non identiche, a quattro personaggi diversi. Ciò che si spiega come fatto storico, non è spiegabile sul piano strettamente religioso. Si segue una metodologia, per l’Antico Testamento era già stata compiuta dai Masoreti (nel I secolo d. C.), che costruirono un testo canonico uniforme, forse anche in risposta alla dottrine di Filone d’Alessandria che, seguendo una linea neoplatonica, voleva interpretare in senso simbolico l’intero Antico Testamento, per adeguarlo alla razionalità della filosofia. Ma al tempo stesso si trattava di accontentare quattro correnti interne, ognuna col proprio testo “canonico”. Per non far preferenze e visto che si confermavano una con l’altra, vennero date per buone tutte e quattro. L’ultima, in particolare, in quanto è anche l’unica che asserisce in modo netto la divinità del “Cristo”, in quanto Logos.
Relativamente poi alla storia iniziale della Chiesa vennero accettate successive versioni dagli Atti degli Apostoli, alle Lettere apostoliche, all’Apocalisse di Giovanni (forse l’autore del Quarto Vangelo), rappresentante il “Cristo” Trionfante e Re della Terra. Per tutte le fedi cristiane, salva mia eventuale ignoranza, il Nuovo Testamento termina appunto con l’Apocalisse, mentre tutto il resto è considerato opera umana di apologisti e predicatori, senza valenza rivelazionistica. Viceversa, nei testi apocrifi vi sono versioni ulteriori, addirittura su Giuda l’Iscariota (il traditore di “Cristo”) e su Ponzio Pilato, il giudice romano che condannò “Cristo” alla croce: santificato in certe versioni, condannato in certe altre. Così pure altre Apocalissi.
La strada che seguirò, pertanto, è quella di esaminare la figura del “Cristo” così come appare prima nei Vangeli canonici poi in quelli apocrifi sul tema fondamentale, e, dove possibile, in testi classici, con un metodo comparativo dei testi disponibili, su fatti e concetti, non filologico in senso stretto, in quanto ignoro il greco (se non relativamente all'etimologia terminologica di natura scientifica e filosofica), l’ebraico e l’aramaico, celebri lingue della Bibbia: la compresenza o sovrapposizione di un profeta di pace universale (secondo il modello di Isaia, che però non è pacifista del tutto) a quello di guerra terrena (secondo varie versioni ebraiche preesistenti, rivolte al solo riscatto di Israele, piuttosto che dell’intera umanità), sovrapposizione delle due figure che costituisce la tesi di base in questo lavoro e che cercherò di provare attraverso citazioni. Non farò riferimenti, se non indiretti, all'enorme, incalcolabile letteratura di commento o critica, sul Cristianesimo delle origini, perché materialmente impossibile, eccettuati i pochi testi per me disponibili ed anche perché inutile al mio scopo, rischiando altrimenti di dover predisporre un’Enciclopedia e non un sintetico lavoro critico, opera al di fuori delle capacità di un singolo individuo, per quanto colto ed erudito. Riporterò quanto necessario ai miei fini in bibliografia e nelle singole note.
I PROCESSI
CONTRO I DUE JEHOSHUA
Giovanni Rosadi, ancora con una specifica
opera sul processo a Gesù, pubblicato nel 1904, e poi Vittorio Messori, molto più
recentemente, si sforzarono di dimostrare che il cosiddetto “processo a Gesù”
non seguì per nulla le corrette procedure allora vigenti. Potremmo dire: "bella scoperta!". D'altronde, quando mai per un ribelle alle leggi,
soprattutto se armato o anche solo predicatore pacifico (come gli eretici delle
varie epoche), si fa un processo
“regolare”, quando neppure comunissime persone accusate di un qualche reato
hanno processi veramente regolari? In
questi Autori, per altro rispettabilissimi, si ha l’ingenuità di ritenere che
le regole processuali siano in generale ben osservate. Nel caso poi dell’antichità, non ci si illuda
di credere che tutto quel monumento letterario riferito al Codex Justinaneus
abbia avuto un qualche senso, se non culturale e storico. In più
di un’occasione imperatori e governanti si sforzarono di mettere ordine nelle
leggi e far sì che poi quest’ordine venisse obbedito. La cosa era vana, e lo è tuttora malgrado l’esistenza di codici ed
istituzioni ben più precisi di quello che potessero essere allora, dove
l’arbitrio sovrano, imitato o seguito dall'arbitrio dei suoi subordinati, era
praticamente esteso al massimo. Si sono
chiesti gli storici che mandano lamenti di questo tipo, se furono regolari i processi ai sostenitori dei Gracchi, a Catilina? Se la morte di
Cesare (e Cicerone) fosse mai stata decretata da qualche tribunale regolare? E così si potrebbe andare avanti fino ai nostri giorni, o, per quanto riguarda la Bibbia, parlare della morte
inflitta a Jokanan e ad altri profeti. [109].
Ben più interessante è viceversa, anche per finezza argomentativa, l’opera di Chaim Cohn:“Processo e morte di Gesù - un punto di vista ebraico” [110]. Lo scopo dell'Autore è quello di sostenere e dimostrare la tesi che Gesù non fu ucciso dagli Ebrei, farisei o sadducei che fossero, ma solo per decisione romana. Il che è interessante, ma sarebbe sicuramente più credibile se si fondasse su documenti, reperiti in qualche grotta o in qualche sotterraneo, risalenti all'epoca: qualcosa di ancor più interessante dei documenti esseni reperiti a Qumran. Tuttavia non esiste nulla di tutto questo, ed è veramente audace cercare di fondarsi sui Quattro Vangeli, o su Giuseppe Flavio, per sostenere cose analoghe. Cohn pretende addirittura di sostenere che il Sanhedrin (ovvero il Sinedrio, il Tribunale ebraico) avesse fatto di tutto per salvare Jehoshua, come si dovrebbe dire parlando dell’uomo storico e non del personaggio evangelico. Lo si voglia o no, quello che ci resta comprova la morte dell’uomo anche in base ad un processo svolto contro di lui, o meglio sarebbe dire ad un semplice o complesso interrogatorio (per paragonarlo ai nostri tempi, dovremmo parlare di una udienza preliminare, non certo di un processo effettivo). Potremmo anche confrontarlo con un “giudizio abbreviato” dei nostri tempi e del nostro Codice, sennonché nella nostra procedura vi sono più gradi di giudizio ed un Collegio giudicante che, invece, non risultano col Gesù evangelico. In questo senso sono forse più interessanti alcuni vangeli apocrifi che non quelli canonici, troppo tesi a dire che venne condannato dai Romani, ma su istigazione degli Ebrei. E', a questo punto, molto importante rilevare che l’accusa di deicidio, poi caricata solo sugli Ebrei, in origine doveva coinvolgere anche i Romani ed altri popoli dell'Asia minore. In un documento intitolato la “Caverna del Tesoro” si dice:
“…Quando Giuseppe [d’Arimatea] lo tolse dalla croce, prese anche la scritta che stava sul suo capo, che era appesa cioè sulla croce sopra al Messia; era stata redatta da Pilato, in greco, latino ed ebraico. Ma perché Pilato non scrisse nessuna parola in siriaco? Perché i siri non avevano avuto nessuna responsabilità nel versamento del sangue del Signore e Pilato era un uomo saggio e amante della verità [proprio lui, che aveva chiesto a Jehoshua che cosa fosse la verità, una domanda degna più di uno scettico o cinico nel senso comune, che di un “amante della verità”]. Non voleva scrivere nessuna falsità, come fanno i giudici ingiusti... Secondo la qualifica di uccisori di Dio, essi dovettero stendere la mano su di lui. Pilato lo scrisse e lo affisse sopra al Messia: lo uccisero Erode, il greco, Caifa, il giudeo, e Pilato, il romano. I siri, invece, non hanno avuto nessuna parte nella sua morte: ne è testimone Abgar, re di Edessa. Egli voleva raggiungere Gerusalemme e distruggerla perché i giudei avevano crocifisso il Cristo”[111].
Interessa rilevare come il fantasioso autore di questo testo, miri a vantare il fatto che i Siriani dell’epoca erano del tutto puri dalla morte di Jehoshua, il che potrebbe anche essere vero, se tra i soldati romani non vi fossero aggregati reparti siriaci. Di questo, a maggiore ragione, si sarebbero potuti vantare tutti i popoli lontani (Egiziani, Persiani, Etiopi, ecc.). Erode vien fatto passare per greco, sebbene ormai tutta la dinastia fosse aggregata al Regno ebraico, mentre ci si inventa un Regno di Edessa che, salvo errori, esistette solo al tempo dei Crociati. Come avrebbe in ogni caso un satellite di Roma potuto attraversare il territorio, senza il permesso dei Romani stessi, e distruggere la città proprio in quanto difesa dai Romani (allora)? L’unico elemento storico interessante di questa frottola vagamente nazionalista, è il fatto di metter insieme Greci, Romani ed Ebrei, come popoli “deicidi”.
Ancora, gran parte della letteratura apologetica cristiana, almeno fino a Costantino, mira a incolpare non solo gli Ebrei, ma anche i Romani per l’avvenuto deicidio. Come si ricava dall’Apocalisse di Giovanni, quando si immagina Babilonia prima grande e poi caduta in rovina, come sarebbe accaduto per Roma ed ogni altro grande Impero (cfr. Capitoli 17, 18 e 19), e dalle opere di Tertulliano, Commodiano, Ippolito [112]. Si può arrivare ad Agostino d’Ippona e alla sua “Città di Dio” per cogliere l’ultimo lampo di anti-romanesimo cristiano dal punto di vista del rapporto tra persecuzioni anti-cristiane, da una parte, e fragilità crescente dell’Impero fondato non da Dio, ma contro Dio (per i Cristiani stessi).
L’eccezionalità del processo al Gesù evangelico consiste, non tanto nella sommarietà del fatto, quanto nelle tre distinte “udienze” che egli dovette subire: di fronte al Sinedrio, di fronte a Erode e di fronte a Pilato. Quella davanti al Sinedrio ha puro carattere religioso, in quanto è accusato di dottrine e di pratiche del tutto eretiche, rispetto alle tradizioni ebraiche, miranti a scardinare la fede tradizionale. Quelle, viceversa, davanti ad Erode e a Pilato, hanno essenziale carattere politico, ossia miranti a dimostrare come il “Gesù evangelico” tendesse a costituire un regno indipendente contro Roma o l’autorità riconosciuta da Roma (lo stesso Erode). Qui si tratta di una medesima accusa, ma la divergenza sembra concernere il territorio: infatti Pilato manda l’imputato da Erode per ragioni di appartenenza territoriale. Il Gesù evangelico è un galileo, non un giudeo. Fosse o non fosse una motivazione di competenza o giurisdizione, oppure un modo per liberarsi dal problema, è difficile dire, vista l’assenza di documenti diretti. Erode invece se ne libera ritenendo che ciò che conta è il luogo del “delitto”, ovvero la predicazione di tipo “politico”. Intanto, ricordiamo come Giuseppe Flavio avesse descritto la sorte di un altro Jehoshua, prima e durante la guerra civile, quello descritto un po’ beffardamente e fatto passare per pazzo da Albino (che lo fosse o non lo fosse non lo sappiamo, ma sicuramente egli veniva visto più come un nemico potenziale del dominio romano che non un avversario religioso, visto che prevedeva la rovina di Gerusalemme). Riguardo al Jehoshua storico, di cui noi trattiamo, ci si accorge che la procedura assume un carattere più complesso perché in realtà l’imputato non era unico, anche se i due processi (quello di natura religiosa davanti al Sanhedrin e quello di natura politica davanti a Erode e Pilato) vennero descritti nel medesimo momento. Ma le sentenze sono diverse, o meglio lo sarebbero state se i due processi avessero riguardato una persona sola. Invece questo non appare nei Vangeli, perché, sebbene al Sinedrio si condanni Gesù, nondimeno tale sentenza non viene eseguita. Non si capisce perché, ma preferiscono lasciare ai Romani, con altra accusa, la possibiltà di condannarlo. Qualcuno potrebbe, sempre sulla base di quanto narrato da Giuseppe Flavio, supporre che quella era la prassi, ovvero che le sentenze di morte venissero fatte eseguire solo col permesso dei Romani o per mano loro. Ma sono gli stessi Vangeli a negarlo: basti pensare all'adultera che doveva essere lapidata. La stessa resistenza di Pilato, così come il rifiuto di Erode, dimostrano che le due tematiche o motivazioni di condanna sono diverse. Negli “Atti degli Apostoli” troviamo due questioni distinte, sia riguardanti Pietro, sia quella del protomartire Stefano (tra l’altro nome greco e non ebraico). Nei casi di Pietro intervengono solo le Autorità ebraiche (sul piano politico è Erode, su quello religioso il Sinedrio); nel caso di Stefano è il Sinedrio, e basta a decidere la sua lapidazione.
In “Atti, cap. 5, vv. 17 - 42”, si dice che Pietro ed altri vennero fatti arrestare dai sommi sacerdoti invidiosi dei miracoli compiuti nel nome di Gesù. Ma un angelo (il miracolo si ripeterà pure con Erode) li fa uscire imponendo loro di continuare la predicazione. Vengono nuovamente catturati e portati al Sinedrio, dove tra l’altro vengono accusati di diffamare i giudici ebrei, come colpevoli della morte di Gesù (il che la dice lunga sul processo precedente). Pietro ribadisce di essere testimone dell’opera e dei miracoli di Gesù, il che suscita l’ira dei sacerdoti che vogliono condannarli. Ma a loro favore interviene il fariseo Gamaliele, maestro della legge, citando il caso di altri due predicatori, Teuda e Giuda, che una volta morti, non si sa se uccisi in combattimento o tramite condanna, persero del tutto i seguaci. Gamaliele quindi sostiene: "…non occupatevi più di questi uomini, lasciateli andare: perché se la loro pretesa e la loro attività sono cose solamente umane scompariranno da sé; se invece Dio è dalla loro parte, non sarete certamente voi a mandarli in rovina. Non correte il rischio di dover combattere contro Dio…” (vv. 38 – 39).
Il Sinedrio approva, facendo però fustigare gli apostoli prima di lasciarli andare, ed essi ripresero la loro attività di predicazione. Più tardi è Erode stesso a far imprigionare Pietro, dopo aver fatto uccidere Giacomo, fratello di Giovanni l’evangelista. Pensava dunque di istituire un pubblico processo (anche qui la cosa è curiosa: con Pietro sì con Giacomo no?), e intanto faceva tenere sotto sorveglianza Pietro con quattro squadre di sentinelle (per un predicatore?). Al solito arriva un angelo che lo libera e chi ci rimette le penne sono le povere guardie incolpevoli. In seguito, come descrive anche Giuseppe Flavio, Erode morì di una tremenda infezione interna che lo portò ad essere divorato vivo dai vermi. Naturalmente per i Cristiani era una punizione divina per i suoi misfatti (Capp. 11 e, specialmente, il 12 vv. 1 – 23). Già questi fatti comprovano. sul piano storico, che i processi nella Palestina del tempo si distinguevano in solo religiosi, di competenza del Sinedrio, ed in politici, di competenza del procuratore romano in Giudea o del re Erode in Galilea e Samaria. E’ pure da presumere che i casi misti, ovvero di ribelli armati contro Roma in nome della religione, venissero trattati dai procuratori romani.
Anche Stefano, “uomo ricco di fede e di Spirito santo”, nominato fra i sette aiutanti degli Apostoli, viene fatto arrestare perché falsamente accusato, da alcuni Ebrei calunniatori, di aver bestemmiato Mosè e Dio stesso. Questi calunniatori, sempre secondo il testo, erano invidiosi e rabbiosi perché non potevano reggere l’eloquenza e persuasività di Stefano. Nel Sinedrio lo si accusa anche di sostenere che Gesù avrebbe distrutto il Tempio. Sempre secondo la versione, Stefano riesce a fare un lungo discorso di difesa (apologia, per usare il termine classico), nella quale, senza ostacoli, ripercorre l’intera storia di Israele, ricordando pure il fatto che tutti i profeti vi fossero stati perseguitati, e accusa i presenti di non seguire la vera Legge di Dio, di cui si riempivano le bocche (Cap. 6, vv. 5 – 15, e Cap. 7, vv. 1 – 60). Il severo rimprovero ai giudici ed ai presenti li spinge, per l’ira, ad un’esecuzione sommaria: “Nel sentirlo parlare, quelli del tribunale ebraico si infuriarono e si agitarono contro Stefano... Disse: ‘Ecco, io vedo i cieli aperti e il Figlio dell’Uomo che sta in piedi alla destra di Dio’. Allora si turarono le orecchie e gridarono a gran voce; poi si scagliarono tutti insieme contro Stefano, lo trascinarono fuori città per ucciderlo a sassate...” (vv. 54 – 58).
E’ qui che si parla per la prima volta
anche di Saulo-Paolo, allora giovane “guardarobiere” dei lapidatori, poi
persecutore dei Cristiani, quindi convertito sulla strada di Damasco. Anch'egli ebbe occasione di subire processi, ma prima
del definitivo martirio si salvò più volte col fatto della cittadinanza
romana (Cap. 16, vv. 16 – 40; Cap. 19, vv. 21 – 41 – ad Efeso scoppia
addirittura una sommossa contro di lui, accusato di parlare contro la dea
Artemide - ; Capp. 21 - 26,
sul suo arresto e addirittura sul suo ricorso all'Imperatore). In sostanza, tutti questi episodi confermano
che, lo si voglia o no, i processi contro i Cristiani venivano svolti con una
regola determinata e dando loro anche la possibilità di difendersi. Viceversa, il processo a “Gesù” appare del
tutto strano, con questi conflitti di competenza e una condanna che
contraddirebbe le motivazioni del processo, se questo fosse stato condotto solo
per l’interesse della classi dirigenti ebraiche. Si tratterà così di analizzare i fatti
descritti dai vari Vangeli, canonici e apocrifi, e capire perché improvvisamente appaia bar Abba, quasi come un alter ego di
Gesù. La tortuosità della descrizione fa
dunque fortemente pensare alla fusione di due storie ben distinte di due
diversi personaggi. Seguirò dunque il
medesimo ordine precedente, ovvero Vangeli canonici, apocrifi, documenti
ebraici.
§ 1) Il processo e la condanna secondo Matteo:“Quelli che avevano arrestato Gesù, lo portarono alla casa di Caifa, il sommo sacerdote…Pietro lo seguiva da lontano. Poi... si sedette in mezzo ai servitori…Intanto i capi dei sacerdoti e gli altri del tribunale, cercavano una falsa accusa contro Gesù, per poterlo condannare a morte. Ma non la trovavano, anche se si erano presentati molti testimoni falsi. Infine se ne presentarono altri due [il numero minimo valido per la legge mosaica] che dissero: ‘Una volta egli ha dichiarato: Io posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni’. Allora si alzò il sommo sacerdote e gli disse: ‘Non rispondi niente? Che cosa sono queste accuse contro di te?’. Ma Gesù rimaneva zitto. Poi il sommo sacerdote gli disse: ‘Per il Dio vivente, ti scongiuro di dirci se tu sei il Messia, il Cristo, il Figlio di Dio’. Gesù rispose: ‘Tu l’hai detto. Ma io vi dico che d’ora in poi vedrete il Figlio dell’Uomo, accanto a Dio onnipotente... Allora il sommo sacerdote, scandalizzato, si strappò l’abito e disse. ‘Ha bestemmiato! Non c’è più bisogno di testimoni, ormai! Adesso avete sentito le sue bestemmie. Qual è il vostro parere ?’. Gli altri risposero: ‘deve essere condannato a morte’. Poi alcuni cominciarono a sputargli in faccia e a prenderlo a pugni; altri gli davano schiaffi e gli dicevano: ‘Fa’ il profeta, Cristo! Indovina chi ti ha colpito!” (Cap. 26, vv. 57 – 68).
Più che un processo vero e proprio appare un interrogatorio, al massimo una sorta di udienza preliminare. Molti testimoniano contro di lui, ma evidentemente si tratta di testimonianze insignificanti. Solo due portano come motivo d’accusa una frase detta da lui discutendo con i Farisei, che viene interpretata come un riferimento al proprio corpo e non al Tempio di Salomone, ma siccome la questione verteva appunto sull'edificio, ci voleva una certa fantasia per capire altro. Poco importa: quest’accusa viene considerata fondamentale e il sommo sacerdote Caifa gli chiede di smentire. Gesù, che fino ad allora aveva taciuto, usa un’espressione che poi sarà usata anche con Pilato: “Tu l’hai detto”, che è alquanto ambigua: voleva dire di sì, o significava: “Lo dici tu, io non l’ho mai detto”? In realtà sappiamo che la frase fu detta, così il richiamo ad altra profezia precedente che lo porta ad identificarsi con “Colui che sta alla destra di Dio”, viene intesa dai dirigenti ebraici come una provocazione, perciò lo irridono, lo aggrediscono, lo picchiano. Tuttavia, malgrado il parere sia per la condanna a morte, non eseguono quello che già altre volte avevano tentato. Completamente circondato, Jehoshua non poteva fuggire. Perché non eseguono immediatamente la sentenza? Perché non viene lapidato o fatto decapitare (perché - è sempre da ribadire - queste erano le condanne previste per bestemmia o apostasia o simili, dalla Torah). Evidentemente qualcosa non quadra se si sentono in obbligo di condurlo da Pilato con ben diverse motivazioni.
“... Quando fu mattino, tutti i capi dei sacerdoti e le autorità del popolo si riunirono per decidere di far morire Gesù [ma non lo avevano già deciso nella notte ?]. Lo fecero legare e lo portarono via per consegnarlo a Pilato, il governatore romano” (Cap. 27, vv. 1 – 2).
Vi sono due intermezzi: quello dei tre dinieghi per paura di Pietro e il suicidio di Giuda, ma non sono fatti concernenti propriamente il processo: Giuda, il traditore (?), non sembra aver fatto nemmeno da testimone. La sua persona e i suoi trenta denari servono a Matteo e altri per ritenere confermata la profezia di Geremia. Davanti a Pilato l’accusa contro Jehoshua è di ben diversa natura. Pilato, infatti, gli chiede: “Sei tu il re dei Giudei?”, al che segue questa provocatoria, e insieme ambigua, risposta di Jehoshua: “Tu lo dici” (vv 11 – 13). Nel frattempo la folla dei capi ebraici inveisce contro Jehoshua e lancia accuse. Ma, per dirla in termini moderni, Jehoshua, che non ha avvocati e deve difendersi da solo (quindi, anche questo non è un processo in senso proprio, ma solo un interrogatorio, un’udienza preliminare: non risulta che Pilato chiami nemmeno testimoni a discolpa), “si avvale della facoltà di non rispondere”. Tace, dunque: non nega di voler diventare re dei Giudei o della Palestina, o di non si sa bene che cosa. Qui Matteo non cita per nulla Erode né la questione di competenza territoriale. Invece si riferisce ad un uso, assai discusso presso gli storici, sulla facoltà di dare la grazia ad un condannato. Strano a dirsi, è la prima volta che ne appare il personaggio nel Vangelo, questo fantomatico Barabba, più esattamente, come si è detto, un altro Jehoshua di padre ignoto soprannominato “bar Abba” (Figlio del Padre), il che ricorda fin troppo l'autodefinizione di Jehoshua, come Figlio dell’Uomo o Figlio di Dio. I due sono omonimi, ma uno ha un padre, per quanto putativo, ovvero Joseph, l’altro risulta di padre ignoto.
“... Ogni anno, per la festa di Pasqua, il governatore aveva l’abitudine di lasciare libero uno dei carcerati, quello che il popolo voleva. A quel tempo era in prigione un certo Barabba, un carcerato famoso [famoso perché, se non ne aveva mai parlato fino ad allora?]. Così, quando si fu riunita una certa folla [non c’era già? ne fa chiamare altra?], Pilato domandò: ’Chi volete che sia lasciato libero: Barabba, oppure Gesù detto Cristo [questo soprannome è poco credibile, perché gli Ebrei lo avrebbero chiamato “Messia” ovvero “unto, benedetto, predestinato” in ebraico, e non col termine greco corrispondente]?’. Perché sapeva bene che i capi gli avevano consegnato Gesù per invidia. Mentre Pilato era seduto al Tribunale, sua moglie gli mandò a dire: ‘Cerca di non decidere niente contro quest’uomo innocente, perché questa notte, in sogno, ho sofferto molto per causa sua’...” (vv. 15 – 19).
