mercoledì 30 marzo 2016

CLEPTOMANIA E CLEPTOFILIA NEL REGIME FINANZIARIO DELLA UNIONE EUROPEA E ITALIANO - Saggio di Manlio Tummolo

CLEPTOMANIA E CLEPTOFILIA NEL REGIME FINANZIARIO DELLA UNIONE EUROPEA E ITALIANO
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( Bertiolo,  UD  - marzo    2016 )

Il presente lavoro è dedicato a tutti i cittadini, lavoratori, contribuenti e consumatori, europei e italiani       


Molti studiosi di economia e di scienza delle finanze, di fronte alla disastrosa situazione europea e italiana degli ultimi decenni si arrampicano su scivolosissimi  specchi nel tentativo di spiegarla con le solite tradizionali dottrine d’impronta liberista che hanno dimostrato il loro insignificante vuoto almeno dal 1929. Viceversa, è ben più utile cercar di capire la crisi nelle sue reali ragioni in un libro di Mario Giordano, “L’Unione fa la truffa”, pubblicato da Mondadori già nel 2001 col sottotitolo “Tutto quello che vi hanno nascosto sull’Europa”. Eppure le radici di tutto questo sono ben lontane, almeno fin dal 1972, quando fu inventata l’IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) e creato il nuovo sistema fiscale col relativo Testo Unico delle Imposte sul Reddito (TUIR), di cui noi italiani abbiamo ben due versioni: una “previgente” (ma non del tutto abrogata) e l’altra vigente... pur significando in lingua italiana “unico” come ciò che è solo ed esclusivo (nondimeno questo aggettivo viene usato per imposte - cfr. IMU - tutt’altro che uniche). Allora si passò dalla vecchia Dichiarazione Vanoni, piuttosto semplice, all'attuale IRPEF - sempre più complicata allo scopo di spennare il popolo in modo crescentemente feroce.

Un sano sistema fiscale deve essere fondato: 
1) sulle reali esigenze di uno Stato, correlate alle effettive risorse della popolazione di quello stesso Stato;
2) sulla proporzione diretta o crescente tra i beni dei singoli e la serie di tributi, diretti e indiretti, che su di essi grava;
3) sulla semplicità e chiarezza delle procedure necessarie a pagare quei tributi;
4) sul buon uso che lo Stato dovrebbe fare della massa di introiti ricevuti dalla popolazione soggetta al fisco,

Viceversa, non occorre essere un esperto in materia finanziaria e fiscale per verificare che il nostro sistema fiscale è esattamente all'opposto perché non corrisponde alle esigenze dello Stato, non tiene conto delle reali risorse della popolazione, non è né direttamente né in modo progressivo proporzionato ai beni dei singoli, non utilizza procedure chiare e limpide, ma semmai estremamente contorte fin dai termini stessi adoperati (l’aggettivo “unico” ne è un manifesto esempio), non utilizza i propri introiti per il bene della popolazione ma li spreca nell'alimentare ogni genere di parassitismo, premiando il crimine piuttosto che l’onestà.

Si parla e si straparla assai spesso di “paradisi fiscali” e di “evasione fiscale”, ma assai poco di “inferni fiscali” e di “invasione fiscale”, come - ahi, ahi, ahi noi !!! - si verificano nella UE (che vorrebbe dire Unione Europea”, ma va specificato che non è un’unione di cittadini bensì un’aggregazione di affaristi e imbroglioni capaci solo di sfruttare parassitariamente la pazienza dei cittadini sotto lo scudo di ideali pretestuosi). Troppo spesso si sente parlare della necessità di “più Europa”, mentre non si tratta di accrescere né i già troppi poteri affidati a chi non è neppure eletto (commissari e consiglieri europei),  ma nominato dagli sgoverni degli Stati, né aumentare il numero degli Stati aderenti sulla base poi solo del cosiddetto PIL. Viceversa, si tratta di creare un’Europa vera, autentica, migliore, nella quale non si cede la sovranità ad un’accozzaglia di nullafacenti e complici di trafficanti, ma di condividere pienamente ed egualitariamente una sovranità europea.

E cominciamo pure dalla stessa “imposta sul valore aggiunto”, nata nel 1972, che è  ben un’imposta aggiunta alle altre indirette,  ma il “valore aggiunto”  qual è ?  Dove si trova ?  Di che si tratta ?    Durante le lezioni universitarie di Diritto   Tributario, docenti e ricercatori ben si sforzano di chiarire agli attoniti studenti che non è un’imposta a “cascata”, come la vecchia IGE (Imposta Generale sulle Entrate), ovvero che si ripercuote su  tutti i livelli di esazione, e credono di aver detto una cosa intelligente, dimenticando però che la vecchia IGE era piuttosto bassa (il 3 %, suppergiù) e che per la sua piccolezza si risentiva relativamente, ma che anche l’IVA è a cascata, con questa differenza che, dal produttore all’ultimo consumatore,  si paga un’IVA crescente man mano  che il prodotto nei vari gradi di vendita aumenta di prezzo, e che chi la paga è l’ultimo fesso della scala economica, che non avendo partita IVA, non può scaricarla su nessuno, nemmeno, come sarebbe equo,  sulla propria dichiarazione dei redditi.  Non solo:  ma l’aliquota IVA è ben più alta  di quella IGE. Che si fa poi di questi introiti? Una bella parte di essi serve a mantenere i capricci della Commissione UE e dei Consigli associati, i suoi lussi e, quando essa vuole, ridistribuita su canali fissi, preventivi, arbitrari, tanto nessuno ha il reale potere di  farli modificare:  altro che il famoso principio anglosassone del “senza rappresentanza, nessuna tassazione” , che fu causa delle due Rivoluzioni Inglesi, di quella Americana e, in parte, della Rivoluzione Francese.

Ma torniamo al “valore aggiunto”:  dov’è, dove si trova, chi lo determina ?  In che cosa consiste ?  Nessuno ve lo sa dire, perché il valore di un prodotto o servizio risulta solo quello  che viene ceduto  a chi lo acquista, lo consuma o lo utilizza, o se preferite quello di chi lo paga di passaggio in passaggio.

L’uso poi di questi introiti  è assolutamente negativo ed incontrollabile, e lo verifichiamo, perché largamente e spropositatamente dato agli Stati che aderiscono  per ultimi alla UE, mentre quelli che pagano da decenni (dal 1957, per intenderci)  ricevono molto meno di quanto dato, e larga parte è persa in strani meandri (vedi la nostra beata Italia).

