Di Gilberto Migliorini
Se c’è un leitmotiv nel panorama del linguaggio politico italiano è quello
del cambiamento con tutto quel gergo
immaginifico con il quale si usa la metafora come strumento per accreditare il
concetto di una trasformazione più o meno radicale (riformismo, rottamazione, mutamento,
nuovo corso, ribaltamento, rivoluzione…). La realtà? Se c’è una cosa di cui
tanti italiani hanno una paura folle è proprio il cambiamento. Si usano le parole come figure retoriche, eufemismi accattivanti
ed evocativi, per parlare di qualcosa che suscita l’immediata sensazione di un
pericolo incombente, il crollo delle proprie sicurezze, la fine di quei punti
di riferimento che consentono di tirare avanti, di sbarcare il lunario o
semplicemente di tirare l’acqua al proprio mulino. Si tratta di quell’arte di
arrangiarsi di cui l’abitante del Bel Paese è teorico e pratico, benpensante e
sostenitore, una filosofia di vita che è anche un modello esemplare di
immobilismo, quel cambiare soltanto la superficie delle cose lasciando
inalterata quella che suole chiamarsi l’utilità del momento, l’opportunismo
eretto a condizione esistenziale e ideologica.
Si dice mutamento e si intende
la difesa ad oltranza dello statu quo,
si parla di innovazione e ci si ispira a un film del quale si conosce già la
trama e il finale, si disquisisce di rinnovamento e si palesa la riesumazione
di qualche vecchio copione tenuto in soffitta, si sproloquia di rottamazione e
si edificano monumenti funebri che fanno a gara con quello del Milite Ignoto. Si
tratta comunque di una difesa legittima di quel poco (o quel tanto) che
ciascuno è riuscito a racimolare o a costruire più o meno con il sudore della
sua fronte o di quella di qualcun altro sfruttato per le bisogna. Perfino per
gli incapienti c’è la paura, col cambiamento, di cadere in qualche nuovo inferno
di cui ancora non si conoscono i supplizi. Insomma del peggio non c’è mai la
fine. Fin qui tutto risponde a un conservatorismo che legittimamente considera
il cambiamento un ossimoro da perseguire tirando bene il freno a mano, una
sorta di razionalizzazione, l’auspicio di dare olio agli ingranaggi perché il
sistema funzioni nel migliore dei modi e senza incepparsi, ma sempre nel mantra
del finche la barca va lasciala andare...
Cambiare insomma quanto basta per non dover stravolgere tutto e lasciare che
tutto rimanga come prima. In quest’ottica cambiare significa semplicemente
revisionare il sistema, eliminare i punti di attrito, farlo funzionare bene in modo
da ridurre i conflitti sociali e allargare il più possibile il benessere
collettivo. Tutto questo in linea teorica o propagandistica con quelle belle
parole del politicante che fanno presa con tutto quell’alone di buoni
sentimenti e propositi costruttivi. Questa filosofia ha retto bene dal boom del
dopoguerra quando il paese come l’araba
fenice è risorto dalle sue ceneri da una guerra disastrosa e dalla sciagura
del fascismo. Pian piano l’Italia del postfascismo ha raggiunto un benessere
espresso soprattutto da una classe media
che è riuscita risollevarsi già a partire dagli anni ’60, ha potuto far
studiare i propri figli, comprarsi una casa e godere di un sistema di garanzie
che vanno sotto il nome di servizi pubblici (scuola, sanità, trasporti, sevizi
municipali… ecc.). Questa condizione ha cominciato poi ad allargarsi anche alle
classi sociali svantaggiate creando le premesse per un blocco di conservazione
(non necessariamente conservatore) delle conquiste raggiunte, intendendo dunque
il cambiamento come consolidamento del benessere acquisito o in via di
consolidamento, e come incremento dei diritti e del benessere sociale.
Tutto
questo non senza il prodursi di contraddizioni e di tensioni (costellate da
strategie destabilizzanti con forze che hanno tramato nell’ombra a vario titolo).