Una motivazione, quella di Procula (o Procla in altri testi), alquanto irragionevole, ma forse meno allora che oggi, quando si credeva che il sogno rappresentasse spesso la volontà degli dèi. Ma nondimeno, lo vediamo anche ai nostri giorni, i magistrati continuano a credere nella realtà ispiratrice dei sogni (cfr. processo Scazzi – Misseri). Pilato, dunque, sulla base del sogno della moglie chiede nuovamente quale dei due arrestati volessero liberare. Di “bar Abba” non sappiamo se fosse già stato processato e condannato, o meno, certamente è rinchiuso nel carcere, ma altra cosa strana, perché non lo fa portare davanti alla folla anche lui? Perché Jehoshua ben Joseph e Jehoshua bar Abba non vengono messi insieme, a confronto davanti al popolo, perché venissero distinti dalla folla? Nondimeno, il popolo, istigato dai sacerdoti, non ha dubbi: vogliono libero “bar Abba” e vogliono far crocifiggere Jehoshua ben Joseph. Come si vedrà negli Apocrifi, in questa sede ben più precisi, c’è un dibattito piuttosto forte tra Pilato e gli Ebrei. Qui, malgrado la raccomandazione della moglie, Pilato appare debole, incerto. Perciò null'altro sa fare che farsi portare un catino d’acqua e lavarsi le mani “del sangue dell’innocente”. Il popolo, anche qui irragionevolmente, quasi riconoscesse di pretendere una cosa iniqua, grida: “Il sangue suo ricada su di noi e sui nostri figli”: una formula che motiverà per quasi 2000 anni l'antisemitismo di natura religiosa (quello razziale apparirà ben più recentemente). Pilato allora libera “bar Abba”, di cui però non si dice più nulla. Sparisce così come apparso. Né si dice che la folla lo acclami o si dimostri lieta della sua liberazione. Perché ? (vv. 20 – 26). Jehoshua ben Joseph viene fatto preventivamente frustare (da notare, come si vedrà meglio più avanti, che questa era una pratica ebraica secondo la Torah). Jehoshua viene maltrattato, deriso, gli si fa indossare una veste rosso porpora, quasi un mantello regale, viene coronato con rami spinosi (forse di rosa), quindi beffeggiato. Poi portato al luogo del supplizio sul Golgota. Forse, non reggendo lo sforzo anche per i maltrattamenti, il compito di portare la croce viene affidato ad un tale Simone. Quindi viene inchiodato alla croce su cui sopra inscritta la motivazione della condanna: “Questo è Gesù, il re dei Giudei” (vv. 27 – 37).
Altra cosa strana: con lui vengono crocifissi “due briganti” (v. 38). Come mai Pilato non aveva proposto anche questi due da salvare? O erano già sulla croce? C’era un rapporto tra Jehoshua e i due? Mistero. Ragionevolmente si può pensare che il rapporto ci fosse. Il termine “brigante”, o “ladrone”, non si riferisce necessariamente a due delinquenti comuni. Per i Romani tutti i ribelli erano “latrones”. Così Petreio aveva qualificato i nobili romani ed etruschi che avevano combattuto con Catilina a Pistoia. Una tradizione che continuerà anche durante la Seconda Guerra Mondiale, quando i partigiani venivano qualificati “Banditen”. Dunque, gli altri due crocifissi potevano essere dei ribelli (come probabile) da affiancare ad un ribelle a Roma che pretendeva di proclamarsi “re dei Giudei”, oppure delinquenti comuni messi lì per schernirlo del tutto. La fine di Gesù, che precede quella dei due ladroni, si ha con una frase in ebraico o aramaico: “...‘Elì, Elì, lemà sabactàni’, che vuol dire: ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, il che è un verso dei Salmi di Davide (21 o 22, secondo una differente numerazione, ed è la preghiera del Sofferente), anche qui inserito per indicare l’attuarsi di una profezia, quando viceversa o il fatto è ricostruito sulla profezia stessa. Leggendo il resto di questo salmo (“Mi scherniscono quelli che mi vedono/ storcono le labbra, scuotono il capo: / ‘Sì, è affidato al Signore, lui lo scampi/ lo liberi se è suo amico…”, vv. 8 – 9) , si capisce che, ancora una volta, si cerca di far coincidere l’evento tragico dell’orribile morte di Jehoshua con la profezia dell’Antico Testamento. Seguono eventi miracolosi (terremoti, eclisse, e poi, al terzo giorno, resurrezione di morti, di Jehoshua, ma questo è fuori dal nostro tema).
Giuridicamente e storicamente parlando, avviene un fatto stranissimo: viene arrestato come eretico del giudaismo, come bestemmiatore, ma per motivi del tutto oscuri viene poi denunciato ai Romani quale ribelle all’Impero, colui che, come i Maccabei, cerca di vincere il dominio straniero e ripristinare l’antico Regno di Israele. Che necessità avrebbero avuto di recitare tutta questa messinscena, quando, come fece Erode con Jokanan e, come fecero essi stessi più tardi con Stefano (e tentarono con Pietro, Paolo ed altri), avrebbero potuto giustiziarlo a sassate. Si può girare la storia come si vuole, ma la fine di Jehoshua, la motivazione della condanna è quella di un ribelle, insieme ad altri due ribelli ad opera dei Romani e non degli Ebrei, anche se si potrebbe immaginare un certo loro concorso quali delatori. E’ fin troppo evidente che si rappresentano, come un’unica storia, due storie ben diverse. Così vedremo pure con le successive narrazioni.
§ 2) Processo e condanna secondo Marco:
Riguardo alla fase ebraica, Marco non differisce molto da Matteo, ma specifica la ragione per la quale la gran massa dei testimoni contro Jehoshua non era credibile, in quanto si contraddicevano tra loro, e non ve n’erano almeno due concordanti su almeno un punto (Cap. 14, vv. 55 – 56). Sempre secondo Marco, nemmeno sulla frase relativa ad una possibile distruzione del Tempio concordavano pienamente. Gesù tace anche di fronte alla richiesta di discolpa del sommo sacerdote (vv. 57 – 60), il quale allora gli chiede se fosse lui il Cristo, il Figlio di Dio. Jehoshua, stavolta, risponde affermativamente e non nel modo ambiguo attribuito da Matteo: “Sì, sono io. E voi vedrete il Figlio dell’uomo / seduto accanto a Dio onnipotente, Egli verrà tra le nubi del cielo…”.
Riguardo alla fase ebraica, Marco non differisce molto da Matteo, ma specifica la ragione per la quale la gran massa dei testimoni contro Jehoshua non era credibile, in quanto si contraddicevano tra loro, e non ve n’erano almeno due concordanti su almeno un punto (Cap. 14, vv. 55 – 56). Sempre secondo Marco, nemmeno sulla frase relativa ad una possibile distruzione del Tempio concordavano pienamente. Gesù tace anche di fronte alla richiesta di discolpa del sommo sacerdote (vv. 57 – 60), il quale allora gli chiede se fosse lui il Cristo, il Figlio di Dio. Jehoshua, stavolta, risponde affermativamente e non nel modo ambiguo attribuito da Matteo: “Sì, sono io. E voi vedrete il Figlio dell’uomo / seduto accanto a Dio onnipotente, Egli verrà tra le nubi del cielo…”.
Allora, il sommo sacerdote si strappa le vesti e grida che Jehoshua ha bestemmiato. Quindi chiede il parere agli altri. La risposta è favorevole alla pena di morte, e anche qui si parla di insulti e di schiaffi (vv. 61 – 65). La condanna, stranamente, anche qui non viene votata immediatamente, ma stabilita il mattino dopo, con un’assemblea ancora più numerosa di quella descritta da Matteo. Ancora più stranamente, invece di far eseguire la lapidazione o la decapitazione, come imporrebbe la Torah, lo mandano da Pilato che, per il reato di bestemmia, non c’entrava nulla. Se il reo fosse stato anche accusato di ribellione contro Roma, la decisione poteva anche essere ovvia: ma per bestemmia non era il caso. Marco qui non fa che ripetere Matteo, commettendo le stesse omissioni. Infatti, con Pilato si salta di palo in frasca, e la bestemmia diventa un’accusa di ribellione a Roma. Pilato gli chiede, non se avesse bestemmiato il nome di JHWH, bensì se si fosse proclamato “re dei Giudei”. Jehoshua torna alla formula ambigua: “Tu lo dici”; poi, mentre il procuratore romano lo esorta a difendersi da altre pesanti accuse degli Ebrei circostanti, Jehoshua tace. Anche qui appare allora il misterioso individuo né prima, né dopo mai citato:
“…In quel tempo era in prigione un certo Barabba che, insieme con altri ribelli, aveva ucciso un uomo durante una rivolta. A un certo momento la folla salì verso il palazzo del governatore e cominciò a chiedergli quello che egli aveva l’abitudine di concedere. Allora Pilato rispose: ‘Volete che vi lasci libero Gesù, questo re dei Giudei?” (Cap. 15, vv. 2 – 9).
Attenzione: qui appare una discrepanza che sembra minima
rispetto a Matteo: Pilato non chiede: “Chi dei due carcerati volete che vi
liberi, Jehoshua ben Joseph o Jehoshua bar Abba?”. Ma semplicemente: “Volete che vi liberi il re dei Giudei?”, ovvero, la scelta non è tra due persone,
ma tra il liberare e il non liberare Jehoshua ben Joseph. Pare dunque che Pilato, sentendo invocare “bar
Abba”, lo scambi per il “re dei
Giudei”, il quale - non
dimentichiamolo - si qualificava pure: “Figlio del Padre, Figlio di Dio, Figlio
dell’Uomo”, tutte formule, del resto, ebraiche.
Il popolo lì presente, anche per Marco
aizzato dai sacerdoti e dirigenti vari, vuole che “il re dei Giudei”, lì presente, venga crocifisso. L’assurdo, come in Matteo, è che Ebrei
insistano per infliggere una pena mortale non prevista dalla loro legge e si
appellino alla pena che i Romani prevedevano per i ribelli. Così, anche secondo Marco, Pilato libera questo fantomatico “bar
Abba”, pare anche in questa versione che non venga fatto vedere alla folla
(come sarebbe logico, se la plebaglia sanguinaria doveva scegliere tra i
due: sapevano distinguerli a vista? Non sembra); “bar Abba” esce
dunque di scena senza nemmeno ringraziare la follaccia e di lui non sappiamo
più nulla. Che Pilato fosse così sciocco
da liberare un probabile zelota, o perfino un “sicario”, non è credibile, se non forse come scambio di
persona tra due individui omonimi. Anche
Marco ignora l'invio ad Erode e passa alla descrizione dei maltrattamenti ed
irrisioni contro di lui. Marco conferma
pure l’intervento d’aiuto a cui un cittadino di Cirene, Simone, viene costretto
(anche qui stranamente, è lo stesso nome di Pietro, ma sembrerebbe che
nell'antico Israele non avessero granché fantasia nella scelta dei nomi),
ovvero il trasporto della croce. Per diminuire
le sofferenze del condannato, gli viene offerto del vino, rafforzato da spezie, ma Jehoshua lo rifiuta,
ovviamente per dare compimento alle profezie (il prima giustifica il dopo, che
a sua volta conferma il prima). I
dettagli coincidono quasi tutti con quelli di Matteo, salvo nel fatto che gli
altri due crocifissi, qualificati briganti, si uniscono al coro degli insolenti
(non c’è un brigante o ladrone “buono”, come in Matteo).
Durante l’agonia c’è - ovvio – un eclisse o oscuramento del Sole, e Jehoshua lancia quel grido del Salmo davidico:“Elì, Elì, lema sabactani?”. Seguono altre irrisioni, Jehoshua muore, si squarcia il velo del Tempio (quello che separava il sancta sanctorum dalla parte aperta al pubblico), ma non c’è un terremoto. Erano presenti Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo e di Joses (non la madre di Jehoshua ? ma occorre ricordare che lo stesso Giacomo era fratello di Jehoshua: dunque era o no presente Maria sua madre?), e infine Salome (vv. 6 – 40). Più altre donne anonime, ma numerose. Giuseppe d’Arimatea alla sera richiede a Pilato il corpo del crocifisso. Marco dice che era uno dei membri del Tribunale, ma credente nel trionfo del Regno di Dio. Approfittando che era la vigilia della festa (Pasqua) e che l’uso impediva di lasciare cadaveri appesi (i due ladroni erano ancora vivi? Non si sa), si fa concedere da Pilato il corpo. Pilato si meraviglia della già avvenuta morte. Le due Marie (delle quali nessuna sembrerebbe madre di Jehoshua, ma una è denominata come madre di Giacomo e (o?) di Joses) presenziano alla sepoltura. Altro fatto curioso è che le due Marie e Salome decidono di andare a comprare appena adesso profumi per il corpo di Gesù, ma come avrebbero fatto se la tomba era già chiusa (ed è quel che si chiedono, infatti: ma perché fanno una spesa che risulta doppiamente inutile, perché, chiusa così la tomba, come avrebbero potuto accedervi? E, una volta risorto e sparito il corpo, come avrebbero potuto profumarlo? Si tratta quindi di un dettaglio del tutto fuori luogo)? Anche qui tralasciamo la vicenda della resurrezione.
Durante l’agonia c’è - ovvio – un eclisse o oscuramento del Sole, e Jehoshua lancia quel grido del Salmo davidico:“Elì, Elì, lema sabactani?”. Seguono altre irrisioni, Jehoshua muore, si squarcia il velo del Tempio (quello che separava il sancta sanctorum dalla parte aperta al pubblico), ma non c’è un terremoto. Erano presenti Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo e di Joses (non la madre di Jehoshua ? ma occorre ricordare che lo stesso Giacomo era fratello di Jehoshua: dunque era o no presente Maria sua madre?), e infine Salome (vv. 6 – 40). Più altre donne anonime, ma numerose. Giuseppe d’Arimatea alla sera richiede a Pilato il corpo del crocifisso. Marco dice che era uno dei membri del Tribunale, ma credente nel trionfo del Regno di Dio. Approfittando che era la vigilia della festa (Pasqua) e che l’uso impediva di lasciare cadaveri appesi (i due ladroni erano ancora vivi? Non si sa), si fa concedere da Pilato il corpo. Pilato si meraviglia della già avvenuta morte. Le due Marie (delle quali nessuna sembrerebbe madre di Jehoshua, ma una è denominata come madre di Giacomo e (o?) di Joses) presenziano alla sepoltura. Altro fatto curioso è che le due Marie e Salome decidono di andare a comprare appena adesso profumi per il corpo di Gesù, ma come avrebbero fatto se la tomba era già chiusa (ed è quel che si chiedono, infatti: ma perché fanno una spesa che risulta doppiamente inutile, perché, chiusa così la tomba, come avrebbero potuto accedervi? E, una volta risorto e sparito il corpo, come avrebbero potuto profumarlo? Si tratta quindi di un dettaglio del tutto fuori luogo)? Anche qui tralasciamo la vicenda della resurrezione.
§ 3) Processo e condanna secondo Luca:
L’evangelista conferma le derisioni dopo la cattura, anzi chiarisce che a Jehoshua si fa quel gioco vile e cretino che chiamiamo “lo schiaffo del soldato”, dove uno viene bendato e deve riconoscere chi lo ha colpito. Si tratta di una variante della “mosca cieca”. Poi Luca dà una descrizione non uguale a quella dell’udienza nel Sanhedrin, che non avviene nella casa del sommo sacerdote, ma in una sede imprecisata, e vi manca la seduta notturna. L’udienza o interrogatorio avviene interamente di giorno:
L’evangelista conferma le derisioni dopo la cattura, anzi chiarisce che a Jehoshua si fa quel gioco vile e cretino che chiamiamo “lo schiaffo del soldato”, dove uno viene bendato e deve riconoscere chi lo ha colpito. Si tratta di una variante della “mosca cieca”. Poi Luca dà una descrizione non uguale a quella dell’udienza nel Sanhedrin, che non avviene nella casa del sommo sacerdote, ma in una sede imprecisata, e vi manca la seduta notturna. L’udienza o interrogatorio avviene interamente di giorno:
“Appena fu giorno, i capi del
popolo si riunirono insieme ai capi dei sacerdoti e ai maestri della
legge. Fecero condurre Gesù al Tribunale
ebraico e gli dissero: ‘Se tu sei il
messia promesso da Dio, dillo apertamente a noi’. Ma Gesù rispose: ‘Anche
se ve lo dico, voi non mi credete. Se invece vi faccio domande, voi non mi rispondete. Ma d’ora in avanti il
Figlio dell’Uomo starà accanto a Dio onnipotente’ [Jehoshua
allora, secondo Luca, non tacque quasi del tutto, ma rinfacciò ai giudici
e alle autorità ivi presenti di non saper rispondere alle sue domande]. Tutti allora domandarono: ‘Dunque, tu sei proprio il Figlio di Dio?’. Gesù rispose loro: ‘Voi stessi lo
dite! Io lo sono!’. I capi allora conclusero: ‘Ormai non abbiamo più bisogno di [altre] prove.
Noi stessi lo abbiamo udito direttamente dalla sua bocca…” (Cap. 22, vv. 63
– 71).
Accusato dal Sanhedrin di bestemmia, anche qui Luca conferma lo jato giuridico, dato che questi forsennati cambiano il capo d’accusa (su quale base e perché?), lo conducono da Pilato: "Quest’uomo noi lo abbiamo trovato mentre metteva in agitazione la nostra gente: non vuole che si paghino le tasse all’imperatore romano e pretende di essere il Messia-re promesso da Dio..." (Cap 23, vv. 1 – 2).
Come si vede Luca semplifica di parecchio la parte ebraica e religiosa del procedimento. Poi, col solito salto, lo presentano come un velleitario re, ribelle a Roma e al sistema fiscale vigente (faceva propaganda di evasione fiscale). Pilato gli chiede se è il re dei Giudei, e Jehoshua usa la formula ambigua. “Tu lo dici!”. Avendo così risposto, Pilato intende tutt'altro, ovvero che fosse una diceria non affermata dall'imputato, e si rivolge alla plebaglia dicendo che non trova motivi d’accusa (ma difficilmente gli imputati si riconoscono colpevoli dell’imputazione, e Pilato, che non era un magistrato fresco di laurea, lo sapeva perfettamente). Su che base, allora, lo considera “non colpevole”? Intanto il popolaccio continua ad attribuire a Jehoshua l’intenzione di creare disordini “politici”, prima in Galilea, poi nella stessa Giudea. Ma ecco un intermezzo del tutto assente nei precedenti evangelisti, il che è ben curioso:
“Quando Pilato udì quest’accusa, domandò se quell’uomo era galileo. Venne così a sapere che Gesù apparteneva al territorio governato da Erode [appare così un conflitto di giurisdizione per Pilato. Essendo l'accusato un Galileo, ritiene giusto “sbolognarsi” Jehoshua mandandolo dal re Erode, la cui competenza giudiziaria era in Galilea. La cosa era facile trovandosi - oh, quale combinazione! – Erode proprio a Gerusalemme, forse per la festività pasquale]. In quei giorni anche Erode si trovava a Gerusalemme. Perciò Pilato ordinò che Gesù fosse portato da lui.
Da molto tempo Erode desiderava vedere Gesù [infatti temeva che si trattasse di Jokanan risorto e voleva accertarsene, come risulta da descrizioni precedenti]. Di lui aveva sentito dire molte cose e sperava di vederlo fare qualche miracolo. Perciò, quando vide Gesù davanti a sé, Erode fu molto contento. Lo interrogò con insistenza, ma Gesù non gli rispose nulla. Intanto i capi dei sacerdoti e i maestri della legge…lo accusavano con rabbia [ma stavolta non si dicono le accuse precise: si presume che anche qui fossero “politiche” e facessero di Jehoshua un possibile avversario per Erode]. Anche Erode, insieme ai suoi soldati, insultò Gesù. Per scherzo gli mise addosso una veste d’effetto e lo rimandò da Pilato. Erode e Pilato erano sempre stati nemici…; quel giorno diventarono amici” (Cap. 23, vv. 6 - 12).
Perché Erode non lo fa uccidere, come aveva fatto con Jokanan? Ne aveva paura? Non sembrerebbe, visto che con Jokanan decise la morte con molti dubbi e timori. Qui invece si limita a deridere il tentato “re dei Giudei” [113], lo veste come un re per irrisione e con i suoi soldati se ne fa beffe, prima di rimandarlo da Pilato. Ciò implica alcuni dettagli diversi dalla tradizione di Matteo e di Marco, che attribuivano invece le beffe ai soldati romani. Questo andirivieni sarebbe incomprensibile, se non si badasse a certe forme giuridiche. C’è la questione giurisdizionale territoriale: seguire quella della provenienza dell’imputato (Galilea ?), o quella del “luogo del delitto”? Evidentemente, la parte presuntamente più violenta era avvenuta in Giudea, non in Galilea, dove tutto si era ridotto a miracoli e predicazioni. Erode, quindi, ritiene sia compito dei Romani, e non suo, quello di giustiziare, secondo le loro leggi, il presunto “ribelle”. Perciò Pilato si ritrova nelle mani la bollente questione. Per Erode, in sostanza, Jehoshua non rappresenta né motivo di paura, né motivo di pentimento: egli mantiene, semmai, maggior timore nei confronti dell’ormai defunto Jokanan. Ma l’esecuzione di quest’ultimo quanto tempo prima era avvenuta? E come mai, quantunque Jokanan appartenesse alla Giudea e vi agisse, venne fatto uccidere da Erode, competente solo per la Galilea? Non è forse possibile che i due processi e le due condanne vennero scambiate, sempre per ragioni di corrispondenza profetica? L’assenza di precise datazioni impedisce di capire se la fase processuale erodiana riguardasse, viceversa, lo stesso Jokanan, mescolata a quella di Jehoshua, oppure di un suo possibile seguace. Ma qui si vagherebbe in una ipotesi quasi del tutto astratta, nulla dicendo con chiarezza le fonti.
Rimandato Jehoshua da Pilato, costui riunisce ancora una volta i capi ed osserva:
“Voi mi avete presentato quest’uomo come uno che mette disordine fra il popolo. Ebbene, ho esaminato il suo caso pubblicamente davanti a voi. Voi lo accusate di molte colpe, ma io non lo trovo colpevole di nulla. Anche Erode è dello stesso parere [non esattamente, visto che lo aveva fatto vestire di porpora, sia pure per scherno, e lo aveva deriso. Erode rinvia Jehoshua non perché lo consideri innocente, perché allora lo avrebbe fatto liberare, ma perché lo processi Pilato]: tant'è vero che lo ha rimandato da noi senza condannarlo. Dunque, quest’uomo non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò lo farò frustare e poi lo lascerò libero...” (vv. 13 – 16).
Ben strano modo di considerare qualcuno “innocente”: se lo considerava tale, perché frustarlo o fustigarlo? Un modo per tener buona la follaccia o perché la pena inflitta era inferiore a quella richiesta? Luca conferma poi il fatto della grazia ad un prigioniero nella festa di Pasqua, che però attribuisce a Pilato come sua consuetudine, il che è storicamente controverso. Si alza il coro contrario di coloro che, viceversa, vogliono libero “bar Abba”: “Barabba era in prigione perché aveva preso parte a una sommossa di popolo in città e aveva ucciso un uomo…” (v. 19). Quando sarebbe avvenuta questa sommossa? Nessuno degli Evangelisti lo specifica: secondo tale versione, si tratterebbe quindi di uno Zelota o di un “Sicario”, cioè un appartenente a quei gruppi che agivano violentemente contro i Romani, ma di cui i quattro Vangeli ignorano di fatto l’esistenza, se non si trattasse di un solo discepolo, detto appunto “zelota”. Improvvisamente si parla di rivolta, come improvvisamente appare questo “bar Abba”, senza mai specificarne il nome che, tuttavia – lo si è visto - appare in una versione manoscritta come lo stesso di Jehoshua. Pilato insiste per liberare Jehoshua ben Joseph, la plebe e i suoi capi vogliono invece “bar Abba”. Ma le contraddizioni non mancano nemmeno in Luca. Nulla si dice del lavaggio delle mani. Pilato non farebbe eseguire la sentenza, accontenta la plebaglia, lascia libero “bar Abba” (anche qui mai fatto vedere sulla scena, nemmeno per ringraziare il popolo per la richiesta ed ottenimento della grazia), ma Jehoshua non viene ucciso dai soldati romani, ma abbandonato al popolo:
“…Avevano chiesto la liberazione di Barabba, quello che era sta messo in prigione per sommossa e omicidio, e Pilato lo liberò. Invece consegnò Gesù alla folla perché ne facessero quello che volevano...” (v. 25).