Altra questione:  dal linguaggio economico, che non brilla mai  per chiarezza,  si parla tanto del Prodotto Interno Lordo (PIL), come base di calcolo  a cui riferire il debito pubblico di uno Stato:  ma anche questo che diavolo significa ?  Un lordo presuppone altresì  un netto ed una tara: or dove sono il prodotto interno netto e il prodotto interno tarato? Mah, misteri e giochetti su termini che non hanno alcun significato esatto, tanto è vero che oggi  - su indicazione della UE e della sua impareggiabile Commissione - vengono calcolati ad libitum o ad oculum anche  i prodotti del tutto incalcolabili della criminalità, così come ad oculum si calcola l’evasione fiscale (lo Stato si aspetta, del tutto fantasiosamente, di guadagnare dalle imposte 100;  ne riceve 50. Ecco che si mette a gridare: abbiamo il 50 %  di evasione fiscale. Che ciò sia soltanto una disinvolta approssimazione è dimostrato quando,  in conclusione di un contenzioso tributario, deve accontentarsi - specie con i ricconi che possono difendersi - del solo 30 %  del preventivato, e allora canta vittoria). A parte il fatto indecente di considerare la criminalità  una fonte di reddito per lo Stato (invece di combatterla per annientarla o almeno per ridurla ad un termine minimo), nell’economia in versione UE, la morale non vale, ma evidentemente neppure il Diritto:  per definizione introiti illeciti e non denunciati sono incalcolabili, e quindi non vanno calcolati neppure per approssimazione, senza creare l’illusione di essere più ricchi del reale (è pur vero che le attività criminali generano, per chi le pratica, ricchezza,  ma questa non circola nello Stato in generale, bensì nell’ambito criminale, come in un cerchio quasi interamente chiuso. Lo Stato ne viene danneggiato, non favorito:  di qui l’esigenza, non solo etico-giuridica,  ma economica,  di combattere la criminalità con ogni mezzo).  Ora, il punto è questo:  uno Stato o Unione, che “legalizzi o formalizzi”  l’attività criminale come PIL, non fa altro che manifestare la propria affinità e simpatia col crimine stesso, considerandolo un fenomeno fisiologico, invece che patologico, qualcosa di benefico anziché, come dovrebbe,  di venefico e maledetto .

Quanto all’Italia, il discorso è ben lungo e meriterebbe un’enciclopedia, a molti volumi, e non certo un singolo libro: data dall’intera storia italiana e potremmo risalire alla Repubblica Romana e ai suoi pubblicani.  Leggendo la “Vita di Lucullo” in Plutarco ed altri testi del tempo, scopriremmo  i metodi di esazione feroci utilizzati da quel regime, e poi imitati in forme più o meno attenuate anche ai nostri tempi.  Del resto, dalle XII Tavole si sa che i creditori  avevano anticamente il diritto di fare a pezzi letteralmente il loro debitore moroso, doloso o colposo che fosse. Poi ci si accorse che era più conveniente spogliarlo d’ogni bene, renderlo schiavo  con l’intera famiglia, e considerarlo un oggetto. Non è che oggi la mentalità sia molto diversa, malgrado conclamate garanzie.  Ma di ciò più avanti.  E’ dunque almeno da duemila anni che si preferisce, per avidità,  ricevere alla fine poco, non facilitando al debitore la possibilità di pagare decentemente il suo debito.  E come, vi domanderete ?   Semplicemente non calcolando in modo assurdo e sproporzionato gli interessi attribuiti al debito (ben superiori a quelli sul credito, detto di passaggio), bensì dando all’interesse una diretta proporzione col costo della vita effettivo.  Chiunque legga studiosi italiani di politica fiscale, almeno dal XIX secolo e particolarmente dall’unità d’Italia,  vede  che  tali autori segnalarono fin da allora la costante esosità delle imposte, sia per volume complessivo e individuale delle stesse, sia per le procedure di esazione, sia infine per il pessimo uso delle stesse.   Per tutte queste ragioni, il cittadino italiano sente atavicamente, geneticamente,  come odioso ed inaccettabile il sistema fiscale che grava su di lui .

La propaganda di regime e  giornalistica (serva della prima)  giustifica l’enorme cumulo fiscale col pretesto del debito pubblico, ma per nulla  cerca di spiegarne l’origine, anzi, per soprammercato,  usa la frase tipica “viviamo al di sopra delle nostre possibilità”, senza per nulla dire  chi realmente “viva al di sopra delle sue possibilità”. Di certo, non il normale cittadino, lavoratore, pensionato, contribuente e consumatore, semmai oberato da questo peso insostenibile. Ma che cos’è il debito pubblico, donde nasce storicamente? Secoli fa, ancora nel Medioevo, il reuccio, il feudatario, il signorotto, ecc. ecc., non avendo cognizione alcuna  di un’economia e di una finanza ben regolate, di un sistema fiscale adeguato alle risorse esistenti,  si facevano prestare dalle prime banche (italiane e tedesche soprattutto) ingenti somme per i loro rispettivi capricci:  una vita di corte sfarzosa, mantenimento di cortigiane e cortigiani, guerre e guerricciole, crociate, ecc. ecc.  Quando il sistema di gabelle  imposto ai sudditi non bastava a pagare  i banchieri creditori, i vari sovrani (Francia ed Inghilterra soprattutto) finivano per non pagarli affatto:  da qui, le prime crisi bancarie della storia (specie delle banche fiorentine nel XV secolo). In caso “positivo” di solvibilità, erano i sudditi a dover pagare con sistemi forzosi, che però non consentivano l’attivazione di servizi per il pubblico interesse .

