Di Gilberto Migliorini
Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso,
e puose me in su l’orlo a sedere;
appresso porse a me l’accorto passo.
Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com’io l’avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere;
e puose me in su l’orlo a sedere;
appresso porse a me l’accorto passo.
Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com’io l’avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere;
Dante, Inferno, Canto XXXIV
Il demone riguardato da un’altra prospettiva appare come qualcosa di insulso e ridicolo, qualcosa di grottescamente umoristico. Il terribile Lucifero, visto capovolto, sembra a Dante - che emerge nell’altro emisfero - solo un goffo e enorme pupazzo che più che suscitare terrore fa sorridere perfino un turista in visita nel fantasmagorico e spettacolare mondo della giustizia infernale, giù nei cerchi concentrici dove sospiri, pianti e alti guai risuonano per l'aere sanza stelle. In fondo alla Giudecca, dal nuovo punto di vista, il poeta coglie tutta la banalità, lo squallore e l’assurdo del male. Nell’uscir fuori a riveder le stelle il maligno con le tre bocche fameliche risulta alla fine un colossale burattino che lascia sporgere due gambe goffe e pelose. Il demone per antonomasia non è altro che un insulso pupazzo, se colto nella sua vera essenza capovolta, quando il male è riguardato nella sua sostanza scarna, senza i paludamenti e le vestigia suggestive della Caienna dove i dannati della terra espiano le colpe.
Tutto il caso Bossetti osservato da una diversa prospettiva, quella della nudità di elementi probatori contraddittori e incongrui, della inconsistenza degli indizi più o meno apparenti, dei sillogismi fantasiosi e accattivanti… appare proprio come quel pupazzo che Dante vede con un altro occhio una volta fuori dall'imbuto infernale: un fantoccio, un burattino, una marionetta snodata legata a dei fili invisibili e mossa come se veramente avesse ratio e consistenza ontologica. Il male è nella sua essenza la mancanza, il non-essere del bene, non ha sostanza. Il mostro infernale che mastica Bruto Cassio e Giuda è l’immagine di una giustizia che in un’ottica invertita appare un automa con pulegge, corde e cinghie. Il Satana meccanico si muove un po’ per inerzia e un po’ per il gioco di un destino crudele e beffardo: regole costruite sugli automatismi e sull'inerzia di procedure di giudizio ricorsive e inconsapevoli, meccanismi ciechi e ripetitivi con indizi artificiosi e arbitrari. Un sistema di riscontri retti su qualche picogrammo di sostanza biologica per mesi mantecata dalla natura matrigna in un laboratorio all'addiaccio. Entomologia aliena: molecole intonse sopravvissute per molte settimane agli insetti necrofagi; biologia di confine: tessuti biologici e fibre artificiali con l'allure ancora intatto; cellule dischiuse come fiori immacolati dopo decadi alle intemperie; fili d’erba ancora stretti tra le dita come se l’inverno ne avesse miracolosamente preservato immacolata la fragranza.
L’immagine di liquidi biologici che trasudano la verità su un delitto nelle circonvoluzioni dell’acido desossiribonucleico, appare nell'immaginario collettivo (ma anche in tanta scienza spettacolo) come prova inconfutabile, elemento che inchioda negli alleli rari, nella discendenza matrilineare, nella paternità biologica, come se lo scenario fosse quello del tavolo dell’anatomopatologo, con la salma intatta e preservata dal degrado, e non un corpo abbandonato da mesi non si sa come e non si sa dove… all'arbitrio di chiunque. Non si tratta della scena di un delitto fresco di giornata, con il corpo caldo, e con ancora sul volto l’evidenza stupefatta del trapasso. Una salma mineralizzata, senza più neppure il ricordo di forme e lineamenti, eppure secondo la prova che inchioda - dopo mesi di abbandono e nell’alchimia del software di laboratorio - in grado senza ombra di dubbio, senza esitazione, senza incertezza, senza il sospetto di altre variabili, di modalità e dinamiche ignote… di ricostruire un delitto e indicare senza incertezze chi è l’assassino.