Non sono mancate spinte centrifughe, tentativi di arretramento, complotti,
macchinazioni e boicottaggi e… quel torbido di servizi segreti e operazioni
occulte, terrorismo, attentati e stragi di matrice più o meno oscura. Comunque il
paese ha percorso un tratto di strada in un’ottica di avanzamento e di sviluppo
nonostante il permanere di sacche di squilibri e ingiustizie sociali, di
emarginazione e di precarietà. Il cambiamento comunque ha assunto i caratteri
di un’evoluzione in senso positivo ispirato anche dai valori di una Costituzione
illuminata e da alcune personalità che hanno dato un’impronta positiva al Paese
con onestà intellettuale e lungimiranza, e soprattutto da una dialettica
maggioranza-opposizione reale e improntata a un confronto non consociativo,
talora molto conflittuale.
A partire dagli anni ‘80 (ma
qui ciascuno può spostare i paletti come vuole) è cominciato un lento ma
costante scivolamento su un piano inclinato. Quasi impercettibilmente ha
iniziato a venir meno quel senso di costruzione di uno Stato, che pur tra tante
contraddizioni, era orientato al servizio della collettività. Un liberismo economico
(con i suoi teorizzatori e ideologi) si è andato via via affermando come
filosofia sociologica che, si teorizzava, avrebbe assicurato un benessere in
grado di trasformare il paese in una sorta di Eldorado. Non mi avventuro qui in
una disamina sulle implicazioni e sulle spinte in ambito nazionale e internazionale
e sugli scenari che hanno caratterizzato la politica mondiale con i relativi sviluppi
economico produttivi e i cambiamenti in ambito geo-politico soprattutto con la caduta del muro di Berlino. Mi limito
a constatare che su quel piano inclinato i cittadini del Bel Paese hanno visto
progressivamente erodersi tutta una serie di conquiste che avevano portato
L’Italia al vertice tra i paesi più progrediti sul piano economico e in parte
anche sociale. Questo scivolamento è avvenuto impercettibilmente nel corso di
quegli anni e fino ad oggi.
Un processo surrettizio, con politiche sempre più
liberiste, ha supportato un sistema propagandistico socio-televisivo, con sceneggiature
scritte direttamente sulla pelle del paese e utilizzando retorica e demagogia
sempre più spudorate. Tale progetto politico ha smantellato non solo lo stato
sociale ma anche il patrimonio collettivo fatto di strutture produttive e di
servizi che assicuravano manodopera e prestazioni alla collettività con un piano
di investimenti pubblici e contribuendo alla stabilità sociale e all’incremento
delle risorse non solo economiche ma anche intellettuali. I primi
trenta -quaranta anni del dopoguerra, pur nelle contraddizioni testimoniate da
un dibattito politico tra maggioranze e il pungolo di opposizioni non meramente
virtuali, avevano assicurato un progresso fatto non solo di consumismo ma anche
di qualità della vita nella forma del soddisfacimento dei bisogni anche
formativi (istruzione, cultura e ambiente di vita). Si trattava di un processo
che attendeva, attraverso ulteriori riforme, di procedere sulla strada di un
allargamento del benessere sociale e dei diritti (almeno come ispirazione e
progettualità) e della trasformazione della mentalità e del costume di un paese
con alcune arretratezze sul piano dei diritti e delle libertà civili.
È stato a
partire dagli anni ’80 - come dicevo (e qui non voglio fare un’analisi politica
delle forze che hanno contribuito a trasformare il paese in un’azienda in mano
ai privati, ma chiunque lo può fare osservando i governi che si sono succeduti
da allora) - che è iniziata la privatizzazione del paese attraverso politiche ad
hoc. Il compito era quello di rendere decotti e in perdita i vari ambiti della
cosa pubblica utilizzando le retoriche più varie e giocando sull’equivoco cattiva gestione=Stato, obliterando la
commistione della politica con gli interessi clientelari. Ma lo strumento era
anche quel processo di municipalizzazione delle autonomie con il compito di trasformare
i beni collettivi attraverso lo slogan del padroni
in casa nostra e con il mantra del privato
è meglio, in agenzie date in mano a consorterie seguendo non più la logica
del vantaggio per la collettività, ma del tornaconto degli investitori privati
e della finanza creativa al servizio della speculazione. Ambiti strategici come
quelli dei servizi e delle strutture e infrastrutture di base (energia, trasporti,
telecomunicazioni, scuola, sanità e più in generale tutte quelle funzioni di
sistema della convivenza sociale) sono diventati oggetto di profitto e di
speculazione trasformando il concetto stesso di comunità nazionale (storica,
culturale e valoriale) in un’azienda alla mercé degli interessi dei potentati
economici nazionali e sovranazionali in un intreccio che va sotto il nome di
conflitto di interessi.