Ma che vuol dire? Praticamente li lascerebbe liberi tutti e due, solo che “bar Abba” viene acclamato o lasciato stare (ma non se ne dice nulla), l’altro invece giustiziato dal popolo, ma con una pena che non era ebraica. Anche qui è detto di Simone di Cirene che porta la croce al suo posto. Molta gente segue questa “via crucis”, non solo i giustizieri ma anche molte donne. Diversamente dai due Vangeli precedenti, che lo descrivevano sempre in silenzio, qui Jehoshua esorta le donne a non piangere per lui, perché Gerusalemme avrebbe avuto ben altre ragioni di pianto. Beate le donne sterili, perché non dovranno piangere per la morte dei loro figli! Con Jehoshua vanno alla crocifissione anche due “malfattori”, anche questi apparsi improvvisamente, ed egli chiede il perdono del Padre (ecco ancora questo riferimento ad “Abba”) per i suoi persecutori che “non sanno quello che fanno”. Come mai Pilato non aveva proposto per la grazia anche i due malfattori? Erano partecipi alla rivolta citata? Giunti al Golgota, i tre vengono ugualmente crocifissi, nel mezzo delle derisioni soprattutto per Jehoshua invitato a liberarsi. Sulla croce viene inchiodata anche la sintetica motivazione della sentenza: “Quest’uomo è il re dei Giudei”. Ma perché questa motivazione se, secondo Pilato, egli era del tutto innocente di tale accusa? La chiave di lettura è sempre l’Antico Testamento, e infatti Luca ricorda che il dargli da bere aceto per ulteriore scherno era stato previsto nelle Scritture. L’evangelista inserisce anche il breve dibattito tra i due “malfattori”, uno che incita Jehoshua a liberarli tutti e tre, l’altro invece ribatte: “Tu che stai subendo la stessa condanna, non hai proprio nessun timore di Dio? Per noi due è giusto scontare il castigo per ciò che abbiamo fatto, lui invece non ha fatto nulla di male…Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno” (vv. 39 - 42).
Chi conosce l’atroce supplizio della croce, per averlo letto descritto, sa che questo dialogo è del tutto irreale: i crocifissi, inchiodati o legati che fossero, morivano o dissanguati (come avvenne per Jehoshua), o soffocati dal loro stesso peso. Un tale supplizio, che era anche una tortura con lunga agonia, era prolungata dal fatto che il suppliziato aveva una specie di sostegno ai piedi per sollevarsi e respirare a fatica, aumentando però la sofferenza. Infatti, la fine si aveva quando i preposti alla morte spezzavano loro le ginocchia e il corpo quindi non poteva più far forza sulle gambe per respirare. La morte sopravveniva quindi per soffocamento. L’essere umano che noi, autoapologeticamente definiamo appunto “umano”, ha sempre studiato modi atroci di morte, e la crocifissione che univa pena di morte con contestuale tormento, non era certo il più pietoso, sebbene venisse dato anche un misto di vino e spezie per alleviare (?) le sofferenze atroci. Ora in queste orrende condizioni, un dialogo come quello descritto da Luca è inimmaginabile, mancando del tutto il respiro. Jehoshua comunque promette all'uomo di trovarsi insieme lo stesso giorno in Paradiso. Sappiamo tuttavia che egli, Jehoshua, fu il primo dei tre a morire, senza bisogno della rottura delle ossa, anche qui per confermare le antiche profezie, o più probabilmente perché meno resistente degli altri due. Ci fu quindi una sorta di eclisse, durata tre ore, dopo mezzogiorno. Qui Jehoshua non pronuncia il “Dio mio, perché mi hai abbandonato”, ma anzi: “Padre, a te affido la mia vita” (vv. 44 – 46). Un’altra incongruenza in Luca: dopo aver detto che Pilato lo aveva abbandonato alla folla (quindi, non alle guardie romane), ora però fa constatare la morte ad un ufficiale, per l’esattezza un centurione, il quale dice: “Egli era veramente un uomo giusto!” (v. 47). Molti dunque si allontanano, battendosi il petto per il dolore, però le donne e alcuni seguaci si mantengono a distanza. Anche qui la parte “storica” finisce con la richiesta da parte di Giuseppe d’Arimatea, membro del Sanhedrin ma di opposte convinzioni rispetto ai suoi colleghi, che si reca da Pilato e col motivo della festività ottiene il corpo di Jehoshua e lo seppellisce. Le donne di Galilea lo seguono e si preparano per curare il corpo con profumi. Qui Luca non dice subito che la tomba fosse chiusa, perciò appare ragionevole il desiderio delle donne di pulire e curare il corpo, ma dopo conferma che la pietra che chiudeva la tomba era stata poi trovata rimossa (vv. 50 – 56). Dunque l’incongruenza rimane. Una tale pietra era rimovibile da tre sole donne? Se non lo era, come potevano entrare in questa sorta di grotta artificiale (dice Luca che era stata scavata nella roccia) per pulire il corpo? E, riguardo a questo giudice fariseo così buono, perché non se ne era parlato durante il processo? Aveva taciuto per timore?
Una volta catturato, Jehoshua viene condotto dal sacerdote Anna, suocero del sommo sacerdote Caifa, già favorevole alla morte del prigioniero. Si interpone l’episodio del rinnegamento di Pietro che però è spiegabile con Giovanni, essendo Pietro l’autore della lesione provocata a Malco, servo del sacerdote. Ovviamente cerca di evitare di essere riconosciuto, ciò che nei Vangeli sinottici non era chiaro. Qui l’interrogatorio di Jehoshua non avviene nel silenzio, o quasi, dell’arrestato, che viceversa risponde con fierezza al sommo sacerdote:
“Intanto il sommo sacerdote cominciò a far domande a Gesù sui suoi discepoli e sul suo insegnamento. Ma Gesù rispose: ‘Io ho parlato chiaramente al mondo. Ho sempre insegnato nelle sinagoghe e nel Tempio, non ho mai parlato di nascosto, ma sempre in pubblico, in mezzo alla gente. Quindi, perché mi fai queste domande’, domanda a quelli che mi hanno ascoltato: essi sanno quello che ho detto’. Così parlò Gesù. Allora uno dei presenti gli diede uno schiaffo e disse: ‘Così rispondi al sommo sacerdote?’. Gesù replicò: ‘Se ho detto qualcosa di male, dimostralo; ma se ho detto la verità, perché mi dai uno schiaffo?’. Allora Anna lo mandò, legato com'era, dal sommo sacerdote Caifa”. (Cap. 18, vv. 19 – 24).
Stavolta è Giovanni a compiere un’incongruenza: quanti sommi sacerdoti vi erano? Se era Anna già sommo sacerdote, lo era anche Caifa? Oppure vi era un sommo sacerdote emerito e uno in attività? Si interpongono altre due rinnegamenti di Pietro, che così compiva la profezia di Jehoshua su di lui. Giovanni riprende poi la descrizione del processo, senza ulteriori spiegazioni (molto più sintetico degli altri tre evangelisti). Alla casa di Caifa pare non succedere altro che l’invio a Pilato: nulla vien detto su questa strana decisione. Se era accusato di bestemmia, di idolatria o di altro reato religioso, perché lo spediscono dal procuratore romano? Nemmeno Giovanni si dilunga in spiegazioni, ma si diffonde maggiormente sul battibecco tra Pilato e i capi ebraici:
“Poi portarono Gesù dal palazzo di Caifa a quello del governatore romano. Era l’alba. Quelli che lo accompagnarono non entrarono: per poter celebrare la festa di Pasqua non dovevano avere contatti con gente non ebrea [va ricordato a questo punto che intercorrevano due festività: quella settimanale del sabato, quando - secondo la Torah - non si doveva far nessun lavoro (ma allora non potevano aspettare il lunedì per portarlo, addirittura all'alba, al povero Pilato che probabilmente avrà trascorso la notte secondo l’uso romano in cene luculliane) e quella della Pasqua, il giorno successivo, che ricordava il passaggio del Mar Rosso e che, per i Cristiani, sarebbe diventata la celebrazione della Resurrezione. Ma siamo sempre allo stesso punto: occorreva spiegare i fatti con le profezie e provare il valore delle profezie con i fatti successivi. Di qui l’evidente forzatura nella narrazione]. Pilato uscì incontro a loro e disse: ‘Quale accusa portate contro quest’uomo?’. Gli risposero: ‘Se non era un malfattore, non te lo portavamo qui!’. Pilato replicò: ‘Portatelo via e giudicatelo voi come la vostra legge prescrive’. Ma le autorità ebraiche obiettarono: ‘noi non abbiamo l’autorizzazione a condannare a morte’ [il che era nettamente falso, basti pensare all'adultera e poi al supplizio di Stefano. Lo stesso Jehoshua aveva più volte rischiato di essere ucciso]. Così si realizzava quello che Gesù aveva detto… [il che spiega l’assurdità del procedimento. Occorreva si realizzasse la profezia, e quindi si adattano i fatti successivi alla stessa, che poi così viene dichiarata realizzata]. Poi Pilato rientrò nel palazzo, chiamò Gesù e gli chiese. ‘sei tu il re dei Giudei [domanda assai strana, visto che Giovanni non fa dire agli Ebrei perché lo avessero condotto là, ma solo che era un “malfattore”. Con Giovanni, anche di fronte a Pilato Jehoshua non tace affatto, ma ribatte frase per frase]?’. Gesù rispose: ‘Hai pensato tu questa domanda, o qualcuno ti ha detto questo di me?’. Pilato rispose. ‘ Non sono ebreo, io. Il tuo popolo e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto ?’. Gesù rispose: ‘Il mio regno non appartiene a questo mondo. Se il mio regno appartenesse a questo mondo, i miei servi [quali servi? gli apostoli o altre persone? Con dodici uomini è difficile conquistarsi un regno terreno o anche soltanto difendersi da gente armata] avrebbero combattuto per non farmi arrestare dalle autorità ebraiche. Ma il mio regno non appartiene a questo mondo’. Pilato gli disse di nuovo: ‘Insomma, sei un re, tu?’. Gesù rispose: ‘Tu dici che io sono re. Io sono nato e venuto nel mondo per essere un testimone della verità. Chi appartiene alla verità ascolta la mia voce’. Pilato disse a Gesù: ‘Ma che cos’è la verità?’”. (Cap. 18, vv. 12 – 14, vv. 19 – 24; vv. 28 - 38).
Certo, è difficile trovare tanta differenza tra un laico romano, forse scettico, e questo profeta ebreo che si vanta d’essere un inviato da Dio e, secondo Giovanni, Dio stesso. La descrizione della discussione tra i due, in Giovanni è più dettagliata ma non meno oscura. Intanto, Pilato rivolge una domanda che non era un tema d’accusa, almeno non esplicitamente. Le sue domande sembrano piuttosto basarsi su pettegolezzi circolanti in Gerusalemme nei giorni precedenti, su sue curiosità personali. Esce, dunque, davanti al popolo e dice di non trovare colpa in quell'uomo. Chiede dunque alla follaccia se volevano che lo liberasse secondo l’uso pasquale, ma anche qui appare improvvisamente, misteriosamente, irrazionalmente, “bar Abba”. Tra l’altro, come in Luca, non è che Pilato dica: “Volete Jehoshua ben Joseph o Jehoshua bar Abba”. No, lui chiede semplicemente un sì o un no alla liberazione di Jehoshua. E il popolo grida (Giovanni non dice che sia incitato dai dirigenti ebraici) “bar Abba”:“...‘Volete che vi liberi il re dei Giudei?’…ma quelli si misero a gridare e a dire: ‘No, non lui, vogliamo Barabba’ (questo Barabba era un bandito)” (vv. 39 – 40).
Pilato che fa? Vuole accontentare la folla senza far uccidere Jehoshua: perciò lo fa frustare; al che segue l’irrisione del manto rosso, schiaffi ed altre violenze. Anche in Giovanni è dunque assente la fase erodiana, pertanto segnalata solo da Luca. Pilato lo presenta alla folla col manto rosso, la testa circondata dalle spine, e dice la celebre frase: “Ecco l’uomo!”. Sembra faccia di tutto in modo errato, pensando di commuovere persone che, viceversa, peggio dei pescecani, si eccitano alla vista del sangue. I presenti gli chiedono, invece, di crocifiggerlo. E’ pure curioso perché, dichiarandolo non colpevole, i presenti non lo accusano di sedizione o rivolta contro i Romani, bensì del fatto che si proclamasse “Figlio di Dio”, ovvero che si trattasse di un bestemmiatore meritevole di morte, ma vogliono pure che tale morte sia inflitta all'uso dei romani, che della questione religiosa non si impicciavano per nulla. Abbiamo pur visto, poco prima, come con aria scettica chiedesse a Jehoshua che cosa fosse la verità. Segue poi una subdola minaccia da parte della follaccia: “Se liberi quest’uomo, non sei fedele all’imperatore. Chi si proclama re è nemico dell’imperatore”. Ora Pilato era preso in trappola: se liberava Jehoshua, correva il rischio di essere denunciato presso Tiberio per non aver condannato un ribelle, quindi dopo un ultimo vano tentativo di commuoverli, mostrando la figura sanguinante e martoriata di Jehoshua, dovette cedere e abbandonare il profeta ai suoi nemici (Cap. 19, vv. 1 - 16). Ma la questione non cessa: Pilato fa scrivere sulla croce la motivazione della condanna in forma sintetica: “Gesù Nazareno, re dei Giudei”. Gli ebrei circostanti protestano dicendo che egli non era loro re, bensì si spacciava come re. Ma stavolta Pilato è irremovibile e dice: “Quello che scritto, ho scritto”.
Giovanni non cita Simone di Cirene, ma sostiene che fu Jehoshua stesso a portarsi la croce fino al Gòlgota (Colle del Cranio). La crocifissione avviene tra i due ladroni, che però qui tacciono del tutto (ovviamente, per quanto si è sopra detto sul tipo di supplizio). Jehoshua, viceversa, parla; ma dice cose diverse, rispetto agli altri tre evangelisti. Non solo, ma Giovanni specifica pure di essere stato testimone oculare. Erano presenti la madre di Jehoshua, sua sorella (nel senso di figlia di Giuseppe, ma non di Maria, come detto negli Apocrifi, oppure zia di Jehoshua, ma questo non è chiaro), Maria di Clèofa e Maria di Magdala. Il condannato ha sete e gli viene offerta un spugna piena d’aceto: ma come faceva a bere quel liquido, tutt'altro che dissetante, con le braccia inchiodate?, un’altra irrisione? Ora, per Giovanni proclamatosi testimone oculare, Jehoshua non dice né il verso del salmo davidico, né chiede perdono per i nemici che lo irridono mentre agonizza, ma pronuncia la frase: “E’ compiuto”. Gli addetti al colpo di grazia passano di là, spezzano le ginocchia agli altri due, e constatano la morte di Jehoshua. Una delle guardie (romane? ebraiche? non è detto, ma hanno ancora una volta chiesto l’autorizzazione a Pilato) lo ferisce al costato e ne esce sangue ed acqua. Arrivarono dunque Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo (qui Giovanni specifica la loro comune assenza di vocazione al martirio, perché erano discepoli di Jehoshua, ma in incognito). E’ proprio Nicodemo a portare il vaso per profumare il corpo (dice Giovanni: come si vede i dettagli sono piuttosto diversi fra i quattro Evangelisti). Furono loro a trasportare lo straziato corpo del profeta in una tomba nuova posta in un giardino presso lo stesso Gòlgota. Anche qui si dice che la pietra che chiudeva l’accesso venne trovata spostata, ma non da tutte le donne, bensì solo da Maria di Màgdala (vv. 17 - 42; Cap. 20, v. 1). Lo strano è che i due seppellitori, evidentemente in un luogo provvisorio com'è specificato dallo stesso Giovanni, non riappaiono nella narrazione: il tutto appare alle donne e poi a Pietro e allo stesso Giovanni, che si qualifica “discepolo prediletto di Gesù”. Ma allora “Simone Pietro, che è la pietra sui cui si fonda la Chiesa”, che cos'era secondo Giovanni? Quante domande sarebbero quindi da porsi su questi eventi sul piano fattuale e non su quello miracoloso! Era evidente perché poi gli Ebrei accusassero i discepoli di aver trafugato il corpo di Jehoshua. Pare possibile che Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo, i seppellitori, data la loro ovvia paura, avessero agito in un momento successivo, nascondendo il corpo in un luogo più sicuro, approfittando della notte tra sabato e domenica, visto che di sabato tutti erano fermi, agendo in modo sacrilego e illegale per gli Ebrei, il che avrebbe comportato sanzioni durissime, se scoperti. Ma si tratta di una mia pura ipotesi. Dei due non si parla più. Nicodemo apparirà viceversa nel suo “Vangelo”, considerato apocrifo, “Le Memorie di Nicodemo”.
Si può ragionevolmente considerare che i quattro Vangeli, anche quelli chiamati “sinottici”, ossia paralleli, non appaiono né coincidere, né completarsi a vicenda. Molti punti sono diversi nei vari testi, il che comporta la loro natura radicalmente umana, non ispirata (è inimmaginabile che Dio riveli a ciascuno dei quattro cose diverse); non solo, ma si vede anche una certa stratificazione di cose aggiunte dopo o di parti tagliate. E’ emblematico nel processo, un momento essenziale della storia, che la fase erodiana sia narrata soltanto da Luca e che tutti concordino sul fantomatico “bar Abba” (Figlio del Padre!!) come di un malfattore, un bandito, un assassino, ma non se ne parli né prima, né ancor meno poi. Sappiamo del celebre film con Anthony Quinn, appunto “Barabba”, ma pare ispirato solo da un romanzo, e non da un qualche documento apocrifo antico, dove si nota che il delinquente alla fine portato nelle miniere di sale in Sardegna (???) si converte anche lui al Cristianesimo, una storia che poteva venire in mente solo agli Americani, noti per spiegarti che Gesù era anche sposato con Maria Maddalena, che aveva avuto figli e non si sa quali altre fantasie, appena appena collegate con qualche vago riferimento documentario. Dunque, se non fosse per quel Codice antico che ne riporta il nome “Jehoshua”, lo stesso di Cristo, non capiremmo nulla né di lui, né del suo misterioso apparire e sparire. Ma necessita esaminare gli Apocrifi e quanto si può ricavare dai testi ebraici a me disponibili.
“…Questo (Barabba), nel vangelo che è scritto secondo gli Ebrei, è interpretato ‘figlio del loro maestro’…” [115].
Questa parentesi in Gerolamo è breve, ma molto interessante perché presuppone un ben diverso significato dato sia al nome, sia alla persona del fantomatico Barabba. La distruzione di questi antichi testi, che tra l’altro non affermavano ancora la divinità di Gesù, ma il suo solo carattere messianico, impedisce di capire che cosa sia veramente successo alla conclusione della vita di Jehoshua, che si può ricostruire solo sulla base di inferenze ipotetiche, non potendosi credere alla realtà della tradizione a noi giunta.
“(23) Erode, Anna e Caifa contro Gesù. Nei giorni in cui Gesù aveva risuscitato Lazaro, dalla Galilea era giunta una personalità a trovare Erode a motivo dell’amministrazione delle terre di Filippo…accusato davanti all’imperatore. Carios dunque (inviato del) grande imperatore, uditi i miracoli che faceva Gesù... disse ad Erode - Costui è degno di essere fatto re di tutta la Giudea e di tutte le terre di Filippo.
(24) Quando Erode udì queste cose…ci rimase molto male e proferì delle grosse accuse verso Gesù ed aggiunse: - Non vogliamo che sia re della Giudea... [minaccia anche tutti di morte se sosterranno la proposta di questo inviato imperiale].
(25) Anna e Caifa, e personalità ebraiche andarono da Carios... e proferirono parole menzognere e testimonianze insensate e false contro Gesù, dalla sua nascita fino ad allora. Alcuni asserivano che era un mago, altri che era stato generato da una donna [come accusa sarebbe stata ridicola, da chi altri poteva nascere? probabilmente intendevano da donna nubile o di non degni costumi], altri che infrangeva il sabato, altri che distruggeva la sinagoga degli Ebrei. Allora egli mandò a chiamare Giuseppe e Nicodemo [sono i due soliti discepoli segreti di Jehoshua, piuttosto pusillanimi nei Vangeli canonici: qui però viene detto che davanti all'inviato imperiale difendono Jehoshua apertamente]; anch’essi facevano parte delle personalità ebraiche. Ma non furono d’accordo con le accuse menzognere, e dissero di Gesù delle parole di benedizione.
Giuseppe, Nicodemo, Erode e Gesù: Quando Erode seppe quanto era accaduto a proposito di Giuseppe e Nicodemo, li cacciò in prigione con l’intenzione di ucciderli...: e questo si sarebbe avverato se essi non avessero avvertito Carios di questa astuzia di Erode…” .
Carios, saputo dell’azione di Erode, minaccia la distruzione del suo regno. Ma Erode riesce a corromperlo con il molto oro che si fa dare dai sudditi e così sfugge alla punizione imperiale. Malgrado ciò, questo Carios invia l’evangelista Giovanni come informatore a Tiberio, il quale concede il regno a Jehoshua, ma egli preferisce rinunciarvi allontanandosi. Come si può ben capire, si tratta di versioni fantasiose, ma ciò che interessa rilevare è la tendenza a fare dei sacerdoti Anna e Caifa piuttosto che dei giudici di Jehoshua, dei complici di Erode contro di lui, esonerando viceversa tutti i Romani dalla sua condanna. In un’altra versione non appare questo Carios, ma lo stesso Pilato. Come si può constatare c’è un completo rovesciamento della narrazione canonica, in quanto l’essere re di Giudea non era motivo d’accusa, ma al contrario un titolo che i Romani avrebbero voluto concedere a Jehoshua :
“(3)…Le autorità di Tiberio, e con esse Pilato, tentarono una seconda volta per fare Gesù re. Pilato le approvò dicendo: - Con i miracoli e i prodigi che fa, quest’uomo merita veramente d’essere fatto re su tutta la Giudea…quest’uomo è buono e degno di essere fatto re…
(4) Ma Erode non poteva sopportare questo senza un sentimento di disprezzo verso Pilato. Disse: - Tu sei un Ponto, galileo, straniero, egiziano [curioso questo attribuirgli provenienze così diverse; un tantino ridicolo definirlo “egiziano”, visto che i Copti sono cristiani d’Egitto, discendenti dagli antichi Monofisiti, ovvero coloro che credevano nelle sola divinità di Jehoshua, all’opposto degli Ebioniti che lo volevano soltanto uomo]. Tu non sai nulla della legge [ebraica]. Tu non sei rimasto abbastanza ‘preside’ in questa città per conoscere le opere di quest’uomo…No! Non vi conviene che Gesù sia re sulla Giudea. - Fu allora che sorse inimicizia tra Pilato ed Erode a proposito di Gesù.
A proposito di Gesù si diffuse in tutta la Giudea... l’espressione: ‘Gesù, re degli Ebrei’. Pilato scrisse l’anafora su Gesù e sulla sua croce pose questa iscrizione: ‘Costui è Gesù, il re degli Ebrei’…
(6) Nostro Signore Gesù conosceva tutto ciò che si stava preparando contro di lui, e disse ai suoi discepoli: - Il diavolo ha preparato una coppa d’astuzia per farmi crocifiggere…Ora alzatevi, usciamo di qui, giacché Erode mi insegue per farmi morire…” [117].
Più avanti si parla di Giuda e si spiega come uno dei motivi del suo tradimento sia stato, più che il desiderio dei 30 denari d’argento, la volontà di non farsi scoprire come ladro sulla cassa del gruppo di apostoli. La sua istigatrice, paragonata ad Eva, è la moglie (evidentemente c’è molto anti-femminismo in questo), che lo incita a tradire. A lei consegna le monete. Jehoshua poi, durante una cena, essendoci da mangiare un gallo, che è considerato il Precursore del Sole, come Jokanan lo era del Messìa, lo fa risorgere e volar via. Qui Jehoshua annuncia la sua morte e resurrezione:
“(3)… - Ecco che è risuscitato l’uccello che tu hai immolato quattro ore fa. Io sarò crocifisso e il mio sangue sarà la salvezza delle nazioni…” [118].
