sabato 16 agosto 2014

Il gatto e la volpe (della politica nostrana) e la favola bella...

Articolo di Gilberto Migliorini



Che Carlo Lorenzini avesse forse la sfera di cristallo e potesse aver visto in diretta streaming - prima ancora di inventare Pinocchio - quello che nell’anno di grazia 2014 sta accadendo nel Bel Paese? I personaggi collodiani, quelli delle Avventure di Pinocchio, in effetti hanno una tale freschezza narrativa da sospettare che lo scrittore ottocentesco, con una favola apparentemente per bambini, abbia descritto l’Italia come se ne vedesse l’essenza, quasi spremendone il succo. Si tratta di una metafora più che una nemesi storica, di una fotografia che ha immortalato quello che saremmo diventati (e che forse già eravamo in nuce). Ha descritto perfino quello che ancora oggi non sappiamo veramente di essere: un popolo televisivo di figuranti a nostra insaputa, le marionette nel teatrino di Mangiafuoco. Il Collodi, nel personaggio di Pinocchio, ha descritto un popolo, quello italico, alla ricerca di una sua identità, quella vera (il burattino trasformato in uomo in carne e ossa) e non quell’immagine che ci hanno appiccicato come fossimo soltanto figurine o decalcomanie da appuntare su una scheda elettorale.

Pinocchio non smette di raccontare la sua storia di burattino allegorico e di parlare di noi e del nostro futuro, lui che vorrebbe emanciparsi da quei natali da ciocco di legno e da quella sua protuberanza ingombrante. Si tratta di un naso rivelatore, non solo di bugie ma anche di trasgressioni e di espedienti per tirare a campare, quell’arte per sopravvivere un po’ ciurlando nel manico e un po’ vagheggiando di illusioni e inanellando dabbenaggini come l’antieroe di quella anti-storia italiana che non risulta sui libri canonici. Si tratta proprio di lui, di quel connazionale che ingenuamente, e credendosi furbo, si fa menare per quel naso di tutto rispetto… connazionale che però è anche alla ricerca di sé attraverso una metamorfosi che non è solo quella di un semplice pezzo di legno da catasta.

Quei paesaggi della campagna toscana ancora ricchi di mistero, con quei personaggi fiabeschi, con gli animali che parlano e istruiscono il lettore, ci mettono nostalgia di un’Italia che non c’è più. Italia che invece è proprio lì da vedere, lì dove ancora sopravvive con quel fascino di una natura da fiaba, con le contrade che sembrano i luoghi dell’infanzia perduta. Un paese contadino dove nel bosco si potevano incontrare i briganti e gli assassini e dove anche allora si facevano i conti col malaffare. Un paese oggi riconvertito in una fabbrica di affarismi e corruzioni, cementificando mari e monti, costruendo enormi infrastrutture inutili che rappresentano un gigantesco luna park, il nostro meraviglioso luogo di evasione e di perdizione. Il Bel paese ora è tradotto in lotti, una terra che si avvia a diventare un cruciverba di luoghi senza più né identità né memoria, un po’ come il paese dell’omino di burro, quello dei balocchi, un divertificio artefatto e ripetitivo, un luogo di surrogati, una Disneyland per bambocci, un giardino zoologico con uomini in gabbia. 

C’è l’ottovolante, la ruota, il castello della strega, l’immancabile labirinto degli specchi e quell’immenso patrimonio artistico, paesaggistico, storico, linguistico e antropologico che va in rovina, un po’ per l’incuria del tempo e un po’ per quel malaffare dell’osteria del gambero rosso... dove anche l’oste fa parte della combriccola.

In fondo si tratta di parole, l’arte del panegirico e del venditore di illusioni. La favella toscana non è più quella del Carducci, della nostalgia dei cipressetti miei, adesso risuona in quel tempio che quell’altro imbonitore aveva definito aula sorda e grigia e che ora, senza la gravità di una minaccia (il bivacco di manipoli), appare come una sorta di mausoleo di cariatidi e di orpelli sotto tutela e immunità, dove echeggia il suono suadente e mellifluo del pifferaio magico. È l’attuale spot giornaliero proclamato con quella cadenza vernacolare che fa tanta nostalgia del tempo che fu, quel volgare dantesco che ha creato la nostra bella lingua ora in svendita e dissoluzione, trasformata in un blob, quel fluido mortale di una neo-lingua orwelliana, un cinguettio di aforismi insulsi e di banalità criptiche. Ora è la leggerezza delle lusinghe non quel manzoniano sciacquar i panni in Arno, ma con quel discorso a braccia dall’intonazione sfrontata, ricco di pathos casereccio, di blandizie e di lisciate ruffiane. Discorso pronunciato con una faccia di tolla da far invidia ai bronzi di Riace…..  

Un discorso che sembrerebbe insulso e monotono se non fosse per quei plus e benefit - come si conviene per piazzare il prodotto - allegandone un manuale di istruzioni nel linguaggio delle promesse mezzane e con il classico cadeau - un obolo tintinnante virtualmente già speso nelle gabelle up-to-date.

