lunedì 16 novembre 2015

Caso Bossetti tra letteratura e realtà. Il profilo antropologico (e narrativo) del Bel Paese e delle sue vergogne...

Di Gilberto Migliorini


Ci sono vicende e casi che sono caratteristici, al di là del loro contenuto palese e dei loro aspetti formali, per quei nessi intraducibili e misteriosi con l’animo di un popolo con tutti i suoi vezzi e le sue civetterie, rivelatori dei luoghi dell’inconscio collettivo di una nazione e delle proverbiali idiosincrasie di un Bel Paese perennemente votato a replicare i suoi schemi mentali, le sue rimozioni, gli immancabili pregiudizi. Riguardato da una prospettiva più esoterica (e introspettiva) il caso Bossetti risulta davvero emblematico non solo di un sistema giudiziario con tutte le sue curiose e peculiari modalità di funzionamento, le sue procedure e la sua forma mentis, ma anche dei modi con i quali l’ambiente psico-sociale di un Paese traduce i fatti e li rappresenta sotto forma di immagine culturale. La sinossi massmediatica raccoglie non solo dei dati antropometrici ma anche la mentalità e i valori di un italiano, sorta di Calandrino alla ricerca dell’elitropia come nell'omonima novella del Boccaccio, quella pietra che rende invisibile… più a noi stessi che agli altri, il quadrante cieco della nostra personalità collettiva che riusciamo a (intra)vedere nei personaggi letterari e nel transfert con il quale investiamo emotivamente le vicende di cronaca. Il cold case diventa una sorta di commedia (o di romanzo) dove il protagonista non è l’imputato ufficiale, è quell’italiano descritto drammaticamente mediante l’alter ego del presunto colpevole, per interposta persona, rappresentato soprattutto nello spirito di un popolo e delle sue istituzioni sotto forma di modelli culturali radicati nella nostra storia millenaria.

La radiografia di un Paese attraverso un caso giudiziario rappresenta un’occasione irripetibile per mettere a nudo le vergogne, quello che perfino l’occhio dismagato del cronista non riesce a cogliere del genio italico e delle sue fobie, avversioni e intolleranze, e soprattutto quegli stereotipi che scandiscono la nostra storia e la nostra cultura. L’abitante del Bel Paese - assuefatto ai déjà vu e alle profilazioni mediatiche - si è reso invisibile. Nascosto in un sistema ideologico chiuso in se stesso e permeato di cliché, sembra incapace di cogliersi da fuori o di fornire un ritratto introspettivo che ne sveli le pulsioni inconfessabili. Un Paese perennemente alla ricerca del suo profilo antropologico, ma costantemente ignaro dei suoi automatismi mentali. Le inconsce peculiarità espressive di un popolo e delle sue istituzioni rappresentano un ritratto sociologico convenzionale offerto dal sistema mediatico e dai suoi epigoni. I consueti metodi quantitativi dei comportamenti osservabili appaiono come radiografie di un italiano puramente virtuale.

È la metafora letteraria che riesce ad aggirare le difese e le resistenze inconsce, a penetrare l’anima di un popolo oltre gli stilemi convenzionali e le profilazioni di maniera, a mettere alla berlina quell’immagine taroccata dell’utente mediatico. Nella finzione del romanzo, nella metafora letteraria, si realizza la disamina dei processi mentali e istituzionali, utilizzando il reagente delle figure e delle immagini dei procedimenti narrativi. La decodifica avviene in quella forma letteraria che non conosce le tipiche censure di un intellettuale inamidato, le preclusioni di tanto giornalismo copia e incolla e di quella pletora di opinionisti da salterio liturgico, criminologi per vocazione e per decreto televisivo.

L’ambiente mediatico, soprattutto televisivo, è per sua natura opaco e ripetitivo, refrattario a qualsiasi auto-analisi, impermeabile ai procedimenti di verifica che non siano i soliti schematismi celebrativi, i narcisismi edificanti, o le classiche parodie di maniera per un pubblico di bocca buona. I media replicano una sorta di immagine caricaturale del civis italicus, una silloge antologica dove vengono rappresentati difetti e imperfezioni, in una descrizione artificiale del cold case d’attualità.