Segue poi la versione dell’interrogatorio da parte di Pilato, prossima a quella di Giovanni, ma più ricca di dettagli:
“(7,1) Pilato difende Gesù... Gli domandò: - Donde sei tu e che dici di te? Ho combattuto e penato in tuo favore, ma non ho potuto salvarti. Se tu sei re degli Ebrei dillo a noi con fiducia. - Gesù rispose a Pilato. – Lo dici di tua iniziativa o sono altri che te lo hanno suggerito? - Pilato rispose: - Forse ch’io sono Ebreo? Il tuo popolo ti ha consegnato a me. Che hai fatto? - Gesù rispose: - Il mio regno non è di questo mondo. Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero… Ma il mio regno non è di questo mondo. – Pilato disse: - Dunque tu sei re?
(2) Gesù rispose: - Tu l’hai detto: lo sono! - Pilato gli disse: - Se tu sei re, la tua bocca mi indichi la verità sicché da te si allontanino queste sommosse e rivoluzioni [evidentemente qui Pilato viene rappresentato come perplesso sul fatto che il dichiararsi re, comporti anche insurrezioni contro Roma, come lo accusavano gli Ebrei] - Gli rispose: - La tua bocca confessa e afferma ch’io sono re. Per questo sono stato generato...: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è con me ascolta la mia voce [il che sarebbe ovvio e banale, se non si intendesse la “voce della verità”] - Pilato gli domandò: - Che cos’è la verità? - Gesù gli rispose: - Non hai visto che colui che parla con te è la verità? Non vedi, dalla sua faccia, che è stato generato dal Padre [ecco un altro richiamo al nome di “bar Abba”]? Dalle parole della sua bocca non comprendi che non viene da questo mondo?
(3) Sappi, dunque, mio Pilato che colui che tu giudichi è quello che giudicherà con giustizia il mondo intero. Le mani che tu afferri, o Pilato, ti hanno plasmato…” [119] .
In questa versione Jehoshua, coerentemente con le concezioni copte (monofisite), si proclama davanti a Pilato non un re umano di una parte della Terra, bensì Dio stesso, il creatore del mondo, colui che, plasmando l’uomo, ha plasmato anche ciascun suo discendente, Pilato compreso.
I frammenti che seguono, in parte sono ripetitivi, in parte privi della diretta descrizione della morte. Si arriva alla resurrezione senza narrare ciò che concerne l’esecuzione della condanna in parte descritta come una visione premonitoria. Jehoshua si proclama vittima sacrificale predestinata, proprio per la sua assoluta innocenza.
Vangelo di Pietro: Conferma nel processo la presenza di Erode, non solo in una sede a parte come in Luca, bensì insieme a Pilato e ai sacerdoti.
“(1.I) Nessuno però degli Ebrei si lavò le mani né Erode né alcuno dei giudici. Siccome essi non volevano lavarsi, Pilato si alzò. (2) Il re Erode, allora, ordinò di condurre via il Signore dicendo loro. – Fate quanto vi ho ordinato di fargli.
(2,3) Si trovava là Giuseppe [d’Arimatea], l’amico di Pilato e del Signore. E allorché vide che lo avrebbero crocifisso, andò da Pilato e gli chiese il corpo del Signore per la sepoltura.
(4) Pilato (lo) mandò da Erode e ne chiese il corpo.
(5) Erode disse: - Fratello Pilato, anche se nessuno lo avesse chiesto, lo avremmo seppellito noi; splende infatti il sabato. Poiché sta scritto nella legge: ‘Non tramonti il Sole sopra un ucciso!’…” [120] .
Nella nota i curatori correttamente specificano: “... Pilato ha qui poco più di una funzione rappresentativa; la condanna è opera di Erode, e le stesse sue parole si direbbero dirette agli Ebrei, non ai soldati romani di Pilato” [120].
Ovviamente, se le cose fossero state come questo Vangelo descrive ben più tardi dei fatti (forse uno dei primi tentativi di accordo tra i gruppi cristiani, non ebraici, e l’amministrazione politica romana, di addossare la colpa ai soli Ebrei), la condanna non sarebbe stata la crocifissione bensì la decapitazione (come con Jokanan) o la lapidazione (come con Stefano o nei tentativi verso Jehoshua stesso). Ciò che tuttavia è importante di questa presenza, è che essa faceva parte integrante delle narrazioni, conservata da Luca ed eliminata viceversa dagli altri (allo scopo, invece, di mantenere buoni rapporti con gli Ebrei, cristiani e tradizionalisti. Segue poi la narrazione del supplizio inferto a Jehoshua:
“(3,6) Preso il Signore, essi lo spingevano... dicevano: - trasciniamo il Figlio di Dio giacché abbiamo potere su di lui.
(7) Lo vestirono di porpora, lo fecero sedere sulla sedia curule [ecco un grossa svista: si attribuisce la condanna a Erode, nondimeno, invece di parlare di trono o simile, parlando di un mobile romano, ovvero il seggio curule che si usava per le istituzioni repubblicane in Roma, ovviamente ben più semplice ed egualitario di un trono], dicendo: - Giudica con giustizia, o re di Israele [notoriamente, dopo la morte di Salomone il regno ebraico si divise tra Israele e Giuda, ma gli estensori fanno completa confusione tra le due parti dell’antico Regno]! -.
(8) Uno di loro portò una corona di spine e la pose sul capo del Signore.
(9) Altri…gli sputavano sul volto, altri lo colpivano sulle guance...; alcuni lo flagellavano, dicendo: - Questo è l’onore che rendiamo al figlio di Dio.
(4,10) Condussero due malfattori e crocifissero il Signore in mezzo a loro. ma lui taceva quasi che non sentisse alcun dolore.
(11) Quando drizzarono la croce, vi scrissero: ‘Questo è il re di Israele’…
(13)…uno dei malfattori li rimproverò, dicendo: - Noi soffriamo così a causa delle azioni cattive che abbiamo commesso. Ma costui, divenuto salvatore degli uomini, che male vi ha fatto?
(14) Indignati contro di lui, ordinarono che non gli fossero spezzate le gambe e così morisse tra i tormenti [strano rovesciamento dei Vangeli, dove è a Jehoshua che risulta superfluo spezzare le ginocchia, in quanto già morto. Qui invece, per prolungare l'agonìa del malfattore “buono”, lo lasciano senza nessun colpo di grazia]...” [121].
Anche qui si parla di un'eclisse o alcunché del genere: a mezzogiorno il cielo si oscura e il buio dura tre ore. I circostanti pensano sia già giunta la notte e, per abbreviare la vita di Jehoshua gli dànno fiele e aceto. Ancora diversa è l’ultima frase che gli viene attribuita (questo probabilmente dipende da errori di trascrizione o di traduzione: “Forza mia, forza mia, mi hai abbandonato!”. Constatata la sua morte senza altri particolari, lo depongono, gli tolgono i chiodi e, in quel momento, la terra si scuote e si squarcia il velo del Tempio. Allora il Sole riappare. Il corpo viene lasciato al solito Giuseppe d’Arimatea, però scribi, Farisei ed anziani, esigono che sia posta una guardia davanti alla tomba, che qui viene detta di proprietà di Giuseppe e non quella semplicemente più vicina, e lo richiedono a Pilato, sospettando che il corpo venga trafugato. Pilato allora manda un centurione di nome Petronio (evidente riferimento al presunto autore del Vangelo) con i suoi soldati. Questi misero all'ingresso una enorme pietra con ben sette sigilli (il numero è simbolico: i sette sigilli si ritrovano nell’Apocalisse di Giovanni). Stavolta appaiono due angeli, i quali agevolmente spostano il macigno. Qui la descrizione è quasi “realistica”. Vedono uscire due uomini reggendo un terzo, ovvero lo stesso Jehoshua, qualcosa del genere di quando si esce da una camera di rianimazione (personale esperienza). Però le dimensioni dei tre vengono alquanto esagerate, perché i due “infermieri” arrivavano al cielo e il trasportato addirittura oltre. I Romani a quella vista straordinaria riconoscono che Jehoshua era Figlio di Dio e Pilato si ri-proclama innocente del sangue di Jehoshua. Non si sa bene perché non dicono nulla agli Ebrei... per timore di essere lapidati? I Romani? Più tardi appaiono le donne che vorrebbero pregare presso la tomba di Jehoshua, ma come nei Vangeli canonici si preoccupano delle dimensioni della pietra messa dai Romani. Quando arrivano vedono un giovane (non due) risplendente, che le avvisa della resurrezione, ma quelle, ovviamente, a vedere il tutto e a sentire l’annuncio della resurrezione scappano impaurite [122].
Molto più interessanti, relativamente al processo sono le “Memorie di Nicodemo”, l’altro discepolo in incognito che avrebbe aiutato Giuseppe nel trasporto e nella pulizia del corpo del crocifisso. Ne esistono varie versioni, non granché dissimili. Alcune di queste sono in greco, altre in latino, altre in siriaco, armeno e copto (egiziano pre-arabo). Tali documenti vengono anche chiamati “Atti di Pilato”, in quanto si riteneva (ad esempio da Tertulliano, secondo quanto riportano i curatori) che Pilato avesse scritto una relazione all'imperatore ed in certa misura si cercava di ricostruirla più o meno fedelmente, con una metodologia che resterà tipica fino al Medioevo, ovvero creare un documento credibilmente autentico, anche se poi all'analisi filologica risultava falso. Come per la questione delle profezie, ci si voleva attenere non ad una realtà storica, ma piuttosto alla realtà religiosa “divina”. Mi limito a citare la prima di tali versioni, o quanto eventualmente di diverso nelle successive. Pare che l’ultima di queste risalisse addirittura all'età carolingia, ovviamente in latino:
“PROLOGO. Io Ananìa, protettore, ufficiale pretoriano [nome ebraico per un militare romano!], versato nella legge, avvicinatomi con cuore fedele alle Sacre Scritture riconobbi che Gesù Cristo è il nostro Signore, e fui ritenuto degno del santo battesimo. Indagando sulle memorie dei fatti accaduti… e su quanto fu divulgato per scritto dagli Ebrei su Ponzio Pilato, trovai queste memorie scritte in lingua ebraica e, per volontà di Dio, le tradussi in lingua greca... era l’anno diciassettesimo del regno del Signore nostro Flavio Teodosio e il quinto del nobilissimo Flavio Valentiniano [il testo quindi viene dichiaratamente collocato alla metà circa del secolo V, alla vigilia del crollo dell’Impero d’Occidente e coincide sommariamente con l’epoca in cui Teodosio II e Valentiniano stabilirono con il citato Editto la distruzione di tutte le opere pseudo-cristiane o anticristiane]…“Nell'anno quindicesimo del regno di Tiberio Cesare..., l’anno diciannovesimo di Erode figlio di Erode, re della Galilea, nell'ottavo giorno prima delle calende di aprile [proverbialmente si sa che i Greci non calcolavano in “calende”: dire “alle calende greche” significa rinviare all’infinito]…, mentre era sommo sacerdote degli Ebrei, Giuseppe figlio di Caifa. Quanto Nicodemo scrisse…a proposito della croce e della passione del Signore nostro Gesù Cristo…e passò ai sommi sacerdoti e agli altri Ebrei - Nicodemo però scrisse in lingua ebraica – suona circa così:
(1,1) Accuse delle autorità ebraiche. I sommi sacerdoti e scribi, Anna e Caifa, Seme, Datae, e Gamaliele, Giuda, Levi e Neftali, Alessandro e Giairo e gli altri Ebrei tennero consiglio e andarono da Pilato ad accusare Gesù di molte azioni malvagie, dicendo: - Sappiamo che è figlio del falegname Giuseppe e di Maria [il che implicava una nascita legittima, a differenza di altre versioni ebraiche, riportate come si è visto da Celso], ma egli afferma di essere figlio di Dio e re; non solo, ma vìola il sabato e dissolve la legge…Domandò Pilato: Che cosa fa dunque, che cos’è che vuole distruggere? - Risposero gli Ebrei: - Noi abbiamo una legge che ci proibisce di guarire qualsiasi persona nel giorno di sabato. Ma costui ha guarito, maliziosamente, nel giorno di sabato, zoppi, sordi, impotenti, paralitici, ciechi, lebbrosi e indemoniati [praticamente portava via lavoro a tutti i medici della zona]. Pilato domandò: In che modo, maliziosamente?…in nome di Beelzebub scaccia i demoni e gli sono soggette tutte le cose. – Pilato disse loro: - Lo scacciare i demoni non è un’azione di spirito immondo, ma della potenza del dio Esculapio.
(2) Gesù sul sudario del cursore. Gli Ebrei gli dissero: - Preghiamo la tua grandezza di ordinare che comparisca davanti al tuo tribunale. - Ma Pilato li chiamò e disse loro: - Come posso, io che sono un governatore, esaminare un re? - Essi gli risposero: - Noi non diciamo che egli sia re, bensì è lui che lo afferma di se stesso. Pilato allora chiamò un cursore e gli disse: - Mi sia condotto qui Gesù, ma con gentilezza…” [123].
E’ da notare come questo testo documenti l’avvenuto accordo tra Cristianesimo ed Impero, anzi il fatto che l’intero Impero, nelle sue due parti orientale ed occidentale, è divenuto ormai completamente cristiano. Quindi si addossano ai soli Ebrei le colpe e le menzogne che portarono alla crocifissione di Jehoshua. Addirittura Pilato ordina al capo delle guardie di condurre “con gentilezza” l’uomo da lui (ma chi lo aveva nel frattempo? gli Ebrei o già i Romani? Dall'ordine dato sembrerebbero appunto i Romani). Segue poi una serie di fatti strani, se non miracolosi. Il cursore riconosce Jehoshua e lo adora (!!), stende per terra un sudario (?, sarebbe semmai stato un mantello, non un sudario per i morti) e dice a Jehoshua di camminarvi sopra. Gli Ebrei se ne lamentano presso Pilato, che è così costretto a richiamare il cursore perché spiegasse il gesto. Il cursore risponde che lo ha fatto perché qualche giorno prima i fanciulli lo avevano acclamato. Gli Ebrei obiettano che l’uomo non sapeva l’ebraico, ma la guardia ribatte di aver saputo il senso delle acclamazioni da altri Ebrei: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”. Gli Ebrei sono quindi ridotti al silenzio. Poi, come entra nel Palazzo di Pilato, addirittura i vessilli romani si inchinano davanti a Jehoshua. Di nuovo gli Ebrei protestano (qui si sorvola sul fatto, ben sottolineato da Giuseppe Flavio, che gli Ebrei ritenevano sacrileghi i vessilli ed altri simboli romani tanto da far rivolte contro di questi), perché accusano le guardie di averli intenzionalmente piegati in avanti. Pilato allora fa portare in sua presenza questi segnali, minacciando i soldati di tagliar loro le mani, se li avesse visti inchinare i vessilli. Tuttavia, quando Jehoshua entra, i vessilli si piegano da soli per la seconda volta (il significato simbolico è evidente: i simboli del potere imperiale si inchinano ormai davanti ai rappresentanti della Chiesa cristiana).
Intanto Procula, moglie di Pilato, lo sconsiglia di occuparsi di questo processo; lo dice ai sacerdoti che però ribattono riferendosi alla potenza magica dell’arrestato. Pilato allora lo interroga e questo gli ribatte che ognuno a parole può dire ciò che preferisce, ma ne è il solo responsabile. Gli Ebrei allora lo accusano di essere nato da fornicazione (come se la colpa fosse stata sua di questo fatto); inoltre lo accusano che, per causa sua, erano stati uccisi molti bambini (la strage degli innocenti, ordinata da Erode il Grande); poi, che la fuga in Egitto era dovuta all’ostilità del popolo contro Giuseppe e Maria: evidentemente tutti fatti che non potevano essere imputati a un neonato. Altri, viceversa, ne ammettono la nascita legittima. Tutto questo serve in certa misura a ripercorre la vita di Jehoshua stesso. Pilato osserva che i nemici di Jehoshua sono stati smentiti, ma questi ribattono che i testimoni favorevoli sono falsi, in quanto Greci convertiti e non autentici Ebrei. I testimoni a discarico, vedi la combinazione, erano dodici e affermano di essere Ebrei autentici, non convertiti e di essere stati presenti alle nozze di Giuseppe e Maria. Pregati di giurare, questi ribadirono che era vietato dalla loro legge (Jehoshua infatti diceva: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no: il di più viene dal maligno” proprio relativamente al giuramento. E pensare che l’attuale presidente degli USA non solo giura sulla Bibbia, ma giura cose condannate dalla Bibbia stessa: una vera conoscenza della Bibbia stessa!!).
Anna e Caifa, allora, di fronte alle contestazioni di Pilato, ribattono che egli crede a soli dodici persone, e non alla restante popolazione che grida contro Jehoshua, il quale era nato da fornicazione. Interrogati ancora i dodici testimoni, Pilato si convince dell’innocenza dell’accusato e nella malafede di Anna e Caifa, che odiano Jehoshua in quanto compiva opere buone di sabato [124]. Pilato, allora, dopo averlo considerato innocente delle colpe ascrittegli, riprende l’interrogatorio di Jehoshua:
“(2) Il Regno di Gesù. Pilato…chiamò Gesù in disparte e gli disse. - Sei tu il re degli Ebrei? - Gesù rispose a Pilato, dicendo: - Tu dici questa cosa da te, o te l’hanno detta altri di me? - Rispose Pilato: Sono, forse, io un Ebreo? La tua nazione e i sacerdoti ti hanno consegnato a me, che hai fatto? - Gesù rispose: - Il mio regno non è di questo mondo…Pilato allora gli domandò: - Allora, sei tu re? - Gesù rispose: Tu dici che io sono re. Per questo sono nato e sono venuto, affinché chiunque è della verità ascolti la mia voce. Pilato gli domandò: - Che cos’è la verità?… - La verità è dal cielo. - Pilato disse: - Non c’è verità sulla terra? - … - Tu vedi come quelli che dicono la verità, sono giudicati da coloro che hanno autorità sulla terra…” [125].
Come è facile verificare qui lo pseudo-Ananìa copia anche parti del Vangelo di Giovanni, ma arricchendolo di particolari. Di nuovo Pilato dichiara agli Ebrei di non vedere colpevolezza nell'uomo, ma gli Ebrei ribadiscono che minaccia di abbattere il Tempio e ricostruirlo in tre giorni. Pilato non vuole farlo uccidere, si arrangino loro stessi e questi gridano che il sangue di Jehoshua ricada su di loro. Non trova motivi per la legge romana di condannarlo. Allora i presenti gli chiedono se secondo tale legge, vi sia la pena di morte per chi bestemmia Cesare. Pilato lo conferma. Allora gli Ebrei, sul comune denominatore della bestemmia (contro un “Dio”), esigono la pena di morte per Jehoshua, in quanto bestemmiava la loro Divinità [126]. Si arriva così al nodo giuridico della questione, nel quale si nota come queste narrazioni vogliano necessariamente attribuire ai soli Ebrei la volontà di morte verso Jehoshua, malgrado poi richiedano qualcosa che non apparteneva alla loro tradizione penale:
“(3) Angoscia di Pilato. Allora il procuratore ordinò che tutti gli Ebrei uscissero dal pretorio, chiamò a sé Gesù e gli disse: - Che debbo fare io di te? - Gesù gli rispose: - Fa’ come ti è stato dato! - Pilato gli rispose: - Come è stato? - Mosè e i profeti predissero la mia morte e resurrezione – disse Gesù. Degli Ebrei che si erano nascosti, udirono e dissero a Pilato: - Hai bisogno ancora di udire un’altra bestemmia? - Se questa parola è blasfema - disse Pilato - prendetelo per questa sua bestemmia, portatelo nella vostra sinagoga e giudicatelo secondo la vostra legge. - Gli Ebrei risposero: Nella nostra legge c’è che se uno pecca contro un altro uomo è reo di quaranta fustigate, meno una; ma se bestemmia contro Dio, deve essere ucciso con la lapidazione.
(4) Disse loro Pilato: Prendetelo voi e punitelo a modo vostro! - Vogliamo che sia crocifisso - dissero gli Ebrei - Non è reo della morte in croce – disse Pilato…” [127].
La lapidazione è confermata quale pena, insieme alla decapitazione, per motivi di natura religiosa (sacrilegio, bestemmia) anche nel “Talmùd”. Dunque perché tanta insistenza affinché Pilato lo faccia crocifiggere? Non potevano certamente temere che egli poi li punisse per un omicidio illegale, visto che Pilato consente loro di lapidarlo. Ma la motivazione non sta nella cattiveria degli Ebrei, bensì solo per far corrispondere le profezie sul Messia con la morte di Jehoshua. Seguono ulteriori testimonianze, sia a favore sia contro, perché a differenza dei Vangeli canonici qui si vuol dimostrare che si trattò di un processo vero e proprio. Pilato osserva che nella moltitudine presente, vi erano non pochi che piangevano per la sorte di Jehoshua. Gli Ebrei invece confermano di volere tutti questa condanna, dato che egli pretendeva di essere Figlio di Dio e re. Qui Nicodemo, il protagonista delle “Memorie”, stavolta si dimostra coraggioso e ricorda i suoi miracoli perfino in Egitto, retto - a dire dell’estensore - ancora dai Faraoni (si vede quanto poco conoscessero la storia di quel tempo, quei pretesi “contemporanei”!). Segue un battibecco tra Nicodemo, accusato di seguire Jehoshua tradendo la fede paterna, e gli Ebrei. Interviene anche Pilato, chiaramente simpatizzante per Jehoshua, ma ciò non fa che irritare ulteriormente gli Ebrei nemici dell’imputato. Si succedono le testimonianze del bene compiuto da Jehoshua, i suoi miracoli. Varie persone lo proclamano profeta. L’ultimo tentativo di Pilato è di fargli ottenere la grazia, attraverso una sorta di appello al popolo. E, anche qui, viene posta la scelta tra Jehoshua ben Joseph e Jehoshua bar Abba. La folla esige, tuttavia, la liberazione di bar Abba e la crocifissione del figlio di Giuseppe. Sorge ulteriore contrasto, perché Pilato ricorda agli accusatori che gli Ebrei trattarono sempre male i propri benefattori e snocciola qualche dato mal digerito di storia ebraica. Allora essi ricordano a Pilato che fu Erode (il padre dell’attuale) a compiere la strage degli innocenti. Quando Pilato viene a saperlo, con questo stupidissimo argomento (che semmai doveva ritorcersi contro gli Ebrei), alla fine decide per la crocifissione. Così è talmente distorta la narrazione che il Romano, invece di adirarsi contro gli Ebrei per una simile pretesa (tanto più illogica visto che l’Erode della strage era il padre dell’attuale Antipa), si rassegna e si lava le mani, dichiarandosi puro del sangue innocente: “Vedetevela voi”, sostiene, ma tuttavia emette la sentenza di condanna, non per le bestemmie, ma per le pretese a “re” di Jehoshua. Non solo lo condanna, ma afferma che sarà crocifisso con i due malfattori, di cui dice (nei Vangeli canonici non sono riportati) pure i nomi: Disma e Gesta (in altre versioni, vengono in parte modificati, secondo - presumo - le varie lingue delle tradizioni antiche, o per errore di trascrizione).
Le descrizioni dell’esecuzione del supplizio grosso modo si conciliano con quelle canoniche; manca Simone di Cirene, si specifica che il malfattore “buono” era Disma, a cui Jehoshua promette il Paradiso nel giorno stesso. Poi spira con la frase. “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”. C’è un eclisse di sole, ma a Pilato, spaventato dal fenomeno insieme a Procula, la moglie, gli Ebrei danno una lezione di astronomia, rivelando che si tratta di un semplice fenomeno naturale (dato che si parla di “eclisse”, dovrebbe essere facile agli astronomi moderni individuare anche il giorno esatto della morte di Jehoshua, ma pare che nessuno l’abbia fatto, basando piuttosto il calcolo sul calendario tradizionale ebraico, di tipo lunare, il 14 del mese di Nisan).
