venerdì 7 febbraio 2014

La Congiura di Catilina e la crisi istituzionale nella tarda Repubblica Romana

Saggio di Manlio Tummolo

Bertiolo, Udine (Novembre 2012)
Premessa: 
Dedico questo scritto agli Amici Franca Zuliani e Sergio Gregorat, cittadini di Trieste perseguitati sia da una classe politico amministrativa che da una categoria forense e da una Magistratura inette e faziose che hanno perduto la coscienza del Dovere e della Legge


“V. Lucio Catilina, di nobile stirpe, fu d’ingegno vivace e di corpo vigoroso, ma d’animo perverso e depravato. Sin da giovane era portato ai disordini, alle violenze, alle rapine, alla discordia civile; in tali esercizi trascorse i suoi giovani anni. Aveva un fisico incredibilmente resistente ai digiuni, al freddo, alle veglie, uno spirito intrepido, subdolo, incostante, abile a simulare e dissimulare. Avido dell’altrui, prodigo del suo; ardente nelle passioni; non privo d’eloquenza, ma di poco giudizio; un animo sfrenato, sempre teso a cose smisurate, incredibili, estreme [veramente il testo sallustiano dice “nimis alta”, ovvero “troppo alte”, il che assume un significato ambiguo, tra l’idealismo ed il personalistico].

Finito il dispotismo di Silla, fu preso dalla smania d’impadronirsi del potere; pur di raggiungerlo, non aveva troppi scrupoli; quell’animo impavido era turbato ogni giorno di più dalla penuria di denaro e da cattiva coscienza… Lo spingeva inoltre su quella china la corruzione della città…” (Gaio Crispo Sallustio, “Sulla congiura di Catilina”, ed. it. BUR, Milano, 1980, trad. e commento di Lidia Storoni Mazzolani, testo latino a fronte, pag. 85)

XIV.  In una città così grande e così corrotta, non era stato difficile a Catilina raccogliersi attorno tutti i dissipati e i criminali e farne, si può dire, la sua guardia del corpo. Non c’era degenerato, adultero, puttaniere, scialacquatore…, non c’era un indebitato fino al collo…, non un parricida… che non fosse dei suoi… Cercava,  più di tutto, d’attirare i giovani… So che alcuni hanno sospettato di costumi disonesti  [presumibilmente allude all’omosessualità o anche alla pedofilìa] i giovani che frequentavano la casa di Catilina, ma erano voci, congetture…, non su fatti accertati"

"XV. Sin da giovane, Catilina aveva avuto relazioni nefande: con una fanciulla di nobile famiglia, con una vestale [le sacerdotesse della dea Vesta, considerate inviolabili sessualmente, come le monache o suore cattoliche.  Se scoperte non più vergini e con relazioni sessuali, venivano murate vive] e altre del genere, contrarie alla legge e alla morale. Infine, s’innamorò di Aurelia Orestilla, della quale nessun galantuomo trovò mai da lodare nulla fuor che la bellezza…  il suo animo scellerato, nemico degli dèi e degli uomini, non trovava riposo nel sonno, né nella veglia, a tal punto i rimorsi lo tormentavano. Pallido in volto, lo sguardo torvo, il passo ora affrettato ora lento, tutto nell’aspetto e nel contegno rivela la perversità del cuore “.
(ibidem,  pagg. 99 – 101)"

"LXI.  Finita la battaglia, solo allora si potè constatare quale fosse l’ardire, la forza d’animo dei combattenti di Catilina: caduti, coprivano quasi tutti col corpo il posto di combattimento che avevano occupato da vivi. Soltanto alcuni del centro, quelli che la coorte pretoria aveva sgominati, giacevano poco discosto, ma tutti colpiti al petto. Catilina fu trovato lontano dai suoi, in mezzo ai cadaveri nemici. Respirava ancora un poco; nel volto, l’indomita fierezza che aveva da vivo. Di tutto l’esercito non fu catturato nessun uomo libero né in battaglia né in fuga; nessuno aveva tenuto da conto la propria vita più che quella del nemico. Né  peraltro l’esercito del popolo romano riportò una vittoria senza lacrime e senza sangue…”(ibidem,  pagg. 195 – 197).

Queste due descrizioni, presentate dall’ex-cesariano e storico di Roma Gaio Crispo Sallustio, pressoché contemporaneo di Lucio Sergio Catilina e del suo tentativo di rivolta soffocato ai piedi dell’Appennino Toscano, presso Pistoia nel 62 avanti Cristo, racchiudono pressoché l’arco di vita, sotto l’aspetto psicologico, politico e rivoluzionario del protagonista, in una sintesi sicuramente artistica, efficace, lapidaria, ma anche poco rispettosa del personaggio, descritto in modo assai contraddittorio, nel corso del testo, con prevalenza però della negatività, se non che ne fa  eroi di notevole grandezza, sia Catilina sia i suoi uomini, nella conclusione.  Va detto che i Romani, di fronte al coraggio mostrato sul campo di battaglia, si inchinavano sempre e comunque, riacquistando la loro imparzialità sia pur relativa.  Lo fecero col grande nemico Annibale, così come contro questi“hostes populi romani” (nemici del popolo romano, come vennero chiamati i ribelli in generale (altrettanto dicasi per Spartaco).

Secondo Concetto Marchesi, nella sua “Storia della Letteratura Latina”,  Sallustio di questa ambivalenza fa un criterio stilistico, perché descrive anche tutti i catilinari con lo stesso metro. Per cui, Catilina, di cui egli apprezza il programma sociale e rivoluzionario per i tempi, non aveva tali caratteristiche.   Difficile dire come fosse, perché fonti diverse e meno faziose su di lui, non esistono, in quanto Lucio Sergio Catilina fu sottoposto a quel procedimento di “damnatio memoriae”, che ne provocava la distruzione di ogni raffigurazione (a me sinceramente piace immaginarmelo come nel ritratto d’età etrusco-romana denominato “Bruto”, un viso severo con occhi particolarmente vivi, segnato da sofferenze, eppure forte e deciso), la demonizzazione del carattere e dell’azione, la diffamazione lasciata per i secoli, che nei comuni manuali scolastici o in vari testi, malgrado anche diverse rivalutazioni, tra cui quella dello stesso Marchesi in uno dei suoi saggi raccolti ne“Il Cane di Terracotta”, in cui lo raffigura come l’ultimo dei veri Romani, ben più di Cesare, che si era lasciato uccidere coprendosi il capo, mentre Catilina muore non solo combattendo, ma lasciando attorno a sé molti avversari altrettanto uccisi.  In effetti, al pur notevole studioso sfugge che già lo stesso Cicerone, il grande suo rivale, il repressore della rivolta, della quale gli restò un ricordo indelebile fino alla fine, descrisse Catilina come uomo pieno di contraddizioni nel suo discorso in difesa di Marco Celio.  Marco Celio, tra le varie accuse che aveva subìto, aveva anche quella di essere stato amico e sostenitore di Catilina.  Cicerone già in tal caso arriva ad elogiare le doti positive di Catilina e riconosce che egli stesso ne era stato attratto.  Alcune osservazioni su Catilina fa riguardo al processo contro Milone, da lui difeso.  Milone, in uno scontro di “squadre”, aveva ucciso Clodio, di cui Cicerone dice che fosse stato sostenitore di Catilina.  Dopo la congiura, sarà proprio questo Publio Clodio, vicino al gruppo cesariano,  a far espellere in esilio Cicerone e a fargli confiscare la casa, in quanto da console aveva agito illegalmente contro i catilinari di Lentulo, fatti strangolare al Carcere mamertino, senza il dovuto “appello al popolo”, sorta di processo in ultima istanza presso i Comizi Tributi, come previsto dalla procedura verso i cittadini romani.  Ma tale procedura non valeva per coloro che erano proclamati “nemici del Popolo Romano”, per cui erano considerati stranieri.

Sarà comunque lo stesso Cicerone, nelle sue celebri “Filippiche”  contro Marco Antonio il quale pretendeva di essere continuatore di Lucio Catilina, ad irriderne questa pretesa, e a far l’elogio dell’antico avversario e delle sue grandi capacità di rivoluzionario e di organizzatore.  E le“Filippiche” vanno anche considerate il grande testamento di Cicerone, come uomo politico, e pertanto anche il riconoscimento esplicito dell’importanza che, nella sua vita, ebbe la lotta contro Catilina.

Ora, avendo già messo, come suol dirsi, troppa carne al fuoco, sarà bene ricominciare il discorso, partendo da questioni generali, riguardanti l’ultima fase della storia di Roma repubblicana, la sua crisi politica ed istituzionale, le sue lotte sociali, prima, civili e militari poi.   Lo stesso Sallustio aveva tentato di farlo, ma egli era condizionato da un lato dalla fedeltà verso Cesare, dall’altra timori di qualche vendetta lo condizionavano in senso opposto.  Il quadro storico generale che egli presenta soprattutto all’inizio è, più che politico, moralistico, in cui tratta di una vera o presunta decadenza dei costumi romani, di cui tuttavia non approfondisce le ragioni politiche, economiche, di rapporti appunto istituzionali e giuridici.

LA PROBLEMATICA  STORICA

Le forti lotte sociali che avevano caratterizzato la fase iniziale della Repubblica Romana (V secolo a. C), tra i patrizi (discendenti delle famiglie fondatrici di Roma e la sucessiva aristocrazia etrusca insediatasi con i Tarquini) erano andate progressivamente smorzandosi, con una sostanziale parità che portò anche alla fusione di famiglie patrizie e plebee.   Sicché nei secoli successivi, quello delle varie guerre italiche e poi della prima espansione mediterranea (Guerre puniche) la distinzione tra i due gruppi sociali aveva un semplice carattere nominale, di memoria storica, non certo di condizioni economiche e culturali.  Come poi succederà nella Venezia post-rinascimentale, si potevano avere famiglie patrizie povere e famiglie pebee molto ricche.  Si era formata una nuova classe, quella dei cosiddetti  “equites” (cavalieri), ossia coloro che potessero andare in guerra a cavallo.  In realtà, è più un modo di dire, in quanto il nerbo delle legioni romane era la fanteria, e i cavalieri erano spesso mercenari alleati (celebre con Cesare fu la cavalleria gallica ed anche germanica).   Quindi non si trattava di avere o non avere un singolo cavallo (una sorta di don Chisciotte romano), quanto una bella scuderia, con cui fornire eventualmente l’Esercito per ogni necessità, perché ognuno di noi sa che mantenere cavalli allra, come oggi, richiede una certa ricchezza.  “Cavalieri” dunque non tanto perché andassero in guerra a cavallo, ma quanto perché potevano mantenere con le loro ricchezze un certo numero di cavalli.  Ebbene, questa classe di ricchi (sempre più ricchi con le guerre, le conquiste, le rendite agrarie, i commerci, la compravendita di schiavi)  cominciano ad assumere sempre maggior potere.  Già, ma com’era organizzato il potere nella Repubblica Romana, da dove traeva la propria forza, capacità di resistenza, di difesa e di aggressione, Roma?