Malgrado la Rivoluzione Francese avesse cercato di impostare la questione fiscale nei termini razionalisti dell’Illuminismo, il debito pubblico continuò, perché i vari malgoverni e sgoverni d’Europa, invece di creare un sistema fiscale chiaro e facilmente verificabile dai cittadini da utilizzare secondo le esigenze di uno Stato moderno (servizi pubblici), preferivano avere un sistema d’entrate incontrollato ed incontrollabile,  ma più comodo o “soft” (per dirla all’inglese), fondato su un atto volontario, distribuendo carta straccia come titolo ad interesse, così l’affarista versava volontariamente denaro allo Stato, in cambio di un interesse significativo nell’anno. Lo Stato a sua volta, senza dover rendere conto di quanto entrava volontariamente al resto dei cittadini (facendone un uso voluttuario come gli antichi signorotti), pagava e paga gli interessi agli affaristi  facendoli incidere sul sistema di imposte. Così, per non essere “impopolari” con un sistema fiscale diretto, severo ma equo, facevano e fanno pagare al popolo questi onerosi interessi, come se il Debito pubblico fosse a vantaggio non di pochi, ma di tutti (basti pensare al buon Mario Monti quando asseriva non pagabili le pensioni con la storia dello spread: oggi sappiamo che tutta quella vergognosa manfrina serviva solo a spremere i contribuenti italiani che già dal 1973/74 hanno visto ridurre sempre più le proprie condizioni economiche per dover pagare i frutti delle speculazioni finanziarie o gli abusi del malgoverno).

Il popolo è costretto a pagare, ma non sa né quanto paga, né  esattamente perché paga: si pensi ad es., all’automobilista quando si reca a caricare di carburante il proprio serbatoio. In realtà, quando crede di compiere questo fatto privato, egli versa allo Stato da 2/3 a 3/4 di imposte al benzinaio, che così diventa un esattore d’imposta. Non sono i normali cittadini, lavoratori e pensionati, a vivere al di sopra delle loro possibilità, ma esclusivamente i dirigenti politici ed amministrativi dello Stato, i grandi managers delle varie aziende private o semi-pubbliche, certi signori dello sport  e delle canzonette, gli acquirenti di titoli pubblici o privati. Generalmente si riconosce l’enorme divario tra i pochi ricchi e i molti poveri, ma la cosa, in regime capitalistico, viene considerata normale e lodevole, anzi si fa di tutto per incrementare (alla faccia della Costituzione e di varie leggi) tali abissali differenze, sicché 10  mangiano per 1000 e 990 devono mangiare quel che resta, come nella celebre favola della guerra del leone con i suoi “alleati” (il non meno celebre patto leonino, pur vietato dal Codice Civile). Biancaneve, nella fiaba, si fa un piattino portando via un cucchiaio dal piatto di ciascuno dei sette nani. Costoro, invece, prendono l’intero piatto, lasciando a tutti gli altri solo un cucchiaio. Pure hanno il coraggio, o meglio l’impudenza, di chiamare tutto ciò “democrazia”…

La cosa tristissima è che i normali cittadini si fanno incantare dalla pubblicità del regime e accettano pure essi questo andazzo, ritenendolo fisiologico, corretto e “democratico”.  Fino agli inizi del ‘900, quando venivano imposti nuovi tributi sulle farine o altro genere necessario, la gente si ribellava (pensiamo ai Fasci Siciliani),  scatenava vere insurrezioni, e, pur riconoscendo che allora i poveri vivevano solo di pane o poco più mentre oggi ancora non siamo a tal punto (ma non ne siamo chissà che distanti), la popolazione contribuente lascia fare, non c’è neppure una rilevante protesta elettorale che richiederebbe agli elettori di evitare il voto, come solenne protesta; non si organizzano forti manifestazioni di piazza, ecc. ecc. . Il quietismo domina sovrano, provocato quasi sempre  dal rincitrullimento collettivo (si protesta con violenza  per una partita di calcio,  ma su cose essenziali ci si rassegna pecorescamente). L’ira si accumula ugualmente, ma si sfoga come tra i quattro capponi di Renzo, beccandosi a vicenda o uccidendosi, mentre i responsabili dei mali collettivi si divertono allegramente.  Fino a quando questo gioco durerà ?  E’ difficile prevederlo:  anche domani mattina potrebbe scoppiare qualcosa, oppure di qui a mille anni.  Di certo, come la storia insegna,  più tardi esploderà la situazione, e più violenta sarà.

Finora ho parlato della cleptomania dello Stato, ovvero di quanto i vari regimi, per tradizione  derubano i cittadini comuni.  Ora si tratta di esaminare, viceversa, la cleptofilia dei regimi oggi dominanti.  Tutti sanno che il furto, ovvero l’indebita appropriazione aperta o subdola di un bene al suo legittimo proprietario da parte d’un altro,  è  pratica vietata dal Codice Penale con determinate sanzioni, più o meno gravi, secondo le circostanze e la metodologia,  ma forse non tutti sanno che lo Stato e pure organismi privati  ritengono il furto, specie quello con destrezza e subdolo,  un vero merito, mentre viene considerato demerito per il cittadino che sia derubato in quanto poco furbo o poco attento ai suoi beni.  E’  una tradizione molto antica che risale almeno alle norme di Licurgo, a Sparta:  infatti, come testimoniano gli storici greci, nell’antica Sparta non era punito il furto in sé,  ma il fatto  che il ladro si fosse fatto scoprire, poco importa se dal derubato stesso oppure da qualcun altro per conto del derubato.

Chiunque di voi lettori sia stato derubato, sa quale sia l’aria di compatimento che ricevete quando denunciate un furto, il cui autore, come nei vecchi films di Totò, è sempre il “solito ignoto”. Poiché  giustamente non posso denunciare un nome qualsiasi, rischiando per soprammercato di essere controdenunciato per calunnia o simulazione di reato, devo denunciare un ignoto. Ora, come mi sono sentito dire (ma lo sapevo già) in cancelleria del Tribunale di Trieste, è difficile trovare un ignoto per questo semplice paralogisma: chi è ignoto è sconosciuto, quindi non è perseguibile (si può perseguire, indagare il signore ignoto? Ovviamente no). Pertanto, la denuncia contro ignoti è automaticamente destinata ad essere archiviata in breve tempo. Ovviamente si tratta di paralogisma, soprattutto oggi, quando si sa ogni cosa che viene fatta da qualcuno.

