sabato 1 agosto 2015

I luoghi comuni e i mali del Bel Paese e dell'italiano moderno che si lascia condurre all'ovile dal "buon pastore"

Di Gilberto Migliorini


Nel labirinto delle magagne italiane ci sarebbero (il condizionale è retorico), incompetenza, disonestà, corruzione, pressapochismo e tutti quelli che vengono indicati come i proverbiali mali che ci affliggono da così tanto tempo. Già Dante definì l’Italia in modo sprezzante “non donna di provincia ma bordello” e infierì sull'ipocrisia e sul malcostume che affliggevano ‘ideologicamente’ la penisola sul versante religioso e politico. Spesso di fronte agli avvenimenti che si registrano giornalmente, come i fatti di cronaca, si reagisce senza neppure più stupore o incredulità, ma con una sorta di rassegnata consapevolezza, come se quello che accade in ogni ambito delle istituzioni fosse l’esito ineluttabile della nostra cultura e della nostra tradizione politica. Si tratta di una sorta di presa d’atto che, per sua natura, il paese non può cambiare, perché antropologicamente i suoi mali sono la conseguenza della nostra forma mentis. È come se fossimo naturalmente predisposti ad essere un popolo infido e opportunista. Il genio e la sregolatezza disegnano quello stereotipo dell’italiano al quale in fondo piace l’immagine convenzionale che ne descrive il carattere da incorreggibile lestofante, sia pure con estro stravagante e con un retaggio ricco di cimeli storici. L’icona dell’italiano ha trovato i suoi caratteri in diversi personaggi della nostra storia patria, spesso purtroppo anche figure non edificanti, per non dire squallide, ma abbastanza suggestive da suscitare in molti connazionali degli atteggiamenti imitativi, per una sorta di consonanza affettiva e di identificazione proiettiva.

Si tende spesso a confondere i mali cronici del Bel Paese con le cause profonde che li riproducono incessantemente e li tengono vivi e costantemente aggiornati, come se si trattasse di rinverdire e accudire qualcosa che per quanto deleterio gode di costante e affettuosa premura. Cosa c’è a monte dei vizi che ci affliggono e che in fondo, surrettiziamente, si amano come se si trattasse di talenti e non di piaghe sciagurate e nefaste? La domanda parrebbe paradossale, soprattutto per tutti quelli che fanno dell’onestà e della correttezza la bandiera vuoi di un riformismo politico e vuoi di una concezione ideologica di ravvedimento. C’è pur sempre quel bacino di santi e beati a ringalluzzire e rialzare lo share di un paese dove per dirla col poeta son tutti barattieri, e dove i naviganti, novelli Colombo, non disdegnano transazioni truffaldine in qualche sito internettiano, mentre i poeti, del naufragar m’è dolce in questo mare, conservano giusto l’allusione a qualche paradiso fiscale.

Ci possano essere cause più profonde e in certo senso invisibili a quelli che sono i proverbiali sette peccati capitali, nel modo di concepire i rapporti umani e le relazioni interpersonali? Gli egoismi dei gruppi sociali e dei privilegi di casta fanno della democrazia una immagine oleografica, un flatus vocis di maniera dietro al quale i valori sfumano in alleanze politiche in un sincretismo da nouvelle cuisine. Lo slogan ideologico è una sorta di mantra di trombe e tromboni che ce la suonano e ce la cantano con collaudata nonchalance... 

Si allude il più delle volte a un mero orpello, a un’etichetta appiccicata su un sistema dove l’enfasi e la demagogia la fanno da padrone con tutta quella carica di perbenismo ammuffito e di trasformismo del compromesso. Si trova sempre la quadratura del cerchio e si dimostra che qualunque scelta è coerente rispetto ai begli ideali declamati nelle nebbie, sempre attuali e condivisi con quell’oratoria da avanspettacolo che piace tanto alla palude mediatica. L’italiano è sempre affezionato ai suoi stereotipi, alla sua immagine deformata nello speculum, cronicamente incapace di guardarsi senza filtri e autoinganni. Quegli occhiali non sa più togliere e ormai fanno parte integrante del suo corredo sensoriale, perfino quando dorme e quando sogna.