La storia non finisce qui. Giuseppe d’Arimatea ottiene da Pilato di poter togliere il corpo alla croce e lo seppellisce in un’apposita tomba rupestre. Gli Ebrei accusano Giuseppe e Nicodemo di averlo tolto dalla croce e promettono di uccidere Giuseppe appena trascorso il sabato, lasciandolo in pasto ai corvi (ma dopo il sabato ci sarebbe stata la Pasqua, e non verrebbero potuto farlo comunque). Imprigionatolo, miracolosamente Giuseppe d’Arimatea viene liberato nella notte (ricorda le liberazioni di Pietro negli “Atti degli Apostoli”), e gli Ebrei che si apprestavano al processo per condannarlo (e come mai questa volta non si rivolgono a Pilato stesso, ma agiscono per conto proprio? un’incongruenza che la dice lunga sulla veridicità di tali narrazioni), restano scornati e non osano più cercare di catturarlo. Le guardie vengono però interrogate e parlano dell’arrivo di un angelo che dialogava con donne che esse (guardie) non conoscevano. Gli Ebrei chiedono loro perché non hanno catturato le donne, ma le guardie riconoscono di essere morte di paura. Vi è poi un’indagine sulla resurrezione di Jehoshua e la sua apparizione sul monte Mamilch (nella nota 14.1, il curatore spiega le varie forme di questo nome, che avrebbero a che fare col culto fenicio del dio Moloch - quello che richiedeva il sacrificio dei primogeniti - oppure col Monte degli Ulivi [128]). Seguono ancora indagini e dibattiti, non trovano Jehoshua, bensì Giuseppe d’Arimatea, e ne sembrano contenti. L’incontro avviene in casa di Nicodemo con l’intero tribunale del Sanhedrin, dove vi sono pure i nemici di Jehoshua, Anna e Caifa, che implorano Giuseppe di spiegare come fu liberato. Giuseppe risponde che venne liberato da Jehoshua stesso. Credendolo un fantasma, recitò i Comandamenti convinto che i fantasmi si dissolvono sentendoli: invece Jehoshua li pronunciò insieme a lui. Lo crede allora Elìa risorto (secondo l’antica profezia sul Messia), ma l’interlocutore nega di essere Elìa, lo porta alla tomba e finalmente Giuseppe si convince che si tratti di Jehoshua crocifisso. In queste Memorie gli Ebrei, già prima nemici, sembrano sempre più propensi a convertirsi nella fede verso il Risorto. Seguono ulteriori testimonianze tutte a favore di tale resurrezione, così alla fine anche Anna e Caifa sembrano convertirsi con tutto il popolo.
L’interesse di questa narrazione, nelle sue varie versioni, deriva proprio dal fatto che alla fine gli Ebrei sembrano tutti convertirsi nella nuova fede e, nell'attuazione delle Sacre Profezie, proprio in Jehoshua. Ciò suggerisce l’idea che si tratti di un estremo tentativo di concordare Ebraismo mosaistico e la nuova religione, evitandone quel contrasto che, viceversa, sappiamo esistere tuttora, malgrado tentativi di conciliazione più verbale che concettuale, anche se la Chiesa Cattolica, forse ispirandosi a queste narrazioni, con Giovanni Paolo II ha rinunciato alla millenaria accusa di “deicidio” [129].
Tra questi pseudo-documenti, vi sono inserite pure lettere di Pilato all'imperatore Tiberio, oppure a Caligola, Claudio, Nerone, segno di una notevole confusione dell’epoca storica della morte di Jehoshua. In taluni casi si arriva a Vespasiano e Tito. Lo scopo di tali testi è di convincere molti Cristiani che gli imperatori del I secolo d. C. erano tutti favorevoli alla fede nell'immagine deistica o miracolosa di Jehoshua, mentre i loro subordinati lo erano, in taluni casi, molto meno. Si cercava così di tenersi buona l’autorità imperiale, in altri di favorire un reciproco riconoscimento delle due Istituzioni, la Chiesa e l’Impero. Ciò serviva pure come strumento di conversione dei non Ebrei (Goijm o Gentili) alla religione cristiana, sottolineando che essi non erano contrari all’Impero e al dominio romano. Nelle “Memorie di Nicodemo” è inserita una lettera di Pilato all'imperatore Claudio, qualificato come “re di Roma” (!!!). Il procuratore si giustifica della condanna di Jehoshua, che egli ora riconosce come Inviato di Dio per realizzare le profezie ebraiche, accusando le autorità sacerdotali:
“…faceva molti altri segni miracolosi, tutto il popolo ebraico [è interessante notare come si cercasse anche di scagionare gli Ebrei dal “deicidio”]; ma i principi dei sacerdoti, presi da invidia contro di lui, lo catturarono e me lo consegnarono... dissero che costui era un mago e agiva contro la legge.
(3) Io credetti che le cose fossero così e fattolo flagellare, lo consegnai al loro arbitrio [ciò coincide con certe versioni canoniche, ma è contraddetto dal tipo di pena e, comunque, dalla presenza di guardie romane o al loro servizio]. Essi lo crocifissero e quando fu sepolto gli posero le guardie. Ma, mentre i miei soldati [si noti anche qui la contraddizione: dice che sono i sacerdoti a porre guardie, poi però parla di “miei” soldati], nel terzo giorno egli risorse.
(4) L’iniquità degli Ebrei però si accanì a tal punto da dare denaro ai miei soldati, dicendo: - Dite che i suoi discepoli hanno rapito il suo corpo…” [130].
A quanto pare i “suoi” soldati intascano i soldi, ma confermano la “resurrezione”. Così Pilato avverte l’imperatore Claudio di non credere agli Ebrei, ma ai Cristiani. Storicamente, come ben testimonia Svetonio, Claudio non vedeva per niente bene né Cristiani, né Ebrei, confusi tra l’altro con le varie religioni misteriche di origine orientale. E’ interessante notare come in questi testi, salvo il richiamo al padre di Erode, lo sterminatore di fanciulli, non si richiami - viceversa - un eventuale processo o interrogatorio da Erode Antipa, il re satellite dei Romani. Luca sembra l’unico a narrare qualcosa del genere.
Esiste pure, di derivazione etiopica, il Vangelo di Gamaliele, personaggio che appare negli “Atti degli Apostoli” quando sconsiglia i suoi colleghi del Sanhedrin a perseguitare i Cristiani, sostenendo che, se sono sostenuti da Dio, nulla potranno fare contro di loro; altrimenti spariranno, come tanti altri in quel tempo, da sé [131]. Ovviamente, a parte i casi di omonimia tutt'altro che rari, va tenuto conto che queste denominazioni non corrispondono quasi mai al personaggio descritto nei testi canonici, ma si tratta di attribuzioni per ragioni di prestigio. Si parte dal lamento che Maria avrebbe fatto del rinnegamento di Pietro. Giovanni, apostolo ed evangelista, la conforta. Attorno alla croce c’erano altre donne: una Giovanna (probabile confusione con Giovanni stesso, ma citata altrove), Maria Maddalena e Salome. Viceversa altre donne rimproverano Maria, madre di Jehoshua, di essere stata causa col figlio della morte dei suoi coetanei. Poi la narrazione retrocede spiegando come lì fossero anche i soldati di Erode. Ancora una volta Pilato viene scagionato, in quanto gli estensori lo credevano se non credente, perlomeno fiducioso nell’innocenza di Jehoshua, e arrivano a dire che non manda suoi soldati, per evitare lo scontro con quelli ebraici. C’è un’assenza del senso del ridicolo in questo testo, ove si dice:
“(31) Pilato e sua moglie amavano infatti Gesù come se stessi. Egli lo aveva fatto flagellare [a noi tutti è noto che far flagellare qualcuno è un segno d’amore !], per compiacere i cattivi Ebrei, ed il loro cuore si disponesse più favorevolmente e lo lasciassero andare senza condannarlo a morte.
(32) Anche se Pilato avesse saputo che avrebbero appeso alla croce lui con la moglie e i figli qualora non lo avesse consegnato a loro e non lo avesse dato a morte, mai avrebbe teso la mano contro di lui.
(33) Con l’inganno avevano fatto credere a Pilato: - Se tu punirai quest’uomo ostinato…, noi non ci occuperemo dopo più di lui e lo ripudieremo…” [132].
Poco mancava che lo facessero
santo: san Ponzio non starebbe neppure
male. Insomma, se avesse saputo che i
perfidi sacerdoti e gli uomini di Erode lo avrebbero crocifisso, avrebbe
preferito farsi crocifiggere lui con la sua intera sua famiglia. A tanto può
arrivare un fanatismo anti-ebraico? La
flagellazione, che non era costituita da carezze, ma da colpi di strisce di
pelle rafforzate da punte metalliche, che strappavano letteralmente la pelle
del condannato, era un pietoso tentativo di impietosire i cattivi sacerdoti! Manca una parte, poi il testo
continua con Jehoshua già in croce, il terremoto, l’eclisse e i lamenti dei
circostanti. Dopo aver parlato della
perfidia degli Ebrei, però si aggiunge :
“(53) Tutto il popolo dei fedeli lo pianse all’unanimità mentre era ancora sulla croce.” [133].
Qui si dà spazio alla responsabilità di Erode in questa morte, ma senza parlare almeno di un’udienza giudiziaria presso di lui: probabilmente si vuole sostenere che i terrori del padre Erode il Grande, genocida di fanciulli, si trasmettono al figlio Antipa, considerato corresponsabile di quella crocifissione. Pilato convoca i sacerdoti: c’è un battibecco in cui i sacerdoti si giustificano dicendo di aver applicato la legge. Pilato vorrebbe addirittura destituire il sommo sacerdote, ma questo -confidando in Erode - gli ribatte che non è di sua competenza. Pilato arriva addirittura ad aggredire Caifa frustandolo e strappandogli la barba. Poi lo fa arrestare (addirittura!!!). Pilato ordina di togliere il corpo dalla croce, ma solo Giuseppe d’Arimatea si offre per la sepoltura. Qui perfino la legge del sabato e della festa pasquale viene stravolta, perché gli Ebrei insistono a lasciarlo sulla croce, temendone la resurrezione. Maria, madre di Jehoshua, viene avvisata della sepoltura grazie a Giuseppe e a Nicodemo, che qui viene appena nominato. Si racconta ancora dell’opera di corruzione, da parte dei sacerdoti, della “resurrezione” di Jehoshua. C’è l’apparizione di Jehoshua alla madre che piange per non averne visto il corpo. Il Risorto la conforta e, secondo altra versione, si svela. Qui le guardie accusano Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo di aver trafugato il corpo (più che trafugato, è probabile che i due lo avessero trasferito altrove nella notte, onde evitare che i latri lo facessero sparire, ma naturalmente questa mia è un’illazione. Qui la narrazione è tutta miracolistica e sovrannaturale). Si presenta pure Pilato che piange abbracciando le bende. Seguono discussioni sull'odore delle bende che profumano: Pilato grida al miracolo, ma le guardie ebraiche si limitano a dire del profumo portato da Giuseppe e Nicodemo. Altri, invece, si riferiscono all'intervento di Beelzebub, altri ancora alla stregoneria. Tanto per arricchire la scena appare nella tomba rupestre perfino il ladrone, quello “buono” risorto anche lui. Chi l’avesse messo dentro la stessa tomba, non si sa, in quanto prima si era detto che i due ladroni erano ancora appesi alla croce. La storia poi si conclude con l’attestazione di Gamaliele (che si dice figlio di Giuseppe d’Arimatea, quindi non quello degli “Atti degli Apostoli”) che Pilato con le bende di Jehoshua risorto torna in città e fa distruggere per rappresaglia la sinagoga e il palazzo del sommo sacerdote [134].
Alle versioni di Nicodemo e di Gamaliele, segue il Vangelo di Giuseppe d’Arimatea. Secondo una tradizione medioevale, a cui forse si ricollegano certi romanzacci americani, questo Giuseppe d’Arimatea andò, insieme a Maria Maddalena, in Francia, in Spagna e in Inghilterra: un bel viaggio; e pensare che allora non c’era il TAV! Questo pseudo-Giuseppe, anche lui anti-ebraico, riprende disordinatamente la parte processuale della vita di Jehoshua, che deve rispondere ad Anna e Caifa davanti al Sanhedrin delle solite accuse sulla distruzione del Tempio, viene messa di mezzo la figlia di Caifa (di cui non si parla altrove) che vuole far morire Jehoshua per celebrare la Pasqua mentre alcuni volevano bruciare lei (che confusione!, un “femminicidio” ante litteram); poi si parla del tradimento e dell’accusa di Giuda contro Jehoshua. Si descrivono nei particolari i due “malfattori”. Il peggiore (Gesta) aveva assassinato viandanti, aveva ucciso madri appendendole e tagliando loro i seni (!!!), bevuto il sangue dei bambini (una sorta di Barbablù e del Mostro di Duesseldorf unificati!); l’altro, Dema (alias Disma), era un galileo, albergatore (!!!), ospitava i ricchi, ma faceva pure il bene dei poveri, seppelliva i poveri, ma derubava i ricchi Ebrei (un anticipo del bandito inglese Robin Hood), tra cui la figlia di Caifa. Insomma, alla fin fine un buon uomo. Qui si crea un vero romanzo giallo, perché Giuda propone agli Ebrei addirittura di accusare Jehoshua del furto in casa della figlia di Caifa. Nicodemo protesta per la falsità, ma poi gli altri Ebrei – su proposta della moglie di Caifa “Sarra” (oltre che antisemita, questo testo è pure anti-femminista), si decide di arrestare Jehoshua a causa del Tempio da distruggere e ricostruire. Qui Jehoshua non risponde mai agli accusatori. Di Pilato non si parla mai, salvo all'inizio (dove l’autore dice di avergli chiesto la deposizione del corpo). Dei due ladroni, il cattivo Gesta accusa Jehoshua di essere addirittura una”bestia feroce” (da che pulpito!!!: era quello che succhiava sangue ai bambini!!!). Invece, il buon Dema riconosce la purezza di Jehoshua e lo prega di salvargli l’anima. Jehoshua promette che egli sarà in Paradiso, mentre tutti gli Ebrei precipiteranno all'inferno. Dopo la resurrezione, Jehoshua addirittura legge una lettera mandata dai Cherubini (un ordine di angeli) [135].
A queste storie un tantino truculente, segue il Ciclo di Pilato. Si tratta di una serie di scritti, ovviamente non autentici, che tentano di descrivere le ipotetiche giustificazioni che l’ex-procuratore tenta di fare all’imperatore Tiberio. Siamo sempre in un periodo in cui almeno una parte dei Cristiani del tempo tenta accordi con l’Impero e le sue Autorità, discolpandole dal “deicidio”, la cui responsabilità alcuni addebitano soltanto agli Ebrei, altri anche a Pilato (su cui fioriscono leggende: o che alla fine si uccidesse annegandosi nel fiume o con un coltello, o che venisse fatto giustiziare dallo stesso imperatore Tiberio) che vien fatto passare per un credente in Jehoshua e nella sua miracolosa natura. La molteplicità delle conclusioni sulla vita di Pilato dimostrano che si tratta di storie radicalmente inventate, a monito di tutti coloro che non credono in Jehoshua e nella sua natura e missione speciali. A dire il vero Pilato era un personaggio del tutto secondario, dipinto in modo assai diverso da Giuseppe Flavio (ossia come un deciso nemico degli Ebrei e loro oppressore), ma senza che se ne narri la morte. E' facile capire che per l’Impero Romano, l’intera Palestina e i suoi problemi religiosi erano certo una spina fastidiosa, ma periferica e non certo mortale, che trovava ben maggiori pericoli nelle popolazioni germaniche e negli Imperi partico e persiano in Asia.
Quello che a noi può interessare qui, si riferisce al processo contro Jehoshua, così come descritto da questi testi. Nel primo, “Lettere tra Pilato ed Erode”, si legge:
“Pilato governatore di Gerusalemmte, al tetrarca Erode, salute!
(1) Non fu una buona azione quella che, per tua istigazione, feci allorché gli Ebrei mi condussero Gesù, detto Cristo. Dopo essere stato crocifisso, nel terzo giorno risuscitò dai morti…
(3) Mia moglie Procla dando credito a sogni..., mentre io per tua istigazione lo stavo mandando alla crocifissione, mi lasciò con dieci soldati e con il fedele centurione Longino per contemplare le sue sembianze…
Erode, tetrarca dei galilei, a Ponzio Pilato, governatore degli Ebrei, salute!
(1) E' con non poca tristezza che scrivo queste cose. Mia figlia Erodiade, ch’io amavo ardentmente, è morta giocando vicino all’acqua…
(2) Io poi sono andato incontro a molti mali dopo che ho udito che tu hai vilipeso questo Gesù, ed altro non desidero che andare a vederlo, adorarlo e ascoltare qualcosa dalle ue labbra: ho compiuto in verità molto male contro di lui e contro Giovanni Battista, e non ricevo che quanto mi merito. Mio padre, a causa di Gesù, ricoprì la terra con il sangue di bambini altrui; ed io a mia volta ho decollato Giovanni il battezzatore.
(3) I giudizi di Dio sono giusti poiché ognuno riceve la ricompensa in conformità dei suoi desideri. E siccome a te è dato vedere di nuovo l’uomo Gesù, sforzati in mio favore e intercedi per me…” [136].
Così, da questo testo, si ricava che Pilato dice di aver agito su istigazione di Erode, ma incolpa anche gli Ebrei. Vi sono alcune imprecisione nei titoli dati a Pilato che diventa prima “governatore di Gerusalemme”, poi “governatore degli Ebrei”, intesi come abitanti della sola Giudea. Si fa anche di Pilato un miracolato e benedetto da Jehoshua dopo la resurrezione (il che è difficile da credere). Anche Erode è un “pentito”. Sua figlia, erroneamente chiamata Erodiade (in realtà si trattava di Salome, figliastra di Erode, e della moglie Erodiade, ma teoricamente potrebbe trattarsi di omonimia vista la scarsa fantasia nella scelta dei nomi, o come patronimico, la quale, secondo questa leggenda, sarebbe caduta nell'acqua ghiacciata (ghiacciata? in Palestina?) e alla madre, nel tentativo di tenerla per i capelli sarebbe rimasto in mano solo il capo, una sorta di contrappasso per la decapitazione di Jokanan, a cui lo stesso Erode fa riferimento. Erode, punito duramente (infatti morrà invaso dai vermi -questo lo narra anche Giuseppe Flavio), cerca di farsi raccomandare da Pilato stesso presso Jehoshua risorto. Insomma, coloro che fecero morire Jehoshua cercarono miseramente di risparmiarsi problemi futuri. Seguono lettere tra l’imperatore Tiberio e Pilato, sempre sulla morte di Jehoshua:
Ponzio Pilato a Tiberio Cesare imperatore, salute!
(1) Gesù Cristo, del quale ti scrissi recentemente, è stato ucciso contro la mia volontà. Mai s’era visto un uomo così pio e austero, né più si vedrà. Ebbe del meraviglioso la tensione del suo popolo e il consenso di tutti gli scribi, principi e anziani sicché - nonostante le controverse testimonianze dei loro profeti, delle Sibille diremmo noi - questo ambasciatore della verità fu crocifisso. Mentre egli pendeva dalla croce apparvero segni soprannaturali che, a parere dei filosofi [addirittura?, e quali?], minacciavano la rovina del mondo.
(2) Restano i suoi discepoli che con le sue opere e con la vita temperante non smentiscono il loro maestro, anzi - nel suo nome - sono generosissimi. Se io non avessi temuto una sedizione del popolo, già incandescente, forse quest’uomo sarebbe ancora vivo tra noi…” [137] .
Pilato teme il castigo per l’iniqua condanna, si contraddice perché afferma prima che tutti apprezzavano Jehoshua, poi aggiunge che temeva una rivolta da parte del popolo già “incandescente”, se lo avesse lasciato vivo. Cerca di giustificarsi comunque dicendo che così era predestinato dalle Scritture. Tiberio invece gli esprime la sua severa ostilità :
Lettera di Tiberio a Pilato.
(1) Contestazioni di Cesare Augusto [Tiberio usa il linguaggio tecnico degli avvocati, certo non in uso a quel tempo] mandate a Ponzio Pilato governatore della provincia orientale. Egli scrisse la sentenza di suo pugno e la mandò per mezzo del messaggero Raab [strano nome per un Romano!] al quale aveva dato duemila soldati.
(2) Avendo tu osato condannare a morte Gesù Nazareno in un modo violento e totalmente ingiusto ed ancor prima della sentenza condannatoria avendolo tu consegnato nelle mani degli insaziabili e furiosi Ebrei, non avendo tu avuto compassione di questo giusto, gli desti una canna [per non fraintenderci col linguaggio moderno, si deve intendere quel tubo o simile che portava in cima la spugna intrisa d’aceto per “dissetare” il crocifisso] e l’hai sottoposto ad una orribile sentenza e al tormento della flagellazione e, senza alcuna colpa da parte sua, l’hai consegnato al supplizio della crocifissione, non senza aver ricevuto dei regali per la sua morte; avendo tu manifestato sì della compassione, con le parole, ma con il cuore l’hai affiancato a un Ebreo senza legge [dunque, non a due ladroni, ma ad uno soltanto]: per tutto questo dunque, tu stesso sarai condotto in mia presenza carico di catene…” [138] .
In queste fantasiose narrazioni si
verifica uno straordinario grado di odio, non solo verso gli uccisori di
Jehoshua, ma per l’intero popolo ebraico. Dunque, Tiberio ordina non solo di catturare gli uccisori di Jehoshua,
ma fa sterminare tutti gli Ebrei (confusione con eventi successivi della
distruzione di Gerusalemme), fa catturare Filippo ed Archelao (fratelli di
Erode Antipa che nulla c’entravano con la morte di Jehoshua, stante la stessa
narrazione), nonché i sommi sacerdoti Anna e Caifa. Quest'ultimo morirebbe violentemente a Creta per ignota ragione, ma per la sua sepoltura occorre lapidarne il
corpo perché la terra si rifiuta di riceverlo. Anna, portato a Roma, verrebbe
chiuso in una pelle di bue lasciata seccare; il che, restringendosi, ne farebbe
addirittura esplodere le viscere (mahh???!!!); Pilato verrebbe condannato, ma si ucciderebbe con un coltellino. In altra versione morirebbe
decapitato e anche la moglie Procla, vedendo su di lui un angelo, morirebbe
felice e contenta. Ovviamente si trattava di sogni allucinatori di chi scriveva
queste frottole, manifestando così
caratteri di alta e sadica vendicatività. Di tutta questa spuria documentazione, qui interessa rilevare come nel
Cristianesimo si fossero costituite varie versioni sui responsabili della morte
di Jehoshua, con maggior propensione per accanirsi sugli Ebrei che,
relativamente a crocifissioni, non
c’entravano per nulla. Tra
l’altro va pure affermato che, proprio per il loro severo culto dei
formalismi, i Farisei, e gli Ebrei in
generale, avevano formulato procedure giudiziarie forse anche più rigorose di
quelle romane, né si vede perché avrebbero dovuto violarle. Nelle varie narrazioni cristiane, sia
canoniche, sia apocrife, appare la grave
contraddizione, più volte segnalata, che essendo Jehoshua da loro accusato
essenzialmente di bestemmia e di sacrilegio, venisse lasciato nelle mani dei Romani,
mentre viceversa si vede sia per la fine di Jokanan., sia soprattutto
negli “Atti degli Apostoli” certamente più rispettosi della realtà
storica, almeno sotto questo aspetto (tralascio ovviamente le solite vicende
miracolistiche che in un lavoro storico non possono essere prese in
considerazione se non per segnalarne gli aspetti contraddittori), che quando
volevano processare e condannare qualcuno lo facevano senza bisogno di far
intervenire le Autorità romane. E - come si è detto all'inizio - proprio Giuseppe Flavio parla di uno
Jehoshua, vissuto dopo, quando viene richiesto da parte ebraica l’intervento
dei Romani al procuratore Albino.
Ora, a conclusione del presente Capitolo, cito lo studioso Cohen dal suo commento/epitome del Talmùd, ove descrive il processo secondo norme tratte dalla Torah mosaica.
Quanto al formalismo giuridico ed alla complessità procedurale, va ricordato che l’antico Israele non era per nulla inferiore a quello romano. Il nostro Diritto penale, attraverso il Diritto canonico della Chiesa Cattolica, ha ricevuto non pochi princìpi ed usanze [139]. Verso la fine dell’Impero Romano d’Occidente (V secolo d. C.) era nota una raccolta comparata di leggi nota col nome “Lex Dei, sive Mosaicarum et Romanarum legum collatio” (Legge di Dio, ovvero Raccolta di Leggi Mosaiche e Romane), la quale opera, se non altro, aveva una funzione di comparazione tra i due sistemi giuridici, importante nel momento in cui la cultura cristiana, di derivazione ebraica, e quella laica e romana si fondevano. Si potrebbe anzi dire che, esaminando sia la parte giuridica dell’Esodo, sia il Deuteronomio, gli antichi Ebrei avevano codificato le loro leggi in forma rigorosamente sintetica, ma al tempo stesso relativamente dettagliata e sistematica, ben più di quanto avessero fatto gli antichi Romani. Eccoci dunque, all'importante lavoro di sintesi di Cohen, già citato per il sistema delle pene:
X - LA GIURISPRUDENZA.
a) DIRITTO PENALE, PROCEDURA CIVILE E PENALE.