Esemplifico: vi viene rubata una tessera bancomat. Il ladro vi spoglia di ogni vostro versamento sempre allo stesso impianto per una serie di volte, finché  il vostro deposito si dissolve. Ogni bancomat dovrebbe essere tutelato da una telecamera, che si accorge che lo stesso individuo a quelle ore, mentre voi siete da tutt’altra parte e lo potete dimostrare, fa come il birraio che versa le birre nei boccali. Ora, malgrado questa garanzia, il ladro può presentarsi col casco o celato da un cappuccio, non si fa scorgere il viso, quindi non è individuabile. Oppure, più semplicemente la telecamera non funziona o è mal orientata. Il furto tramite bancomat, specialmente se accompagnato da quello del codice, potrebbe essere evitato se, oltre al PIN, avesse registrato le impronte digitali o una fotografia del titolare, in modo che, se non è egli stesso ad utilizzarlo, il PIN non basterebbe ad estrarre il denaro. Così il ladro di bancomat (a proposito, qualcuno sa dirmi se, per caso, vengano venduti a privati rilevatori di bancomat nei portafogli, considerata la presenza di un elemento elettromagnetico nella tessera, peraltro di sola plastica?), non avendo quelle impronte o quella fisionomia, o non mostrando il viso, non potrebbe rubare assolutamente nulla: ma aspettiamo ulteriori progressi della tecnologia a scopo di antifurto, anche per combattere la clonazione di tali tessere, che io certo, ed altri cittadini,  non sappiamo come realizzare... ma c’è viceversa un certo numero di persone che ha le cognizioni tecniche per realizzarla.

Che il regime poi abbia un occhio di riguardo per i ladri,  lo si nota pure dal comportamento delle banche di fronte al derubato:  la banca si proclama proprietaria  della carta, ma, quando uno è derubato della stessa, se ne lava le mani, punendo anzi il derubato con ulteriori costi (sostituzione della carta e nuovo PIN). Per fatto giuridico, la banca potrebbe farsi parte lesa e parte civile (a processo iniziato), ma se ne guarda bene, malgrado il furto riguardi sì il denaro del cliente,  ma in quanto avviene per mezzo di un uso illegittimo della carta stessa,  la banca compartecipa delle conseguenze del reato.  Invece, si limita a promettere di  rendere al proprio cliente la somma derubata, se denunciata, ma poi non riconosce come furto quello che è un furto (o lo fa solo a certe condizioni, decise dalla banca stessa).  Ora, vediamo:  il derubato è costretto ovviamente a denunciare il furto subito sia nei confronti della legge in generale, sia nei confronti della banca stessa.  Nel contempo, per quantificare il furto subito (nell’eventualità di un futuro risarcimento in seguito a processo),  è anche costretto a disconoscere come proprio il prelievo di una certa somma in quel o quei giorni e a quelle ore:  perché  un furto può ben avere un autore ignoto, ma l’oggetto derubato deve essere chiaramente specificato, si tratti di denaro o di cose, sempre in funzione di un futuro e possibile processo.

Questo disconoscimento deve avvenire sia davanti alle Forze dell’Ordine, sia alla banca stessa,  che però se ne lava le mani, pur facendo riempire moduli con quello scopo e, quindi, facendo perdere tempo agli impiegati e al derubato, visto che, con un pretesto o l’altro, non accetta il disconoscimento, anzi ti infligge costi aggiuntivi. Eppure, alla banca quel pezzo di plastica magnetizzato non costa nulla, anzi ti viene dato per poter ridurre,  con procedure automatiche,  la quantità di personale necessario.

Non so altrove, ma a Trieste la società locale dei trasporti urbani e la stessa amministrazione comunale, per ridurre l’inquinamento, ti consigliano o ti impongono di utilizzare il mezzo pubblico. Poi aggiungono, con avvisi, di far attenzione ai borseggiatori che, vedi caso, non vengono mai presi o, se presi, restano in carcere giusto il tempo minimo, per poi tornare a rubare subito dopo. Da un lato ti incoraggiano a salire sull’autobus, dall’altro ti invitano a stare attento ai borseggiatori come se questi avessero un qualche distintivo o segno di riconoscimento. Se vieni derubato in autobus la colpa non è attribuita al borseggiatore, ovviamente, e nemmeno alla società di trasporti che ha eliminato  da decenni il vecchio caro bigliettaio e ridotto al minimo i controllori... è colpa del borseggiato che non stava attento ai suoi beni come se mettesse i soldi appesi al berretto con su scritto “prendetemi”, oppure il portafoglio in bella evidenza con la stessa scritta. E’ evidente che il borseggiatore sa bene il proprio mestiere e, riguardo ai bancomat, penso che abbia qualche apparecchietto rilevatore (ovviamente di invenzione americana) che segnala la presenza di una tessera magnetica tanto da andare a colpo sicuro nella tasca o nel/la borsetto/a di un passeggero, senza farsene minimamente accorgere (è il mio caso sull’autobus numero 29 della Trieste Trasporti, non particolarmente affollato, in data 8 luglio 2015 circa alle ore 11.30, mentre candidamente e del tutto serenamente parlavo con una mia ex-collega d’Università). Quando ci si accorge del furto, perché si cerca il portafoglio, può essere tardi e il ladro, tutto felice della sua pesca di beneficenza, va ad incassare il meritato guadagno. Ma, se qualcuno denunciasse la società di pubblico trasporto per connivenza con i borseggiatori o per mancata sorveglianza, o altra forma di favoreggiamento colposo o doloso, rischierebbe probabilmente di essere perseguito per calunnia.

Del resto, chiunque abbia avuto esperienza di un furto in casa, sa come la legge sia molto severa con chi affronta il ladro, o  violatore di domicilio, e lo malmena,  per non parlare poi del caso che lo ferisca con arma da fuoco, lo insegua o che altro. Il ladro è, nell’attuale regime, una professione molto onorata, rispettata e tutelata.

D’altronde che il sistema bancario abbia molte affinità, somiglianze e parentele con gli autori ignoti di furto, lo si nota bene negli ultimi decenni: ad esempio, confrontando gli interessi di credito del cliente con gli interessi di debito del cliente stesso, malgrado le deflazioni  tanto declamate dal capo supremo della Banca Centrale Europea. Oppure, quando si tratta degli interessi su un debito qualunque (mutuo o fido che sia): logica vorrebbe che si calcolassero prima le rate da versare  sul debito iniziale, poi i relativi interessi, anche perché  l’inflazione, il costo della vita, ecc., non  si possono calcolare con approssimazione a distanza di dieci, venti o trent’anni. Chi ha una certa età, sa bene come dal 1973/ 74, l’anno della grande crisi petrolifera, ad oggi, le mutazioni finanziarie sono state enormi, addirittura inimmaginabili: come dunque calcolare preventivamente gli interessi oltre i cinque anni? E nondimeno le banche fanno pagare prima del tutto o prevalentemente gli interessi, poi il debito originario. Così per pura avidità rischiano di perdere o perdono somme rilevanti.