La politica non più al servizio della collettività
(almeno nel senso di quella maggioranza auspicabilmente il più ampia possibile
di valori condivisi) ma al servizio di gruppi ristretti di potere che fanno con
la gestione della cosa pubblica i propri interessi, che detengono il controllo
sull’informazione e che più in generale decidono sulle scelte di politica
economica e finanziaria della collettività in relazione al proprio tornaconto
(o di un supposto vantaggio generale sulla base di una visione paternalistica
del nostro futuro). Tale politica ha determinato, come dicevo, un lento
scivolamento del Paese verso forme di controllo dell’opinione pubblica
attraverso soprattutto la televisione, ma anche la scuola dei decreti delegati trasformata già fin dal
lontano 1973 in strumento ideologico. L’autonomia scolastica (nel suo carattere
eminentemente demagogico) ha frantumato la coscienza collettiva. La scuola come
momento essenziale di una nazione - formativa del senso civico, della moralità
e delle attitudini dei cittadini a riconoscersi
come comunità - veniva trasformata in una agenzia politica. Le segreterie di
partito e i sindacati diventavano controllori dei processi decisionali e della
rispondenza di ogni singolo operatore scolastico con l’ortodossia implicita nei
meccanismi del consenso.
Gli insegnanti, da professionisti venivano trasformati
in meri esecutori, ideologi, macchine per insegnare programmate secondo i
dettami del politicamente corretto. Il relativismo e l’opportunismo sotteso ai
decreti delegati e alle sbandierate autonomie (di fatto un controllo del
territorio su base localistica) ha significato la perdita di qualsiasi
orientamento etico e teoretico in una melassa di particolarismi strumentalizzati
da interessi speculativi e ideologici spacciati per processi democratici. Il
controllo ideologico delle famiglie ha rappresentato lo strumento con il quale
il potere ha agito per interposta persona sottraendosi alla visibilità e
giustificando ogni sorta di decisione politica in nome del ce lo chiedono le rappresentanze. Il paese con i decreti delegati
del 1973 si è avviato come prova generale (attuata in seguito e fino ad oggi) a
diventare un paese controllato dai media, con insegnanti in crisi di identità,
umiliati nella loro professionalità, e famiglie strumentalizzate alla logica di
una scuola frantumata e parcellizzata.
L’istruzione pubblica ha
progressivamente deteriorato l’idea di comunità nazionale fomentando gli
egoismi e i particolarismi localistici, ma nel contempo ha distrutto le libertà
individuali, la creatività e l’originalità professionale di ogni singolo
docente, ha eliminato l’arricchimento dato dalla varietà dei modelli
pedagogici, in nome di regole definite e ridefinite di volta in volta sulla
base di criteri opportunistici e di spinte partitocratiche attraverso il
sistema della collegialità (una
parodia della democrazia) con la tipica impossibilità di manifestare diversità
e pluralismo, e con tutte le forme
arbitrarie di decisioni senza riferimento o in mancanza di un quadro normativo (certezza
del diritto) con la connessa diluizione delle responsabilità (tipica modalità medioevale
con le sue egemonie sociali e i suoi sistemi di clientele che si esprime a
livello parlamentare con la moderna disciplina di partito). Ci si adegua alla
maggioranza attraverso decisioni unitarie basate sul compromesso, non in
riferimento a un programma organico da rispettare in nome di un mandato o di
regole democraticamente definite, a idee valori e progetti condivisi, ma
semplicemente a una conformità, imposta di volta in volta, a decisioni
collegiali in ragione di opportunità clientelari e di bottega per così dire
occasionali e strumentali, alla politica del patteggiamento perseguita come
voto di scambio o come spartizione del potere.