Il caso Bossetti, in particolare, letto in filigrana e riguardato come evento mediatico ha tutte le caratteristiche di uno schermo dove si proiettano i vissuti e la mentalità di una nazione con tutti gli effetti speciali che danno alla vicenda l’attrattiva di un romanzo, non importa se criminale o semplicemente di costume, uno sceneggiato a puntate, uno zibaldone con tutti gli ingredienti dell’anima di un popolo, della sua identità caratteriale e dei suoi abiti mentali.

Il modello è quello manzoniano dei Promessi Sposi, dei Renzo e Lucia che rappresentano metaforicamente i capri espiatori (sia pure nel lieto fine del romanzo), cartina al tornasole di quelle dinamiche sociali dove il potere si manifesta in una nemesi, la parodia della giustizia, salvata in extremis dall'intervento salvifico della provvidenza divina...

Qualcuno storcerà il naso per un accostamento tanto azzardato, preferendo magari dello stesso autore il famoso Processo agli untori, Piazza e Mora, nella Storia della colonna infame, con i connessi meccanismi di psicosi in situazioni di stress collettivo (la peste o nell'attualità una crisi protratta di sistema). Gli eventi drammatici fungono da innesco e catalizzatore delle fantasmatiche proiezioni sociali, con l’immancabile capro espiatorio a risollevare il morale di un Paese sempre alla ricerca del Sacro Graal della giustizia e il classico escamotage per scaricare su qualche zimbello le contraddizioni sociali.

Nel processo agli untori, nel 1630, era una giustizia protesa a dare consistenza di realtà alle fantasie di una donnetta, Caterina Rosa, in un procedimento giudiziario fondato sui consueti indizi fecondi e… inconsistenti. Il sistema giudiziario in mancanza di fatti concreti si affidava ai soliti procedimenti induttivi, ai nessi immancabili in un reticolo di collegamenti arbitrari, fantasiosi e gratuiti, ma purtuttavia provvidenziali per sviluppare un copione con tanto di tortura ed esecuzione capitale per un pubblico allegramente assiepato attorno al patibolo. Quelle inferenze induttive (gli indizi del tacchino di Russell) che l’epistemologia contemporanea (Popper) ha messo più volte alla berlina e che pure costituiscono il fondamento di tanti processi telegenici e di tante tirate sociologiche di retori e opinionisti del pulpito mediatico.

Oggi si tratta di quel Dna. La biologia è un ingrediente come il prezzemolo, c’entra sempre, mentre l’indagine tradizionale per alcuni serve più che altro a far da contorno a dei reperti che proprio come nel caso manzoniano hanno l’attrattiva del marchio dell’untore e la pretesa della prova regina. Peccato che allora non ci fossero i RIS, si sarebbe pronti a scommettere che sul muro dove il Piazza, commissario di sanità, si era strusciato per salvarsi da uno scroscio di pioggia, avrebbero immancabilmente rilevato i germi pestiferi, e nella bottega del barbiere, il Mora, si sarebbe individuato l’unguento con tanto di analisi batteriologica che inchioda il colpevole. Allora bisognava accontentarsi del fiuto (e della diceria dell’untore) di investigatori non ancora attrezzati… con il laboratorio di biologia molecolare.

Forse si preferirebbe al Manzoni qualche altro autore letterario, con riferimenti storici meno famosi, ma non meno importanti, come ad esempio Gadda (con Quer pasticciaccio brutto di via Merulana), non a caso romanzo a puntate dove il colpevole cambia in corso d’opera e il plurilinguismo descrittivo rappresenta una società italiana linguisticamente complessa, nel pastiche sintattico, una scrittura stratificata dove la stupidità è elemento comico e dove il patire è scoperta ridicola di una drammaticità incapace di sciogliere l’enigma di un delitto, se non trovando comunque un colpevole. Alla fine il caso appare insoluto, come senza soluzione appare l’enigma di una società italiana, inestricabile pasticciaccio di orrori e di incongruenze, sempre alla ricerca del suo profilo antropologico e di qualche colpevole, magari tarocco, che allenti conflitti e tensioni sociali. 

Si sa però che il popolo deve essere in qualche modo accontentato, blandito soprattutto quando trova una vittima sacrificale, un surrogato per quella cronica inadeguatezza istituzionale… e occorre approntare compensazioni mediatiche per tenere impegnato un utente altrimenti incline ad interrogarsi su altri cold case, quelli di un sistema paese propenso all’improvvisazione, alla corruzione, al pressapochismo e alla disinformazione. Nel caso il colpevole non lo si trova mai. Anzi come al solito lo si individua per interposta persona in qualche sciagurato protagonista, anonimo e insignificante. Il classico insetto che si può schiacciare, un po’ come un grillo parlante da spiaccicare sul muro.

