Di Gilberto Migliorini
E trallallà trallallà - il Bel Paese trascorre gli anni e i lustri sul
palco di Sanremo cantando con cadenza orchestrale e timbro assonante la solita
canzone che tapum tapum ci fa sentire
patrioti e italiani. L’immagine tra le rose
rosse e i non ti scordar di me ci
offre l’identità tanto agognata di popolo che zum zum zum sa emozionarsi, fibrillare e intonare la canzone con
sentimento e ardore nazional-popolare. No, non siam fatti di legno! Sappiamo
ancora vibrare di passione… consapevoli dei nostri talenti artistici espressi
così bene in una disfida canora di alto valore simbolico e di altrettanto
sentimento commerciale… La nostra idealità di santi poeti e navigatori è tutta
lì a darci consolazione, in quei lustrini e paillette, qualche battuta da rabbrividire,
vestibilità da stilista di moda e tanta poetica anima e core. C’è magari anche la canzone di denuncia che risveglia
nell'audience - assopita in nostalgiche emozioni - quell'improvviso orgoglio
sociale, lo sdegno e la protesta declinati con cipiglio fiero e tono vibrante. Suvvia,
qui si fa sociologia spinta, in quattro strofe si delinea come va il mondo, con
un distillato di psicologia sociale e uno spaccato di bei luoghi comuni, con tonalità
che elevano la canzone a poema epico. E se poi è un madrigale o un sonetto
d’amore sono vette di sublime poesia.
Sì, una canzone può davvero spiegare
e decrittare più di un saggio sul sesso degli angeli, è più profonda di una
Lectio Magistralis e più efficace di un antidepressivo nel rincuorare un paese
sull'orlo di una crisi esistenziale, un farmaco che risolleva il core. La pubblicità in dosi rilevanti
fortunatamente attenua quell'impatto musicale che preso tutto di botto potrebbe
causare un ingorgo emotivo, una sovradosaggio di anfetamine mediatiche in un target
non più abituato a tanto ardore e tanta idealità assunta tutta in una volta. Si
rischia un’indigestione di strofe appassionate e di sublimi perifrasi canore. I
consigli per gli acquisti servono ad attenuare e diluire un format troppo denso
e corposo perché l’audience possa reggerne l’impatto emozionale e assimilarne la
dovizia creativa. Tutto quel bendidio profuso senza un minimo di precauzione
potrebbe compromettere la stabilità cognitiva di un target sensibile all'amore
e alla prolusione concettuale espressi in ritornelli pregnanti, distillati di
un olfattorio corale, insieme al profumo di ginestre
e lillà.
Ci si chiede quale festival
della canzone nella storia patria sia stato il migliore? Di quale anno ha il
miglior abboccato? All'occhio disattento sembrerebbero più o meno sempre le
stesse performance, pur nella metamorfosi di presentatori e veline, ospiti,
ugole canterine, suonatori ed orchestrali, guitti e giocolieri, predicatori e
affabulatori. In certo senso nemmeno la musica cambia, orecchiabile e melodiosa,
talvolta un po’ sniff, cadenzata, rap,
pop, cult… insomma quella che ti aspetti per non tradire le attese della vasta
platea televisiva.
Qualcosa solo un po’
minimalista o trasgressivo? Magari stonato ma di un naturalismo dal vero? Potrebbe
traumatizzare vecchi e bambini e suscitare scandalo negli aficionados del bel
canto e della morale corrente?
L’Italia si fotocopia
annualmente in una gara canora che è davvero l’emblema delle sue istituzioni: stabilmente
acquartierata nei suoi insediamenti culturali, un palcoscenico di scale,
dipinti, scenografie ed arredi che fanno del Bel Paese un expo sfarzoso e
luccicante, la fiera del belvedere, la vetrina dell’apparire… l’affresco secondo
il verbo mediatico. È una narrazione alla De Amicis con il libro cuore aggiornato
ai nuovi canoni estetici e al galateo riveduto e corretto secondo l’etica sentimentale e il gusto popolare. È il luogo della narrazione
dove si ritorna sempre, il labirinto della nostra cultura dove si intona il partiam partiam e non ci si schioda mai,
incapaci di uscir fuori dal conformismo culturale
dove soggiorniamo da sempre.
Il festival di Sanremo è
davvero l’emblema della nostra cultura, inossidabile, inalterabile e indefettibile,
mummificata tra i bei fiori e una musica suadente e talvolta perfino orecchiabile.
L’imbalsamatore però non si sa chi sia. O forse si sa e non si osa dire. Non è
un personaggio e neppure un evento, per quanto sia la metafora di un paese che
è sempre bambino, che non solo crede alle favole, ma se le racconta, se la
suona e se la canta… la canzone. L’homo italicus affezionato alle sue bambole,
ai suoi giochi e al profumo dei fiori, si mantiene ben stretto alle suggestioni
puerili. Qualcuno vuole che l’italiano rimanga eternamente fanciullo, che si
balocchi di filastrocche, tiritere e litanie, che non stia troppo a pensare,
che lasci andare la barca finché va…
È quel campionario di verità
standardizzate e preconfezionate per le quali non occorre argomentare, basta la
parola, lo slogan, quel mondo di emozioni e di certezze secondo un timbro
canoro. Il problema dell'Italia è la sua cultura e la sua mentalità, la testa dove
risuona quella musica che fa pepé-pepé
perepepé-perepepé. La trombetta di un popolo infante sa ripetere pedissequamente
la canzone, la poesia, perfino l’ideologia che ha assimilato da piccino, una
fede senza ratio e un amore plastificato e incelofanato in accordi
musical-popolari. L’enfant prodige sa suonare senza errori, senza dubbi o
incertezze, con l’assolo musicale o la coralità del gruppo che lo sostiene.
Pensare
davvero è cosa troppo impegnativa, troppo trasgressiva per un popolo che rimane
abbarbicato ai suoi balocchi, che ancora non sa leggere, non sa scrivere, non
sa vedere… non sa crescere mai. Però sa ascoltare quella melodia che lo fa
addormentare sereno nel suo lettino con il suo inseparabile orsacchiotto di
peluche…
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