Il partito melassa come tipica
manifestazione di consociativismo, compromesso, scambio di favori, politiche opportunistiche…
in un’etica della situazione caso per caso: la politica al servizio delle
clientele, dei referenti e dei finanziatori più o meno occulti. Lo scivolamento
verso forme di stato autoritario e in direzione della svendita della cosa
pubblica è stato talmente impercettibile, e instillato da una propaganda
televisiva tanto martellante quanto impalpabile, da risultare quasi invisibile
nelle sue implicazioni. I suoi effetti sono andati piano piano sommandosi e
accumulandosi fino allo smantellamento del senso di comunità nazionale (di un Paese
unitario per valori, cultura e obiettivi da perseguire pur nella molteplicità
dei modelli, degli itinerari e dei metodi) e di precarizzazione di quel senso
di appartenenza e di solidarietà che sono alla base dei grandi progetti ideali
e fattuali. I valori condivisi sono stati sostituiti dal galateo televisivo, da
modelli mediatici sovraimposti sull’utente come decalcomanie. Una generazione
di figuranti e di comparse, di androidi e robottini educati alle risposte preconfezionate
e stereotipate, già ben impostati da una scuola del politicamente corretto e
del conformismo, sono andati sostituendo quelli che un tempo erano gli attori
della vita reale del paese.
È andato così via via scemando il senso di
giustizia e di onestà, nucleo di valori condivisi al di là di un credo
religioso e di una ideologia politica, pur nel rispetto sì delle tradizioni
locali, ma senza strumentalizzarle in funzione di interessi inconfessati e
utilizzate come specchietto per le allodole. La retorica delle autonomie è
inoltre servita nella logica del divide
et impera ad atomizzare e segmentare la società rendendola in tal modo
permeabile al controllo unidirezionale. La progressiva frantumazione del
sentire il comune senso di appartenenza a una comunità nazionale ha creato chiusure
demagogiche con lo scopo di indebolire la cittadinanza condivisa e isolare le
varie comunità in ghetti culturali. Sistemi di regole sempre più parcellizzate,
incomprensibili e arbitrarie, una esplosione di leggi e di normative capziose e
decettive hanno dissolto il patrimonio culturale e civile della nazione
frazionandolo in recinti. Le chiusure sono risultate utili strumentalmente a
chi avrebbe controllato con maggiore efficienza il territorio e avesse in nome
dell’autonomia promosso politiche economiche svincolate dal benessere sociale.
In nome della piccola patria, i
potentati locali si sono sottratti al controllo della collettività nazionale e
hanno impedito che altri attori politici e sociali si opponessero ai danni al
patrimonio ambientale, artistico e paesaggistico in tutte le sue forme (con la
scusa dell’occupazione e dello sviluppo economico). Il divide et impera era diventato inoltre lo strumento per indebolire
il paese sul piano internazionale frammentando non tanto il potere
dell’opposizione (che non esisteva più se non come elemento formale) ma quello
della consapevolezza e della coscienza collettiva in merito ai diritti e ai
doveri, al senso di appartenenza a una comunità di intenti e di valori: le autonomie
e le divisioni (come storicamente già avvenuto: vedi la discesa emblematica in
Italia del re francese Carlo VIII, agli esordi della storia moderna, che sbaragliò
ogni piccolo esercito dei piccoli stati italiani e distrusse ogni città che gli
resisteva) hanno costituito la premessa fondamentale per razziare il paese e
hanno facilitato l'ingresso speculativo del capitale finanziario internazionale
e la svendita del territorio senza più una vera identità nazionale che non
fosse quella della tv commerciale e del gossip dei rotocalchi.
La retorica
delle autonomie in tutte le sue forme non è servita ad altro se non a
indebolire la coscienza collettiva di nazione e rendere il paese una facile
preda degli speculatori (nazionali e internazionali) giustificando il tutto con
il solito stilema della globalizzazione,
del mondialismo (fuori metafora i
grandi speculatori senza confini geografici in quell’intreccio di interessi di
una mano lava l’altra).