Ma nei Promessi Sposi il colpevole c’è davvero e sono, appunto, Renzo e Lucia attori inconsapevoli di un delitto di lesa maestà, quella protervia dei signorotti che possono bellamente imperversare con tutta l’attrattiva del potere. È quella legge inscritta nella proverbiale attitudine di un popolo di fare di necessità virtù e di piegarsi alla consuetudine di una autorità più o meno palese, più o meno legittima e competente, ma comunque sempre in grado di far sentire la sua voce e dispiegare i suoi strumenti persuasivi, anche quando la giustizia è soltanto un sistema convenzionale di procedure e di riscontri più o meno obiettivi, in grado di reperire tutto quello che serve per auto-promuoversi. Un colpevole lo si trova sempre, qualcuno viene comunque processato e magari condannato, non importa se si tratta della controfigura di un italiano perennemente alla ricerca del suo alter-ego.

Nel testo manzoniano Don Abbondio è non solo rappresentante di una religiosità convenzionale, di un’etica approssimativa e di convenienza, è anche l’emblema di quel futuro italiano camaleontico e funambolico, perfino più realista del re, che si piega a una istituzione invariabilmente legittimata ogni volta che dimostri di possedere metodi e modi atti a rappresentarsi con autorevolezza, di possedere le prerogative e gli strumenti del potere. Basta leggere molti commenti on-line dei quotidiani per trovare il riscontro di una utenza variamente appiattita, omologata e uniformata secondo il canone di una informazione dove anche il dubbio ha una cadenza puramente retorica, messo lì più che altro per dare all’utente l’onere (e il piacere) di scioglierlo in un istante, di farsi correttore e interprete di un sospetto puramente interlocutorio che si determina in certezza; di sciogliere i nodi gordiani con un semplice colpo di spada… o con il classico sillogismo induttivo.

I dubbi veri e gli interrogativi problematici, le sottigliezze analitiche e le disamine approfondite annoiano un lettore che sempre più ha bisogno di tagliare le notizie con l’accetta, di scorciatoie temerarie che consentano di arrivare al dunque rapidamente e senza inutili complicazioni. Il fruitore - senza tante accortezze riflessive, spregiudicato quanto basta - premia e asseconda l’informazione schematica e suggestiva, non sta a porsi tanti distinguo. Le formalità e gli espedienti retorici sono da sciogliere in fretta; le cose o sono bianche o sono nere, le gradazioni di colore sono perdite di tempo per una utenza assuefatta a un sistema divulgativo monocorde, rigido ed elementare, simile a uno sponsor pubblicitario dove lo slogan mette tutti d’accordo.

La persuasione più che attraverso la forma logico-argomentativa, il prestigio morale e la competenza professionale, avviene mediante la rappresentazione e i simboli dell’autorità, occultata nella retorica e nelle immancabili proiezioni fantasmatiche, nei meccanismi psico-sociali e nei condizionamenti suggestivi di un potere invisibile, un sistema di persuasione dissimulato in forma allusiva.

Il vero protagonista dei Promessi Sposi, eminenza grigia che sta sullo sfondo, è quel popolo italiano (di un’Italia ancora di là da venire) ma che però già esiste nelle sue proverbiali peculiarità espressive e nel suo assenso al potere in tutte le sue forme, nel mero opportunismo e nella paura (don Abbondio), in quella del servilismo camuffato da legalità (l’Azzeccagarbugli), ma più spesso in quel realismo acritico di tanti commentatori e opinionisti che in fondo amano mettersi dalla parte del potere senza se e senza ma.

Si tratta di una sorta di riflesso condizionato, quell’attitudine atavica a capire dove soffia il vento, a comprendere quando non è d’uopo andare contro i pregiudizi, quando è meglio soprassedere, fare di necessità virtù… Serve soltanto quel sano ‘buon senso’, l’arte di adeguarsi al sentire comune, ai si dice, alla vulgata espressa dall’intellettuale organicamente colluso, zelante alle convenzioni e fedele ai modelli mentali e ai protocolli istituzionali, anche quando appaiono più che altro come orpelli che dissimulano l’inconsistenza di argomenti e la classica morale dell’accomodamento. L’opportunismo è inscritto nel Dna dell’italica gente, affinato nei secoli di dominazioni straniere e in quella attrattiva dell’autorità in grado di sedurre le anime semplici, gli arrivisti e i comprimari invitati al banchetto: l’Italia della mafia ma anche degli sbirri, degli azzeccagarbugli ma anche delle sirene ideologiche...