La forza di Roma, almeno nei primi secoli, non era data dal numero o dalle risorse materiali:  né nell’una cosa, né nell’altra avrebbero potuto competere con gli Etruschi e dei Magno-greci o Italioti, forti dell’uno come dell’altro, e neppure col solo numero, come contro i Sanniti o i Galli.  La forza di Roma stava essenzialmente in uno spirito d’organizzazione che getta le basi di quello che è lo Stato moderno:  ossia, non confondere le funzioni di governo, nelle mani di signori assoluti o di forme anarcoidi di potere, ma creare organi con funzioni precise, creare leggi che venivano rispettate con molta disciplina.  Nell’antica Roma non c’è ancora la distinzione dei poteri che appena Montesquieu nel XVIII secolo formulò con precisione e tuttora più acclamata, che in realtà confermata.  Ma Roma aveva qualcosa che assomigliava a questo.  Già le città greche erano riuscite a creare istituzioni separate con funzioni separate, ma forse non avevano quell’apparato organizzativo “gerarchico”, che derivava anche da una certa concezione dell’arte militare ed amministrativa che Roma aveva e che trasmise al mondo.   Questo tipo di organizzazione che rende la Repubblica Romana (e poi, in parte, l’Impero, che ne mantiene la linea) la forma di governo più vicina allo Stato moderno, le consentì di affrontare uno alla volta, e in qualche caso anche insieme, nemici molto più potenti per numero e per risorse battendoli uno alla volta.  Carattere di Roma fu anche quello di integrare i vinti, con forme giuridiche, quali la cittadinanza (con patto latino o con patto romano), lasciando loro viceversa un’ampia forma di auto-amministrazione interna.   Roma quindi superava nettamente le forme di confederalismo religioso tipiche degli Etruschi e le forme di confederalismo culturale tipiche dei Greci, creando un federalismo robusto e rigoroso, che si estendeva progressivamente. E’  interesante notare che, quando vi furono le guerre sociali (inizi secolo I a C.), da non confondere con guerre tra classi, ma nel senso latino: socii sono gli alleati, i popoli ormai già federati a Roma ma senza cittadinanza, senza il patto di tipo romano, senza possibilità di eleggere le cariche “nazionali”, statali, di Roma, la pretesa degli Italici che, per primi,  estendono l’idea di Italia all’intera Penisola, consiste nell’esigere di poter ricevere la cittadinanza romana; per la prima volta si auto-organizzano alla maniera romana, e minacciano di sconfiggerla defintivamente, se non che la decisione di concedere tale cittadinanza, toglie ogni motivo alla lotta e, salvo una resistenza sannitica ancora forte, gli altri accettano questo rapporto giuridico nuovo tra loro e Roma.  E’ qui ed ora che nasce l’Italia (altro che fiabe che ne attribuiscono la nascita al 1861, confondendo un certo tipo di Stato con la Nazione ed una forma giuridica pubblica di carattere generale).  Di Italia in termini patriottici parla già Virgilio sia nell’Eneide , sia nelle “Georgiche”, e prima di lui lo stesso Cicerone [1].

Torno alle istituzioni romane:  per esser simile in pieno ad uno Stato in senso moderno alla Roma repubblicana mancava essenzialmente una Costituzione scritta, invenzione illuministica che nasce dai dibattiti tra ‘600 e ‘700 sul cosiddetto “contratto sociale”, ovvero un accordo ipotetico ed ideale, secondo il quale un popolo rinuncia all’esercizio diretto della sovranità, delegandola  ad un sovrano-persona singola, o ad un gruppo specificamente esistente, elettivo oppure ereditario.  Ma Roma repubblicana aveva una certa Costituzione materiale, pratica, con una relativa divisione dei poteri, la cui successiva confusione poi portò alle prime lotte sociali e civili.

Con la Repubblica, il potere che era esercitato dal re venne distribuito tra due consoli elettivi e con poteri uguali, ma alternati in tempo di pace, che duravano un anno.  Al Senato, costituito da persone già elette ed ormai decadute da ogni carica relativamente anziane, spettava fin dalla monarchia un potere consultivo e talvolta giudiziario.  Il potere legislativo, propriamente detto, spettava ai Comizi. I più antichi erano i Comizi Curiati e i Comizi Centuriati, composti in sostanza da guerrieri patrizi, comandanti ecc..  Dopo la secessione dell’Aventino e il successo progressivo dei Plebei nell’acquisizione di funzioni politiche, si ebbero i  Concilia plebis, costituiti dai soli plebei, che eleggevano presumibilmente i tribuni della plebe, e i Comitia Tributa (ovvero dell’intero popolo distinto in tribù, non solo di Roma, ma nelle fasi successive anche delle città che godevano della cittadinanza romana).  era questo l’Organo a cui chi era condannato a morte poteva rivolgersi con l’appello al popolo.  In subordine, esistevano altri Organi, perlopiù  collegiali, quali la Pretura, con poteri giudiziari ed amministrativi, la Questura, l’Edilità, la Censura (anch’essa con compiti amminisrrativi, di censimento e, in parte, di controllo della moralità collettiva ed individuale).  La dittatura, carica semestrale prorogabile di altri sei mesi, veniva utilizzata nelle situazioni eccezionali di guerra, quando la città era in pericolo e si riteneva fondamentale affidare ogni responsabilità di comando e di gestione dello Stato ad un singolo uomo per eliminare ogni contrasto e lentezza.  Il senso della disciplina romana impediva che ne abusasse, come invece avveniva con la figura greca del “tiranno”. Ogni città poi aggregata allo Stato Romano, che si presentava quindi come “federale”, aveva propri Organi interni che dall’originaria funzione politico-istituzionale assunsero nei secoli funzione puramente amministrativa, tramandata addirittura all’Impero Bizantino.

Questo sistema funziona con buona regolarità almeno fino alla Seconda Guerra Punica (III secolo a. C), quando avviene l’invasione cartaginese, condotta dal formidabile Annibale, che sbaraglia eserciti su eserciti, ma teme l’assalto diretto a Roma, mentre il dittatore Quinto Fabio Massimo ne logora le forze, prima e dopo della battaglia di Canne. Altra ragione, del tutto diversa, di logoramento si ebbe, quando Annibale fece svernare le sue truppe, non certo ugualmente disciplinate delle Romane, a Capua (l’attuale S. Maria Capua Vetere).  Lì negli ozi dell’antica città etrusca, i guerrieri di Annibale, per la gran parte mercenari e non certo di leva come le forze ronane, incominciano a perdere il loro impeto. In quegli anni di guerra, il Senato comincia ad assumere un sempre maggior potere deliberativo, debordando dai suoi limiti.  I problemi non cominciano subito, ma appena alla fine del II secolo a. C. durante il tribunato di Tiberio e Gaio Gracco.  I due fratelli,  verificando le condizioni sempre peggiori della popolazione italica e della stessa Roma, mentre le conquiste portano al formidabile arricchimento dei “cavalieri” (di cui si è detto),  cercano a distanza di dieci anni uno dall’altro (133 – 123 a.C),  di far approvare dai Comizi Tributi leggi in favore della plebe.  Il Senato, ormai dominato dalle classi più ricche, inizia forme di boicottaggio, approfittando del diritto tribunizio di veto, corrompendo altri tribuni (ai tempi dei Gracchi erano 10, mentre in origine erano due soltanto), opponendo quindi veti e altre leggi (a volte subdolamente demagogiche, ma al puro scopo di bloccare i progetti dei Gracchi) a quelle presentate dai due fratelli.  Tanto Tiberio, quanto Gaio vengono uccisi nei “tumulti”, ovvero scontri violenti tra seguaci di opposti schieramenti, e si videro senatori, come poi Cicerone glorificò,  uccidere di propria mano gli avversari.  Il grande progetto di rinnovamento politico-sociale dei Gracchi, tra cui anche l’estensione della cittadinanza romana all’intera Penisola, venne soffocato nel sangue.  Fu dunque, checchè dicano i vari manuali di storia romana che troppo spesso si limitano a seguire acriticamente la tradizione, proprio il Senato ad iniziare un’opera di violenza, illegalità, sopraffazione allo scopo di salvaguardare i privilegi acquistati a spese dei Comizi Tributi, per l’emanazione di leggi o misure straordinarie.  La disfatta delle forze democratiche, popolari, segnò anche l’inizio della crisi istituzionale romana, degenerata poi nelle guerre civili.  Vi furono altri tentativi di organizzazione di una riscossa popolare (ad esempio, quella di Lucio Apuleio Saturnino nel 103 a. C. e di Marco Livio Druso nel 91 a. C), ma certo la più potente, quella meglio progettata e che suscitò terrore fra i ceti ricchi ed avvantaggiati di Roma, fu proprio la “congiura” di Catilina, come ben vedremo in realtà un vero piano rivoluzionario esteso all’Italia, alla Gallia Cisalpina (Italia settentrionale) e, perfino alla Gallia Narbonense (l’attuale Provenza in Francia, allora la prima provincia romana in Gallia).

La rottura di un equilibrio istituzionale, politico e giuridico durato da almeno tre secoli, scatena la serie di rivolte anche di schiavi (il più celebre è Spartaco, tra il 73 e il 71 a. C), l’organizzazione della ribellione degli Italici (90 – 88 a. C) e la costituzione di un loro Stato “anti-romano”, capeggiato soprattutto dai Sanniti, che, se ben si osserva, dura non solo per tutta la restante Repubblica,  ma anche per tutto l’Impero.  In queste guerre, dai semplici tumulti e rivolte più o meno pericolose, si comincia, con Mario e Silla, la prima guerra civile tra forze regolari dello Stato romano, eserciti contro eserciti, e non più dell’Esercito romano contro ribelli o nemici esterni (88 – 86 a C), che si conclude con l’instaurazione della dittatura sillana e l’apparente restaurazione del potere senatoriale.  Si hanno così, nel I secolo a. C. (che è anche l’ultimo per la Repubblica Romana), i seguenti fatti:  la rivolta di Apuleio Saturnino (103 a. C), la rivolta di Marco Livio Druso (91 a.C), la Guerra Sociale (Italici contro Romani),  la guerra tra Mario e Silla in contemporanea con le guerre ad oriente, la Guerra di Sertorio in Spagna (80 – 73 a. C), dove questo generale mariano organizza gli Ispanici alla maniera romana, ma in funzione anti-romana, combatte forse la prima grande guerriglia della storia, disfatta solo grazie al tradimento di Marco Perpenna, che lo uccide, e praticamente cede all’urto di Pompeo.  Contemporanea rivolta di Spartaco e sua repressione ad opera di Crasso e di Pompeo, non senza successi notevoli ottenuti dallo schiavo ed ex-gladiatore ribelle di Tracia.  Qui si inserisce, tra il 65 e il 62 a. C, la rivolta di Catilina.  Poi si ha la guerra tra Cesare e Pompeo (49 – 44 a.C).  La morte di Pompeo e le lotte tra cesariani e pompeiani, con l’ultimo tentativo della classe senatoria di spalleggiare gli assassini di Cesare, Bruto e Cassio (43 a. C – 30 a. C) e la loro disfatta a Filippi, ma già prima tra i due eredi di Cesare, Marco Antonio e Ottaviano vi era stato lo scontro di Modena (41 – 40 a.C). e quello di Perugia contro Lucio Antonio (fratello di Marco) Pacificati i due provvisoriamente (di cui fu Cicerone a farne le spese, fermato dagli sgherri di Marco Antonio, nemico personale, viene decapitato e pure le mani gli vengono mozzate e appese nel Foro), riprende la guerra tra Ottaviano e Marco Antonio ormai conquistato da Cleopatra, regina d’Egitto, che si conclude con la battaglia navale di Azio, la conquista dell’Egitto, il suicidio dei due amanti ad Alessandria.  Con ciò, la serie di guerre civili sembra finita, ma è a spese della libertà politica: Ottaviano si fa dare tutte le cariche essenziali, con un passaggio graduale e subdolo dalla Repubblica alla monarchia imperiale, passaggio che durerà vari secoli e non sarà mai comunque fissato formalmente, perché l’imperatore resta comunque elettivo, su scelta dei militari, ormai di carriera e su conferma obbligata del Senato.  Anche quando si ebbero dinastie, l’erede imperatore doveva formalmente ricevere l’investitura del Senato, addirittura fino all’ultimo con Romolo Augustolo (476 d.C):  pro forma è vero, ma si sa che nel Diritto la forma è anche sostanza.