1. I Tribunali
Secondo i dati del Talmud, al tempo della distruzione del Tempio e dello Stato, esisteva un sistema organico di tribunali giudiziari in tutto il territorio di Israel, per decidere controversie di pratica religiosa, per giudicare i trasgressori della legge, per comporre le liti…l’estrema antichità del sistema giudiziario ebraico è, evidentemente, indimostrabile, sebbene sia adombrata in Deut. XVI, 18. Ci troviamo su un terreno più solido quando si parla della Corte Suprema, conosciuta sotto il nome di Grande Sanhedrin…Nella lettera di Artaserse [Re dei Re, persiano, successore di Dario e di Serse, fra il V e il IV secolo a. C.], fra i vari ordini figurava il seguente: ‘E tu, Ezra [profeta ebraico], secondo la sapienza del tuo Dio che è in tua mano, nomina magistrati e giudici, che giudichino tutto il popolo che è al di là del fiume, tutti coloro che conoscono le leggi del tuo dio, e fatele conoscere a chi non le conosce’ (Ezra, VII, 25).
Con ogni probabilità la Keneseth Haghedolah fu il prototipo del Consiglio Supremo che più tardi legiferò per il popolo e giudicò i delitti di maggiore importanza…” [140] .
Il Cohen fa poi riferimento ad alcune controverse sui reali poteri di questo Sanhedrin, se fosse Organo politico o giudiziario, ma è ben noto che una precisa distinzione delle tre funzioni del potere risale a Locke prima e soprattutto a Montesquieu, per cui nulla di strano che nell'antichità esistessero Organi con poteri molteplici, così nell'antica Grecia, come in Roma o in Israele. L’Autore altresì specifica che nella sola Gerusalemme vi erano tre Tribunali, dei quali la Corte Suprema (quella presumibilmente che giudicò Jehoshua) risiedeva “nell’aula delle pietre tagliate (Tosita Sanh., VII, I).
Possiamo da questa relazione dedurre che esistevano tre gradi di tribunali; uno composto di tre membri [altro che i nostri tribunali dove in primo grado vi è un solo giudice, già pretore, poi giudice monocratico: si cambia il nome per lasciare la sostanza!], il secondo di ventitrè, il terzo di settantuno. In tutti i tribunali ciascun membro funzionava tanto da giudice che da giuria. Loro principale compito era di dare informazioni su questioni di pratica religiosa; trattavano tuttavia anche cause civili e penali” [141].
Dunque appare evidente che la giurisdizione su questioni religiose (violazione della Torah, eresie, insubordinazioni), apparteneva a tali Organi, e non venivano rinviate al potere politico romano. Già questo spiega come un’accusa di bestemmia o di eresia, delle quali poteva essere stato accusato Jehoshua, non fossero di competenza del potere romano. Il caso del suo successore ed omonimo, all'inizio della Guerra Giudaica, poteva esser spiegato molto semplicemente col motivo per cui la predicazione della rovina di Gerusalemme, in tempo di pace, potesse essere considerata un fatto di natura politica o di ordine pubblico e non di religione. Questo spiegherebbe il rinvìo al procuratore Albino, come descritto da Giuseppe Flavio. Il Cohen parla dell’esistenza di un Sanhedrin politico, in mano prevalentemente ai Sadducei, e di un Sanhedrin religioso (che è quello che ci interessa). Ma probabilmente, stante anche la descrizione che se ne ha negli”Atti degli Apostoli”, parlando del processo e del martirio di Stefano, l’Organo era sempre lo stesso, ma con ambedue le funzioni. Ora osserviamo quanto viene specificato:
“…Quanto al Sanhedrin religioso i suoi poteri erano di grande responsabilità. ‘Una tribù (che si sia data all’idolatria), un falso profeta, un Sommo Sacerdote possono venir giudicati soltanto da un tribunale di settantuno [ovvero il Tribunale Supremo. L’alto numero di membri era una non indifferente garanzia per l’imputato, collettivo o individuale che fosse]. Una guerra volontaria può venire iniziata solo se decisa da un tribunale di settantuno…; esso nomina il Sanhedrin (di ventitrè) per le tribù (cfr. Deut., XVI, 18) e pronuncia la condanna contro la città che si è resa colpevole di idolatria (ibid., XIII, 13 e sgg)…” [142].
Segue una dettagliata descrizione di tale Tribunale, che sedeva su banchi semicircolari (all’incirca come gli odierni parlamenti). Prevedeva un numero legale di almeno 23 membri su 71. Si citano controversie di natura religiosa con i discepoli di Shammai e di Hillel (profeti veri o presunti). Fra i compiti di questo Sanhedrin vi era anche quello di determinare la discendenza familiare regolare di qualcuno: questo dunque spiega anche le ragioni portate avanti dagli Ebrei, probabilmente in possesso di una certa anagrafe, sulla legittimità della nascita di Jehoshua, che fu una delle critiche portate avanti anche da Celso sul Cristo evangelico. Si specifica anche che l’autorità di questo Tribunale fu messa in crisi dal generale romano Gabinio già nel I secolo a. C, dividendo la Giudea in cinque distretti con cinque diversi consigli. Si dice così pure che il Grande Sanhedrin fu più volte spostato, anche fuori Gerusalemme. Seguono poi varie norme penali, spettanti al Tribunale di secondo grado (quello con 23 membri). Chi avesse avuto rapporti sessuali con animali doveva essere lapidato, insieme alla povera bestia che aveva subìto l’atto [143].
Seguiamo ora la procedura abbastanza interessante e complessa:
2 - Giudici e Testimoni.
Vigevano regole severissime per
determinare se i giudici, particolarmente quelli dei tribunali superiori,
possedessero le qualità necessarie all'esercizio del loro alto ufficio.‘Tutti gli israeliti sono idonei a giudicare nelle cause civili; ma le cause penali possono venir giudicate
solo da sacerdoti, leviti e israeliti che possono dare le loro figli in
matrimonio a sacerdoti [si presume sia per una legittima discendenza, sia
per la morigeratezza della vita personale] ‘(Sanh. IV, 2), cioè di pura
discendenza ebraica. Quanto ai
convertiti, la legge stabilisce: ‘Al proselita è concesso dalla Torah di
giudicare un altro proselita (tanto in cause penali che civili); e, nel caso che la madre fosse ebrea, può
giudicare anche un israelita’ (Jeb., 102 a)…” [144].
Per capire la controversia sulla legittimità della nascita di Jehoshua, va ricordato che la discendenza tra gli Ebrei seguiva la linea della madre, non del padre: uno strano residuo matriarcale in una società patriarcale. Questo tramandare dalla madre ai figli rendeva più complessa, risalendo nel tempo, l’individuazione dei genitori maschi e perciò la difficoltà di sapere se un uomo era figlio di un matrimonio regolare, oppure di madre nubile. Ecco perché, se la madre era ebrea, un convertito all’ebraismo poteva giudicare un israelita, anche se fosse stato figlio di uno straniero. Che la società ebraica fosse patriarcale, e non matriarcale malgrado questo fatto anagrafico, lo si dimostra dalla regola per cui le donne non potevano né testimoniare né, ancor meno, giudicare. Di qui lo “scandalo” cristiano dove sono le donne a testimoniare la resurrezione di Jehoshua o altri eventi miracolosi. Sarebbe bastato questo, se non altre vertenze ancora, a far considerare Jehoshua un pericoloso rivoluzionario. Vi sono cose poi curiose, in quanto il giudice ideale doveva essere alto, saggio, di aspetto imponente (quindi anche con voce maestosa), di età matura ed esperto di arti magiche, nonché conoscitore di settanta lingue (!!!: e poi si parla oggi di globalizzazione!!!). Ciò che colpisce è la questione della magia: nel testo di Cohen non è chiaro se intende che sapesse praticare da sé arti magiche (il che era vietato dalla Torah), o se sapesse riconoscerle quando venivano praticate, onde poterle giudicare e condannare. Erano inoltre sconsigliati per la funzione di giudice i vecchi, gli eunuchi, uomini senza figli e uomini non pietosi.
I giudici non venivano pagati (ma è già nell’Antico Testamento la condanna per quei giudici, evidentemente non rari, che si facevano corrompere). Il giudice doveva essere circospetto nel giudizio e non doveva essere anche avvocato. Durante il dibattito ambedue le parti dovevano essere considerate colpevoli, mentre in camera di consiglio dovevano essere considerate ambedue innocenti. Occorreva circospezione nell'ascoltare i testimoni, non favorendo le loro eventuali menzogne (si allude quindi al rifiuto verso procedure “suggestive”). In tempi nei quali non esisteva una scientificità delle prove, era essenziale l’attendibilità dei testimoni (questo è confermato anche egli stessi Vangeli, in quanto molti venivano ascoltati). Il rifiuto a testimoniare, potendolo, pur non essendo legalmente perseguibile, veniva considerato atto irreligioso. Il testimone doveva essere di costumi irreprensibili e del tutto disinteressato alla causa in questione. Non erano considerati testimoni affidabili i giocatori, gli usurai, gli scommettitori e i commercianti di prodotti dell’anno sabbatico (si presume i produttori alimentari di cose speciali, ma non si capisce se per rarità del cibo o perché di quello specifico anno che celebra il sabato, la festa, il riposo); inoltre non potevano testimoniare i funzionari tirannici, i pastori, i pubblicani, i ladri, gli estorsori. Neppure i minorenni e coloro che si facevano pagare per la testimonianza. Così pure i parenti fino ad un certo grado, il testimone unico (una regola oggi troppo spesso dimenticata, eppure fondamentale!) soprattutto per reati passibili di morte. Il testimone doveva essere oculare (altra cosa vergognosamente ignorata da certa giurisprudenza attuale!!!). Merita qui citare il testo:
“…Ecco un esempio di deposizione considerata inaccettabile: ‘Vedemmo l’accusato con una spada in mano inseguire un uomo; l’inseguito, per sfuggirgli, si rifugiò in una bottega e l’accusato vi entrò dopo di lui; vedemmo poi l’uomo ucciso e la spada grondante sangue in mano all'uccisore’ (Tosifta Sanh., VIII, 3). Per conseguenza nessuna accusa poteva venir sostenuta se due testimoni degni di fede non avevano veduto perpetrare il delitto…” [145].
In sostanza, soltanto due testimonianze concordi dovevano riguardare non solo il fatto anteriore e successivo, bensì l’atto dell’uccidere, ovvero - nel caso citato - l’uomo colpire con la spada la vittima provocandone la morte. Due indizi, pur significativi, non costituivano così la prova determinante. Perché? Perché la scena poteva riguardare una minaccia prima, poi un fatto non necessariamente collegato con la minaccia: in tempi nei quali non si poteva analizzare il sangue della vittima sulla spada e le impronte del colpevole, la successione dei due fatti poteva pure far supporre il delitto, ma non esserne prova determinante. Uno scrupolo che potrebbe sembrare eccessivo (chi altri allora avrebbe potuto uccidere la vittima, se non vi erano altre persone oltre la vittima e il suo inseguitore armato?), eppure una regola che ricorda quella romana: “In dubio, pro reo”. Non sempre apparenza e realtà coincidono. La falsa testimonianza poi va punita per le sue eventuali o reali conseguenze: se ne deriva un reato che implica la pena di morte, il falso testimone viene punito con la morte.
Interessanti anche le formalità nel processo, dove si nota quel gusto delle apparenze, che Jehoshua tanto criticava come vuoto formalismo, soprattutto ai Farisei:
3. Il Processo.
"Era stretto dovere dei giudici trattare le due parti in causa con assoluta equanimità. ‘E’ dovere di ambedue i litiganti stare in piedi durante il processo. Se i giudici vogliono concedere ai due di sedere, possono farlo; ma è proibito far sedere uno soltanto, sì che uno sieda e l’altro stia in piedi. Non è permesso lasciar parlare uno a lungo e dire all’altro di essere breve’ (Shebuoth, 30 a)…” [146] .
Si tratta di un egualitarismo che deve evitare apparenze di trattamenti di favore, piuttosto che l’assoluta negazione di questi. Così, se tra i due contendenti uno è colto e l’altro è ignorante, devono venire insieme per non sembrare che il primo abbia già predisposto le decisioni dei giudici, oppure riguardo all’eleganza degli abiti, sia il povero che il ricco devono essere vestiti in modo di poco diverso.
“La procedura civile è diversa da quella penale. Ecco quali sono le principali differenze. ‘In ambedue i casi si deve procedere per inchiesta [noi diremmo con rito accusatorio] e per contraddittorio. Si applicano, però, le seguenti differenze: Le cause civili sono giudicate da un tribunale di tre; quelle penali da un tribunale di ventitrè; le cause penali possono aprirsi solo con la difesa; nelle cause penali la maggioranza di uno assolve [se c’è un solo voto in più, quindi su 23, 11 + 1 non bastano alla condanna], mentre per condannare è necessaria la maggioranza di due [su 23, 11 + 2]; …nelle cause penali possono rivedere la sentenza per assolvere, non per condannare [ovvero, la sentenza favorevole all’accusato è inappellabile]; nelle cause penali possono presentare argomenti per l’assoluzione, non per la condanna; nelle cause penali il giudice che ha presentato argomenti per la condanna può in seguito presentarne per l’assoluzione, ma chi ne ha presentati per l’assoluzione non può ritrattarsi e presentarne per la condanna; le cause penali possono venir concluse il giorno stesso, purché il verdetto non sia di condanna, se il verdetto è di condanna, il giorno seguente. Per tal ragione (i processi penali) non si discutono la vigilia del shabbath e delle feste [il che avrebbe impedito il processo a Jehoshua proprio in giorni prefestivi. Potrebbe darsi che fosse per questa ragione il rinvio al procuratore romano, che non aveva tali problemi di calendario? Ma in quel caso avrebbero appunto dovuto cambiare motivazione per ottenere una rapida condanna?Se i Vangeli ci spiegassero una tale motivazione, potremmo allora capire lo scambio delle accuse, da religiose (non di competenza dei Romani) a politiche. Tuttavia, nulla allora avrebbero potuto fare in caso di assoluzione da parte romana verso chi ai Romani non risultava aver fatto nulla di violento. Ad ogni modo i Vangeli non citano affatto una tale possibilità: non spiegano la ragione del rinvio a Pilato];…nelle cause penali incominciano da lato (cioè dal più giovane) (Sanh., IV, I e sg). Si voleva evitare che il giudizio degli anziani influisse su quello dei più giovani.
Nei processi per delitti punibili con pena di morte, i testimoni erano solennemente invitati a rendersi conto della gravità delle loro dichiarazioni…; nelle cause penali, invece, la responsabilità del suo sangue e del sangue della sua progenie ricade su di lui fino alla fine del mondo…” [147].
Questa formula finale è di estremo interesse perché, in certa misura, conferma quanto tramandato dai Vangeli. Il testimone, nella sua formula di impegno, doveva dichiarare di essere consapevole che la responsabilità della propria testimonianza non riguardava solo se stesso, ma in certa misura coinvolgeva le proprie rispettive discendenze, sia quella dell’eventuale condannato (di fronte a testimonianza falsa), sia quella dei falsi testimoni. Il che è legato alla dottrina del peccato originale che, dal primo uomo, archetipo dell’intera umanità, si proietta sull'umanità stessa. Trattandosi di una formula sempre adoperata in processi penali che coinvolgessero la vita del condannato, ciò spiegherebbe come la folla attorno a Jehoshua e Pilato confermasse con grida questa comune responsabilità. Ciò che veniva fatto per accertare la testimonianza, venne poi strumentalizzato come un’effettiva dichiarazione di colpevolezza nel preteso “deicidio”. Avrebbe qui ragione Chaim Cohn quando sostiene che gli estensori dei Vangeli ignoravano le procedure ebraiche nel giudizio [148].
“Nel processo penale, i testimoni venivano egualmente escussi uno ad uno. Il contraddittorio verteva su questioni di tempo e di luogo…Trattandosi di reati di idolatria, si ponevano delle questioni (supplementari): Quale idolo ha adorato? Come lo ha adorato?
Chi prolunga l’interrogatorio agisce lodevolmente…Qual è la differenza fra il contraddittorio e l’investigazione? Nel contraddittorio se un testimone risponde: ‘Non so’, la testimonianza è nulla. Nell'investigazione se uno o due testimoni rispondono: ‘Non so’, la testimonianza è ancor valida.
Se un testimone dice che il fatto avvenne il secondo giorno del mese, e un altro sostiene che avvenne il terzo, la loro deposizione è valida, perché è possibile che uno dei due sappia dell’intercalazione del mese e l’altro la ignori [per capire la questione occorre rifarsi al calendario lunare ebraico; potremmo paragonarlo al giorno 29 febbraio che, per il nostro calendario, appare ogni quattro anni, e quindi sfuggire a qualcuno che l’anno di cui si sta parlando è bisestile]; ma se uno dice che accadde il tre e l’altro il cinque, la testimonianza non è valida…pure ascoltano l’accusato che sostiene di avere qualcosa da dichiarare in propria difesa, purché nelle sue parole vi sia qualche fondamento [di notevole interesse, a quanto cita l’autore dal Sanhedrin, 9 b, che - come per il Diritto romano, nessuno poteva essere obbligato ad accusare se stesso, ma - secondo il Cohen - si va ben oltre: ovvero, non sarebbe ammessa nemmeno una confessione spontanea, altra forma di garanzia, perché le confessioni possono essere estorte, anche senza torture fisiche, ma con sistemi “suggestivi”].
Se i giudici lo riconoscono innocente, lo liberano, altrimenti rimettono la sentenza al giorno dopo. Si uniscono due a due, prendendo un parco cibo, senza però bere vino per tutto il giorno, e discutono tutta la notte. Il mattino seguente si recano di buon’ora al tribunale (ed espongono la loro opinione)…Il giudice che (il giorno precedente) sostenne la colpabilità dell’accusato può ora sostenerne l’innocenza, non viceversa. Se commettono un errore nell'opinione che esprimono [dicendo, senza saperlo o per dimenticanza, cose contrarie], i due scribi dei giudici li correggono. Se lo riconoscono innocente lo liberano; altrimenti passano alla votazione. Se dodici assolvono e undici condannano, l’accusato è dichiarato innocente. Se dodici condannano e undici assolvono…si aumenta il numero dei giudici. Fino a qual numero si possono aggiungere? Fino a un totale di settantuno. Se trentasei assolvono e trentacinque condannano, è dichiarato innocente; se trentasei condannano e trentacinque assolvono, discutono fin quando uno di coloro che sono per condannare passa al campo opposto (Sanh., V, 1 – 5)…” [149].
Appare così evidente che, di fronte a tale
complessa procedura, è ben difficile che
il processo a Jehoshua, così come descritto nei Vangeli canonici e apocrifi, possa essere mai
avvenuto. Addirittura, sostiene il
Cohen, il rigore giudiziario arrivava al punto che, se l’imputato non avesse avuto nemmeno un voto a favore, il
processo si concludeva con l’assoluzione (?), in quanto l’unanimità avrebbe
dimostrato l’assoluta predeterminazione della condanna. Vi è però da chiedersi: se fosse stato applicato un simile rigore giuridico
e giudiziario, vi sarebbe mai state condanne nel regno di Israele? Prima ancora che a Jehoshua, andrebbe
ricordato il processo svolto alla “casta Susanna” che, come avvocato
difensore, aveva il profeta
Daniele. Tale narrazione viene
considerata apocrifa, nondimeno è un significativo esempio di processo con rito
accusatorio per adulterio presso gli Ebrei. Ebbene, se il profeta Daniele non avesse posto in contraddizione i due
falsi testimoni (i due vecchioni peccatori e calunniatori) sul luogo esatto del
rapporto intimo, la casta Susanna sarebbe stata condannata alla lapidazione. L’esperienza storica insegna che le regole
scritte sono molto, anzi quasi sempre, disattese, e lo vediamo pure ai nostri
giorni. Ma la questione fondamentale
resta sempre la stessa: se i giudici
ebraici avessero condannato Jehoshua a morte per bestemmia, violazione del
sabato, ed altre accuse di natura religiosa, lo avrebbero lapidato o
decapitato, oppure strangolato, come per
i falsi profeti (anche per culti pagani), assolutamente non crocifisso, non
risultando una delle pene da essi previste [150]. Proprio il loro formalismo in sede
giudiziaria è garanzia di questa impossibilità. E’ interessante anche rilevare come anche
gli Ebrei, nell’irrogazione delle pene, facessero distinzione tra omicidi colposi, o incidentali, ed omicidi dolosi: nel primo caso si
applicavano forme di esilio o il ricovero nelle “città di rifugio”, che ricorda il diritto di asilo nei conventi
e nelle Chiese, del Diritto canonico
almeno fino all’Illuminismo.
Al termine di questa analisi comparativa, una cosa è chiara: le versioni sull'arresto, sul processo e sulla morte di Jehoshua, sono molte e talvolta contrastanti. Trattando tutte le fonti a noi pervenute, in quanto narrazioni umane e non di ispirazione divina, si può ben capire la complessità della questione. Va tenuto presente che nessuno dei Vangeli, neppure i quattro Canonici, si vantano in un qualche modo di essere ispirati da Dio, ma di essere frutto di testimonianze oculari, dirette oppure indirette. Solo le narrazioni apocalittiche, come quella attribuita a Giovanni l’Evangelista, ed altre analoghe presenti sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento, vantano questa derivazione divina, ovviamente allo scopo di avere un più forte potere di conversione. Quindi, trattarle tutte come narrazioni umane, non è blasfemia, ma semmai consente un più rigoroso esame storico. Che cosa quindi si può ricavare dalla parte finale dei Vangeli canonici e dagli altri Vangeli canonici?
Intanto, il processo religioso di eresia o blasfemia contro Jehoshua viene descritto solo in parte, la narrazione viene cancellata, come se fosse stata censurata da qualcuno, ma tenuta solo per la parte in cui serviva accusare il popolo ebraico di un processo iniquo, che aveva portato alla morte del Messìa, su un modello già esistente, come dai documenti esseni o dalla stessa Bibbia ebraica, che rappresenta i profeti spesso in lotta col costituito ordine religioso ebraico. Spesso tali profeti, apparendo almeno da vivi come eretici o come blasfemi, fanno una brutta fine e poi, successivamente (da morti), riabilitati ed inseriti nel Testo Sacro. Jehoshua, misteriosamente, pur suscitando l’ira dei giudici, viene affidato a Pilato senza una reale ragione. Luca e alcuni Vangeli apocrifi trattano anche di una parte erodiana del processo che, a quel che è dato capire, avviene solo perché, essendo Jehoshua galileo, a Pilato sorge il dubbio che appartenga alla giurisdizione penale di Erode Antipa. Ma Erode, oltre che a verificare se fosse Jokanan risorto o per curiosità personale sul come si presentasse fisicamente, lo deride, gli fa indossare per scherno una veste regale e, quindi, lo rinvia a Pilato, asserendo così non tanto la sua innocenza, quanto il non interesse per il suo Regno: Jehoshua si proclamava o era proclamato “rex Judeorum”, ovvero per Erode un velleitario pretendente ad un trono non suo, non risultando come Jokanan minaccioso per i suoi interessi. Se aveva commesso azioni contro i Romani, era affare dei Romani, che controllavano appunto in pieno la Giudea (qui però ricordiamo il dubbio sulla competenza nei confronti di Jokanan, che era Giudeo ed operava in Giudea, sempre stando alle narrazioni evangeliche: ed allora come mai venne condannato da Erode Antipa addirittura alla morte?).