Sembra un paradosso parlare di umorismo quando qualcuno si trova ad affrontare una prova devastante come l’accusa di omicidio, insieme a un formidabile teorema di chiacchiere, maldicenze, pettegolezzi, invenzioni, illazioni… al limite del surreale. Una vena letteraria scapigliata e un formidabile magazzino di invenzioni narrative, mondi virtuali, scenari cavati fuori da fotogrammi e nucleotidi che coinvolgono un contesto di affetti reali, una privacy violata in ogni dettaglio esistenziale con la presunzione di una colpevolezza che non ha neppure più bisogno di prove, e dove l’indizio è nient’altro che il filo di Arianna che si dipana in un labirinto trovando riscontro ovunque, per qualunque strada vada, qualunque elemento sia messo in evidenza e inserito nel teorema, perfino i cavilli e i sofismi, le bagatelle e le quisquilie. Tutto, proprio tutto complotta a dimostrare che nel dedalo si evince la forma e il contenuto del delitto, tutto trova consonanza col movente, la dinamica, perfino la genesi e la pulsione assassina. Deduzioni più stringenti di una teoria dalle formule matematiche e dalla statistica a supporto di deviazioni standard.
L’universo della vita, quello di milioni di altri nuclei familiari con tutte le contraddizioni, le imperfezioni, i conflitti, le incertezze, le crisi… le innumerevoli, atipiche e singolari idiosincrasie che caratterizzano qualsiasi normalità coniugale che non sia quella della famiglia del Mulino Bianco… nel caso Bossetti divengono criteri rivelatori, scenari inconfutabili, certezze di rapporti irregolari… sollevando un velo di Maya che dischiude il sospetto, la certezza di perversioni, di anomalie… e addirittura la genesi di un delitto.
Ma è il consueto e ineffabile Dna (per il comune mortale e la giuria) la parola magica, un abracadabra in versione moderna, un esoterico miscuglio di cifre e lettere, proprio come un amuleto, "un talismano a la page gnostico e numerologico". Qualcosa che l’occhio non vede, trasportato proditoriamente da una mano assassina, o forse dal vento, da un arto fantasma, traslato dalle dita danzanti di altre mani, forse collocato lì per aequivoca intentio, forse soltanto il mistero di molecole immortali, sopravvissute miracolosamente per mesi all’incuria del tempo. Magari soltanto illusioni di variabili occulte in una replicazione e riproducibilità effimere, di materiale evaporato nei procedimenti di analisi, molecole evanescenti, disperse alla luce del sole, referti orfani di reperti ormai resi intangibili e invisibili, dissolti dal movimento incessante degli agitatori molecolari. Corpi cremati per un moto di pietas… e che non possono più raccontare. Il Dna… l’ultima e più arzigogolata illusione di scovare il colpevole semplicemente usando una macchina di sequenziamento.
Il copione ha il sapore di una sceneggiata, un melologo di fiati e parlato, l’emozione tradotta in spartito musicale, dove il melodramma non ha niente da invidiare alla tragedia. Un melò romanzesco da cinema comico, con colpi di scena inverosimili per uno spettatore assuefatto alle dinamiche parossistiche ed elementari, alle retoriche ripetitive e rassicuranti del giallo mediatico e del cold case da biologia molecolare alla Jurassick park. Un’utenza televisiva che predilige lo sceneggiato seriale con formule stereotipate, cartoon, fumetti e novelle da Grand’hotel, modelli diegetici rudimentali, capziosi e commoventi. Nemmeno Kafka sarebbe riuscito a immaginare nel suo Processo l’assurdo di una macchina narrativa tanto banale e così incisivamente mediologica per un lettore avvinto da trame noir dal sapore improbabile, costruite con cliché e déjà vu. Pochi spettatori avvertono che dietro allo spettacolo luminescente e alla consueta dissertazione di opinionisti da salotto c’è soltanto un modello espressivo improbabile e inconsistente, solo la formula che funziona con il consueto stereotipo e con gli usuali modelli ricorsivi. Informazioni secondo il solito schema narrativo fatto di indizi che inchiodano e che riguardati da retro non possono che risultare comici e grotteschi nella loro seriosa inconsistenza con cronisti che ce la suonano e ce la cantano come trattasi del Verbo biblico.