E’ da notare che Roma, forse unico Stato al mondo, poteva permettersi di guerreggiare e vincere in contemporanea all’interno e verso l’esterno, limitando la pressione esercitata dall’Impero Partico ad est e dai  Galli prima e Germani poi in Europa.  Questo lo si deve proprio grazie, non solo all’abilità dei suoi comandanti (che non mancava neppure negli avversari), non solo alla potenza militare (anch’essa per nulla assente nei più notevoli nemici), alla tenacia, resistenza ed addestramento formidabile dei suoi legionari, ma alla formidabile organizzazione [2], finché durò, alla disciplina civile e militare, anch’essa finché riuscì a durare:  e questo per circa cinque secoli.

Gli storici considerano inevitabile questo passaggio tra la Repubblica e la monarchia. Ovviamente, le cose avvenute non si possono togliere, ma si erra quando si crede questo passaggio come inevitabile (allora) e magari positivo. Infatti, l’Impero non portò una pace interna stabile (già con Tiberio si hanno di nuovo rivolte interne contro il suo ministro Seiano, fatto a pezzi dal popolo).  La storia si regge con la regola che possiamo denominare del “bivio”:  una volta scelta un’alternativa, appare chiara l’inevitabilità di un certo processo.  Scelta la strada della forza contro i gruppi popolari e democratici, il Senato romano, indebolendoli drasticamente, indebolì pure se stesso perdendo ogni possibile appoggio popolare, favorì con ciò stesso l’affermarsi del militarismo, grazie anche alla riforma militare, organizzata proprio da Mario che “professionalizzò” l’Esercito e soprattutto rese quasi permanenti i gradi di comando. Una volta che si stabiliva, a differenza del passaro, un rapporto di drastica e personale subordinazione tra comandante e i suoi soldati, quando questi diventanto “dipendenti” economicamente dal primo, è inevitabile e facile la degenerazione.  Scoppia anche la faziosità e la contrapposizione tra comandanti, tra consoli, tra poteri dello Stato.  I problemi non si risolvono  più col voto cittadino, se non  formalmente, ma con l’acclamazione delle truppe da un lato, l’uso della forza da tutti i lati.  E così si andò avanti per secoli. Il Senato, pur durato ancora per secoli, non poteva che sancire le decisioni di un comandante più forte degli altri. L’Impero quindi non va inteso come una riappacificazione interna, se non per singoli imperatori e in determinati periodi variamente lunghi, ma come una soluzione peggiore del male, perché l’assenza di libertà e di pluralità politica è di per sé un male gravissimo, anche quando apparentemente risolve certi problemi.

LE   FONTI   E   LA LORO PARZIALITA’

Sulla “congiura di Catilina”, che meglio sarebbe definire come un grande tentativo insurrezionale, le fonti sono estremamente parziali, sia sotto l’aspetto della quantità, relativamente all’importanza che, malgrado tutto, le fonti stesse le diedero, sia sotto l’aspetto della qualità, in quanto rappresentano l’organizzazione catilinaria come un’accolita di nobili decaduti, viziosi e insolventi, pur riscattandone la fine gloriosa sul campo di battaglia.  Alla base di tutto le quattro Orazioni Catilinarie [3] dell’allora console Marco Tullio Cicerone, pronunciate  in Senato e davanti al popolo nel vivo delle vicende, dove si mostrano, con abilità tanto retorica quanto denigratoria e diffamatoria, l’avversario e i suoi seguaci.  Ma Cicerone è fonte anche più importante su un piano storico in orazioni successive in cui Catilina viene nominato nelle più varie occasioni:  importanti  la“Pro Murena” , pronunciata durante la campagna elettorale del 63 a. C. in favore di Lucio Murena quale console, ove attacca Catilina e gli attribuisce una frase, poi riportata da Plutarco,  in cui Roma verrebbe paragonata a due esseri, uno con corpo forte e testa gracile (la plebe “proletaria”, l’altro con testa grossa e corpo fragile, ovvero il gruppo socialmente ricco e dominante (Catilina, quindi si saene proposto di diventare il capo delle classi povere), e la citata “Pro Marco Celio”,  dove  Catilina, invece che come mostro, viene rappresentato come una figura con molte qualità positive, seppure male adoperate, che sapeva attrarre i giovani, nel caso specifico questo Marco Celio, accusato di varie cosette, la “Pro Milone”, dove attribuisce al personaggio, ucciso dal suo patrocinato, diessere stato un sostenitore di Catilina, che gli avrebbe fornito una spada;  il dialogo filosofico “De Divinatione”, in cui mentre il fratello Quinto gli ricorda di aver sempre sostenuto l’intervento degli dèi in alcuni fenomeni straordinari (cosiddetta “divinazione”, ovvero rivelazione divina) contro i preparativi di Catilina,  è lo stesso Cicerone ad ammettere che egli usò queste pretese “divinazioni” come trucco per spingere il Senato e, soprattutto, la credula popolazione ad opporsi a Catilina.  Ma il colpo di grazia dato alla figura satanica del grande ribelle è costituito proprio dalle “Filippiche” contro Antonio.   Marco Antonio, cesariano, uomo più robusto che intelligente, dedito agli stravizi (è sempre Cicerone che usa la mano pesante nelle descrizioni), pur essendo figlio o parente stretto di qul Gaio Antonio che aveva combattuto contro Catilina, dopo essergli stato collega nella candidatura al consolato nel 63 a. C., lasciando però le operazioni effettive al suo luogotenente Petreio,  si vantava di essere seguace ed ammiratore dello stesso Catilina.  Non solo, ma, come era stato Clodio, si vantava di esserne il vendicatore.  Proprio per questo Cicerone gli oppone una descrizione ben diversa dell’antico rivale, tra l’altro lodandolo per aver saputo costruire da zero un esercito, e non di aver approfittato di forze regolari per assumere il potere.  La stessa cosa non  avrebbe potuto dire di Mario, di Silla, di Cinna, di Cesare, di Pompeo, di Bruto e Cassio, o dello stesso Ottaviano, poi definito “Augusto” e considerato il primo vero imperatore, dopo l’esperimento di Cesare.  Non si poteva dire di Catilina, come di Spartaco, in quanto questi  costituirono eserciti piccoli, ma agguerriti, di propria iniziativa, in sostanza vere forze rivoluzionarie.  Questa è la differenza che caratterizza, sul piano militare, Spartaco e Catilina, o prima ancora Sertorio, rispetto a tutti gli altri.

Dopo Cicerone la fonte più vicina è Gaio Crispo Sallustio e il suo libro “De Catilinae Coniuratione”, detto anche “Bellum Catilinae”.  Sallustio riprende ricordi personali, documenti oggi del tutto scomparsi (come il discorso di Cesare in difesa dei catilinari rimasti a Roma, quale Lentulo ed altri, illegalmente fatti strangolare da Cicerone, Catone il giovane, detto Uticense,  perché suicida ad Utica, il discorso dello stesso Catilina in risposta a Cicerone, ma stroncato dal fracasso dei senatori contro di lui, nonché presumibilmente varie altre orazioni di quell’adunanza e di altre successive. E’  probabile che di qualche battaglia politica fosse stato più che semplice spettatore.  Il problema di Sallustio è questo:  egli vuole liberare da ogni responsabilità di amicizia con Catilina sia Cesare, sia Crasso, futuri triumviri [4] .   Sallustio, dunque, riprende la descrizione che lo stesso Cicerone dà nel Discorso a favore di Marco Celio, di un Catilina con grandi qualità, ma anche di animo subdolo e feroce, nonché dissipatore, come ho riportato nella parte iniziale, rivalutandone le capacità militari alla fine dell’opera.  Insomma una politica narrativa di “pesi e contrappesi”, troppo artificiosa per essere realistica.

Una breve, ma del tutto negativa immagine di Catilina si ha perfino nell’”Eneide”, quando viene descritto Enea che scende agli Inferi,  e vede Catilina tra le anime che devono essere scelte per la reincarnazione, tremante sotto l’ira delle furie [5]. 

Le altre sono tutte fonti successive, le quali però non sono prive di interesse, perché potevano avere a disposizione documenti per noi perduti.  Ad esempio, non priva di di interesse sarebbe stata per noi la prima storia delle guerre civili, scritta da Asinio Pollione, letterato e studioso, di posizione cesariama e poi antoniana.  Proprio per questo potrebbe essere interessante in quanto presenterebbe le vicende di Catilina sotto una luce diversa, più favorevole, sennonché forse proprio per la sua posizione a favore di Marco Antonio, l’opera scomparve, ma servì da materiale a quella di Appiano, sempre sulle guerre civili;  Ripetitiva di versioni precedenti, ma anche con le stesse conclusioni contraddittorie la “Storia Romana” di Cassio Dione (libroXXXVII).  Non meno importanti le “Vite Parallele”  di Plutarco, soprattutto quelle concernenti Crasso, Cesare, Pompeo ed, ovviamente, Cicerone, dove l’azione  di Catilina viene considerata estesa a tutta l’Italia, quasi un tentativo di far riscoppiare le guerre italiche d’inizio secolo, per cui venne vista come estremamente pericolosa dal Senato e da Cicerone, in quanto console.   E’ infine interessante notare che Gaio Svetonio Tranquillo nelle sue “Vite dei Dodici Cesari”, ed in particolare nella parte dedicata a Ottaviano Augusto, sostiene che il padre Ottavio combattè e represse nel 60 a. C, ovvero due anni dopo la morte di Catilina bande ribelli di spartachiani e catilinari, associati (probabilmente si trattava di sopravvissuti, riorganizzatisi o anche, forse quei componenti dell’esercito catilinario a Fiesole, che lo stesso Catilina allontana prima della battaglia, in quanto infidi o male armati o non addestrati).  Il punto significativo è quest’associazione, non voluta tra Catilina ma dal suo amico Lentulo, tra schiavi e ribelli romani, realizzatasi dopo la morte [6].  Potrebbe tuttavia anche darsi che si trattasse di persone che si spacciavano per seguaci dei due grandi ribelli, e magari semplici criminali.

Infine va rilevato che, invece, sono andati perduti i lbri dell’opera storica di Tito Livio che tratterebbero di questo periodo, ridotti in riassunti scarsamente significativi.

Relativamente alla storiografia più recente, va ricordato che gli stessi rivoluzionari (fin dalla Rivoluzione Francese per tutto l’Ottocento, con l’eccezione  di Carlo Pisacane) videro nella ribellione di Catilina, a differenza di quelle dei Gracchi e di Spartaco, semplicemente l’azione di un nobile demagogo, che voleva recuperare privilegi perduti, seguendo la tradizione storica negativa.  Pure Marx ed Engels, per quanto sostenitori della lotta di classe, non videro in Catilina un rivoluzionario vero e proprio, e ne accettarono l’immagine negativa.