Pertanto la “palla” torna a Pilato, al quale si fa tirare fuori un fantomatico personaggio, di cui prima mai si era parlato, né dopo se ne parlerà più. Ho già rilevato che questo fantomatico personaggio, descritto più come delinquente che come ribelle a Roma (ma questo è sempre tipico dei ribelli, chiamati “banditi, delinquenti, malfattori”), probabilmente uno Zelota, se non un Sicario, appare nel Novum Testamentum graece et latine” (una sorta di Codice del Nuovo Testamento bilingue) anche lui col nome di Jehoshua, cosa per nulla strana in quanto questo nome, che fu tradotto con Gesù (latinamente) o con Giosuè (più vicino alla radice ebraica), era molto diffuso e tuttora non raro tra gli Ebrei. Questo fantomatico personaggio non appare mai, non viene descritto, una volta libero, nel ringraziare sacerdoti o popolani per la sua liberazione. Appare e scompare. Chi era dunque quest’uomo se non l’alter ego del doppio Jehoshua, così come appare di quando in quando nelle narrazioni evangeliche per certe frasi o azioni tutt'altro che miti e pacifiche? [151]
I Vangeli hanno l’aperta intenzione di provare - lo si dice ogni due, tre righe - che le profezie dell’Antico Testamento relative al Messìa, all’Unto, all’Inviato di Dio per la salvezza del regno d’Israele prima, dell’intera umanità poi - si attuavano completamente, integralmente in Jehoshua figlio di Joseph e Miriam, nato a Betlemme. Ma siccome i dati anagrafici e biografici non coincidevano tra di loro, siccome anche la fine che avrebbe avuto (lapidato, decapitato, strangolato) non sarebbe coincisa con la fine prevista da tali profezie, ossia “appeso al legno” e non necessariamente però alla croce, ecco che gli Evangelisti, sia canonici sia apocrifi, sentivano il bisogno di fondere due storie, due vite ben diverse, in modo da far credere ad una storia sola. Non va ignorato che, per gli antichi, l’esattezza storica, per quanto vantata o proclamata, non era un obiettivo sentito in termini di esigenza documentaria e realistica. Non si spiegherebbe altrimenti il gusto per il magico e il miracolistico, o il divinatorio. Anche Giuseppe Flavio, che si fa passare per grande condottiero, grande profeta, grande storico, si rivela tutt'insieme un grande spaccone tendente ad assumere un’importanza che, molto probabilmente, non superava quella di un qualunque altro liberto che pretendesse di spiegare agli ex-padroni la storia e la cultura del popolo di appartenenza. Così mira a far credere che durante la sua vita si contrapponessero due Potenze, quella romana e quella ebraica, quando sappiamo che Roma aveva ben altri problemi. Lo stesso si potrebbe dire per gli storici romani, più propensi ad esaltare i vincitori che i vinti, soprattutto nelle guerre civili.
Uguali cose possono dirsi per altri popoli non solo antichi, ma anche ben più moderni. Nulla quindi da meravigliarsi se gli Autori dei Vangeli fusero in una due esistenze, due realtà: quella del profeta pacifico, probabilmente processato dal Sanhedrin con particolare meticolosità formale, ma non sostanziale, e conclusosi o con la decapitazione o con la lapidazione o con lo strangolamento dell’imputato per eresia, blasfemia e violazione del riposo sabbatico, a cui possiamo dare il nome e il patronimico ebraico: Jehoshua ben Joseph, nato in Galilea da regolari nozze, forse non conosciute a Gerusalemme; e Jehoshua, figlio di ignoti, probabilmente in Giudea, e forse a Betlemme, soprannominato bar Abba, ribelle zelota, catturato dopo uno scontro notturno a Gerusalemme, tradito forse da uno dei suoi stessi seguaci, rapidamente e sommariamente interrogato previa tortura, non essendo cittadino romano e non godendo di relative tutele (del resto non sempre applicate, in quanto bastava la proclamazione di essere “hostis populi romani” per far perdere tali diritti) [152], venne crocifisso con due suoi seguaci, con la motivazione derisoria di “re dei Giudei”, analogamente a come, circa un secolo prima, era stato condannato Spartaco con tutti i suoi.
Le distruzioni della guerra giudaica, la perdita nel corso dei secoli di molte registrazioni sia ebraiche, sia romane, favorirono, tanto fra i futuri Cristiani (allora non chiamati così, ma “ebioniti”,“nazarei”, “nazareni”, “galilei”) una tendenza unificante delle due distinte biografie a fini appunto messianici, per provare, prima di tutto, la corrispondenza tra la figura messianica prevista dalle profezie bibliche, e la figura di Jehoshua. Una tale fusione, nelle prime fasi dopo la sua morte, espressa in forme orali, poi trascritta verso la fine del I secolo d. C., successivamente ancora rimaneggiata e rielaborata secondo le varie correnti interne al Cristianesimo, venne resa formalmente identica appena nel IV – V secolo d. C., ma non senza incongruenze spesso significative, quando l’Impero d’Occidente stava agonizzando. La divinizzazione della figura di Jehoshua era ormai un fatto compiuto, salvo poche correnti poi considerate eretiche e pertanto costrette a rifugiarsi fuori dell'Impero.
NOTE
[1] L’argomento ontologico che Anselmo d’Aosta vanta a definitiva dimostrazione logica a priori dell’esistenza di Dio, occasione di un dibattito plurisecolare, in effetti non serve a dimostrare l’esistenza di Dio. Esso varrebbe solo se presupponesse una concezione perfetta di Dio, univoca e indiscussa nell’uomo. Solo Dio potrebbe dire a se stesso (ma a quale scopo?): “In Me, Essere e Pensiero d’essere coincidono, dunque esisto”. La cosa sarebbe alquanto buffa, come se Dio avesse bisogno di dimostrare a Se stesso di esistere. L’uomo non può avere alcuna idea perfetta di Dio, dunque non può ricavarne una deduzione immediata della Sua esistenza: le idee umane della divinità sono molte e molto divergenti; dunque essendo imperfette, non dimostrano che una tendenza, un’ambizione alla divinità, non certo la presenza assoluta di Dio in noi. Già Guglielmo di Ockham aveva compiutamente spiegato che Dio, in quanto Principio di ogni realtà, in quanto Creatore, non poteva essere dimostrato, e che non si poteva neppure tentare di dimostrargli la Sua esistenza quasi “sotto il naso”, per concludersi con Trendelenburg, tramite Kant, che nessuna esistenza, dalla più semplice alla più complessa, può essere dimostrata in termini logici o sperimentali. Noi possiamo, al massimo, determinare per via logica o sperimentale le modalità o caratteristiche di un’esistenza, ma non dimostrare l’esistenza in quanto tale e nella sua generalità.
Ciò che veramente è interessante dell’argomento ontologico anselmiano e dei suoi vari derivati, è che l’uomo in quanto tale non può non pensare o credere all'esistenza di Dio, qualunque nome gli possa dare, qualunque carattere gli possa applicare, in quanto Principio Primo, Creatore o Regolatore della realtà complessivamente intesa. Se Dio è, come Anselmo dice, il Maggiore o Massimo pensabile, questo lo è relativamente al pensiero umano. Anselmo, del resto, neppure usa nel suo “Proslogion” un superlativo assoluto, ma un comparativo assoluto ovvero un Superlativo relativo: “il Maggiore di ogni altro esistente, colui del quale non si può neppure immaginare l’inesistenza”. Ma un Superlativo relativo vale, come prodotto della mente umana, non come Realtà ontologica in sé e per sé. Intendiamoci: ognuno di noi ha un Maggiore pensabile, che è correlativo alla capacità mentale di chi lo pensa. Lo aveva rilevato già Senofane, quando criticava l’antropomorfismo o zoomorfismo delle religioni. Non coincidono affatto le idee di Dio in un grande teologo o in un qualunque uomo, privo di conoscenze filosofiche o scientifiche. Non è lo stesso il Dio biblico, il Dio mosaistico, il Dio cristiano, il Dio zoroastriano, il Dio di Budda. Brutalmente, un semplice salumaio vedrà nel porcellino, che lo fa arricchire, il Dio supremo; un semplice banchiere riterrà Dio la Borsa o che altro gli consenta non solo di vivere, ma di arricchire. Per il capitalista seguace di Calvino, l’affarismo, la produzione e l’arricchimento conseguente sono la sua unica vera Trinità. Ma tutte queste sono idee umane di Dio, non certo determinazioni ontologiche effettive della Divinità.
In conclusione, tanto più elevata è la cultura filosofica e morale dell’uomo, tanto più elevata è la sua concezione di Dio.
[2] L’autentico laicismo fonda le proprie concezioni metafisiche non sulla negazione di Dio o di valori assoluti extra-umani, ma sulla negazione di ogni Intermediario speciale e rivelante, tra l’Uomo e Dio. Nega dunque ogni pretesa sacerdotale di rappresentare Dio o la Verità sulla Terra. Viceversa, materialismo e scetticismo non sono necessariamente “laici”, perché possono assurgere a posizioni anche di irrazionalismo estremo. Nel rapporto con le altre convinzioni, il laicismo è aperto al dialogo e all'accettabilità con ogni altra fede o con ogni altra problematica. Il laicismo è dunque l'atteggiamento di colui che è favorevole alla libertà espressiva in ogni settore, e senza limiti.
[3] In Matteo non si trova questo soprannome. Null’altro si dice sul possibile passato di quest’uomo, ma basta il soprannome per capire come il gruppo di “Cristo” avesse elementi combattenti o ex-combattenti.
[4] Per ora non parliamo ancora di una persona precisa, di qui mettiamo il titolo o soprannome, poi datogli secondo la tradizione escatologica ebraica di “Messia” (di derivazione ebraica), “Cristo” (di derivazione greca), ovvero “Salvatore” del popolo ebraico e dell’umanità solo successivamente, l’Inviato da Dio prima che Essere dvino. Il perché apparirà chiaro più avanti, quando ne analizzeremo l’immagine nei Vangeli, sia canonici che apocrifi.
[5] Pubblicato dalla BUR (Milano, 1989) con introduzione di Gianni Baget Bozzo, trad. it di Salvatore Rizzo, che è anche curatore delle note.
[6] Gli “adozionisti” ritenevano che “Cristo” fosse un comune uomo adottato da Dio per una sua missione di predicazione e conversione dell’umanità.
[7] Per quanto materialmente diviso col crollo dell’Impero Romano d’Occidente, per l’aspetto politico-giuridico, la deposizione di Romolo Augustolo, ben lungi dal rappresentare la scomparsa dell’Impero Occidente, esso rappresenta la riunificazione dell’Impero, in quanto Odoacre rimanda a Costantinopoli le insegne imperiali e costituisce un autonomo Regno d’Italia che è formalmente “suddito” dell’Impero bizantino, tanto è vero che parte da Costantinopoli l’autorizzazione successiva a Teodorico capo degli Ostrogoti ad occupare la penisola, come parte da Costantinopoli la riconquista della parte occidentale, con la distruzione del Regno dei Vandali, l’occupazione della Spagna meridionale: la lunga Guerra Gotica, ad opera di Belisario e Narsete. Per il definitivo riconoscimento giuridico di due imperi distinti in Europa, occorse attendere il riconoscimento bizantino di Carlo, poi detto Magno, e del suo Sacro Romano Impero. E’ dunque appena nel IX secolo che l’Impero d’Oriente, da Romano, diventa propriamente Impero Bizantino, ovvero Greco, con la sua epopea di resistenza contro Slavi, Arabi e Turchi.
……………………………………………………………………………
[109] Cito solo a mo’ di esempio il processo di
Verona agli uomini del 25 luglio 1943, condannati a morte per aver espresso un voto, quando questo voto era pur
richiesto; se era a senso unico, a che
dunque far votare un Ordine del Giorno che scardinava il fascismo, invece che
far votare solo l’Ordine di Scorza che, viceversa, lo manteneva? Oppure: il processo di Norimberga, dove i vincitori giudicano lo sconfitto (a torto o a ragione, poco importa), mentre questo compito sarebbe, sulla base della moderna ed illuministica terzietà ed imparzialità dei giudici, spettato unicamente a Stati neutrali come la Svizzera o la Svezia o la Turchia, tanto per esemplificare.
[110] Pubblicata in italiano dall’Editrice Einaudi (Torino, 2000), per traduzione e a cura di Gustavo Zagrebelsky e con post-fazione di Christian Wiese.
[111] Questa narrazione che mescola fatti dell’Antico e del Nuovo Testamento, è riportata in “L’Altra Bibbia, che non fu scritta da Dio - I libri nascosti del Primo Testamento”, ed. Piemme (Casale Monferrato, Alessandria, 2002), trad. di Elio Jucci e a cura di Erich Weidinger, pag. 107.
[112] Cfr. Santo Mazzarino, “L’Impero Romano”, (ed. Laterza, Bari, 1979), vol. II. Oltre che l’intero testo, specificamente le pagg. 451 sgg. e 539 sgg.. Soltanto quando la Chiesa diventa apostolica e romana, identificandosi pienamente con l’istituzione imperiale (praticamente ormai alla fine dell’Impero d’Occidente), allora il deicidio viene caricato solo sugli Ebrei.
[113] Quando leggiamo la denominazione “re dei Giudei”, per l’uso successivo noi tendiamo ad identificare con questo termine l’intera popolazione dell’antico regno di Israele, unitario sotto Saul, Davide e Salomone. Al tempo di Jehoshua e delle narrazioni evangeliche, la Giudea ed i Giudei indicavano un territorio ed un popolo ben determinati. Se uno allora si proclamava “re di Giuda” intendeva non l’intero Israele, ma solo la sua parte meridionale, per cui Erode, viceversa sovrano della parte settentrionale, non riteneva il caso di sua competenza. Se ne diverte anzi, e rimanda il tutto a Pilato. La parentesi erodiana del processo a Jehoshua, inesistente negli altri due evangelisti, fa chiarire se non altro una cosa: questo personaggio viene ritenuto pericoloso solo in Giudea, non in Galilea, da cui proveniva, anche per la leggenda secondo cui il futuro Messia non sarebbe mai apparso dalla Galilea.
[114] Seguo sempre il testo e l’ordine dell’edizione TEA, già sopra citata.
[115] ed. TEA, cit., pag. 382. Nella corrispondente nota, i curatori spiegano: “Barabba: in quanto questo nome richiama Bar-rabban, che ha appunto questo significato, mentre Barabba significa ‘figlio di Abba’ o ‘ figlio del Padre’ ed anche ‘figlio del maestro’, dando ad abba il senso, assai comune, di maestro”. Ma se si fosse inteso come “figlio del maestro”, si sarebbe dovuto scrivere o rendere in italiano come “Barrabba”
[116] op. cit., pagg. 398 – 399.
[117] ibidem, pagg. 402 – 403. Questa versione copta, quindi, più che sugli Ebrei in generale, punta contro Erode, quale responsabile della morte di Jehoshua.
[118] ibidem, pag. 406 .
[119] ibidem, pagg. 406 – 407.
[120] ibidem, pag. 511. Lo stesso per la nota chiarificatrice dei curatori. Questo Vangelo di Pietro dovrebbe essere stato compilato tra il 100 e il 150 d. C. Ma il suo atteggiamento assolutamente filo-romano ci suggerisce forse il IV secolo d. C., con l’età costantiniana.
[121] ibidem, pagg. 512 – 513.
[122] ibidem, pagg. 513 - 517.
[123] ibidem, pagg. 539 - 542. Si tratta della prima versione, in greco.
[124] ibidem, pagg. 542 - 545 .
[125] ibidem, pagg. 546 – 547.
[126] ibidem, pag. 547 .
[127] ibidem, pagg. 547 - 548. Le versioni delle medesime “Memorie di Nicodemo o Atti di Pilato” seguono alle pagg. 567 – 616 .
[128] nota 14.1 alle pagg. 556 - 557. L’interpretazione di questo nome è assai discussa. Alcuni studiosi ricollegano il nome Mamilch al fatto che proprio presso il Monte degli Ulivi su un'altra collina si eseguivano riti fenici su concessione del re Salomone (Monte dello Scandalo). Ma - a mio parere - la spiegazione del nome va trovata nella scarsa conoscenza dell’estensore o estensori del testo: il nome del monte sarà probabilmente o inventato del tutto (visto poi che lo si colloca in Galilea, dove sarebbe riapparso Jehoshua, non in Giudea o presso Gerusalemme), o deformato rispetto al nome autentico. Secondo Giovanni, Jehoshua sarebbe apparso a Maria Maddalena presso la stessa tomba. E’ evidente che queste narrazioni apocrife hanno un carattere leggendario e, talvolta, fiabesco ancor più dei Vangeli canonici.
[129] ibidem, pagg. 550 - 566 . E’ da considerare probabile che questi testi, dove alla fine anche gli Ebrei, già nemici di Jehoshua, si convertono alla nuova fede, appartengano a quei gruppi di “giudeo-cristiani” o Ebioniti, o semplicemente Ebrei, ai quali vengono attribuiti Vangeli specifici .
[130] ibidem, pagg. 641 - 642.
[131] Cfr, “Atti degli Apostoli”, (Cap. V, vv. 22 – 49). Questo Gamaliele, se non si tratta di omonimo, fu anche maestro di Paolo di Tarso, e salvò gli Apostoli appunto con la motivazione divina.
[132] Vangelo di Gamaliele, ed. TEA, cit., pagg. 662 – 663.
[133] ibidem, pag. 663 .
[134] ibidem, pagg. 663 - 680.
[135] ibidem, pagg. 685 - 692 .
[136] ibidem, pagg. 703 - 705.
[137] ibidem, pag. 707.
[138] ibidem, pagg. 707 – 708. Cfr. anche successive da 708 a 735 per altre varianti sul tema.
[139] Una delle cose da noi ereditate dal Diritto ebraico, non da quello romano, ancorché si sia soliti chiamarla “toga” del tutto erroneamente (la toga romana era un indumento di forma circolare con al centro un foro altrettanto tondo, nel quale si infilava la testa e attorno al busto si avvolgeva il resto drappeggiandosi con pieghe), era il mantello farisaico descritto, non senza sarcasmo in Matteo, Cap. 23, v. 5, dove appunto si parla di questo mantello arricchito da frange abbastanza lunghe con cui i maestri della legge si esibivano e si pavoneggiavano. La toga romana non stava sulle spalle della persona, ma ne avvolgeva tutto il corpo, non aveva frange, e i suoi unici ornamenti dovevano essere orlature colorate, specialmente rosse, a scopo ornamentale. Quella dei candidati a cariche politiche, da cui il termine, risultava del tutto bianca.
[140] A. Cohen, “Il Talmùd”, ed. cit., pagg. 355 – 356 .
[141] ibidem, pag. 357.
[142] ibidem, pagg. 357 – 358.
[143] ibidem, pagg. 358 - 361.
[144] ibidem, pagg. 363 - 364.
[145] Per la citazione del testo, cfr. pag. 367; per le precedenti considerazioni, pagg. 365 – 368.
[146] ibidem, pag. 368.
[147] ibidem, pagg. 368 - 370.
[148] Cfr. di Chaim Cohn, in maniera implicita,“Introduzione” pagg. 3 – 21, “In Casa del Sommo Sacerdote” e il lungo capitolo “Il processo”, ed. cit., pagg. 126 – 232. Esplicitamente si esprime sulla non conoscenza del Diritto ebraico, da parte degli Evangelisti, a pag. 177.
[149] A. Cohen, “Il Talmùd”, cit. pagg. 372 – 375.
[150] ibidem, pagg. 376 - 381. In quest’ultima pagina si conferma la pena, prevista dal Deuteronomio (XXV, 2 sgg) delle 39 sferzate, che venivano inflitte agli incestuosi, per i matrimoni illeciti per grado di parentela, per violazione della santità del Tempio, per cibi proibiti (es., carne di maiale), così come esposto dalle “Memorie di Nicodemo”. Si presume quindi che le sferzate inferte a Jehoshua gli venissero date per l’accusa di violazione della santità del Tempio (dal punto di vista degli accusatori, sia per l’esservi entrato senza le dovute purificazioni, sia per aver parlato di distruzione e ricostruzione del Tempio).
[151] Cfr. i seguenti siti INTERNET: David Bonnini: “Il Mistero di Barabba”, Google Etanali - Hosting Euroland ./. Giancarlo Tranfo “Yeshua”./. Enrico Galavotti: “Homolaicus”, “Barabba ribelle o figura messianica?”. In questi siti si tende a dimostrare che “Barabba”, o meglio “Jehoshua bar Abba” (il Figlio del Padre), sia il profeta pacifico, mentre l’altro, il crocifisso, sia quello guerriero e violento, forse Zelota o perfino “Sicario”. Al di là del titolo che voleva assumere, non si possono - metodologicamente e scientificamente – rovesciare completamente le fonti senza una buona ragione, solo perché si chiamava “Figlio del Padre” e fu liberato su richiesta della folla. La scena della liberazione, peraltro senza nessuna conseguenza di fatto (perché da nessuna parte è poi detto che se ne andasse libero tra la folla, festeggiato come avrebbe dovuto essere, se lo fosse stato), serve soltanto a metter in cattiva luce gli Ebrei per i quali - secondo i Vangeli - era preferibile salvare la vita ad un delinquente, piuttosto che al Messìa.
[152] Questa pubblica proclamazione, effettuata dal Senato, è ben descritta da Cicerone e da Sallustio contro i seguaci di Catilina, strangolati senza difficoltà
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI .
1) “La Sacra Bibbia”, Edizione
Ufficiale della CEI, Ed. Paoline,
Cinisello Balsamo (Milano, 1987),
particolarmente usata in questo saggio.
2) “Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture”, Edizione multilingue della Torre di
Guardia, Versione in italiano, Congregazione dei Testimoni di Geova, Roma, 1994. La posizione dei Testimoni di Geova è molto interessante anche perché,
almeno sul piano cristologico, riprende le convinzioni degli Ariani, sulla natura
creata e sovra-angelica di Gesù.
3) Il Nuovo Testamento, ed. Lega Internazionale Cattolica
Editrice, (Torino, 1921) due voll.
4) Il
Nuovo Testamento e il Libro dei Salmi, ed. della Società Biblica Britannica e Forestiera (versione anglicana),
(Roma, 1949).
5) Il Nuovo Testamento, ed. a cura
dell’Alleanza Biblica Universale, Versione interconfessionale, Leumann, Roma, San Casciano (Firenze, 1976), particolarmente usata nel presente saggio.
VANGELI ED OPERE DI NATURA APOCRIFA
(secondo
data di pubblicazione)
6) “Apocrifi del Nuovo Testamento”, ed. it. TEA (su concessione
UTET), Trento, 1989, a cura di Luigi
Moraldi .
7) “L’Altra Bibbia che non fu scritta da Dio
- I Libri nascosti del Primo
Testamento”, ed. PIEMME (Casale
Monferrato, Alessandria, 1992), a cura
di Erich Weidinger (edizione tedesca) e
di Elio Jucci (edizione italiana), con testi ed annessi commenti.
8) “Le Parole dimenticate di Gesù” a cura
di Mauro Pesce, Fondazione Lorenzo
Valla, ed. Arnoldo Mondadori
(Milano, 2005): testo con commento e note assai dettagliati,
testi greco e latino, a fronte.
TESTI CLASSICI
(secondo
data di pubblicazione)
9) A. Cohen, “Il Talmùd”, epitome e commento, ed. Laterza (Bari, 1935, rist. anast.
1986), opera essenziale per comprendere
somiglianze e differenze col Cristianesimo.
10) “Il Corano” (per i riferimenti
biblici), ed. it. BUR (Milano, 1988), trad. e commento di
Alessandro Pausani.
11) Celso, “Contro i Cristiani”, ed. it.
BUR (Milano, 1989), trad. Salvatore Rizzo, con introduzione di Gianni Baget
Bozzo.
12) Filone di Alessandria, “L’Erede delle Cose Divine”, ed. it.
Rusconi (Milano, 1994), trad. di Roberto
Radice, testo greco a fronte: importante per l’interpretazione
allegorico-simbolica della Bibbia e per il concetto filosofico-religioso di Logos.
13) Giuseppe Flavio, “Guerra Giudaica”, ed. it. Mondadori (Milano, 2004), a cura di Giovanni
Vitucci.
14) G. Flavio, “Antichità Giudaiche”, versione “laica” dell’Antico Testamento, ed. it. UTET (Torino, 2006), voll. 2, a
cura di Luigi Moraldi.
15) Ippolito di Roma - Atanasio di Alessandria (d’Egitto), “La Tradizione Apostolica - Il
Credo di Nicea” ed. La Grande
Biblioteca Cristiana” di“Famiglia Cristiana”, a cura di Elio Peretto ed Enrico Cattaneo (2005): molto importante appare la Collana di questa serie di pubblicazioni sul
primo Cristianesimo, in quanto pur essendo opere divulgative, lo sono ad alto
livello qualitativo e critico.
16) “Il
Cristo – Testi teologici e spirituali dal I al IV secolo”, Fondazione
Lorenzo Valla, ed. it. Mondadori (Milano, 2005), a cura di Antonio Orbe e Manlio Simonetti,
con ricco commento e note dettagliate, testi greco e latino a fronte.