Il problema è l’immagine che crediamo di riconoscere allo specchio, quella icona graziosa e convenzionale che i media trasmettono incessantemente e di cui l’italiano è insieme complice e ispiratore. L’immaginario è in quella palude di personaggi pubblici - più o meno rilevanti, più o meno ridondanti - che ci dovrebbero rappresentare soprattutto come modello, quello che vorremmo essere e nel quale riconoscerci. È quel pantheon che va dai politici, uomini di scienza e di fede, intellettuali, scienziati, scrittori…. fino all’altro estremo di cantanti, attori, sportivi, veline, letterine… quell’Italia che fa immagine, ma soprattutto da modello per un italiano medio che in genere vive di riflesso, abbastanza spersonalizzato da desiderare di assumere l’identità ideale (e seriale) di quelli che il più delle volte sono soltanto icone, immagini della pubblicità e artefatti simili a gusci vuoti, personaggi di carta e modelli di cera… È Il mondo falso e convenzionale delle icone del gossip, della carta patinata e più in generale delle ‘personalità’ più o meno mantecate, arzigogolate, imbellettate, gonfiate… il presepe con i soliti noti a far da Madonna, San Giuseppe e Gesù Bambino, ma ci sono anche i pastori con il mondo delle arti e dei mestieri… insomma, ci siamo tutti. In quell’universo ingessato e convenzionale l’italiano si riconosce come belante pecorella tra muschi e licheni.

L’elemento a monte dei mali dell’Italia è appunto la spersonalizzazione, un italiano che vive di riflesso di immagini virtuali, di veline, di ologrammi… e che di veramente suo non ha davvero più niente salvo quella capacità di assimilare quei modelli effimeri, di indossare abiti mentali, di fare di quelle icone mediatiche il suo ideale plastificato e riciclato. La spersonalizzazione dell’italiano è il segno tangibile di un vuoto culturale che si esprime nella pedissequa ripetizione di uno slogan esemplarmente vacuo e indiscernibile, quello di un paese di santi poeti e navigatori e nell'attualità dei simulacri rappresentati da valori piovuti dall'alto, immagini di sintesi e idealtipi come risultato di un lavoro di montaggio, icone di cartongesso e collage di modelli taglia e incolla

Alla dissoluzione della scuola pubblica - nella quale le famiglie hanno costituito il riflesso di un sistema di artefatti e icone ideografiche - ha fatto seguito la distruzione di tutte le altre possibili agenzie educative, compresa la televisione pubblica, in un crescente adeguamento alla spersonalizzazione dell’utenza e alla sua omologazione in quanto appendice passiva del sistema pubblicità-propaganda-indottrinamento. L’italiano medio vive la cultura come una sorta di res extensa, di oggetto reificato, e non già come un vissuto da esplorare e condividere, non come un’opportunità e una sfida contro i luoghi comuni e gli stereotipi, non come un’opportunità di comprensione e di disvelamento degli inganni e delle fate morgane. I pregiudizi di una cultura ridotta a cosa e a catena di montaggio, si mantengono in forza dell’esteriorità, della riproducibilità e della imitazione pedissequa. L’approfondimento personale e la comprensione della realtà di cui si è partecipi e interpreti esiste solo come slogan. Una cultura quella dell’italiano medio intesa come mera riproduzione e fotocopia, grazie anche a una scuola costruita sulla demagogia e sul conformismo. La televisione attraverso tanti programmi di intrattenimento seriale e format di cultura omogeneizzata, uniformata e conformata, ha ridotto l’utenza a una appendice passiva e a mero riflesso del consenso. Il pubblico - che in altri periodi storici, sia pure nell’ambito della sola borghesia, era critico vigile e attento - si è progressivamente trasformato nell’icona di tanta filmografia, nel concorrente di un gioco a quiz… nel fedele riproduttore di tutti i luoghi comuni che i media elargiscono a piene mani. L’ipse dixit è diventato quel personaggio fantasmatico, il convitato di pietra come quintessenza ideologica e falsa coscienza di un popolo alle prese con l’ennesimo sceneggiato che ne rappresenta l’immagine convenzionale.