Si tratta di quel prototipo dell’italiano che prima ancora dell’unificazione (nell'edizione manzoniana della ventisettana e nella quarantana) già si delineava in un ritratto sociologico straordinariamente attuale, quell’italiano un po’ qualunquista e un po’ trasformista che sforna giudizi sulla base un po’ del sentito dire e un po’ della proverbiale esperienza di chi sa come va il mondo, e di come occorre l’arte sopraffina del compromesso per tirare a campare. Nelle parole di un curato: “Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune.” Un parroco di campagna dove l’attualità, quella vera, trapela in tutta la forza e la semplicità espressiva di quel topos emblematico, il luogo del delitto ricorrente dove prima o poi l’assassino, quello vero, ritorna sempre…

Un italiano che al di là dell’evoluzione tecnologica e degli sviluppi economici conserva intatte le prerogative di una cultura in quella che uno storico come Le Goff ha definito la lentezza della storia, cioè quella immutabilità della mentalità, dell’idealtipo sociologico dove i cambiamenti epocali e le trasformazioni radicali sono soltanto eventi di facciata, mentre surrettiziamente continuano ad agire gli stereotipi, nascosti negli apparati tecnologici dall'apparenza avveniristica, incorniciati nel tablet, dispersi nel chip dello smartphone, disciolti negli illusionismi di una quotidiana informazione da rotocalco aggiornata alle ultime notizie. L’Italiano conserva intatti pregiudizi e idiosincrasie, modalità di risposta alla prevaricazione del potere anche quando tutto sembra muovere nella direzione del cambiamento.

La giustizia è la struttura che più di ogni altra si nutre di un immobilismo che a fronte dei progressi culturali si fa interprete di quei procedimenti farraginosi, imbalsamati e ingessati dove la lentezza diviene una statuaria devozione ai formalismi di un linguaggio involuto e contorto, dove le aporie ciceroniane si occultano in procedimenti logici decettivi e contraddittori, involuti e bizantini, dove il latino serve da paludamento e da contorsionismo lessicale. Un sistema blindato in procedure farraginose e sibilline, in una logica astrusa, ma con la nuova vetrina sfavillante e attuale del metodo scientifico e del reperto declinato tout court come prova. Non si tratta del semplice dato problematico da interpretare sulla base di un contesto di relazioni e di fatti reali ma derubricato tout court con l’induzione suggestiva di macchine di sequenziamento che in automatico sciolgono e decifrano la complessità della realtà criminologica e danno dell’italiano il suo ritratto genetico incontrovertibile.

Quello giudiziario è forse il sistema per antonomasia di un fermo immagine, che diviene fotografia di una salma ormai in avanzato stato di decomposizione, forse già mummificata, comunque aggiornata alle più avanzate metodologie tecnico-scientifiche, imbellettata con orpelli cosmetici e correttivi ornamentali: la fissità funzionale (o rigidità da baccalà) travestita da souplesse e modernizzata con rimmel e fondo tinta.

La lentezza della storia sembra più che altro la replica di un copione che da tempo immemorabile trova consonanza in una informazione di maniera, in quegli opinionisti da salotto che quotidianamente danno ispirazione e lievito a una informazione di ricalco, ariosa e inconsistente, feroce e accattivante... ma sempre aggiornata alla voce che corre, al pettegolezzo dell’ultima ora. Quello che un tempo era il mondo di carta degli aristotelici è diventato l’habitat convenzionale dell’etere, quel paradigma aereo e impalpabile di tanto giornalismo da amanuensi ornamentali o al contrario da feroci giustizieri, giustificata dal carattere efferato di un delitto, dalla necessità di dare requie a un corpo sociale assetato di giustizia... sommaria.

Si tratta dell’etereo mondo celeste, quello delle sfere e delle quintessenze incorruttibili della fisica aristotelica, quel mondo di verità convenzionali e artefatte dove tutto trova consonanza in teoremi costruiti un po’ su circonvoluzioni elicoidali e un po’ su quel materiale sospetto del quotidiano mestiere di vivere. Una narrazione suggestiva per un pubblico amante della dietrologia lugubre, perversa e inquietante, i moderni eredi degli spettatori che accorrevano attorno al patibolo per dare conforto al condannato...