Nel secolo XX, invece vi furono molti seri tentativi di rivalutare la figura di Catilina, da parte dello storico inglese W. Allen “In defence of Catilina”, puntando soprattutto sul boicottaggio ed i brogli contro di lui, riconosciuti dalle stesse fonti antiche;  dai nostri Eugenio Manni, Concetto Marchesi, ecc.  citati nella bibliografia in calce al presente lavoro.  Se non erro, ma non ho l’opera sottomano, Marchesi tradusse o scrisse un commento nel saggio “Il came di terracotta” sulla riabilitazione di Catilina da parte dell’Allen.

Catilina fu anche soggetto di svariati drammi, tra cui quello celebre di Ibsen.  Che io sappia, non venne nai ricordato in qualche film storico, pur avendo la sua storia molti spunti del giallo spionistico e di natura politica ed aspetti romantici (i suoi amori a cui alludono Cicerone e Sallustio). Non essendoci rimasto di lui nulla, se non frammenti di dubbia autenticità riportati  da Sallustio, né versioni meno ostili nei suoi confronti, è praticamente quasi impossibile ricostruire in positivo (nel senso fotografico del termine) la sua figura, ma solo in negativo (sempre fotograficamente inteso), ovvero sottolineare le colossali contraddizioni delle fonti antiche, e quindi formulare ipotesi su quello che fu il suo reale programma politico-sociale.  Il resto, viceversa, potrebbe essere argomento di qualche romanzo storico, oggi forse non di moda nel senso almeno che ebbe nell’Ottocento.

LOTTA POLITICA E MILITARE DI CATILINA

Lucio Sergio Catilina nacque a Roma nel 108 a. C, due anni dopo in una piccola città (Arpino, presso l’attuale Frosinone) nacque il suo grande rivale Cicerone.  Erano dunque quasi coetanei, ma mentre il grande filosofo ed oratore era di modeste origini, il rivoluzionario romano nasceva da famiglia dell’antico patriziato etrusco quasi del tutto impoverito, sebbene molto fiero delle proprie origini, come si vedrà nella risposta che diede a Cicerone in Senato, quando lo accusò di essere un semplice“inquilinus urbis Romae”, ovvero una sorta di locatario, affittuario nella città: il patriziato immigrato con i Tarquini nel VII – VI secolo a C..  Tutto e tre i componenti il suo nome Lucio (praenomen) Sergio (nomen) Catilina (cognomen) erano di netta origine etrusca, benché latinizzati [7].  Questo è un dato perlopiù trascurato ma interessante, perché è un  indizio della sopravvivenza di gruppi ancora legati alla civiltà o tradizione etrusca nella Roma del I secolo a.C..  I due principali protagonisti della rivolta, Gaio Manlio Vulsone, al quale si deve la formazione dell’esercito rivoluzionario presso Fiesole, e lo stesso Catilina hanno nomi etruschi ed appartengono a gentesetrusche.  Il terzo comandante dell’esercito  catilinario a Pistoia è “quendam Faesulanus”,  ovvero un tale di Fiesole, ovvero un Etrusco (qualcuno sostiene trattarsi, viceversa, di un semplice colono sillano stanziatosi a Fiesole:  ma questo è dubbio, in quanto Sallustio lo avrebbe probabilmente specificato:  altro era essere fiesolani, altro coloni romani a Fiesole),  Ora, senza anticipare quanto si dirà a tempo debito, osservo che gli storici, seguendo sempre la tradizione, riducono a due i grandi partiti politici e sociali a Roma, l’uno il conservatore, rappresentato soprattutto nel Senato (tuttavia costituito con tutti coloro che avevo ricevuto cariche pubbliche, e solo a quel titolo vi partecipavano: a quel tempo il numero dei senatori si aggirava sui 900), l’altro, il popolare, rappresentato soprattutto nei Comizi Tributi.  E’  una visione un tantino imprecisa, perché ambedue questi orientamenti presentavano suddivisioni all’interno. Poi si commette un errore grossolano quando si sostiene che il partito popolare era rappresentato da forze militari o militariste, quali i Mariani, i Cesariani, più tardi gli Antoniani e gli Augustei.  Si confondono i loro programmi demagogici, ai fini di raccattare (già allora…) voti dal popolo, promettendo molto, offrendo i “ludi circenses” (come Cesare, Antonio e soprattutto Ottaviano), al fine di rimbecillire la popolazione e distorglierla, anche con le frumentationes (donazioni periodiche e gratuite o a bassissimo prezzo di grano ai meno abbienti), dall’occuparsi della vita politica, una strategia tuttora esistente, ma senza – ahinoi -  lefrumentationes o misure alternative, anzi con tagli drastici di quanto spettante (per fare un parallelo, come se oggi ci offrissero litri di banzina sottocosto o telefonini in regalo).  La situazione romana fu, almeno dal II a. C., molto più complessa di quanto è ricordato dai vari Autori:  tra le stesse forze popolari vi furono contrasti ed orientamenti diversi, come dimostrano misure diverse presentate dai tribuni della plebe;  così il partito senatorio, specialmente nel I secolo a.C., si presentava tutt’altro che compatto di fronte a Mario e Silla, Cesare e Pompeo, Bruto e Cassio contro Ottaviano e Antonio, e così di seguito.  Si trattava spesso di gruppi e di movimenti, o organizzati in modo assai variabile ed elastico, sulla base di programmi elettorali occasionali e su personalismi, o sulla base di una gerarchia militare.  In Roma antica, partiti nel senso moderno non sussistono, malgrado lo spirito organizzativo di cui si è detto, applicato allo Stato ma non alle parti politiche. Questo spiega anche l’estrema incendiabilità dei contrasti fra tali gruppi, per nulla disciplinati da menti politiche.

Appare dunque lecito supporre che il partito costituito da Catilina, assumendo carattere rivoluzionario, “estremista”, mirasse da un lato a ridare i beni agli Etruschi che Silla aveva fatto confiscare o distruggere in  quanto alleati di Mario; dall’altro a sostenere l’esigenza di limitare i poteri del Senato che, ormai da due secoli, aveva abusato del proprio ruolo di sola consulenza alle alte cariche dello Stato (consoli, pretori, tribuni)  [8].  Fu proprio questo sforzo, esercitato da Catilina per un ripristino dei poteri comiziali, ovvero di una sostanziale democrazia, anche a carattere sociale, cancellando le tavole (registrazioni) dei debiti e le pesantissime misure ad esse collegate per i più poveri con rischio di venir ridotti alla schiavitù, a terrorizzare il Senato e, quindi, prima a boicottarne l’attività politica, poi addirittra da spingerlo sulla strada della vera e propria ribellione armata.   La pomposa retorica contro di lui, non solo in Cicerone, ma anche in Sallustio e storici successivi, mirante a rappresentarlo come un mostro devastatore e sterminatore, che vuole incendiare tutto l’Impero, e al contempo di farlo vedere come un vizioso, corrotto, a capo di viziosi e di corrotti, va letta nella dimensione, non solo innovatrice, ma specificamente rivoluzionaria del tentativo catilinario.

Potevano Catilina e parte dei suoi uomini essere considerati sillani, ovvero seguaci di Lucio Cornelio Silla, già nemico di Gaio Mario e sostenitore dei nobili, dei ricchi e del Senato?  Stando alla tradizione derivata da Cicerone e da Sallustio, in effetti Catilina sarebbe stato seguace di questa corrente soprattutto data la sua origine interamente patrizia.  Né vi sarebbe stato nulla di strano questo balzo politico, visto che Cicerone era pur passato dall’essere simpatizzante di Gaio Mario) in quanto come lui “homo novus”, ossia non nato a Roma e di modesta origine,  per poi spostarsi sulle posizioni conservatrici e senatoriali.  Catilina avrebbe fatto un percorso inverso.  Ma se osserviamo le dichiarazioni messegli  in bocca da Sallustio, non viene mai esaltato Silla o il tentativo di restaurazione dei poteri tradizionali o pseudotali, da questo fatta. Catilina invece critica fortemente il potere oligarchico, dei senatori e dei cavalieri, i quali si arricchivano alle spalle dei popoli soggetti a Roma e, ovviamente, degli stessi cittadini romani indebitati.  Viene accusato, come  ho riportato nella Premessa, di aver ucciso di sua mano il console Gratidiano e di averne consegnato la testa a Silla stesso, dimenticando che, probabilmente, Catilina allora militava nell’Esercito regolare, e vi compiva l’addestramento, per cui  - anche se il fatto fosse vero (come lo rimproverò Cicerone), si trattava di un atto di guerra.  I mariani non erano certo da meno nelle loro proscrizioni degli avversari, quando Silla si allontanò dopo una prima restaurazione del potere, per andare a combattere in Oriente contro Mitridate re del Ponto (uno Stato sorto, sulla costa del Mar Nero, dalla disgregazione dei grandi Regni ellenistici).   Essendo allora in  guerra civile, e non esistendo convenzioni tipo quella di Ginevra, al di là di pochi princìpi di Diritto naturale individuati dalla filosofia ellenica del Diritto, ci si ammazzava senza troppi scrupoli. Per cui, l’allora giovane Catilina sottoposto ad un comando militare, lo avrebbe eseguito.  Si aggiunge il fatto della testa:  qui bisogna specificare che quello che sembra un atto di barbarie, in realtà aveva un motivo specifico:  sappiamo ad esempio che Scipione l’Africano, vincendo Asdrubale, arrivato con rinforzi per Annibale, gli fece tagliare la testa e gettarla nell’accampamento cartaginese (II Guerra Punica), per far sapere con certezza di riconoscibilità materiale ad Annibale che suo fratello era sconfitto ed ucciso.  Così successe allo stesso Catilina dopo morto, e ugualmente a Cicerone.  Pure Pompeo fu ucciso e gli fu tagliata la testa, consegnata a Cesare per dimostrargli la morte del rivale, ma Cesare se ne sdegnò e fece uccidere il faraone Tolomeo.  Lo scopo, per quanto crudele possa sembrare oggi, era quello di dimostratre nei fatti (allora non esistevano fotografie e i ritratti potevano essere di invenzione),  che un tale nemico era stato ucciso.

Dunque poteva darsi che, in gioventù, Catilina avesse militato nell’Esercito regolare di Silla, ma è certo che nei due discorsi riportati da Sallustio non se ne fa cenno.  Invece si nota largamente il suo sostegno alle popolazioni impoverite dalle guerre civili e, quando si pone alla testa del suo piccolo Esercito, mostra l’aquila argentea di Mario.  Perché  ?  Le fonti (la cosa era già ricordata da Cicerone nella “Prima Catilinaria”, scritta  - come tutti  suoi discorsi  - a posteriori, e forse quindi non già conosciuta al momento di pronunciarli realmente: una cosa era la pronuncia del discorso basato su appunti anche di tipo stenografico, ma improvvisato, altra la stesura finale, quella che ci è rimasta) non lo specificano.  Potrebbe trattarsi di preda di guerra, o forse un simbolo per indicare un’adesione ideale. Taluni storici, tra cui Eugenio Manni, tendono a sottolineare che ex-mariani ed ex-sillani si fossero associati, perché ugualmente insoddisfatti della restaurazione del potere senatoriale, ma sembrerebbe logico che, in analoghe condizioni, nel 1947 – 1950, ad esempio, fascisti e comunisti si alleassero per combattere il governo democristiano e dell’allora centro parlamentare, in quanto forze di opposizione?  Per quanto, mariani e sillani no  avessero ideologie rigide come noi nel dopoguerra,  è tuttavia difficile immaginare che si riunissero a pochi anni di distanza dalla prima guerra civile.  Probabilmente si tratta di una preda di guerra che, in quanto segno consolare, Catilina pretendeva di assumere per i suoi diritti boicottati dal Senato al consolato.   Del resto, se non parla di Silla, non accenna neppure a Mario nei suoi discorsi, come si vedrà, egli sottolinea viceversa, alla maniera dei Gracchi, i suoi intenti politici e di natura sociale a favore delle classi più povere e delle persone immiserite da guerre, proscrizioni e confische.