L’unica cosa che sembra stonare nella favola collodiana è il lieto fine, dopo tante peripezie, di un italiano sempre alla ricerca del Sacro Graal, illuso di essere lui finalmente il vero protagonista della favola. La storia ce l’hanno raccontata tante volte e in tutte le salse, ma per quanto l’abbiamo imparata a memoria, sembra sempre di ascoltarla per la prima volta. Il nuovo cantastorie rinnovella non proprio con il linguaggio della quarantana manzoniana, del fiorentino colto, ma in quel parlare per slogan, tentennando il capo, a dir di sì come suole il bravo imbonitore, un po’ intercalando la battuta allusiva e insaponata, come esige il copione, un po’ rabberciando con la cadenza galeotta e la posa disinvolta, come sa fare il bravo piazzista che ti vende anima e core… Sarà l’accento nuovo e inusuale, sarà l’interpretazione con le pause e i toni intriganti, sarà per le posture teatrali e il gesto enfatico... o sarà semplicemente per quell’accattivante parlare per spot folgoranti che piacciono tanto a quell’audience che ride e piange a comando.

Perfino nel paese degli acchiappa-citrulli per esser sprigionati occorre esser briganti matricolati, altrimenti si rimane in cella e buonanotte ai suonatori. Un delitto nel paese collodiano equivale ad essere riveriti in modo altrettanto onorevole che lo stare al Senato. E se poi sei un lestofante è come aver appuntata una medaglia al valore per meriti sul campo. In culo alla balena (o il pesce-cane che dir si voglia) ci siamo finiti tutti insieme a Geppetto, che da buon padre se ne stava già là ad aspettare alla luce fioca di una candela il suo Pinocchio scavezzacollo. Il vecchio intagliatore, di professione povero in canna, era una vita che aspettava d’esser miracolato... e il burattino col suo babbo alla fine ce l’hanno fatta per davvero. E vissero tutti felici e contenti… Pare un finale troppo ottimista? Il Collodi sa guardare più lontano, quello che noi oggi ancora non riusciamo a vedere, il radioso futuro che ci aspetta. Che il burattino possa trasformarsi in qualcuno che assomigli all’italiano vero? Un sogno? Un semplice vagheggiamento? Non poniamo limiti alla provvidenza! Un altro testo, quello manzoniano, ci dice che alla fine la giustizia trionfa. Anche lì, dopo mille peripezie e sventure, compresa la peste, c’è il lieto fine. Don Rodrigo paga per la sua protervia e malvagità. Ma purtroppo si tratta solo di un romanzo, per quanto simboleggi l’arbitrio e l’arroganza del potere, la corruzione e il sopruso dei potenti.

Noi qui il lieto fine lo si aspetta da tempo immemorabile. E l’italiota se lo figura, proprio come Pinocchio, in quei personaggi, il gatto e la volpe, che con parole suggestive agitano la bella illusione di quel paese dei Barbagianni dove c’è un campo benedetto, il campo dei miracoli, dove tutto può avvenire dall’oggi al domani. Se non proprio in una notte almeno in qualche settimana. E se le settimane non bastano saranno pochi mesi… E se perfino quelli non bastassero per veder crescere finalmente l’albero con gli zecchini d’oro lampanti e sonanti? Eh… che sarà mai qualche annetto per partorire finalmente il paese di cuccagna

I due figuri collodiani ricordano qualcuno e qualcosa, se non altro perché vanno di conserva, l’uno non ci vede (per quanto alla vista del denaro strabuzzi gli occhi) e quell’altro zoppica (nonostante sia lesto quando si tratta di ingoiare un boccone) insieme però fanno una coppia imbattibile e davvero affiatata. All’osteria per quanto inappetenti si fanno una bella scorpacciata. Bello vederli in sintonia con quel procedere all’unisono, un colpo al cerchio e l’altro alla botte. Hanno lo spirito costruttivo di tessitori che fanno di necessità virtù, che considerano l’interlocutore, il Pinocchio nostrano, come lo strumento di un progetto ambizioso: trasformare l’Italia nel paese dei citrulli.

Ah! Dimenticavo il Grillo parlante. Quello davvero provoca spavento con quella sua pretesa di dire sempre pane al pane e vino al vino. Mette paura ai bambini quel parlare fuori dai denti, senza peli sulla lingua, senza usare tropi e traslati. Un incomodo buffone, un rompicoglioni che ha quel vezzo insopportabile di dire che il re è nudo, quando tutti possono vedere che indossa un abito meraviglioso intessuto di lusinghe e uno strascico che per quanto ingombrante, ha il fascino evocativo del segno del comando. Il monarca-padrone ancheggia passeggiando impettito, mostrando il suo meraviglioso vestito nuovo. Mentre quel grullo di Pinocchio applaude il sovrano senza vedere che è ignudo il povero Grillo parlante viene spiattellato sul muro. Meglio ascoltare la favola bella piuttosto che scoprire di trovarsi tra le fauci di un Pesce-cane, perché l’italiota neppure lo sa che presto sarà proprio là dentro, come Pinocchio, nel suo capace apparato digerente, magari aspettando un tonno che lo venga a salvare…

Ma questa è un’altra storia… per il sequel bisogna aspettare… 

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