Nel Fermo e Lucia manzoniano, la prima stesura dell’opera, i personaggi hanno una valenza pittoresca, in sintonia con un tessuto verbale variegato. Poi il Manzoni predilige i toni meno accesi, un romanticismo che colga più in profondità il carattere dei personaggi e soprattutto la mentalità di un popolo. L’opera più famosa della letteratura italiana non è solo una storia di fantasia, non rappresenta soltanto l’affresco di una Italia del seicento sotto la dominazione spagnola, o, mutatis mutandis, l’Italia ottocentesca in procinto di attuare la sua unificazione (linguistica e politica). La storia di Renzo e Lucia conserva intatto l’affresco del Bel Paese attuale, sembra perfino violare la relatività generale con un viaggio nel futuro, il nostro tempo, dove al posto di un tessitore c’è un muratore, come se l’illustre milanese avesse buttato l’occhio ben oltre la dimensione romantica dell’ottocento, su quelle strutture mentali e antropologiche che caratterizzano il Bel Paese fin dalle sue origini remote.

L’opera manzoniana è attuale perché l’Italia non cambia come nelle parole leopardiane dell’idillio alla luna “Era mia vita: ed è, né cangia stile…” un paese che nelle sue strutture profonde replica costantemente le sue radici culturali, gli schematismi mentali e le rigidità istituzionali. Un Bel Paese incapace di prendere le distanze dai suoi preconcetti, eppure modernizzato nei suoi strumenti tecnologicamente avanzati, con le protesi digitali, prolungamento e espressione di un sistema di stereotipi ripetitivi e di procedimenti seriali.

Il carpentiere di Mapello trova la sua rappresentazione in tanta parte della nostra cultura (non solo giuridica) e della nostra vena letteraria che prima ancora del delitto della povera ragazza ha posto le basi interpretative di una sociologia e di una psicologia dell’attore sociale. Le coordinate interpretative del caso Bossetti sono in tutta la letteratura italiana già a partire dalle origini. Occorrerebbe il dissacrante Cecco Angiolieri per dare una scossa sarcastica a una società italiana dove i seriosi mezzibusti incravattati ci raccontano con tono solenne e compassato del carpentiere che sarebbe transitato non so quante volte attorno alla palestra (salvo poi scoprire che si tratta di una fiction ad uso mediatico); o magari lo spunto polemico di un Ariosto con quel suo incipit spumeggiante dell’Orlando: le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, le cortesie, l'audaci imprese - sintesi di quella biografia di un lavoratore edile nella fenomenologia di un delitto con tutta la vita familiare radiografata e scannerizzata alla ricerca del classico pelo nell’uovo. 

Come non cogliere la comicità di tanti sillogismi giudiziari dove i teoremi si costruiscono dal niente: il Bossetti che non telefona alla moglie con la quale vive sotto lo stesso tetto (indizio sorprendente); Il Bossetti che va a comprare sabbia (elemento equivoco per un muratore); Il Bossetti che ritorna innumerevoli volte in quel di Chignolo, dove lavora (fatto intrigante); il Bossetti che tiene documenti in un cassetto del comò in camera da letto (fatto inquietante); il Bossetti che tenta di fuggire dall’alto di una impalcatura (fatto da acrobata). Materiale letterario per qualche nuovo romanzo d’appendice.

Magari un Visconte dimezzato alla Italo Calvino con il prode guerriero diviso in due metà da una palla di cannone: il povero Medardo dimidiato in un protagonista nefando e malvagio e in quell’altra metà, quella sinistra, nobile e buona. Così il Bossetti dopo una vita integerrima da gran lavoratore e padre amorevole si scopre all’improvviso pedofilo e assassino, un emblematico caso di doppia personalità. Il visconte Medardo verrà ricucito delle due metà dalle mani esperte di un chirurgo e sposerà Pamela, contesa dal Gramo e dal Buono (le due metà finalmente riunite). Per il povero Bossetti non sappiamo ancora se il Dna nucleare e quello mitocondriale, parti eterogenee e incommensurabili, troveranno unità e riscontri che non siano solo quelli di un immaginario padre putativo.