Ancora: si  è visto che Sallustio, per non dire di Cicerone, attribuisce a Catilina i vizi peggiori ed una serie di processi che egli avrebbe superato pagando i giudici.  Già, ma con quale denaro, se dicono che fosse indebitato?  Eppure, è lo stesso Cicerone a dire nell’orazione “Pro Caelio” che l’uomo era tanto abile nelle sue simulazioni di onestà che ne era stato attratto.  Celio, tra le varie accuse, era stato considerato come amico di Catilina. Qui è lo stesso Cicerone che scrive [9] : “…  Infatti Catilina ebbe – come ritengo voi ricordiate – moltisimi indizi non chiari, ma tuttavia latenti di grandissime virtù.  Aveva dimestichezza con molti uomini malvagi, ma simulava di essere ossequiente agli uomini migliori.  Vi eranoi n lui molti allettamenti della dissolutezza;  vi erano anche alcuni incitamenti all’attività e alla fatica.  Vizi sfrenati ardevano in lui;  era forte anche la passione dell’arte militare…  Egli per poco ingannò una volta me stesso, me, dico, poiché mi sembrava e buon cittadino e desideroso di amicizia verso tutti i migliori, e sicuro e fedele amico…”.

 E’  interessante qui rilevare la stessa descrizione per contrapposizioni che poi Sallustio riprenderà. L’avvocato Cicerone, quando gli serve, irride un avversario o esalta un suo patrocinato e così, a questo scopo, arriva anche ad esaltare un antico nemico personale.  Quando si arriva alle“Filippiche”, arriva ad elogiare le doti personali di Catilina in contrapposizione a quelle  di Marco Antonio che se ne vantava seguace : “Quanto poi al fatto che si vanta di assomigliare a Catilina, gli è sì uguale in scelleratezza, ma gli è inferiore in attività ed energia. Quello, pur non avendo a disposizione un esercito, di punto in bianco se lo formò;  costui ha invece perduto quell’esercito che aveva ricevuto…” [10].

Stante dunque la testimonianza dello stesso Cicerone, in un  momento finale della sua vita, quando non aveva più necessità di aggravare con espressioni retoriche quelli che, secondo lui, erano gli aspetti più pericolosi di Catilina, quest’ultimo doveva essere persona ben più positiva e, se vogliamo “moderna”, di quanto rimane nella tradizione successiva della letteratura romana, ma anche della manualistica contemporanea.  Ma, in sostanza, che cosa del programma di Catilina poteva colpire i Romani, tanto da escluderlo completamente, da considerarlo nemico del Popolo Romano, dal cancellarne ogni raffigurazione ed eventualmente anche opere scritte, di cui non rimane neppure un cenno ?  Non certo il suo programma pubblico o elettorale, non dissimile da quello in voga tra i tribuni della plebe, come la cancellazione dei debiti, ma forse alcune questioni che un conservatore romano, un senatore, non potevano sopportare:  una era la partecipazione femminile all’attività politica, l’altra la questione della schiavitù.  Si è ricordato che Catilina era di origine etrusca ed è noto che, fra gli Etruschi, la donna era considerata in modo paritario all’uomo nella vita familiare e sociale.  Ciò è dimostrato soprattutto, oltre che dalle narrazioni, sia greche sia romane, nei sarcofaghi dove le ossa dei coniugi sono conservate insieme e dove vengono raffigurati vicini sul lettino della sala da pranzo [11]; ciò suscitava un terribile scandalo soprattutto tra i Greci, alquanto misogini, mentre i coniugi etruschi si coprivano con uno stesso lenzuolo o mantello, addirittura nudi.  Al di là di questi particolari, per dirli modernamente alquanto “gossip”,  è  noto che le donne etrusche avevano una vita pubblica di non lieve importanza, come dimostra la storia di Tanaquilla (Tanaquil in etrusco), per l’affermazione come re di Servio Tullio  -  in etrusco Mastarna.  Ora è pure assodato dalla testimonianza di Sallustio, ma anche di Cicerone, che alla “congiura” avesse partecipato Sempronia, parente dei Gracchi, donna di cui Sallustio, come fa per Catilina, esalta le doti di bellezza, di intelligenza e di cultura, ma di comportamento ed animo virile, e molto attiva, si presume tra le donne affinché agissero  - come avviene  - sui mariti a sostegno dell’elezione di Catilina.  Forse alla congiura, nello stesso modo, agì la moglie di Catilina Aurelia Orestilla, che, come si è visto, Sallustio qualifica molto bella ma poco onesta.  E’  chiaro che, per la società repubblicana romana, la donna  doveva essere in condizioni di totale subordinazione prima al padre, poi al marito. Potrebbe dunque essere lecito pensare che, viceversa, Catilina per la sua antica tradizione familiare considerasse importante il ruolo pubblico della donna e paritario nell’ambito della famiglia.  Quando è costretto all’esilio, Sallustio segnala che avesse affidato  la protezione della moglie alla cura di Quinto Catulo, senatore del gruppo avversario [12], ma che egli considerava onesto e leale.  Se si sforza di lasciarla in mani sicure (ma di quanto avvenne della moglie dopo la sua morte, non ne sappiamo assolutamente) per proteggerla da vendette, voleva dire che il loro rapporto era ottimo, solidale e senza incrinature.  Catilina dichiara, non come un’eventuale vergogna, ma quasi come un vanto che moglie e figlia di primo letto della moglie, lo avessero aiutato con la loro personale ricchezza a saldare un debito per conto altrui (ovvero, doveva esserne stato garante).  Della moglie, diffamata da Sallustio come donna più bella che onesta, sorvoliamo, ma se fosse stato vero che i due avessero un tempo tramato per l’uccisione del figlio maschio della donna, che ostacolava, tali nozze, ci si spiega come mai la sorella avrebbe comunque aiutato Catilina ?  Qualcuno potrebbe sostenere che avesse ignorato che le avesse ucciso il fratello, ma su quali basi puramente ipotetiche e diffamatorie si potrebbe sostenere questo ?  Come per altre accuse contro di lui, non risulta che avesse mai avuto condanne e il suo cursus honorum (carriera politica ed amministrativa), fino al consolato non ebbe ostacoli.  Come tutti i Romani dedito alla vita pubblica, fu questore, edile, pretore (e pretore voleva anche dire essere uomo di legge e giudice, non va dimenticato), senza ostacoli, i quali cominciano quando Catilina, dopo essere stato propretore [13] in Africa (allora l’ex-territorio della distrutta Cartagine), presentandosi quale candidato al consolato comincia ad avere i primi problemi, con l’accusa di peculato, malversazioni, maltrattamento delle popolazioni locali (un’accusa quasi sempre usata contro i candidati), e l’accusa di aver violato una vestale che, come le suore cattoliche, devono rimanere assolutamente caste, se non vergini fin dalla loro accettazione.  Ebbene, chi lo vuol difendere, senza che poi ce ne fosse bisogno ?  Niente po’ po’ di meno che lo stesso Cicerone, come è dimostrato in una lettera al suo amico carissimo Attico, nel luglio del 65 a. C., esattamente due anni prima la presunta congiura di Catilina: “In questi giorni sto pensando di assumere la difesa di Catilina, mio competitore  [nel senso anche attuale di rivale nelle elezioni, solo che oggi lo usiamo imitando gli Anglosassoni, i quali però usano appunto un termine latino]. Abbiamo i giudici di nostro gradimento e di massimo gradimento dell’accusatore [e, malgrado ciò, si accusò Catilina di essere stato  assolto perché aveva corrotto i giudici !!].  Se verrà assolto, spero che nella campagna elettorale mi sarà di un certo appoggio…” [14].

Come stiamo verificando la storia sulla congiura di Catilina, è assai più complessa di quanto appaia nella tradizione manualistica dell’”uomo malvagio e perverso, sebbene di nobile origine”.   Come avrebbe riconosciuto nell’orazione in favore di Marco Celio, Cicerone dunque, ancora due anni prima della “congiura” e durante la pretesa prima “congiura” di Catilina, pur avversario politico, si sarebbe offerto di essergli avvocato, ma pare che di questa difesa Catilina non avesse avuto bisogno: ovviamente per aver “corrotto” i giudici,  sulla cui serietà in generale è testimone lo stesso  Cicerone (sempre lui !!!) [15].  Uno dei motivi della successiva ostilità di Cicerone per Catilina va probabilmente fatto risalire, sul piano personale, di aver ottenuto l’assoluzione senza bisogno del suo formidabile aiuto forense.  Ma concludiamo il discorso sul “femminismo” di Catilina:   è, peraltro, interessante, che nel suo discorso programmatico egli, contrapponendo secondo la classica tradizione tribunizia le condizioni di vita tra ricchi e poveri, egli dica “dei mortali” in generale, invece che, come in altri punti “viri” (ovvero, uomini maschi), probabilmente perché ascoltato anche da donne, che, come Sempronia, avevano “coraggio ed ingegno virile”.  In sostanza, egli sostiene che nessun essere umano può sopportare queste brutali differenze economiche.  La presenza femminile nel movimento doveva essere apprezzata anche dai suoi seguaci tanto è vero che proprio l’amore di una donna per il suo uomo e il tentativo di salvargli la testa (lo vedremo nell’esposizione sallustiana), fece scoprire prematuramente i tentativi catilinari di rivolta, che tanto terrorizzarono i conservatori ed i senatori romani  [16].

Altro aspetto temibile per i tempi, soprattutto dopo la rivolta di Spartaco ed altre numerose, era la questione dello schiavismo in Roma.   Possiamo considerare Catilina un  antischiavista e con quali limiti ?  Il punto da cui partire è, tuttavia, la concezione che nell’antichità classica, si aveva della schiavitù come condizione sociale ed economica:  Platone ed Aristotele, più che giusta in sé (ma non sembrano porsi il problema), la considerano una condizione inevitabile.  Sarà lo stoicismo a concepire in modo egualitario la natura umana, e quindi la sostanziale iniquità della schiavitù.  Ma dall’impostazione teorica al tentativo pratico ci voleva molta strada, finché il filosofo Blossio di Cuma (II secolo a. C.), per primo, a quanto si può sapere, formulò l’esigenza dell’eliminazione della schiavitù. Il suo pensiero fu ripreso da un erede al trono di Pergamo (Anatolia occidentale, attuale Turchia, nei pressi dell’antica Troia e dell’Ellesponto), Aristonico, il quale tentò non solo una prima insurrezione organizzata e pericolosa di schiavi, ma di creare un vero Stato “utopico” Heliopolis, la Città del Sole, un modello a cui più tardi si ispirarono vari utopisti e il nostro Tommaso Campanella, che scrisse un’opera su questo argomento.  La rivolta di Aristonico fu soffocata e il suo “ideologo” Blossio di Cuma dovette fuggire.  Tanto la teoria di Blossio, quanto l’esperimento di Aristonico, furono seguiti con interesse dai due fratelli Gracchi, e divennero tema di discussione pure a Roma. Tracce dirette ed esplicite non ne abbiamo, perché la liberazione degli schiavi e l’eliminazione della schiavitù potevano allora sembrare assolutamente irrealizzabili, ma ne rimane traccia nel Diritto Romano e nel Codice di Giustiniano quando si fa distinzione tra Diritto naturale, per cui si proclama l’innata uguaglianza tra gli uomini e il Diritto positivo che, viceversa, impone differenze sociali e, pertanto, la legalità della schiavitù.