Inoltre il sistema è tale che non facilita l’assolvimento dei doveri di un debitore: come già ai tempi dei pubblicani di Roma antica, il debito si accumula in modo tale da rendere impossibile il pagarlo, e oggi - fortunatamente - non esiste la schiavitù, né il “diritto” di far a pezzi il debitore, tuttavia esiste il diritto di rovinarlo per il resto dei suoi anni, talvolta anche per cifre relativamente basse, che però - non pagate – provocano interessi di mora e sanzioni varie. Le carte di credito, ad es, sono un caso di questo genere: si parte da cifre non alte, ma, dati gli interessi notevoli (il 14 % e più in questi anni!!), si finisce per rendere quasi impossibile senza ulteriori traffici o penosi sacrifici il saldare completamente. Ne consegue che per una somma ricevuta di 7.000 euro si finisce per vederla raddoppiata o triplicata.

Si può anche constatare come il cliente della banca sia penalizzato come creditore, visto che riceve pochi interessi e vede sfumare i suoi depositi da imposte fisse dello Stato o da strani e poco precisati servizi bancari, solo perché si tratta di conti correnti, tanto “correnti”  che spariscono. Il sistema telematico, inoltre, consente, almeno dal 1993 (sgoverno Amato), di depredare i risparmiatori senza nemmeno farlo sapere o facendolo sapere in ritardo. Un altro caso più recente, dello sgoverno Berlusconi, è quello di far sparire i libretti cosiddetti dormienti (nel caso di persone molto anziane o di deceduti, i cui eredi non sappiano dell’esistenza di questi depositi, si vedono poi depredati senza pietà). Se il cliente di banca è debitore, è sempre danneggiato sia che paghi in anticipo, sia che paghi puntualmente o che paghi in ritardo.

Tutto ciò è provocato essenzialmente dalla brama di lucro senza freni né proporzioni: il Codice Civile non fa distinzioni proporzionali, una scala gerarchica nell’attivo di una determinata attività economica. Tale indeterminatezza favorisce appunto ogni forma di avidità. A solo titolo esemplificativo propongo, viceversa, questa scala di valore quantitativo, tenendo conto tuttavia delle diverse attività economiche e della situazione inflattiva o deflattiva:

1) pareggio:  quando i ricavi pareggiano i costi complessivi di una certa attività economica;
2) attivo o utile: quando tali ricavi sono superiori, di poco o tanto, ai costi complessivi;
3) profitto: quando l’attivo giunge al 30 - 40 % dei costi complessivi;
4) lucro: quando l’attivo supera il 30 – 40 % dei costi complessivi.

Ora, mentre il profitto è necessario per l’esistenza del produttore o conduttore di attività economiche consentendogli una vita agiata e, al tempo stesso, di reinvestire una parte dell’attivo nel progresso della propria attività, il lucro finisce per essere adoperato in cose superflue, se non per la corruzione di altri, limitando la circolazione della ricchezza in un ambito ben limitato. 

Uno Stato non è ricco quando al suo interno esistono pochi grandi ricchi, ma quando e perché la ricchezza è distribuita il più ampiamente e proporzionalmente possibile. 

Una moneta da un euro non vale di più perché investita in un certo ambito ristretto, ma perché circola in più mani e consente a più persone di acquistare più beni in un tempo più rapido: se essa giace in un cassetto o in una cassaforte, o se viene investita nell’illusione di averne due in un dato tempo, essa è meno utile alla collettività rispetto al suo inserimento in una veloce circolazione. Ci si chiederà: ma il risparmio? Il piccolo risparmio (quello di un bambino, ad es.)  ha un significato educativo, che gli consente di accumulare un certo numero di monete per comprarsi ciò che gli piace e non per sentir tintinnare il suo salvadanaio personale; il risparmio di un adulto è depositato in una banca che lo utilizza appunto per farlo circolare, e non per accumularlo nelle proprie casseforti utilizzando somme più o meno rilevanti per determinati investimenti.

Viceversa, sappiamo bene che così non è, e la finanza diventa un sistema ladresco più o meno scoperto che finisce per danneggiare il normale risparmiatore (volontario o forzato che sia, come il lavoratore a cui vengono tolti i contributi per proteggere la sua vecchiaia o periodo post-lavorativo... che però si vede defraudato sia del capitale versato, sia degli interessi accumulati in decenni di lavoro e di deposito: perché questa è ciò che, con termine ambiguo e vago, ma prevalente, viene chiamato “pensione”, mentre si dovrebbe chiamare “rendita da capitale di lavoro a scopo previdenziale”).

Un altro sistema di furto sui cittadini è dato da certi servizi pubblici, privatizzati in tutto o in parte, e non più fondati sul principio del semplice attivo e del limitato e ragionevole profitto, bensì sul lucro più sfrenato. Ma che vuol dire “servizio pubblico”? Un ente che svolge una certa attività economica nell’interesse della collettività nel suo complesso: ad esempio i trasporti, l’energia elettrica, la distribuzione del gas, la scuola.

Nel 1962 e fino a tutti gli anni ’80, il servizio pubblico aveva lo scopo, almeno dichiarato, di servire (essere utile, beneficiare) alla cittadinanza con tariffe tali da consentire pareggio o lieve attivo, sufficienti a mantenere il servizio stesso. Già con la crisi petrolifera, ma ancor più con gli anni ’90, il servizio pubblico viene inteso come un’organizzazione atta a far sì che il pubblico serva (sia schiavo del…) il servizio, onde procurargli non più modesti profitti, ma forti lucri da distribuire agli azionisti della società semiprivatizzata. Per quanto poi si parli di pluralità di erogatori di servizi che, per concorrenza, dovrebbero far diminuire i costi, essendo la fonte di tutto sempre unica, tale concorrenza è puramente dichiarata, non effettiva. Quello che è certo è che, a qualunque società erogatrice ci si rivolga, il costo è sempre molto elevato, a cui si aggiunge l’occhiuta e adunca zampa dello Stato e degli enti locali con le loro svariate imposte che si accumulano una sull’altra (tipici l’IVA, di cui si è detto sopra, e il cumulo di imposte).