Le agenzie educative nazional popolari hanno trasformato la cultura dell’italiano medio in un orticello di ideogrammi caratteriali e di modelli preconfezionati e pronti all'uso: un sistema predigerito e precotto, un bell'insieme di figurine da incollare sull'album di famiglia. La cultura intesa come decalcomania ha predisposto l’italiano a considerare i personaggi pubblici come i suoi referenti, i modelli che fanno della vita civile di un paese il pantheon delle ovvietà e dei luoghi comuni.

La figura dell’opinionista è emblematica per un italiano che nell'interprete trova quei punti di riferimento che ne colmano il vuoto culturale. Il conformismo è declinato un po’ con l’esperto e un po’ con l'affabulatore e il cantastorie, un personaggio che richiama gli amuleti e i talismani che nelle favole sciolgono incantesimi e svelano gli arcani. Dall'opinionista l’italiano pretende che gli dica quello che lui in fondo sa già, non il grillo parlante della favola di Pinocchio, ma il gatto e la volpe ben sintonizzati a rabberciare quello che a lui piace ascoltare. L’opinionista conferma tutti i luoghi comuni del suo repertorio, quello rassicurante del si dice e quello familiare del si è sempre fatto così - non esprime opinioni, ma solo sentenze, non formula veri ragionamenti ma solo prolusioni. La figura è emblematica perché costituisce l’alter-ego di un italiano che si esprime sull'onda emozionale, sul sentito dire e sul presunto prestigio di chi crede dotato di un potere taumaturgico.

Forse il male dell’Italia è in quella delega concessa non già a rappresentare ma a trasformare il popolo in una sorta di gregge che si lascia condurre all'ovile. Il buon pastore, anche lui pecora del suo gregge, ha quell'aria da esperto fornito di delega. In fondo anche lui ha il suo di batacchio al collo e bela con convinzione

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3 commenti:

Manlio Tummolo ha detto...

Carissimo Gilberto,

concordo con te in larghissima parte. Bisognerebbe vederne le cause, antiche e recenti. Fortunatamente in Italia abbiamo avuto anche esempi gloriosi di fierezza, di onestà ideale, di intransigenza morale, ecc., che forse all'estero non hanno: a cominciare almeno dal citato Dante, ma si potrebbe andare sia avanti che indietro. Il guaio è che in Italia vige da almeno 2 millenni la cooptazione, nelle sedi dominanti, tra personaggi che ondeggiano tra deficienza, disonestà, pigrizia, violenza e chiacchierume, e non abbiamo mai avuto un periodo storico nel quale si sia fatto un bel po' di piazza pulita, come pur si fece in Inghilterra o in Francia (solo per citare le due più celebri Nazioni...).

Gilberto ha detto...

Carissimo Manlio

Siamo qui a scrivere e commentare nel caldo torrido dell'estate. La speranza che qualcosa cambi nel Bel Paese è sempre l'ultima a morire. Sì, hai ragione, il nostro retaggio storico ne offre di esempi edificanti. Peccato che il presente soffra di diffuse amnesie e miopie...
Ciao
Gilberto

Manlio Tummolo ha detto...

Carissimo Gilberto,

il 13 luglio 1789 nessuno si immaginava che il giorno dopo una folla di sanculotti, poco più che analfabeti, avrebbe abbattuto la Bastiglia. Finché avrò un po' di respiro nei miei polmoni, prima di andarmene in mondi migliori, resterò sempre convinto che Italiani, Europei o Uomini possano ritrovare la loro più profonda coscienza e liberarsi dal marciume dominante. Se così non fosse, che cosa potremmo sperare ? Come potremmo vivere ?