Ora  queste discussioni furono rese attuali dalle rivolte di schiavi e particolarmente da quella di Spartaco [17].  La schiavitù è una condizione sociale ed economica, per cui un uomo, la sua famiglia, vengono considerati oggetti di proprietà, che si possono vendere o comprare, o anche uccidere.  Del mondo occidentale, gli ultimi a rinunciarvi furono gli USA nel 1865, alla fine della Guerra di Secessione, il Brasile nel 1878.  In antico si poteva diventare schiavo per tre ragioni:  essere prigioniero di guerra, e non nelle condizioni  economiche per riscattarsene;  essere debitore insolvente (secondo le XII Tavole, addirittura il debitore insolvente, con più creditori, poteva essere fatto a pezzi e spartito tra questi), ovviamente essere figlio o moglie di schiavo.  Lo schiavo poteva anche essere emancipato ed allora passava nella categoria dei liberti.   Possiamo chiederci:  i catilinari erano anti-schiavisti e per quale tipo di schiavitù lo erano ?  Tra le fonti antiche, solo Sallustio affronta indirettamente la questione, e non in modo molto esplicito. Sicuramente la liberazione degli schiavi, sia prigionieri di guerra, sia debitori insolventi, non rientrava nei programmi di Catilina, se non nella forma tribunizia della cancellazione dei debiti e il rifacimento dei registri.  Poiché, a seguito della guerra civile tra Mario e Silla, molti erano gli sconfitti, molti i confiscati, molta la povertà crescente e, quindi, l’insolvenza dei debitori, ecco che la questione della cancellazione dei debiti diventava pressante, soprattutto per le forze più autenticamente popolari. Sicuramente questo rientra nei programmi pubblici di Catilina.  Ma la vera e propria abolizione della schiavitù per debiti non rientra viceversa nel programma pubblico.  Doveva tuttavia esser tema di discussione interna.  La rivolta di Spartaco o quella, ben precedente, di Euno in Sicilia, con la loro violenza vendicatrice, non consigliavano (è presumibile) Catilina a volere l’abolizione della schiavitù per tutti, almeno non nelle condizioni del tempo. Sebbene, come scrisse Sallustio, egli mirasse a “cose troppo alte”, è difficile immaginare che arrivasse a sostenere una liberazione universale.  E’, viceversa, più probabile che egli mirasse all’abolizione della schiavitù per debiti o per sola parentela, il che già doveva suscitare ire e scandalo (con conseguenti diffamazioni, calunnie, ecc., rimaste poi nella storiografia successiva).  Tuttavia non si spinge troppo oltre:  doveva rimanere una dottrina segreta, forse da realizzare dopo un’eventuale vittoria politica.  Ma da che cosa deduciamo tutto questo? Quando Catilina esce da Roma, tallonato da agenti “con licenza di ucciderlo”, inviati dal buon legalitario Cicerone,  Publio  Cornelio Lentulo, rimasto a Roma, gli manda una missiva (che fu intercettata) dallo stile fortemente lapidario, quasi un telegramma (qualcuno oggi lo qualificherebbe un “pizzino”), dove esattamente si dice : “Chi io sia, lo saprai da quello che ti mando.  Fa di valutare in quale cimento ti sei messo, ricordati d’essere uomo. Considera che cosa richieda la situazione. Fa appello a chiunque, anche i più umili” [18].  I  più umili della società sono gli schiavi, ma a questa lettera, per capirne meglio il contenuto, va associata quella che Gaio Manlio Vulsone, ormai raccolte le forze ribelli prima dell’arrivo di Catilina, scrive a Marcio Re :“ Chiamiamo a tesimoni gli dèi e gli uomini, imperator [nel senso originario e autentico di “comandante vittorioso”, proclamato tale dai soldati e dal Senato, per cui poteva celebrare il trionfo], che non abbiamo preso le armi contro la patria né vogliamo fare male ad alcuno, ma per difenderci dalle ingiustizie:  siamo sventurati, stretti dal bisogno. Gli usurai esosi, inesorabili, hanno tolto a molti di noi la patria, a tutti l’onore e le sostanze. A nessuno è stato concesso di fruire della legge   [19] in base alla quale… chi aveva perduto il patrimonio restava libero:  tanta fu la crudeltà degli usurai e del pretore…  noi non vogliamo il governo dello stato né le ricchezze, che sempre suscitano guerra… Vogliamo la libertà:  la libertà che un vero uomo non perde che con la vita…  non ci costringete a cercare in che modo morire, facendo la più tremenda vendetta del nostro sangue…”[20].

Il tono di Gaio Manlio sembra umile, inizialmente, perché scrive a nome degli “infimi”, ma alla fine esprime la minaccia.  Siamo pronti a morire, lasciando, come dirà anche Catilina,  un’ampia vendetta del proprio sangue, ovvero cadranno anche molti nemici, non  si morirà come pecore.

Dunque  “infimi” vanno intesi sia coloro che rischiano carcere e schiavitù, sia i già schiavi per debiti che, come dice Sallustio, affluiscono numerosi al campo, per ripetere, insieme ai ribelli romani, l’impresa di Spartaco.   E’  pure noto però, che, sempre da Sallustio, Cicerone utilizzasse proprio molti schiavi, con promessa di liberazione, quali informatori, spie e sabotatori dell’azione di Catilina.  Si presume anche per questo motivo che, prima della battaglia finale, Catilina allontani soprattutto questi schiavi, in quanto considerati poco sicuri, e resteranno sul campo solo uomini liberi sia Romani, sia Etruschi.  Di questi schiavi, probabilmente poi dispersi per l’Italia, parla - come si è detto -  Svetonio, quando ricorda che furono poi sconfitti e massacrati  dal padre di Ottaviano, futuro Augusto e Imperatore.  Malgrado ciò, il comandante Petreio, quello che a Pistoia riesce a vincere Catilina, parla ai suoi soldati dei catilinari qualificandoli come “latrones”  termine largamente utilizzato in senso spregiativo contro schiavi ribelli, banditi.

Il dibattito fra Lentulo e Catilina verteva dunque, non tanto sul piano ideologico e sociale, quanto sull’utilizzazione concreta di questi in combattimento o nell’azione cospiratrice.  Gli schiavi, infatti, per la loro facile strumentalizzabilità,  ebbero un ruolo significativo per minare la rivolta catilinaria nel suo interno.  Mentre Lentulo  non se ne  accorge e accoglie “cani e porci”,  pur di far numero, Catilina preferisce una rigorosa selezione e vuole gente che combatta e muoia per un ideale, non per il puro interesse personale, ancorché giusto ed ammissibile.

Dalla parte opposta, il timore evidente è che si saldassero forze sociali diverse, praticamente emarginate dai centri di potere effettivo, ma schiaccianti per numero.  Se a questi si fossero aggiunti perlomeno coloro che erano stati ridotti alla schiavitù per debiti e, forse, anche i gladiatori, ovvero nemici sconfitti in guerra (come già con Euno e Spartaco), la forza del numero sarebbe stata soverchiante.  Di qui l’esigenza del Senato di prevenire tale coagulazione di forze, e l’opera di Cicerone si rivelerà indubbiamente efficace e molto decisa in questo senso.  Egli riuscirà a cogliere i preparativi di Catilina nel bel mezzo del guado e a stroncarla.  Non altrettanto tiuscirà a lui e al Senato, nel caso delle forze militari ribelli di Marco Antonio e di Ottaviano Augusto.

Per entrare direttamente nella descrizione della “congiura”, seguirò la narrazione di Sallustio, per poi inserire il contenuto delle quattro Orazioni Catilinarie (meglio sarebbe definirle anti-catilinarie) pronunciate da Cicerone in Senato o davanti al popolo.  Ancora a breve premessa, va detto che sui tempi di questa “congiura”, che poi viene precedeuta da un ipotetico primo tentativo nel 66/65 a. C (in realtà si tratta solo della prima campagna elettorale di Catilina per il consolato), va tenuto in considerazione che a quel tempo non  esisteva neppure il calendario giuliano o cesariano, rimasto in vigore fino al XV secolo in occidente e fino alla rivoluzione sovietica nella Russia, ma persisteva il vecchio calendario di Romolo, rivisto da Numa Pompilio.  Figurarsi come due personaggi leggendari e forse mai esistiti, potevano essere stati gli inventori di un calcolo annuale del tempo.  I Romani partivano dall’anno della fondazione di Roma, 753 a. C e calcolavano poi gli anni successivi sui consoli;  inoltre, fino a Gaio Giulio Cesare i giorni complessivi erano 355, 10 di meno dei nostri, e - come si può capire - febbraio è il residuo di un calendario fondato sul ciclo lunare e non solare, essendo soltanto di 28 giorni.  Insomma, certe discrepanze nella descrizione cronologica degli eventi si deve anche al fatto che i fatti erano anteriori alla riforma giuliana, mentre le narrazioni (sicuramente quella di Sallustio, ma forse anche i discorsi rifatti di Cicerone, posteriori a tale riforma). Il tutto dà alla narrazione l’impressione di un film accelerato, che ricorda quelli iniziali della storia del cinema.

Sallustio comincia il suo racconto con considerazione di carattere  generale, anche di filosofia della storia.  Dichiara, nella sua premessa, di aver svolto attività pubblica e politica nella sua giovinezza, e fa un’affermazione che colpisce per la sua attualità.  La riporto perché ci dimostra, una volta di più, che i problemi italiani, che noi pensiamo recenti, in realtà sono ben antichi, un vizio che ci trasciniamo da oltre 2000 anni almeno : “…  Tra i politici, infatti, non trovai senso d’onore ma impudenza, non probità ma corruzione, non rettitudine ma avidità…”[21].   Non vi ricorda forse qualcosa, o cari lettori ?   Dunque, passano i millenni, ma certo malcostume rimane.  Sallustio dice che da giovane anch’egli fu in parte trascinato da questo andamento, pur mantenendo ancora  un certo idealismo, nella smania di potere che  riconosce a se stesso.  Poi però, anche a causa delle violentissime guerre civili, preferì ritirarsi a vita privata. Qualcosa di simile accadde ai ben più moderni Dante, Machiavelli e Guicciardini, costretti a scegliere se asservirsi al sistema o rinunciare alla politica, preferendo nel caso dei due finali, lo studio storico.  Dante invece si dedicò alla filosofia e alla poesia, come ben sappiamo.  Allora come ora,  nella vita ci si trova di fornte ad un bivio:  o adeguarsi allo schifoso sistema vendendo la propria coscienza, o dedicarsi allo studio e, per chi può, ai soli affetti familiari. Ma ciò non  basta quando la spada del nemico ti entra in casa, quando la violenza penetra nel tuo domicilio, quando lo strapotere e la sopraffazione minacciano pure la tua stessa sopravvivenza.

“... Narrerò dunque in breve con la maggior esattezza possibile la congiura di Catilina, impresa che mi sembra tra le più memorabili sia perché quel piano criminoso non aveva precedenti, sia perché mai s’era avuta una minaccia così grave per lo Stato…” [22].