Esistono enti che dovrebbero tutelare il cittadino e contribuente (garanti, autorità, ecc.), tutta gente che aggiunge costi su costi al cittadino, ma che, se vi rivolgete ad essi, danno sempre ragione al più forte e quasi mai al singolo cittadino (vecchio principio giuridico: il  forte ha sempre più ragione del debole). Farò  un altro esempio personale recente che, per carità di patria, nasconderò sotto falsi nomi. Fin dal 1962 esisteva un ente  chiamato MAGNETEL che, per conto dello Stato, distribuiva a prezzi decenti l’energia magnetica.  Esso, negli anni ’90, venne “privatizzato” su ordini della finanza internazionale e della sopra apprezzata UE.  Più recentemente, sempre per mimetizzare il debito pubblico, si è scorporata dalla vecchia società una MAGNETEL DISTRIBUTION, una società MAGNETEL MAGNETICS SERVICES, e infine una MAGNETEL FORCE. Quest’ultima ha scatenato una grossa campagna promotrice, giocando sul vecchio marchio MAGNETEL, sicché  alcune persone, tra cui lo scrivente, hanno aderito. La proposta telefonica era allettante, perché si prometteva che a parità  di condizioni le tariffe sarebbero di molto calate per un certo numero d’anni. Le prime due bollette della MAGNETEL FORCE sembravano realizzare questa promessa,  ma la terza fu un disastro perché – per il medesimo periodo d’anno e di fronte ad uso pressoché identico  (vivo solo e quindi so quanto consumo e come) - il costo complessivo era più che doppio rispetto a quello dell’anno precedente e di tutti gli anni precedenti…

Questo in tempi di tanto decantata deflazione e di fronte alle flautate promesse della sirena telefonica (sirena nel senso omerico: ma si sa che, a seguirle, si impazzisce e si annega), non poteva non suscitare la mia legittima reazione di protesta e di ulteriore controllo (faccio presente che da anni controllo i miei consumi  giorno per giorno e li annoto su un quaderno). Verificando i consumi da me registrati e quelli segnalati sulla bolletta, la cosa non faceva una grinza, ma controllando poi nelle varie fasce orarie, risultavano consumi di energia magnetica non corrispondenti all’uso effettivo, sempre uguale da anni (da quando vivo a Bertiolo, maggio 2007), mentre quelli risultanti sul contatore erano variabili. Tanto per dire, pur utilizzando il sistema biorario e pur magari in mia assenza, alla domenica vengono aggiunti, non in omaggio ovviamente, kw/h in più (almeno 5) per recuperare quanto si dovrebbe spendere di meno a causa dell’ora di utilizzo più “conveniente”. Lo stesso, in misura minore, nei giorni feriali. Ma confrontando a parità d’uso il giorno feriale con quello festivo, nel consumo di energia magnetica si notava un salto da 7 a 12 o più kw/h. In un primo tempo pensai a un guasto, ma ben presto pareva ovvio che il guasto non avrebbe distinto così bene i giorni festivi (numerosi in dicembre e gennaio) dai giorni feriali, a scapito di quella che doveva essere una tariffa più bassa.

In sostanza, si fanno risultare kw/h in più di energia magnetica per recuperare quanto la giornata dovrebbe far pagare di meno. Come, vi chiederete? Guardate i vostri contatori: sono dei piccoli cervellini elettronici. Essi dovrebbero comunicare ad una centrale di raccolta-dati quanto avete consumato, senza che sia necessario mandare casa per casa un controllore, come si faceva circa dieci anni fa. Un risparmio di tempo e di stipendi che dovrebbe far felici e contenti gli azionisti della MAGNETEL FORCE. Ma ciò non basta; quando si è avidi si desidera guadagnare sempre di più e pagare sempre di meno: l’ideale dell’affarista è un diagramma in cui i lucri crescono a velocità uniformemente accelerata, anche se ciò è ben lontano dal realizzarsi. Quello è il desiderio, il sogno, e si utilizza ogni strumento per approssimarsi ad esso. Pare dunque ovvio che il contatore, tanto moderno, dialoga con la centrale: più che trasmettere, riceve i dati o aggiunge dati ulteriori a quelli che vengono trasmessi. Naturalmente i tecnici della MAGNETEL DISTRIBUTION lo negano con energia (ovvio), ma è facile capire che è così solo se si ha la pazienza di registrare sistematicamente i dati durante il giorno, in quelli feriali, come festivi.

Così  ho pagato due esose bollette bimestrali (totale 478 euro più centesimi, mentre ne pagavo per quattro mesi  sotto i 250), ma ho già provveduto a rompere il contratto passando ad altra società (che ha anche il vantaggio di avere uffici con personale umano e non flautate voci telefoniche) e, in secondo momento, al deposito di una querela corredata  dalle mie registrazioni dei consumi e da altra documentazione alla Procura presso il  Tribunale Ordinario di Udine (non mi illudo, per diretta e pregressa esperienza, che indaghino a fondo, ma che almeno stiano in guardia e, in futuro, non possano dire “non sapevamo”).

In conclusione, il cittadino contribuente e consumatore vede costantemente smentita non solo la finalità  tanto proclamata dell’Unione Europea (che non è “unione”, ma aggregazione d’affari, che non è Europa, in quanto in greco il prefisso “eu” significa “bello e buono”, bensì  Caco-ropa, ovvero “Ropa brutta e cattiva”,  come in cacofonia) del benessere diffuso, in quanto i vantaggi spettano solo ai grandi speculatori internazionali, ma anche le norme costituzionali a partire dall’art.1 (lavoro come fondamento della Repubblica), agli artt. 3 (uguaglianza), 4 (diritto al lavoro), 14 (inviolabilità del domicilio), 23 (prestazioni economiche in base alla legge), 28 (responsabilità civile dello Stato, enti pubblici, e dirigenti), 31 (agevolazioni per la famiglia), 32 (tutela della salute), 35 (tutela del lavoro), 36 (retribuzione proporzionata), 38 (diritti degli inabili e diritti previdenziali), 41 (II comma, divieto di danneggiare la sicurezza, la dignità, la libertà), 45 (funzione economico-sociale della cooperazione nel lavoro), e soprattutto l’art. 47 (sulla tutela del risparmio, mai tanto poco tutelato come in questi ultimi due decenni, tanto da diventare qualcosa di derisorio) .

Il popolo italiano se ne renda conto, soprattutto nelle prossime occasioni elettorali, punendo col voto i responsabili di tutto ciò .

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14 commenti:

Gilberto ha detto...

Caro Manlio
L'ho letto d'un fiato. Articolo drammaticamente spassosissimo, la perfetta e surreale fotografia del sistema paese nel quale si vive, senza infingimenti e senza illusioni.

Bruno ha detto...