Tutta la vicenda del povero Bossetti sembra cavata fuori da una inconsapevole vena umoristica, da un estro fantasioso tanto irresistibile per uno humor del tutto ignaro di sé. Proprio su questo stereotipo si può comprendere come funziona la giustizia del Bel Paese. Tra il tragico e il comico c’è solo uno iato che trasforma anche il dramma più cupo in uno slapstick con quella vena narrativa elementare nella quale il linguaggio è più ancora della pantomima alla Buster Keaton e alla Charlie Chaplin, è arlecchinata come nella commedia dell’arte, lo sbatacchiare con quell'effetto alla Ridolini fatto di gag e teatrini. Sono proprio quelli delle torte in faccia. È il contrasto che genera il comico della giustizia nel nostro paese da sempre ancorata alla tradizione aulica nella quale figura la toga, l’arringa, il pubblico ministero, i giudici popolari… e naturalmente, lupus in fabula, la prova scientifica con tutta l’autorevolezza che il sistema giudiziario le affida senza mai un barlume di riflessione, di precauzione e di cum grano salis, senza conoscerne limiti e imperfezioni, idiosincrasie e incongruenze... Una epistemologia da alambicchi e automatismi da software biostatistico senza neppure il barlume di una presa di distanza e di una riflessione veramente epistemica, frutto di consapevolezza dei limiti dell’inferenza induttiva e di scenari dove molte variabili sono del tutto sconosciute e dove il laboratorio interviene soltanto quando il mondo è già fatto… quando la scena del crimine ha subito tutte le contaminazioni possibili e immaginabili.
Perfino quando il reperto non è che un dato variamente interpretabile, nient’altro che un elemento utile all’indagine e non la pistola fumante che si suppone metaforicamente come arma del delitto, non esiste nessun ragionevole dubbio, nessun sospetto che si possa trattare solo di un qui pro quo in mancanza di fatti tangibili e non semplicemente di illazioni e circonvoluzioni elicoidali. Anche Fedro ed Esopo sono lì nell’aula di tribunale con quella proverbiale morale edificante che il cronista raccoglie con la scorciatoia della retorica e il presunto sano buon senso di luoghi comuni e di consueti pregiudizi, ribaditi alla nausea come se non fossero soltanto parole in libertà. È un futurismo alla Palazzeschi, una fontana malata che riproduce pedissequamente il suo cliché monocorde e ripetitivo, così come è solito il sistema mediatico con le assonanze onomatopeiche, la parodia di una informazione leziosa e accattivante per un pubblico abituato alle scorciatoie di giudizio e alle semplificazioni più elementari.
Il caso Bossetti è davvero emblematico di come funziona la giustizia nel nostro paese, più ancora della colonna infame di manzoniana memoria, più ancora del caso Tortora, perché la vicenda del muratore di Mapello è un formidabile condensato di idiosincrasie, procedure, sillogismi, forme mentis, modelli… di una italica Giustizia che replica da tempo immemorabile un copione fatto di sillogismi dove si usa una logica sui generis e si fa dell’interpretazione un grimaldello utile per qualsiasi inferenza, un reticolo di deduzioni dove tutto comunica con tutto, dove si possono costruire castelli, equivoci, proverbiali nonsensi, metafore da commedia dell’assurdo e… immagini frattali alla Mandelbrot.
Proprio come con Stanlio e Ollio dove un piccolo incidente si può trasformare in una battaglia esilarante, nel sistema indiziario da un piccolo dettaglio si può costruire un formidabile teorema di inaudita complessità imbastendo nessi, riferimenti e collegamenti in una bibliografia dell’immaginario che assume consistenza di realtà e concretezza di mondi virtuali. Tutto trova consonanza e diviene intellegibile alla luce di qualsivoglia fatto, anche quello dall'apparenza più insignificante e imponderabile. È come un acceleratore di particelle che genera una catena di collisioni, i classici indizi gravi e concordanti, per le quali si concatenano nessi, legami e rapporti che quasi dal niente produce un fiume di nuovi elementi in un profluvio teorematico incontinente e fecondo… Come uno slow burn, una battaglia del secolo dove tutti gli elementi entrano in scena con effetti speciali generati da una macchina interpretativa che non conosce né stanchezza e né pause di riflessione. Dalle bazzecole e dalle pinzillacchere si costruisce un mondo di riscontri e da questi ad effetto cascata tutto si trasforma magicamente in una sorta di teorema di inaudita suggestione e ‘bellezza’.