Magari un cavaliere inesistente, Agilulfo, mero protocollo di uomo robotizzato, un’armatura vuota. Il protagonista vuole dimostrare che il titolo di cavaliere gli spetta essendo la donna che ha salvato una vergine. In un turbine di parentele scombiccherate e in un rimescolamento di figli, fratelli e fratellastri si definisce nella storia calviniana una sorta di identità basata dalle convenzioni sociali e più modernamente sui riscontri genetici (ancora da verificare).

Un Bossetti che talvolta chiosa e scherza di tumori inesistenti e durante il duro lavoro da carpentiere, per vincere la noia e la fatica, ironizza sui suoi acciacchi con qualche iperbole. Tutti immancabilmente elementi sospetti e lapsus emblematici che tradiscono il presunto assassino? Scherzare e motteggiare per celia può essere opportunamente inquadrato nel solito teorema per assurdo, quello dove perfino le lampade solari divengono segni di personalità borderline.

Nel Barone rampante (ancora Calvino) Cosimo Piovasco di Rondò dopo il litigio col padre salirà sugli alberi del giardino di casa e non scenderà più. Il suo progetto di Costituzione di uno stato fondato sugli alberi trova consonanza con un sistema italico fondato sul caso indiziario, quello dove si può scoprire come anche le pinzillacchere e le bagatelle in realtà sono il segno rivelatore e il marchio caratteriale dell’assassino. Il novello Guglielmo da Baskerville aggiornato al paradigma della biologia molecolare può ricostruire tutto intero un delitto sulla base del nanogrammo rimasto per mesi all’addiaccio intonso e fresco come una rosa, sia pure orfano del suo confratello mitocondriale.

Perfino lo humor delle Cosmicomiche con l’ironia galattica e dissacrante di un intellettuale capace di venir fuori dagli stereotipi dei luoghi comuni non riesce a tenere il passo della nuova forma mentis criminologica, esuberante e immaginifica. Il caso Bossetti con tutta la drammatica comicità della sua storia è in grado di far impallidire perfino il capolavoro di Italo Calvino. Non sarà facile per qualche nuovo prosatore rappresentare lo sviluppo letterario così antropologicamente rilevante del Bel Paese.

Se non ci fosse di mezzo l’omicidio di una adolescente (con il vero assassino ancora da scoprire) si potrebbe immaginare un novello poema di argomento eroicomico, sul modello della Secchia rapita del Tassoni, emendato dallo stesso Urbano VIII per superare i controlli e le censure dell’Indice dei libri proibiti. Sembra un caso, ma siamo ancora attorno a quel 1630 del processo agli untori, però in quel di Venezia. L’immaginario conte di Culagna e il trofeo di guerra di una secchia di legno, intrattenimento goliardico per lo scanzonato lettore seicentesco, sono ben rappresentativi di una comicità che potrebbe ispirare un nuovo poema in ottave che abbia il povero Bossetti per protagonista indiscusso, o magari un nuovo capitolo manzoniano, una digressione come quella della Monaca di Monza con tutto il suo contorno di figli illegittimi e delitti. O magari una verghiana Storia di una capinera in versione underground. 

Tutto dipende da quanto fervida possa essere non solo la fantasia del lettore, quanto quella del prosatore... naturalmente insieme ai suoi epigoni e sostenitori mediatici…

8 commenti:

Anonimo ha detto...

Dai, tiratevi su, dopo il merdone pestato col caso Panariello resta quello di Bossetti, che è veramente estraneo ai fatti.
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ENRICO ha detto...

Se la Panarello ha fatto quello che ha fatto , il Pm aveva ragione a definirla una madre cinica che ha compiuto "un'azione efferata, rivelatrice di un'indole malvagia e prima del più elementare senso d'umana pietà"

Non riesco ad immaginarmi come possa sentirsi adesso l'avv Villardita.

Ivana ha detto...

Conosco l'avvocato Villardita solo tramite alcune interviste televisive da me visionate, ma, almeno finora, lo apprezzo per il comportamento professionale che, a mio avviso, è riuscito a mantenere anche durante la puntata di "Quarto Grado" di venerdì scorso.
Mi appare come un professionista che ha sempre cercato di svolgere, con impegno, il proprio mandato difendendo, prioritariamente, gli interessi della sua assistita sulla base degli elementi che l'imputata stessa gli forniva ...
Continuo, invece, a NON condividere il contenuto e soprattutto il modo con cui esprime il proprio pensiero Alessandro Meluzzi al quale l'avvocato Villardita ha saputo replicare con serietà, fermezza e correttezza.