@Manlio, complimenti, ho letto tutto d'un fiato il tuo articolo, hai fatto una bella panoramica di una purtroppo brutta situazione della nostra cara Italia. Sulla fantomatica "Magnitel" ci sono cascato anch'io per fortuna mi sono accorto in tempo giusto in tre o quattro mesi che ra una rapina a "bolletta armata" e con il colpo in canna, ma chissà quante persone, e dunque famiglie, rimarranno intrappolate con il turpe miraggio del risparmio. I nostri "cari politici" e chi difende i consumatori, dovrebbero intervenire anche su questi soprusi. Grazie Manlio sperando che il tuo intervento possa far riflettere e rendere più prudenti le famiglie.

Manlio Tummolo ha detto...

Grazie a voi, carissimi Gilberto e Bruno: il fatto è che questi fantomatici fantasmi di un ex-servizio pubblico "privatizzato" si presentano sotto lo stesso nome, logo e sede, compiendo così truffe anche verso quelli che, come me, sono abbastanza scettici su certe proposte. Infatti, non mi aspettavo risparmi, ma almeno di conservare, euro più o euro meno, la stessa cifra in bolletta... Invece, alla faccia della deflazione (per stipendi e redditi fissi, non certo per le bollette), mi sono visto raddoppiare il conto.

Grazie anche a Massimo Parati, per il suo integro coraggio nel pubblicare le sue e le nostre denunce, malgrado i problemi e gli impegni. Persona che lotta, non dal retrobottega, ma sempre in prima linea.

Manlio Tummolo ha detto...

Errata Corrige:

"Massimo Prati", non "Parati". Resto sempre il solito distratto !

Vanna ha detto...

Manlio, finalmente ho iniziato a leggere il tuo nuovo e interessante saggio, molto impegnativo per me che non capisco nulla di Economia, (se non quella domestica) di Giurisprudenza, man mano che vado avanti mi appunterò ciò che condivido o meno e ti dirò la mia, ma già vado condividendo il tuo dire chiaro chiaro.

Manlio Tummolo ha detto...

Grazie Vanna, ma non credo che questo mio ultimo scritto sia particolarmente complesso: è la descrizione della triste realtà nazionale ed europea, Manlio

Vanna ha detto...

Finalmente Manlio sono riuscita a leggere il tuo affresco sulla realtà nella quale viviamo, hai evocato le epoche arcaiche delle XII tavole, ho il vago presentimento che stanno per tornare.

Ti confido: nel mio piccolo, mi vado attivando per la sopravvivenza secondo queste modeste regole:
- non cambio gestori, ho gli stessi da sempre;
- coltivo il mio terrazzo dal quale ricavo gli agli per un anno, le cipolle, l'insalata, peperoni e melanzane e pomodori, da semi antichi, perché se compri le piantine anno per anno e hai la fortuna di vederle ricrescere l'anno dopo, non ti danno il frutto perché sono geneticamente modificate!
Questa è l'altra trappola assurda escogitata dalle multinazionali.
Mi diverto!
- Non compro più detersivi già da qualche: faccio il il sapone con l'olio d'oliva: ricetta antica, faccio bollire la cenere e ricavo la liscivia.
Non ci vuole molto tempo e tutto è a costo zero.
Si tornerà all'arcaico quanto prima.
Ciao Manlio, continua a scrivere mi raccomando.

Ivana ha detto...

Manlio, ritengo che i tuoi articoli invitino sempre alla riflessione.

Segnalo un interessante articolo, su cui penso dovremmo riflettere tutti/e (io per prima!), del logico-matematico Piergiorgio Odifreddi:
http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/2016/01/06/ogm-e-superstizione-parole-di-un-nobel/

Manlio Tummolo ha detto...

Grazie a Vanna ed Ivana: purtroppo, per quanto ci si possa saper difendere individualmente (dal mio fronte ho presentato una querela formale contro ENEL ENERGIA), si sa che singolarmente siamo deboli, tanto più se non abbiamo grossi conti (correnti o dormienti...) in Banca. Si fa quello che si può, più per la nostra coscienza, che per l'efficacia di quello che si tenta di fare. Quando avrò un po' di tempo, cercherò di dimostrare, magari con la verifica di Ivana, che ottenendo un mutuo a tasso fisso, si crede di pagare ad es. il 5 % annuo, ed invece ti fanno pagare il 50 %. Ma richiede un piccolo teorema che, a sua volta, richiede un po' di tempo. Vivi saluti, Manlio

Manlio Tummolo ha detto...

TEOREMA BANCARIO DEL MUTUO A TASSO FISSO

Con cortese invito a verifiche ed eventuali correzioni.

Sia posto, per semplicità, un finanziamento a tasso fisso di euro 100.000, pagabile in 10 anni con interesse annuo del 5%. Come viene saldato l'ammontare complessivo alla fine del decimo anno ?

Secondo il metodo "francese" (un tempo si chiamava il mal francese la sifilide...), si moltiplica l'interesse annuo per i dieci anni, ovvero 5% x 10 = 50% decennale.

Si aggiunge alla somma prestata il risultato di tale percentuale, ovvero 50.000, così che si ha un ammontare comprensivo degli interessi di euro 150.000. Si divide poi tale cifra per 120 rate mensili, il che corrisponde a 1.250 euro al mese da versare nelle rigonfie cassaforti della banca. Ci si illude di versare solo il 5 % annuo, mentre in realtà, si paga il 50 % per ciascuna rata. Va poi precisato che, con il sistema francese, si scalano prima gli interessi in discesa, mentre l'ammortamento del debito originario si scala in salita.

Vediamo ora un procedimento diverso: siano sempre 100.000 gli euro prestati. Dividiamoli per 10 anni, per cui si ha una quota annua di 10.000 euro. La percentuale del 5% dà 500, che, sommata ai 10.000, produce 10.500 euro annui, da dividere per 12, col risultato di rata mensile pari ad euro 875. Tra il metodo francese e quello da me proposto passa una differenza di 375 euro mensili, che sta 2,33 periodico in 875, e 3,33 periodico in 1250: come si nota, una bella differenza, tutta a vantaggio delle banche. Moltiplicando, infatti, i 500 euro di interesse per 10 anni, otterremo pur sempre il 5 % sul totale del debito, ovvero 5.000 da aggiungere ai 100.000. Col metodo francese, moltiplicando non il risultato della percentuale, ma la percentuale stessa, si pagherà sempre subdolamente il 50 % in ogni singola rata, con l'apparenza del 5 %.

Ivana ha detto...