L’assassino è tornato 195 volte in quel di Chignolo. La notizia è sbandierata come se quella fosse la prova del nove, il comportamento di qualsiasi assassino che si tradisce tornando sul luogo del delitto a iosa (e non semplicemente per il fatto che lavorava in zona). Ritorno del rimosso e desiderio di espiazione? E sui leggings fibre dei sedili del furgone di Bossetti… o compatibili anche con milioni di altri sedili di veicoli?
Peccato che c’è di mezzo il delitto di una povera ragazzina, perché il copione è davvero avvincente. Ce n’è abbastanza per la radiografia di un Bel Paese del tutto ignaro di sé, ma seriosamente convinto dei suoi intendimenti e delle sue inclinazioni... e per questo tanto più comicamente esilarante.
Homepage volandocontrovento
16 commenti:
Carissimo Gilberto,
i tuoi discorsi sono tutti da sottoscrivere. Non aggiungo molto, perché tra qualche giorno vi arriverà l'ultimo mio mattone (ancora più pesante del solito...) e verificherai i molti punti in comune. Carissimi saluti per te e l'impareggiabile Massimo, Manlio
Ciao Manlio
Sono curioso di leggerlo.
Gilberto
Salve a tutti.
interessantissimo articolo odierno per l'avv Salvagni:
link
http://www.altalex.com/documents/news/2015/10/30/processo-bossetti
a me è venuto in gran mal di testa...
Max sempliciootto.
Max sempliciotto
Grazie per il link. Molto interessante. Peccato che la difesa non abbia fatto valere la sentenza della Cassazione del 2006 nell'istanza di revoca e nel ricorso in Cassazione successivo.
Spero però che adesso in dibattimento venga affrontato l'argomento. Un eventuale pronunciamento della Corte non avrebbe sicuramente effetto sulla custodia cautelare ma costringerebbe e rifare tutti gli accertamenti e questa volta, credo, da parte di un perito terzo all'interno di un incarico molto più ampio.
Non mi ero concentrato mai su quel punto dell'Ordinanza ed anche in seguito avevo sempre ipotizzato che entro il 26/02/2014 il PM avesse chiesto un'ulteriore proroga. Adesso scopro che così non è stato e forse non poteva neanche essere. Siccome sono sempre più dell'idea che qualcuno volesse far arrivare le indagini all'archiviazione, la questione diventa decisamente interessante.
TommyS e Max sempliciotto
Ho letto l'articolo al link segnalato MA NON C'HO CAPITO NIENTE !
Mi affido alla vostra competenza per eventuali chiarimenti
Enrico
Enrico
In sintesi, il GIP Maccora nella prima Ordinanza di giugno, implicitamente riconoscendo che le analisi sul DNA dell'Arzuffi e di Bossetti erano state effettuate oltre la scadenza massima delle indagini e senza che il PM avesse richiesto un'ulteriore proroga, ne aveva riconosciuto l'utilizzabilità legale basandosi su una sentenza della Cassazione emessa in aperta contraddizione con il codice di procedura penale e con precedenti interpretazioni del medesimo codice fatte dalla stessa Cassazione, per di più sotto forma di Sezioni Unite (che esprimono pareri proprio su interpretazioni normative).
A mio avviso, non c'è contraddizione con il codice di procedura penale ...
Come possono presentare le stesse caratterizzazioni un indagato individuato, che ha un nome e un cognome, e un indagato ancora da identificare perché si è dovuto ricavare da tracce biologiche un profilo genetico, ancora da attribuire a un soggetto con nome e cognome ben preciso?
Sono d’accordo con la dott. Maccora, perché il PM, che non chiede né l’archiviazione né la proroga del termine, è consapevole di non violare alcun diritto, dal momento che non c’è un indagato identificato, con nome e cognome, che abbia un effettivo interesse alla chiusura dell’attività d’indagine.