ENRICO ha detto...

Ivana

siccome mi fa orrore dover accettare l'idea che una madre possa compiere in piena lucidità un' azione così terribile, non giudico negativamente qualsiasi dubbio - da qualsiasi parte provenga - che venga avanzato sulla versione dei fatti scoordinatamente ricostruiti dall'accusata
Sarà una forma d'inconscio e forse infantile rifiuto della malvagità umana ma non riesco a gioire del fatto - come cinicamente traspare dal commento dell' anonimo del 20 novembre 2015 ore 14:50 - che la linea innocentista di questo blog, relativamente a questo caso, sia stata smentita

Luca Cheli ha detto...

Per quello che ne sappiamo ad oggi, la mezza confessione della Panarello potrebbe benissimo essere una falsa confessione propiziata dallo stato psicologico generato dalla carcerazione preventiva e dalla speranza di ottenere un trattamento migliore ammettendo "qualcosa".

Per dimostrarsi vera questa o qualsiasi confessione della Panarello dovrebbe contenere qualcosa di riscontrabile che però non sia già nell'impianto accusatorio.

D'altra parte io ritengo difficile che una madre in grado di pianificare l'assassinio del figlio e poi di manipolarne il corpo per depistare, oltre a mettere in atto altri asseritamente lucidi comportamenti finalizzati a garantirle l'impunità, poi crolli perché si sente abbandonata dal marito o perché vorrebbe rivedere il figlio superstite: un personaggio così tratteggiato è un tale psico e sociopatico da avere per unico interesse se stesso.

Gilberto ha detto...

Condivido le perplessità di Luca Cheli. Pur non avendo seguito il caso, così di primo acchito ho fatto dentro di me le stesse considerazioni. Una confessione per essere credibile deve presentare riscontri. Vedremo dagli sviluppi se si tratta di ammissione di responsabilità e in che misura o semplicemente di un atto di disperazione per la carcerazione preventiva.

magica ha detto...

non si capisce come abbia fatto la PANNARELLO conportarsi nel modo incomprensibile che dice d'aver fatto .
a tratti traspare che in alcune circostanze abbia detto la verita' , credeva d'aver appoggiato il figlio al di la' del muretto, . allora non sapeva che quello era un canalone? pare che lo dica in modo sincero . che ore erano?nessuno l'ha sentita arrivae in macchina?
poi mi chiedo ma le chiavi con l'orsetto perchè quel giorno dovevano essere in macchina .se erano chiavi di riserva si tengono in casa , non credo che avesse portato giu'' il figlio vestito di tutto punto ,con l'intento di farlo rientrare in casa , a sopratutto munirsi delle famose chiavi per farli andare su da solo. ci sono troppe stranezze . a volte sembra sincera e a volte pare che dica quello che vogliono sentire gli inquirenti, ed il marito - le fascette poi . perchè LORIS avrebbe dovuto METTERESLE LA SERA PRIMA .. per giocare?ma al mattino mentre faceva colazione la madre non vede le facsette ai polsi? possibile che non si sia curata del figlio ? sui pantaloni baganati che spiegazione ha detto . l'assenze delle mutande potrebbe succedere , ma , pensare che adirittura slacci i pantaloni del bambino per insospettire gli inquirenti ,di possibile pedofilo .MA veronica ha smentito che ci fosse un pedofilo in paese .allora prima depista con i pantaloni slegati ,e poi nega che ci fosse un pedoflio in giro? mah quella donna è un mistero , se fosse tutto vero quello che ha passato quella mattina con il figlio che si strozza con una fascetta . è una donna strana , perchè non ha chiesto aiuto . potrebbe che avesse avuto timore dei rimproveri del marito ( e che rimproveri!) e si è comportata da madre senza senso . .

Vanna ha detto...

Condivido i dubbi di Luca Cheli e di Gilberto.
Ho poco seguito questo caso, ma più volte ho provato pena verso la mamma che mi sembrava travolta da eventi più grandi di lei.
Una donna sola a gestire due bambini, praticamente senza la sua famiglia alle spalle ad indirizzarla, proteggerla, al contrario il marito spesso assente per lavoro, aveva una famiglia presente nella sua vita.
Qualsiasi cosa abbia fatto non l'ha fatto intenzionalmente, per me è stata travolta da un quotidiano problematico da gestire poiché non aveva strumenti adeguati per farlo.