Carissimo Manlio,
dapprima il tuo ragionamento mi era apparso convincente, ma, cercando di approfondire, ho preferito chiedere lumi a un mio carissimo amico matematico, che, privatamente mi ha scritto quanto segue (e ho avuto la sua autorizzazione a pubblicare la sua risposta e, quindi, lo ringrazio):
Non ho molta simpatia per il metodo di ammortamento alla francese. Questo opera in regime di capitalizzazione composta, ma calcola il tasso mensile equivalente dividendo per 12, un'approssimazione che va a vantaggio di chi concede il prestito producendo nel nostro caso una rata mensile costante di 1060 contro 1055 che si avrebbe, in regime di capitalizzazione composta, senza quella approssimazione. Per il tasso mensile corretto si dovrebbe estrarre una radice dodicesima. Con gli strumenti di calcolo odierni non è più una complicazione significativa, ma le "avide banche " continuano a preferirla non perché sia francese, ma solo perché dà loro un po' di più di rendimento.
In particolare detesto l'usanza di sommare la quota interessi versata ogni mese. A mio avviso, infatti, servono solo a confondere le idee dato che gli addendi sono somme diversamente collocate nel tempo e quindi da valutare opportunamente ognuna secondo il tempo passato dal versamento al momento del conteggio finale.
Detto questo però, a mio avviso, il sistema ingegnoso escogitato dal Sig. Tummolo ha lo stesso difetto di cui ho appena parlato
Non tiene conto del fatto che in matematica finanziaria il tempo è danaro e che quindi gli importi vanno valutati con precisione in funzione del tempo.
Mentre però nel sistema alla francese quella confusione non incide sulla determinazione della rata, ma serve solo a rendere, agli occhi dei più, ben presentabile il piano di ammortamento, nel nostro caso invece ha conseguenze assai importanti sulla rata che si ridurrebbe a sole 875 unità.
Sempre a mio avviso l'errore fatto è quello di considerare un prestito decennale di 100000 equivalente a 10 prestiti annui da 10000.”


Se ti interessassero ulteriori informazioni, chiedi, eventualmente, a Massimo Prati di farti avere, in modo privato, il mio indirizzo di posta elettronica.
Cordialità
Ivana

Manlio Tummolo ha detto...

Carissima Ivana,

il tuo collega matematico ha ragione, che il tempo è denaro, e va calcolato, soprattutto relativamente alle fluttuazioni del valore del denaro stesso, al di là delle fittizie stabilizzazioni degli interessi bancari in sede europea. Ciò che a me premeva dimostrare è che la proporzione in percentuale, apparentemente usata dalle banche, non sussiste, o meglio è una proporzione calcolata artificiosamente sugli anni di ammortamento, con vantaggi piuttosto forti nella prima metà, assai meno nel resto del tempo, mentre al debitore la cosa pesa notevolmente in tempi di stagnazione o deflazione.

Il punto è che le banche non fanno mai beneficenza (nemmeno quelle "etiche"), e se prestano mirano sempre ad un largo lucro qualunque sia il metodo di prestito e del calcolo degli interessi (un prestito dei primi anni dell'euro, nel giro di tre o quattro anni, era passato da rate di 200 mensili a 300 mensili, e questo non certo in tempi di grande inflazione). Però l'avidità è una cosa stupida al di là delle questioni matematiche pure, perché quando uno è strangolato deve rinunciare a pagare o deve ristrutturare il debito), il che quando sono in gioco aziende di una certa diensione, comporta l'inaridimento delle fonti lucrose per la banca stessa. Il discorso, in conclusione, più che matematico è di economia sociale.

manlio.tummolo ha detto...

Carissima Ivana, ed altri eventualmente interessati,
da quel che si è detto, appare chiaro che il calcolo anticipato degli interessi bancari, siano a "tasso fisso", siano a tasso variabile, è sempre scorretto. Occorrerebbe calcolarli alla fine di ciascun anno, sulla base del debito residuo. Poniamo che abbia un prestito di 100.000 euro e paghi 10.000 all'anno, l'anno successivo dovrei calcolare, mettiamo, il 5 % di 90.000, da aggiungere, ovvero 4.500, ai 90.000. Ovviamente, se - come succedeva negli anni '70 - '80 - l'inflazione fosse molto alta, occorrerebbe tenerne conto mettendo interessi corrispondente maggiorati di 1 o 2 %, sempre annualmente, e non avere inoltre una grosso sbalzo tra interessi debitori e interessi creditori, come avviine invece (per cui, chi è creditore d'una banca non riceve oggi niente, anzi è derubato, e chi invece è debitore paga percentuali ai limiti dell'usura). Ma perché si raggiunga un simile equilibrio, occorrebbe una banca che commisuri il profitto ad esigenze di economia sociale, nel reciproco interesse di creditori e di debitori.
Viceversa, oggi si agisce in modo che molto spesso il debitore di banca sia letteralmente strangolato e pertanto non riesca a pagare, con un danno, alla fine, reciproco.

Manlio Tummolo ha detto...

A PROPOSITO DI REPUBBLICA

Ieri, era il 70° Anniversario del referendum per la scelta tra Repubblica o Monarchia. Solita propaganda di regime, dove sembra che abbiamo fatto enormi progressi, il che è tutto da discutere. Montesquieu, nel suo celebre libro "Lo Spirito delle Leggi" definì la Repubblica, sulla base di antichi princìpi risalenti a Platone (un Platone, rivisto attraverso Plutarco), il "Governo della Virtù", mentre la monarchia era qualificata "Governo dell'Onore". Non so se la Monarchia sia mai stata un "governo dell'onore (ne dubito), ma quello che è certo è che la nostra sedicente "Repubblica" non è mai stata un "Governo della Virtù", nemmeno all'atto della fondazione (nasce infatti dopo l'oscura manovra per rovesciare il Governo Parri novembre 1945, ed instaurare quello dell'austriacante Alcide De Gasperi). "Repubblica" quindi di nome: di fatto nacque lo Stato Pontificio d'Italia, retto dal papa, con finanziamenti americani (verso la DC) e sovietici (al PCI e PSI), il tutto fondato sui ludi circenses. Tutto questo ci ha condotti al clerico-marxismo, ossia a quella vigente ideologia e prassi che nega Dio, ma esalta il papa; che si dice marxista, ma adora il sistema capitalistico. Per ben che si dica, dal 1946/ 48 in poi abbiamo avuto il Governo della Confusione, piuttosto che quello della Virtù....