La legge prevede di “assimilare, fino al limite della compatibilità, la disciplina delle indagini contro ignoti a quella prevista per le indagini contro noti.” Quindi, quando il limite della compatibilità viene superato (perché manca un indagato che abbia un effettivo interesse affinché venga velocizzata la chiusura delle indagini e perché sono in corso analisi complesse che necessitano tempo e precisione per poter dare nome e cognome al profilo genetico individuato in laboratorio) la disciplina delle indagini contro ignoti non può essere assimilata a quella prevista per le indagini contro noti..
Ivana
( accidenti ! non sapevo che avessi una tale competenza giuridica oltre che matematica )
"la disciplina delle indagini contro ignoti non può essere assimilata a quella prevista per le indagini contro noti..
Quindi ?
Sono utilizzabili o no anche contro i "noti" gli stessi accertamenti effettuati nel corso delle indagini contro ignoti senza aver richiesto una ulteriore proroga ?
Ps x Max sempliciotto
non mi si apre più la pagina del link che hai segnalato ( http://www.altalex.com/documents/news/2015/10/30/processo-bossetti)
problema del mio pc ?
Enrico, :-)
NON ho alcuna competenza giuridica, semplicemente leggo cercando di interpretare lo spirito della legge e rientro nella schiera di coloro che ritengono si possa fare tutto ciò che non sia ESPRESSAMENTE vietato dalla legge.
La legge prevede di assimilare, FINO AL LIMITE DELLA COMPATIBILITA’, la disciplina delle indagini contro ignoti a quella prevista per le indagini contro noti”, QUINDI, QUANDO VIENE SUPERATO IL LIMITE DELLA COMPATIBILITA', ecco che la disciplina delle indagini contro ignoti NON può essere assimilata a quella prevista per le indagini contro noti!
Per i “noti”, ci si deve attenere a quanto prevede la disciplina delle indagini contro noti.
Enrico,
a me la pagina segnalata da Max sempliciotto si è aperta (ho appena provato ad aprirla nuovamente e non ho riscontrato alcuna difficoltà).
Forse ci sono stati problemi momentanei quando hai provato a riaprirla, ora mi sembra che siano risolti, per cui ti consiglio di riprovare ancora ad aprirla (sperando che non subentrino, nel frattempo, eventuali altri problemi per l'apertura di tale pagina web).
La giurisprudenza, com'è noto anche prima di Hegel, applica il principio di contraddizione, ovvero A = NON A, soprattutto come fa comodo al singolo inquirente. Il noto e l'ignoto: quando c'è un'indagine contro ignoti, perlopiù presentano richiesta di archiviazione, dicendo che l'ignoto, non essendo noto, non può essere perseguito (srebbe come cercare fantasmi o marziani; cfr. denuncia contro ignoti, specie se di furto o altro). Altro principio della giurisprudenza: Lavorare stanca ed affatica: quindi, tutto ciò che facilita ed alleggerisce il lavoro dell'inquirente è altamente benemerito. Da cui, la politica premiale per pentiti, spie, delatori, ed altra crema della società.
Qualcuno ha l'accesso completo all'ultimo articolo di Telese, quello sui filmati del furgone? No, perchè dagli spezzoni che si leggono in giro, se fosse vero (e non vedo perchè Telese dovrebbe mentire), saremmo alla farsa.
Adesso le belle addormentate si svegliano scoprendo che il filmano dato in pasto alla stampa era un tarocco creato ad uso e consumo della campagna colpevolista e per aizzare la piazza forcaiola.
e infatti lo si sapeva, tra di noi,
un altro becchime per il popolo bue
Attenzione. Anche io avevo forti dubbi sui filmati e parlarne e leggerne in questo sito me li aveva rinforzati. Ma sentire un consulente affermato come Lago ammetterlo sotto giuramento è un'altro paio di maniche!
Remo,
è quello che ho detto a mio marito quando mi ha commentato la notizia strabuzzando gli occhi ...
infatti, come ha commentato l'Anonimo dopo di telo si sapeva già tra di noi.
I giornalisti sarebbero a servizio della "informazione" pubblica? Bella roba!
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