Se ci limitiamo ai fatti poi narrati, e la relativamente facile repressione del moto, specialmente il confronto con le altre guerre civili e le guerre contro gli schiavi, l’affermazione di Sallustio appare una pura esagerazione retorica.  Nondimeno, tale valutazione appare negli scritti di Cicerone e in quello di storici successivi, che dovevano essere forniti di altre fonti e testimonianze.  La rivolta di Catlina non fece quindi paura per i fatti concreti, ma per l’enorme rischio corso.  Egli doveva apparire non solo un sovvertitore dei rapporti tra le classi sociali, ma un sovvertitore anche dei rapporti familiari, soprattutto tra padre e figlie, mariti e mogli.  Appare evidente che, se il suo piano avesse potuto avere un integrale sviluppo, le stesse guerre civili o la guerra di Spartaco (non vorrei arrivare addirittura ad Annibale), apparivano cose di minor grave pericolo.  Ecco quindi il segno, l’indizio di una strategia che, seppure stroncata, faceva indubbiamente paura, e questa non poteva essere altro che l’unione di forze sociali numerose ed, eventualmente, agguerrite.

Sallustio poi fa quella descrizione di Catilina e dei suoi sostenitori che io ho posto in premessa, e che ovviamente non riprendo.  Proseguo pertanto con la successiva narrazione.  Sallustio ne approfitta anche per fare una sintesi della storia romana e coglie nella fase successiva alle guerre puniche e macedoniche il punto di svolta. Vede in Silla colui che fa degenerare lo spirito pubblico di Roma, ma trascura del tutto di notare come l’azione vendicativa di Silla segue, non precede, le violenze di Mario, ma queste, a loro volta traggono motivo dagli abusi del Senato nei confronti dei tribuni maggiormente riformatori.  Sallustio vede nelle confische e nei conseguenti rapidi arricchimenti anche la radice della classe che sostenne Catilina, ovvero secondo lui, gente arricchitasi presto e impoveritasi anche più presto a causa delle dissipazioni.  Insomma, nella corruzione generale, era facile l’affermarsi di avventurieri ambiziosi e Catilina ne sarebbe stato il capo deale.  Egli, non  si sa con quali risorse, riusciva ad attrarre soprattutto i giovani, che egli trasformava in veri criminali. Ma ecco qui un’altra punta di iceberg:  ad un certo punto Salustio dice che Catilina si pose l’idea di un’azione rivoltosa  perché “… il senato non sospettava di nulla;  regnava la calma e la sicurezza;  la situazione gli era propizia…” [23].

Eppure, poche righe sopra, sostiene che egli spingeva questi giovani ad addestrarsi al compimenti di reati e di violenze.  Ora, dove venivano compiuti se regnava la calma e la sicurezza, e il Senato dormiva tranquillo ?   Secondo l’uso romano, di cui si è detto, alle calende di giugno dell’anno in cui furono consoli Lucio Cesare (parente del futuro condottiero) e Gaio Figulo (secondo la nota, anno 64 a. C.:  ma allora nel 65 che cos’era successo ?),  Sallustio sostiene che egli convocava questi sostenitori, ad uno ad uno.  Dopo questo sondaggio individuale (in realtà tipico di una candidatura elettorale, dove si sondano i capi dei vari gruppi per un futuro sostegno), Catilina avrebbe convocato 9 senatori, 4 cavalieri e “molti altri, infine venuti da colonie e municipi dove appartenevano alle migliori famiglie” [24].    Nondimeno, tutti costoro erano”…nelle peggiori strettezze e i più spregiudicati…”.   Dunque, le migliori famiglie di Roma e dell’Italia erano formate dai peggiori delinquenti, o li avevano come propri elementi.  Il che ci spiega il grado di obiettività di Sallustio e delle sue fonti (Cicerone in testa).  E’ facile, viceversa, dedurne che questi personaggi appartenevano alle classi più importanti di Roma e delle città italiche.   Sallustio aggiunge, cone del resto sosteneva lo stesso Cicerone,  che i giovani avevano molta simpatia per Catilina e le sue idee, come spesso avviene, in quanto i giovani amano le novità, ma amano anche persone in buona fede, non sempre e non necessariamente, ma spesso, per la loro stessa struttura mentale e morale [25].  Sallustio aggiunge che amche Marco Licinio Crasso era sospettato di farvi parte, ma lo smentisce, mentre non dice nulla di Cesare, di cui era sostenitore.  Come rilevato,  i due, seppure di tendenze demagogiche, avevano una mentalità ed una tattica completamente diverse da quelle di Catilina.  E questa era la vera smentita.

Sallustio poi ritorna indietro al precedente piano, che sarebbe stato formulato circa due anni prima sotto il consolato di Lucio Tullo e Marco Lepido.  Catilina fu imputato di peculato e gli fu impedito di candidarsi. Come è facile intuire,l’assenza di un preciso calendario in quell’epoca, rende oggi difficile inquadrare i fatti con precisione, visto che non di tutti i periodi consolari è possibile avere i dati nominativi, e perché spesso i loro nominativi coincidono anche con altri personaggi, contemporanei o successivi [26].  Questo piano sarebbe consistito in attentati e progetti di assassinio dei prossimi due consoli, e da lì, addirittura, occupare la penisola iberica:  questo attribuirebbe a Catilina una visione addirittura imperiale.  Ma in Spagna ?  Perché in Spagna ? Forse perché vi era ancora in corso la guerra iniziata da Sertorio contro i Romani ?  Ma questo dimostrerebbe simpatia di Catilina per i mariani, e soprattutto per Sertorio, non certo per Silla, anche se è sempre ammissibile una conversione ideologica, il che tuttavia è discutibile, visto che recenti avversari politici non avrebbero avuto fiducia nel convertito.  Dice poi che del preparativo qualcosa trapelò;  nondimeno Catilina, invece di calmarsi, va anche più in là, ed avrebbe meditato il massacro di molti senatori.  Come dire (qui siamo vagamente al comico):  siccome non sono riuscito ad uccidere due consoli, mi preparo per ammazzare 100 senatori, così tanto per confortarmi.  Ma appare improbabile che, se i preparativi per colpirne due vengono scoperti o prevenuti, io riesca a preparare lo sterminio di 100, che richiederebbe un’organizzazione ben più numerosa.  Alle none di febbraio [27] si tenta il colpo grosso, ma Catilina era stato “precipitoso”, e, colmo dei colmi, i congiurati armati erano però troppo pochi.  Insomma, come organizzatore di rivolte era alquanto ingenuo.  Fallisce l’assassinio di “due”, medita di colpirne “molti”, ma al suo servizio ha solo “pochi” attentatori. Certo che, se avesse avuto a sua disposizione una quantità di esplosivo, il colpo sarebbe riuscito sicuramente. Ma, ahinoi, a quel tempi non esistevano esplosivi, e ci vollero circa 1300 anni perché li inventassero.  Catilina, dunque era nato troppo presto.  Bene, facciamo finta di credere alla cattiva fiaba:  ma come si spiega allora, che tutto era tranquillo, nessuno sospettava né lui, né i suoi, sicché poi potè addirittura raccogliere un esercito ?  Insomma, misteri inspiegabili dell’età romana…

Fallito questo secondo feroce tentativo, ecco che Catilina  indìce una riunione, della quale, per la prima volta è riportato un suo intero discorso, di cui citerò gran parte.  Oltre al discorso, Sallustio aggiunge altre cose con parole sue che dovrebbero essere riassuntive.  Generalmente gli storici vedono in questi discorsi una pura produzione letteraria, se non nel contenuto, nella forma. Pur tuttavia, relativamente alla lettera che gli avrebbe mandato Lentulo, il testo coincide esattamente con quello riportato nella III Catilinaria (V cap.) da Cicerone.  Segno che Sallustio doveva avere a disposizione copie di documenti di queste lettere.  Viceversa, il discorso di Catilina era pronunciato “a braccio”, ma potevano esisterne trascrizioni in forma stenografica (si sa che Cirerone usava appunto forme di stenografia per riportare i propri discorsi, quanto più vicini all’originale).  Comunque sia, vedremo ora, con le presunte parole di Catilina, sia il suo modo di esprimersi, sia i suoi progetti politici, tenendo viceversa separato quello che poi vi aggiunge (di suo ?) Sallustio :“S’io non fossi certo del vostro coraggio e della vostra fedeltà [28], il momento propizio si presenterebbe invano, invano avremmo la grande speranza di prendere in pugno il potere e io, dovessi fare assegnamento su animi pavidi e vani, non rischierei il certo per l’incerto.  Ma poi che in molti ed ardui cimenti [quali ?] vi ho visti agire da prodi, o miei fidi, l’animo mio ardì concepire questa impresa, la più difficile, la più alta; anche perché ho compreso che avevamo in comune il bene e il male [altra nota sulla traduzione:  il testo latino, dice “i beni ed i mali”, non il “bene e il male”,  che farebbe intendere che erano malvagi che condividevano le stesse azioni delittuose];  e volere le stesse cose, rifutare le stesse, è questa la vera amicizia [insomma, letta così la celebre frase di Catilina sembrerebbe che egli dice che si è amici quando si cambiano idee in contemporanea; viceversa Catilina dice più propriamente “eadem velle, eademque nolle, ea firma amicitia est”, il che per essere comprensibile in italiano va tradotto:  “Condividere le medesime cose o idee, e il non accettare del pari altre contrarie, quella è salda amicizia”.  In breve, per Catilina l’amicizia non consiste nell’andare a bere insieme un bicchiere di vino Falerno al Thermopolium, magari chiacchierando di donne ed avventure amorose, o di corse dei cavalli e di lotta tra gladiatori,  ma il condividere medesimi ideali, avere identici progetti, rinnegare insieme altre cose.  Insomma, un vero programma di viziosi e di assassini !]. "… l’animo mio si infiamma al pensiero del futuro che ci attende, se non rivendichiamo la nostra libertà [29].  Da quando la repubblica è caduta in balìa d’ un pugno di potenti, a loro versano i tributi i re e i tetrarchi, a loro pagano imposte popoli e azioni;  gli altri, noi tutti, coraggiosi, onesti, nobili e non nobili, non siamo stati che volgo, senza autorità, senza prestigio, sottomessi a coloro  ai quali, se lo stato fosse efficiente [ancora sulla traduzione: Catilina dice:  “… si res publica valeret…”, il che significa una repubblica, non tanto efficiente, quanto in salute, vigorosa, autentica. “Vale”  vuol dire appunto “Stai bene,  sii sano, ecc.”.  In sostanza, Catlina sostiene che, se vi fosse una repubblica sana, le differenze che egli critica non vi sarebbero.  Popoli e classi sociali non sarebbero dominate da quella cricca di padroni -  30], dovremmo far paura [meglio: “incutere timore, rispetto”]. Così, influenze, potere, onori, ricchezze appartengono a loro e a quelli che godono dei loro favori;  a noi hanno lasciato sconfitte elettorali, insicurezza, processi, miseria.  Fino a quando, o miei prodi, siete disposti a sopportare ? [31]  Non è preferibile morire da forti che consumare ignominiosamente un’esistenza misera…?"