OPERE DI CARATTERE GENERALE
(secondo
data di pubblicazione)
17) George
Foot Moore, “Storia delle Religioni”, ed. Laterza (Bari, 1929), vol. II “Giudaismo,
Cristianesimo, Islamismo”, trad. it.
Di Giorgio La Piana.
18) Santo Mazzarino, “L’Impero
Romano”, ed. Laterza (Bari, 1980), voll. 3: particolarmente
importante per i progressivi rapporti e legami tra Impero e Chiese
cristiane, con saggi sull'ambiente della
Palestina romana.
19) “Perspicacia nello studio delle Scritture”, Dizionario Enciclopedico della Bibbia a cura
della Congregazione dei Testimoni di Geova, ed. it. (Roma, 1990), voll. 2.
20) John Gordon Davies, “La Chiesa delle Origini”, ed. it. Il Saggiatore (Milano, 1996), trad. di
Francesco Mei.
21) Tim Leedom e
Maria Murdy, “Il Libro che la tua Chiesa non ti farebbe mai leggere”, ed. it. Newton Compton (Roma, 2008),
trad. di Lucio Carbonelli e Susanna Scrivo: raccolta di saggi utile sotto certi aspetti, ma che denota la
particolare mentalità americana che si
rivela, spesso, fanatica e non critica, anche quando vuol criticare il
fanatismo (altrui).
OPERE
DI ARGOMENTO SPECIFICO
(secondo data di pubblicazione)
22) Ernesto Bratina, “Regole della Comunità Essena del
Mar Morto”, ed. Sirio (Trieste, 1957), saggio con documenti.
23) Renato Souvarine, “I Rotoli Manoscritti del Mar Morto”, ed. “Il Corvo” (Livorno, 1957), breve saggio.
24) Millar
Burrows, “Prima di Cristo - La scoperta dei rotoli del Mar Morto”,
ed. it Feltrinelli (Milano, 1958), trad.
di Adriana Dell’Orto; opera fondamentale
con appendice documentaria e materiale fotografico.
25) Carl R.
Kazmierski, “Giovanni il Battista - Profeta ed Evangelista”, ed. San Paolo (Cinisello Balsamo, Milano, 1999), trad. it. Di Carla Borghetto.
26) Salvatore
Garofalo, “Giovanni Battista - Profeta dei
tempi nuovi”, ed. Ancora (Milano,
2000).
27) Ottorino
Gurgo, “Pilato”, ed. Fabbri
(Milano, 2000), saggio interessante per
certi dati biografici del Procuratore di Giudea con elementi tuttavia poco
fondati sulle fonti (specie nella presunta conclusione della sua
vita). Pure interessanti le ragioni
sulla scelta di “Barabba” al posto di Gesù, da parte degli Ebrei.
(secondo data di pubblicazione)
28) Renato Souvarine, “La Leggenda di Gesù”, ed.
Libreria Internazionale di Avanguardia, (Bologna, 1950): l’Autore vi esprime
una posizione assolutamente negativistica nei confronti del Gesù Evangelico,
considerandolo inesistente, ma con un curioso argomento sostanziale: siccome di profeti, Messia e Cristi, vi erano
a dozzine in Palestina, soprattutto in quel periodo, nessuno di essi sarebbe
stato il Gesù evangelico. Un argomento
alquanto fragile.
29) G. Carozzi - S. Riva, “Dio
è Verità” ed. Marzocco (Firenze,
1956), vol. II “Gesù Redentore”:
manuale scolastico, di quelli che, mirabilmente, sapevano contenere in
agile sintesi sia la parte teologica,
sia la parte storica del Cristianesimo.
30) Chaim Cohn, “Processo e Morte di Gesù - un
punto di vista ebraico”, ed. it. Einaudi (Torino, 2000), trad. e prefazione di Gustavo
Zagrebelski, con post-fazione di Christian
Wiese: un’analisi molto dettagliata e
giuridicamente importante sul processo al Gesù evangelico, che però ha fragili
aspetti, ove pretende di affermare che tra Gesù e i suoi avversari farisei vi
fosse una quasi totale identità di idee e princìpi, il che, se così fosse, non
spiegherebbe per nulla l’antagonismo tra i due gruppi religiosi, non solo
negativo dei Cristiani verso gli Ebrei, ma anche all’opposto degli Ebrei verso
i Cristiani, visti non solo come negatori del monoteismo, ma anche sostenitori
di un personaggio per nulla apprezzabile dal loro punto di vista (giusto o
sbagliato che fosse). Non basterebbe la
comune fede nella resurrezione dei corpi, intesa dal Gesù evangelico in senso assolutamente spirituale (il che è
dimostrato dal suo dibattito con i Sadducei, viceversa negatori di tale
resurrezione), per potersi qualificare Gesù come fariseo o prossimo ai farisei.
Il suo anti-formalismo ed irritualismo distruggono alla radice ogni altra
vicinanza al pensiero farisaico.
31) Carsten P.
Thiede - Matthew D’Ancona, “Testimone Oculare di Gesù - Il
Papiro Magdalen rivela una prova sconvolgente sulle origini dei Vangeli”,
ed. it. PIEMME (Casale Monferrato, Alessandria, 2003), trad. di Francesco
Bianchi: opera certo filologicamente
interessante, ma che non mantiene nulla di quanto esposto nel sottotitolo. In pratica si tratta dell’analisi di poche
frasettine in tre pezzetti di papiro, un
po’ poco per sconvolgere chicchessia.
32) Corrado Augias - Mauro Pesce, “Inchiesta su Gesù - Chi
era l’uomo che ha cambiato il mondo”, ed. Mondadori (Milano, 2006): condotto nella forma di dialogo-intervista, ha
carattere essenzialmente divulgativo, sebbene di buon livello. Restano in esso, tutto sommato, l’impronta e
lo stile giornalistici, vagamente giallisti, di Corrado Augias, a cui Mauro Pesce, studioso serio e profondo, è un po’
adattato e ridotto. Prevale anche in
esso la tesi che, essendo Gesù ebreo, doveva per forza avere antagonismi solo
con i Romani e non anche con gli Ebrei (come se, allora ed oggi, essere ebreo significasse
avere una sola mentalità ed ideologia, il che - a dire il vero - è irrealistico ed antistorico), cosa che non
spiegherebbe la successiva e reciproca contrapposizione (durata millenni) tra Ebrei osservanti e Cristiani: antagonismo che non si può negare sulla base
dei vaghi ecumenismi attuali.
FONTI
INTERNET
In Wikipedia, voci su:
Esseni, Samaritani, Gesù, Novum Testamentum graece et latine .
Enrico Galavotti, “Il
Vangelo di Giovanni Battista”,
Homolaicus.
Enrico Galavotti, “Morte
di S. Giovanni Battista”, Homolaicus
.
http://www.homolaicus/nt/vangeli/battista.htm
Sul Prologo di Giovanni Evangelista,
Homolaicus.
Giancarlo Tranfo, Yeshua, il quale affronta il tema del rapporto tra i
due Jehoshua, analogamente ad Homolaicus
e Bonnini, come successivamente indicato.
“Barabba: ribelle o figura messianica ?” - Homolaicus.
David Bonnini, “Il mistero di Barabba” - Google Etanali - Hosting Euroland.
Questi due, non si sa bene per quale ragione o documento ritrovato,
tendono ad identificare l’evangelico “Barabba” per il profeta buono e
pacifico. Sembrerebbe di capire che,
ancora una volta, tendono a fare degli Ebrei un popolo di santi che vogliono
salvare la vita di un pacifista, sacrificando, viceversa, l’altro Jehoshua,
profeta guerriero. Ma, intanto gli Ebrei
erano tutt’altro che favorevoli ai profeti pacifici, come ben dimostra la
storia di vari profeti messi a morte (compreso Jokanan), e -viceversa - favorevoli alla ribellione
contro gli occupanti romani, come si è dimostrato tra il I e il II secolo d. C..
D’altro lato, come si fa a rovesciare così il racconto evangelico, visto che altro non vi è che parli dei due? Del resto, come si è sottolineato ripetutamente nel corso del lavoro, nei Vangeli la figura di Jehoshua bar Abba è semplicemente evanescente, posta in ritardo, brevemente e mai presente direttamente nella narrazione. Jokanan e altri, invece, hanno nel testo una presenza ben determinata.
Leggi gli altri Saggi di Manlio Tummolo:
La congiura di Catilina e la crisi istituzionale nella tarda Repubblica Romana
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14 commenti:
@ Caro MANLIO,
il tuo lavoro di ricerca ed analisi su un personaggio che ha caratterzzato la storia dell'uomo negli ultimi due millenni, ha il merito di aver sapientemente riassunto la storia del cristianesimo e della letteratura ad esso collegata, in poche pagine e con spirito scevro da ogni preconcetto.
Ottimo lo studio analitico della personalità di Jehoshua, secondo quanto riportato dai testi dell'epoca, canonici od apocrifi.
La scarsità, o quasi totale assenza di notizie storiche sul nazareno Gesù, ha reso difficile, in ogni tempo, darne una raffigurazione precisa.
Questo tuo lavoro ha il pregio di avere determinato con molta precisione,il contesto storico-sociale in cui è stato collocato il tanto discusso accadimento: nascita, predica e processo di un uomo divenuto un simbolo divino per gran parte dell'umanità.
Auguri e cordialissimi saluti, Pino
Manlio, non comprendo perchè hai ritenuto necessario premettere la tua personale opinione in fatto di fede subito dopo avere presentato l'articolo invitando i lettori a leggerlo da un punto di vista storico.
E' un pò come se tu dicessi: occhio che parlo dei soli fatti! ok, allora uno si dice. leggiamoli. E invece poi premetti ancor prima di iniziare quanto dovrebbe essere fede dal tuo personale modo di sentire.
Allora sei tu che per primo non sottostai alle leggi che poni in essere per gli altri: e se a te è permesso, perchè mai a Dio che è tanto più grande di te non dovrebbe esserlo?
:-)
Il tuo punto di vista è rispettabilissimo sia chiaro, difatti ne hai fatto uno studio accuratissimo per motivare le tue proprie ragioni, ma non necessariamente condivisibile, difatti io non lo condivido affatto, poichè dal mio punto di vista Dio ha creato le regole fisiche ma Dio può trascendere tutto quanto Egli stesso abbia creato, poichè se fossero le regole a governare sarebbero le regole la divinità, e non Dio stesso, e qui si cadrebbe nello scientismo. Ma non essendo le regole divinità se non appunto per chi crede esclusivamente nella materialità ed in quanto può toccare sentire e vedere, allora Dio, essendo perlappunto divino superiore ed anche creatore di esse stesse, è superiore.
Beh, il mio discorso è spiccioloed umile, e ti prego di considerare il senso e non i termini che non possono assolutamente competere con la tua cultura e il tuo saper argomentare.
"Essendo per definizione il miracolo un fenomeno che va contro ragione ed esperienza, esso è da ritenersi impossibile, dunque non credibile. "
E qui ti sbagli. Il miracolo, in quanto tale, lo è poichè viola tutte le leggi fisiche, e i miracoli dei Vangeli descritti da Cristo hanno proprio questa caratteristica: non sono replicabili nemmeno con trucchetti.
Ridare la vista ad un cieco DALLA NASCITA, è alla scienza impossibile.
Trasmutare l'acqua in vino, è per la scienza impossibile. O per carità, non parliamo delle polverine, quello non è vino buono ma veleno. :-)
Camminare sulle acque, va contro tutti i principi della fisica.
Moltiplicare i pani e i pesci, è impossibile.
Eppure su questi miracoli si fondano i Vangeli: quindi tu negando i miracoli, neghi il Vangelo.
Di quale fede stiamo parlando allora?
Non mi è chiaro affatto.
Cara Tabula,
per non violare la regola che mi sono posto, posso solo farti avere l'intero lavoro. Allora forse il criterio della Ragione sarà perlomeno comprensibile. I miracoli? E dove sono ? Nei Libri Sacri, a cui bisogna credere necessariamente perché ce lo dicono da piccoli ?
Manlio Tummolo
non trovo coerente portare ad esempio un libro sacro scontornandolo da tutto ciò che è sacro, ritagliando e scontornando con perizia certosina solo quanto utile tuo metodo d'indagine, che è tra l'altro di rara perizia e capacità, devo riconoscerlo.
Ma è proprio il fatto di escludere la dimensione miracolistica da un libro di miracoli, che non mi spiego.
O le ritieni tutte favole, e quindi scindere le parti a tuo avviso realistiche da quelle che non ritieni tali non ha senso, oppure ritieni i Vangeli attendibili.
Se li ritieni in parte attendibili ed in parte no, ci sono grandi parti da eliminare, tra le quali i miracoli di Cristo che sono invece la ragione fondamentale per la quale egli ebbe credito e seguito presso il popolo e fu creduto Figlio di Dio manifestandosi attraverso i Segni dal Cielo, che tali sono riconosciuti proprio perchè non soggetti a riproducibilità.
Quindi su chi indaghi, se ne neghi la Parola e l'importanza?
Non c'è storicità che tenga, se neghi i fatti che entrano nella storia!
Cristo è entrato nella storia da sconosciuto nazareno proveniente dal popolo, proprio perchè ebbe grandissimo seguito e si magnificarono le sue gesta.
Non fece politica, non fece guerre, non sobillò la popolazione, non fece rivoluzioni: che è il modo consueto di entrare nella storia da parte degli sconosciuti individui della massa umana senza potere.
Disse "sono il Figlio di Dio" e fu creduto perchè mostrò con segni guarì malati e compì miracoli, per questo il popolo lo seguì: è scritto chiaramente in più punti.
“Quelli che avevano arrestato Gesù, lo portarono alla casa di Caifa, il sommo sacerdote…Pietro lo seguiva da lontano. Poi... si sedette in mezzo ai servitori…Intanto i capi dei sacerdoti e gli altri del tribunale, cercavano una falsa accusa contro Gesù, per poterlo condannare a morte.--------- Ma non la
--------------trovavano,.. anche se si erano presentati molti testimoni falsi. Infine se ne presentarono altri due [il numero minimo valido per la legge mosaica] che dissero: ‘Una volta egli ha dichiarato: Io posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni’. Allora si alzò il sommo sacerdote e gli disse: ‘Non rispondi niente? Che cosa sono queste accuse contro di te?’. Ma Gesù rimaneva zitto. Poi il sommo sacerdote gli disse: ‘Per il Dio vivente, ti scongiuro di dirci se tu sei il Messia, il Cristo, il Figlio di Dio’. Gesù rispose: ‘Tu l’hai detto. Ma io vi dico che d’ora in poi vedrete il Figlio dell’Uomo, accanto a Dio onnipotente... Allora il sommo sacerdote, scandalizzato, si strappò l’abito e disse. ‘Ha bestemmiato! Non c’è più bisogno di testimoni, ormai! Adesso avete sentito le sue bestemmie. Qual è il vostro parere ?’. Gli altri risposero: ‘deve essere condannato a morte’.
. dopo quasi2000 anni la storia si ripete su poveri cristi .iniziarono i talk shov.con opinionisti allo sbaraglio.
al posto dei sacerdoti ci sono i magistrati
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complimenti signor tummolo per il suo interessante post .
mi sono permessa di incollare in questo mio post una parte del suo -
ho trovato analogie con quello che succede a volte nell'era moderna .
saluti e complimenti..
con simpatia da magica
Gentile Manlio,
ho letto con interesse e attenzione questo saggio nel quale affronti con una lettura quasi comparata,sia la situazione della Palestina sotto Tiberio, che i fatti riportati dalle fonti sulla figura di Gesù.
E' stato un lavoro di ricostruzione storica immane, complimenti!
Incuriosita, ho trovato in rete " La raccolta dei Vangeli Apocrifi " inserita nel blog Nibiru.
Non ho letto tutto, come potevo vista la quantità delle fonti.
E proprio questa quantità mi fa riflettere: come scrivere tanto, come raccontare una terra arida piena di profeti fin dal suo nascere? 1° fra tutti la Bibbia.
Come raccontare il processo, la morte,il dopo di un uomo amato-odiato-discusso?
Ora scrivo di getto, forse sarò fuori tema e chiedo scusa, ma sento di esprimere il mio convincimento personale che la tua eccellente lettura ha stimolato.
Perché le popolazioni della Palestina sono sempre state così orgogliose della loro unicità nel parlare di Dio, nel difendere il loro Dio, e nel passare subito alla ritrattazione?
Solo per orgoglio o c'è altro che non sappiamo.
La figura di Gesù si inserisce in pieno in questa terra scritta dai profeti che ha continuato poi con Maometto e la filiazione araba di Ismaele figlio di Giacobbe.
Queste domande me le feci già all'epoca quando mi recai in Palestina a visitare i luoghi in cui Gesù aveva vissuto:terre aride,
sabbie salate, rocce infuocate.
Scoprii il sorriso e lo sguardo ammiccante dei palestinesi e scoprii i volti severi e non proprio belli, degli ebrei.
Scoprii il muro in costruzione che come una ferita divideva le terre e i popoli, scoprii i poliziotti e controlli lungo le strade.
Scoprii ancora che gli spazi della basilica del Santo Sepolcro erano suddivisi e gestiti tra Armeni, Copti,Ortodossi,Francescani.
E sai dove era maggior cura, pulizia, silenzio, discrezione? Era proprio nello spazio francescano.
Provai un senso di disagio: come in questo luogo accade questo, mi chiesi. E davanti a quella pietra,nel minimo spazio del sepolcro e in un attimo di tempo, mi emozionai e chiesi scusa e perdono.
Quella terra è una terra che parla ancora di Gesù, e Gerusalemme ti dà un senso di nostalgia assolutamente unico.Già mentre salivo sul pulman per tornare,avevo nostalgia.
Quindi questa terra di contrasti mi comunicò un qualcosa di mistico.
Se le figura di Gesù,dei profeti, degli apostoli sono state narrate in tutte le maniere, vuol dire che qualcosa ha toccato il cuore dell'uomo.
Nonostante i misfatti condotti nei primi secoli dalla chiesa nascente, per imporre determinati dogmi e per coprire verità, il fatto che un uomo chiamato Gesù in quella terra
aspra e dura,ha portato le parole: amore, perdono, giustizia,ha esortato a non giudicare e a sperare nel Regno dei Cieli, per me vuol dire che quell'Uomo era grande.
Se pure la sua figura fosse stata costruita, chi lo ha fatto doveva sapere che tutti abbiamo bisogno di avere fede, speranza, carità da coltivare nel cuore e nella mente.
Manlio, se è stato scritto tanto, se è stato smentito tanto,se si è ucciso tanto se si sono fatte ecatombi nel suo nome, vuol dire che è ancora attuale parlare di lui e c'è bisogno di farlo, di scovare prove, di credere che non morì sulla croce ma forse andò a morire in oriente.
Ed ancora, di credere che abbia baciato Maddalena, che abbia avuto una discendenza e che stia per tornare di nuovo, una seconda volta,a giudicarci.
Quindi il bisogno di conoscenza che sentiamo alla ricerca del suo significato è il bisogno profondo
di spiritualità.
Nonostante tutto la ricerca di Lui continua anche se ci si incontra sul piano "eretico", cercare di capire di più ci fa incontrare sulla via di Damasco.
Chiedo scusa per il lungo dire.
Grazie Manlio!
Vanna
Chiedo scusa, ho sbagliato.
Ismaele fu il figlio che Abramo ebbe dalla schiava Acar prima che gli nascesse Isacco.
Giacobbe fu il nipote di Abramo.
Vanna
se le supposizioni fossero plausibili . verrebbe eliminata la divinita' di cristo . figlio di dio . morto sulla croce per noi - . abbiamo pregato gesu' per secoli morto sulla croce -.
inoltre le immagini religiose che si trovano nelle chiese che ostentano le croce sarebbero delle falsita-- ' pure tutti gli oggetti religiosi tipo catenine e rosari .che abbiamo e portiamo con amore . .
naturalmente non tutti hanno fede religiosa . percio' si pongono domande o negano certe credenze .. ma la nostra cultura è soprattutto cattolica per cui,, anche se non credono., rispettano la croce ,: a modo loro sono credenti . anche se non credono..
Manlio ciao.
ho aspettato una tua risposta per postare ancora riguardo le due presenze nell'arido territorio,più di 2000 anni fa.
La risposta non è venuta, forse non hai ritenuto di rispondere perché non hai condiviso o per altro motivo?
Ti va di dire qualcosa?
Vanna
Cara Vanna,
da parte mia ho scritto abbastanza. Lascio a chi è interessato le sue osservazioni. Nel caso tuo specifico, non vedo quale domanda mi poni, ma una serie di interrogativi a cui rispondono in modo diverso concezioni assolutamente diverse. Ovviamente la mia risposta non appare soddisfacente a chi ha concezioni diverse e tradizionali.
I luoghi storici suscitano comunque sempre emozioni particolari in chi ha animo sensibile, non solo la Palestina.
Manlio buongiorno e grazie per la risposta.
L'eccellente articolo mi ha suscitato non solo molti ricordi e molte letture, ma anche il percorso di ricerca personale di fede che feci tanto tempo fa documentandomi e mettendomi in discussione.
Fu una ricerca dolorosa per molti motivi ed approdai alla fine sulla spiaggia da dove ero partita.
Dopo tanta esplorazione mi resi conto che ogni credo aveva punti di riferimento con gli altri e che alcuni principi o dogmi erano addirittura simili se non uguali.
Mi dissi: se sono nata qui,ho preso i sacramenti pur senza averne consapevolezza,vivo in una realtà culturale impregnata di cattolicesimo nel bene e nel male, avrà pure un significato lo stare ora qui.
E ho iniziato un'altra ricerca,mi sono recata nei luoghi di culto cristiani,sono andata a Lourdes e lì ho avuto la mia illuminazione quando sotto una tempesta di pioggia violentissima,ho partecipato alla cerimonia con le flambeau. Migliaia di pellegrini sotto l'acqua a recitare il Rosario,migliaia di barelle portate a mano,tutti zuppi a cantare e pregare, mi ha fatto capire che il voler sapere passa attraverso il voler fare, il dare.
Ero andata per chiedere conferma della scelta che avevo fatto e come portarla avanti, cioè essere qui e ora cosa fare?
Ebbi la risposta guardando quella catena di solidarietà, quella partecipazione in massa mi emozionò non poco.
La mia ricerca è continuata cercando io di diventare migliore ed ho scoperto che avevo la fede e quando chiedevo nei momenti urgenti una risposta, la risposta arrivava, e arriva sai!
Non ho dimenticato le mie ricerche precedenti, tanto meno i fatti che tu hai ricostruito, ma mi raccontano la storia del potere che è seduto sui pilastri di frasi tipo : " chi è senza peccato scagli la prima pietra"," nella cruna di un ago entra un cammello ma non un ricco"," Beato chi...."
E altre semplici, efficaci regole.
Quei pilastri ancora tengono in piedi la struttura perché il nocciolo che è stato tramandato è un nocciolo di amore che ognuno dentro di sé deve coltivare.
Nel mio infinito piccolo sono qui a testimoniare che le nefandezze del potere, pur sfruttando messaggi spirituali forse costruiti al bisogno,non impediscono le azioni positive di chi crede nel bene.
Concludo affermando che la ricerca
di conoscenza è determinante non solo per trovare tracce e collegamenti,ma ancor più quando incontra la nostra interiorità.
Il nostro Dante fa morire Ulisse tra i flutti alla ricerca di " virtude e conoscenza" proprio mentre da lontano vede la montagna del Purgatorio!
Quasi a voler dire che il viaggio verso la conoscenza ci porta all'inconoscibile dentro di noi con il quale dobbiamo confrontarci per purgare i nostri limiti.
Vedi il tuo articolo a cosa mi ha portato?
Grazie Manlio.
Ti saluto caramente.
Vanna
Complimenti, prof. Tummolo. E' un piacere discutere con una persona saggia, colta, intelligente e seria come lei.
Grazie, caro Vincenzo, per la considerazione, che ricambio,
Manlio Tummolo
Oltre a un nome simile a Gesù di Nazaret, un Galileo nato in Giudea, Il processo di Galileo Galilei assomiglia a quello subito da Gesù? Galileo oltre una somiglianza funzionale aveva in quel momento anche una somiglianza fisica con Gesù di Nazaret? Cfr. Ebook (amazon) di Ravecca Massimo. Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo. Grazie.
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