Tale scenario di dissoluzione
del senso di comunità nazionale e di popolo è stato possibile con la
collaborazione sia delle maggioranze e sia delle opposizioni che hanno
governato il paese (e nonostante quei balletti del contraddittorio destra centro e sinistra che hanno più
che altro avuto la funzione di tirare l’acqua al mulino dei propri referenti, non
già nell’interesse dei cittadini) e di creare quella cortina fumogena di un
dibattito politico talora ideologicamente molto acceso e dai toni aspri che
aveva l’unico scopo di occultare il consociativismo e il compromesso dietro a
quell’orwelliano finto oppositore che ha costituito la maschera di un potere
anonimo con le controfigure di valletti, consorterie e prestanome.
Alla maggioranza dei cittadini
può sembrare assurdo di essere stati presi per i fondelli da quelle forze politiche
che si sono appellate (a parole) agli ideali di giustizia e solidarietà sociale
e che in realtà remavano contro, nei
fatti, a una concezione dello Stato come comunità democratica che realizza
obiettivi in direzione del benessere collettivo e non già negli interessi di ristretti
gruppi di potere. L’idea orwelliana di un falso oppositore viene sicuramente rifiutata
da tutti quegli elettori che in nome di un impegno politico non possono ammettere
che qualcuno possa aver scientemente approfittato della loro buona fede e
dell’idealità espressa chi ha creduto con passione a una comunità di intenti
civili e di giustizia sociale. Si preferisce chiudere entrambi gli occhi di
fronte a una classe dirigente che ha governato a vario titolo (un po’ al
governo e un po’ all’opposizione) e che avrebbe dovuto rappresentare quegli
ideali. Classe politica che ha predicato bene (demagogicamente) e razzolato
male spesso usando tirate ideologiche vuote e altisonanti e analisi sociologiche
da contorsionista e con tutta una fenomenologia di reversioni, ribaltamenti e
salti mortali.
L’idea di poter essere stati ingannati mediante artifici
retorici e propagandistici da parte di un sistema politico truffaldino - che
dietro le quinte ha sempre trovato accordi e compromessi sottobanco - suscita
un moto viscerale di rifiuto anche perché implica che tutto quello nel quale si
è creduto si fondava sulla menzogna sistematica e sull’inganno.
In psicologia sociale tale rifiuto viene elaborato nella Teoria della dissonanza cognitiva. Di
fronte a casi ed eventi che mettono in crisi tutto un sistema di credenze e di
valori si preferisce trovare giustificazioni per non dover cambiare e mettere
in discussione tutto il proprio mondo di idee e soprattutto quello nel quale si
è sempre creduto. Ammettere di aver prestato fede a un sistema politico di mere
finzioni, una sorta di dottrina della doppia verità nella quale si diceva una
cosa e si faceva il suo opposto, non può che rappresentare uno shock traumatico
dal quale difendersi, in qualche caso negando perfino l’evidenza. Il
cambiamento sarebbe avvertito come qualcosa che incrina la propria stabilità
emotiva, che mette in crisi tutti i punti di riferimento obbligandoci a una
dolorosa e destabilizzante revisione di quello in cui si ha avuto fiducia e che
comunque ci ha offerto certezze e
stabilità almeno sul piano emotivo.
Tutto questo rappresenta un meccanismo di
difesa naturale e risponde a un principio economico di natura psicologica. L’obiezione
ovvia di rifiuto di tale consapevolezza è che ci vuol altro per mettere in
discussione un sistema di valori e credenze, che le incongruenze costituiscono
le normali contraddizioni di qualunque sistema nel quale esistono imperfezioni
e manchevolezze. Si obietta che la ricerca di una stabilità e il rifiuto di
facili avventurismi al di fuori di un sistema ideologico di valori e credenze
costituisce la risposta normale di un elettorato che nel cambiamento cerca
maggiore stabilità, nelle trasformazioni la messa a punto di un sistema che
funzionalmente risponda con maggior efficienza alle sue esigenze. La teoria della dissonanza cognitiva
comunque ci dice che il cambiamento ha un prezzo sul piano emotivo e cognitivo
che non sempre si è disposti a pagare per il semplice fatto che quello in cui
crediamo ci offre comunque maggior soddisfazione ( e/o sicurezza) di quello che
ci viene offerto in alternativa, e che può generare ansia e incertezza per il
futuro.
Il panorama che si offre oggi
dopo alcuni decenni di cura liberista e di dissoluzione della cosa pubblica a
favore di lobby economico-politiche (più o meno legalmente costituite) sembra
però non giustificare più una difesa ad oltranza di qualcosa che sta
scomparendo: l’idea che ha sorretto e giustificato la paura del cambiamento
(quello vero non rappresentato da tante iperboli ideologiche vuote e roboanti)
è diventata una fortezza vuota, una cinta muraria dove vanno via via
scomparendo quei benefici e quelle conquiste di una società che ha cercato in
passato (anche se non sempre con successo) di costruire valori, istituzioni e
servizi condivisi. La cosa pubblica viene progressivamente smantellata, i
servizi sociali trasformati in enti di profitto, la cultura e la scuola asservite
alla logica del marketing, la sanità e la salute pubblica in un sistema che ha
come logica la mera produzione di interessi economico-finanziari. Il sistema
dei trasporti non risponde alle esigenze di tutela del territorio e della
mobilità sociale come sviluppo di relazioni e di benessere, ma quello della produzione
legata a una cementificazione e consumo del suolo.
L’idea di uno stato al
servizio della collettività e del suo futuro, attraverso una pianificazione e
gestione delle risorse in vista del benessere comune, risulta ormai soltanto un
elemento propagandistico. L’informazione è diventata un lunghissimo e
inesauribile spot dove ogni elemento del palinsesto contribuisce a tenere
l’ascoltatore irretito in un ipertesto narrativo, una ragnatela di finzioni e
di inganni, un labirinto tra uno spot e un carosello dal quale pollicino cerca
inutilmente l’uscita e con conduttori
servizievoli che fanno di tutto per non fargliela trovare. La nuova classe
dirigente si appresta (e l’ha già anticipato per poi rimangiarselo in vista del
turno elettorale) a metter mano a quanto ancora resiste e rimane del patrimonio
collettivo: presto toccherà alla sanità e alla scuola, al sistema delle
telecomunicazioni, ai trasporti… che nonostante le tirate demagogiche di quest’ultimo
esecutivo, saranno sacrificate sull’altare della trasformazione del paese in
un’azienda (multinazionale, un po’ cloud computing, un po’ colonia e un po’
ipermercato delle illusioni).
Un gruppo di tromboni e re taumaturgici ormai
usano promesse da marketing, trucchi contabili, un po’ di fumo negli occhi e
una manciata di euro come specchietto per le allodole. Un gruzzoletto (80
monete virtualmente sonanti) in cambio della dignità, monetizzando sogni di
celluloide, incellofanando il futuro in un cadeau,
a prezzo della dissoluzione dei patrimonio collettivo, di uno Stato non più al
servizio della collettività, alla rinuncia al diritto di eleggere i propri
rappresentanti… sostituendoli con quelli delle segreterie di partito o dei
nominati da qualche consorteria. Gli elettori trasformati in slot machine del consenso con assegni in
bianco con stampigliato il brand del
partito, supporter per i quali la squadra del cuore (la propria fazione
politica) si ama e basta, non si discute.
Nostalgici e conservativi si apprestano con un voto a difendere quello
che rimane di un paese all’incanto: una fortezza sempre più vuota (con
rappresentanze trasformate in sistemi nominativi e clientelari) con sempre meno
lavoro, sempre meno salute, un’informazione sempre più addomesticata, e con sempre
meno prospettive.
Presto saremo come quei barboni che difendono con le unghie e
coi denti solo quel pezzo di cartone con il quale si riparano dal freddo? Forse
per chi non ha ancora capito sarebbe arrivato il momento di cambiare registro, ma
per davvero, sperando che il tempo non stia già per scadere...
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