"Ma, in verità,  e chiamo a testimoni gli dèi e gli uomini [secondo Sallustio era “nemico degli dèi e degli uomini”:  e dunque ?], ormai abbiamo la vittoria in pugno.  Siamo giovani e non ci manca l’ardire; essi al contrario li hanno logorati gli anni e gli agi…  C’è un uomo al mondo, un vero uomo intendo [più esattamente Catilina dice:  “chi dei mortali, che abbia ingegno o coscienza virile…”], disposto a tollerare che vi sia chi anche dopo aver profuso tesori per edificare sul mare, per spianare i monti, guazza nell’oro mentre a noi manca persino il necessario?…  noi non abbiamo neppure un tetto… spendano in tutti i modi… Noi, invece, a casa siamo nelle strettezze, fuori casa nei debiti… E dunque, perché non vi risvegliate?  Eccola, ecco quella libertà che tante volte avete invocata, e, con essa, ricchezze, onori, gloria:  è tutto là, a portata di mano… Più che le mie parole vi siano di sprone il momento, il pericolo, il bisogno, le splendide prede.  Servitevi di me come capo e come gregario[Sallustio dice “imperator vel miles”, comandante o soldato semplice:  ricorda terribilmente la frase di Garibaldi a Roma, nel luglio 1849, quando disse che preferiva essere o soldato semplice, o dittatore illimitatissimo.  Altre analogie si hanno poi nella marcia verso Venezia, che però si concluse a S. Marino, sempre nel 1849];  il mio cuore, il mio braccio non vi verranno meno [il testo latino dice ”Né l’animo, né il corpo, vi mancherà”.  Il “mio” è aggiunto dalla traduttrice].  Queste cose, spero, le farò con voi quando sarò console…” [32].

Pare evidente, soprattutto dalla frase finale, che Sallustio mescola, con una certa abilità, un discorso elettorale con quello di preparazione della congiura.  Ma gli “incollamenti” appaiono abbatanza evidenti. Infatti, se tutta questa azione serviva per diventare console, per mezzo di una regolare elezione, che bisogno c’era di invocare l’uso della forza e della ribellione armata ?   Poi vi è la descrizione delle enormi differenze sociali per Catilina intollerabili, non solo secondo lui, ma per qualunque persona avesse animo o mente virile.  E’  lo stile classico delle orazioni tribunizie.  Infatti, Plutarco riportando un discorso di Tiberio Gracco nella Vita dei Gracchi, dice esattamente:  “Perfino le belve che si aggirano per l’Italia hanno tane e covili dove rifugiarsi;  noi in nessun luogo abbiamo una casa…”.  Appare anche curioso come l’oratore si identifichi sempre verbalmente nelle condizioni economiche degli ascoltatori.  Infatti né i Gracchi, né Catilina erano talmente poveri da non avere una propria abitazione (si è visto che la moglie Orestilla lo aveva aiutato nel pagamento di certi debiti da garanzia):  ma, per far sentire l’identità tra ascoltatore ed oratore,  dicono “noi”, invece che “voi” .   Per rendere poi più feroce il tutto, alle domande degli astanti, Sallustio con discorso indiretto riporta che Catilina promette:  abolizione dei debiti, proscrizione dei ricchi, magistrature, sacerdozi, e poi il saccheggio.   Alla fine di questi progetti, in cui si mescolano classiche promesse  elettorali (come l’abolizione dei debiti) e minacce di proscrizione, massacri e saccheggi (il che sarebbe stato ben curioso), alla fine di questo un po’  confuso programma dice:  “… Quando li vide tutti infiammati, li esortò ancora a adoprarsi per la sua elezione e sciolse la seduta”[33].   Ma, scusatemi,  sembra coerente il tutto?  si promettono proscrizioni, tipiche della precedente guerra civile, massacri, saccheggi, e poi si chiede: “Sostenetemi alle elezioni” ?    Che logica vi sarebbe ?  Se aveva progetti di violenza, non avrebbe chiesto voti, ma denaro e, soprattutto, armi e uomini, cosa che farà viceversa più tardi.  Ora è chiaro che Sallustio, anche per dare subito un’immagine violenta ed aggressiva di Catilina, ne trascrive il discorso mescolando il programma elettorale con il progetto insurrezionale che, certo, vi è stato, ma successivo e quale risposta al boicottaggio del Senato, quando capisce che lo si ostacolerà in tutti i modi, anche illegittimi, pur di impedire che egli possa realizzare da console appoggiato dai ceti sociali più numerosi e poveri, un programma di ridistribuzione delle risorse interne e di quelle provenienti dai popoli confinanti alleati o assoggettati, un netto balzo in avanti nelle condizioni economiche e sociali.  Vuole persone attente e consapevoli, non gente addormentata o che segue solo i propri interessi.  Cicerone, come vedremo, distinguerà perfino sei categorie di simpatizzanti per Catilina, ovviamente mettendovi anche figure losche, per diffamare l’intero movimento.  Ma la fine degli avvenimenti dimostra la vera tempra di quegli uomini, che, sia pure a denti strettissimi sarà riconosciuta da Cicerone, da Sallustio e da alcuni autori successivu (Dione Cassio).

Tanto per rendere l’episodio più satanico, Sallustio riporta con beneficio del dubbio la notizia di un sacrificio umano (ma non si sa di chi:   chi sarebbe stato sacrificato ?  uno schiavo ?  qualcuno para perfino di un bambino.  Infatti la formula del giuramento doveva essere seguita dalla libazione di una coppa di vino misto a sangue umano, il tutto poi seguito da esecrazioni.  Lo stesso Sallustio non vi crede, lo aggiunge per dare colore esecrando alla storia.  Nondimeno di questa accusa su fanno latori anche taluni storici moderni, come Eugenio Manni, il quale ricorda riti analoghi delle religioni orientali alla dea Cibele, sostenendo che erano stati importati dalle legioni di Silla al ritorno dalle spedizioni contro Mitridate e soci.  Piccolo particolare però:  di tutti questi uomini, pur dichiarandoli “sillani” non si dice mai che fosser stati in oriente e quindi a conoscenza di riti sanguinari della dea Cibele o altra personalità divina.  E poi, non  si era detto, da parte sia di Cicerone, sia di Sallustio che Catilina era “nemico degli dèi e degli uomini”, quindi probabilmente ateo o agnostico in materia religiosa ?  E allora che ci sta a fare addirittura un sacrificio umano nella Roma del I secolo a.C, soprattutto nella sua parte ideologicamente più evoluta ?  Appare evidente l’intento diffamatorio e calunniatorio, sia per le continue contraddizioni, sia perché non  risulta affatto che qualche schiavo o figlio di schiavi sia stato fatto scomparire ad opera di Catlina o di qualcuno dei suoi.  E’  dunque presumibile che la libazione sia avvenuta solo con una bella coppa di vino puro, e null’altro [34].   E qui comincia la parte giallo-spionistica della congiura. Occorre sapere  - narra Sallustio –  che tra i congiurati vi era un certo Quinto Curio che amava una nobildonna, di nome Fulvia.  Curio era un vero chiacchierone e narrò all’amante della congiura vantando ricchezze future.  Fulvia, altra pettegola, raccontava a destra e a manca di questi preparativi, la cui fama arrivò alle aguzze orecchie di alcuni senatori e  al console allora in carica (dunque, da quella riunione sarebbero passati circa due anni, stando ai vaghi calcoli che si possono fare, basandosi sui diversi consolati) Marco Tullio Cicerone, il quale è tuttora celebre come oratore politico e forense, avvocato di parte civile e degli imputati (come ogni avvocato serio, del resto), come filosofo e letterato, ma pochi lo conoscono nella veste di capo della Polizia, di organizzatore di agenti e provocatori, come pur risulta dal testo di Sallustio.  Si deve essenzialmente a lui l’indagine inquisitoria sulla rivolta e la sua repressione in Roma, non certo per la parte militare, dove Cicerone, malgrado un certo vanto per una piccola spedizione in Cilicia (Anatolia, Turchia attuale),  non ebbe mai particolare propensione. E bisogna riconoscere che, come capo della Polizia politica, dimostrò un’abilità ben superiore a quella di taluni capi attuali [35]. 

Intanto Catilina:  “… escogitava ogni giorno nuovi progetti, apprestava depositi d’armi in tutta Italia in punti strategici,deponeva denaro suo o imprestato da amici [ma non erano tutti debitori, morti di fame, Catilina compreso ?] a Fiesole in casa d’un certo Manlio, che fu il primo a dichiararsi per la guerra. Fu in quel tempo, a quanto dicono, che associò a sé persone di ogni categoria,  nonché parecchie donne [ecco lo scandalo, la fonte del peccato !  le donne !], di quelle che tenevano un tenore di vita costoso facendo mercato del proprio corpo [ovvio,  “ e te pareva”, direbbero i Romani d’oggi…  Se le donne si davano alla politica, tanto peggio se rivoluzionaria, sicuramente facevano mercato del proprio corpo] e poi, quando l’età aveva posto un freno non al lusso ma alla possibilità di procurarselo, si erano coperte di debiti.  Per loro mezzo Catilina contava di poter sollevare gli schiavi urbani, dar fuoco all’Urbe [e poi che se ne faceva del consolato tra i ruderi ?], associare all’impresa i mariti di quelle donne oppure asassinarli” [36].

Il perfido  Catilina non conosceva vie di mezzo, o amici, o persone da uccidere.  A questo fine, secondo la versione senatoriale ripresa da Sallustio, sfuttava il suo fascino di seduttore spingendo anzianotte matrone romane o a convincere i mariti rimbambiti, o direttamente a passarli per le armi.   La condottiera tra queste donne di “malaffare” politico,  era Sempronia (discendente dalla famiglia dei Gracchi), la quale sintetizzava al femminile gli opposti estremismi del carattere di Catilina (di lei però, come delle altre, non si dice quale fine fecero).  Questa donna, dice il puritano Sallustio, aveva compiuto più azioni temerarie di parecchi uomini, apparteneva a famiglia patrizia, aveva bellezza, marito e figli, era istruita in letteratura greca e latina, cantava, suonava, con una grazia maggiore di quella dovuta ad una donna (ma la grazia non è tipica delle donne, piuttosto che degli uomini?),  ma esercitava incentivi alla lussuria (ovvio…), non aveva pudore o dignità di matrona.  Non si sapeva se valutasse meno il denaro (dunque, era generosa) ovvero il buon nome, e - massima colpa – sollecitava gli uomini (suppongo, al peccato…Ma chi ha detto che la pudibonderia è nata col Cristianesimo ?) precedendo le loro richieste, non pagava i debiti ed era una depravata. Ma era pure intelligente (!!!), componeva versi, era spiritosa e sapeva esprimersi, a seconda dei casi con modestia, con garbo, con sfrontatezza,  ed era, perfino !!!, umoristica.  Mah, sembra di leggere una critica retriva su molte donne moderne.  Io direi:  erano queste le peccatrici di Catilina ?  Non mi sarebbe spiaciuto conoscerle e frequentarle !

Fatto questo quadro tremendo delle peccatrici catilinarie, Sallustio riprende la descrizione delle operazioni spionistiche di Cicerone, il quale convince Fulvia a far confessare Curio dei preparativi della rivolta.  Riesce, altresì, a persuadere Gaio Antonio, già consocio della congiura (secondo le versioni ufficiali)  a stare dalla sua parte, ma Gaio Antonio, zio se non erro di Marco Antonio, l’ultimo nemico di Cicerone,  non sarà troppo convinto nemmeno alla fine, quando, con la scusa della gotta, scaricherà al vice Petreio il compito di affrontare Catilina in battaglia.  Questo Gaio è uno dei prototipi dei nostri attuali partitocrati, uno di quei personaggi che si schierano sempre col più forte e il vincitore.  Cicerone è abbastanza abile perché usa questi personaggi come sua “quinta colonna”, doppiogiochisti,  che lo tengono regolarmente informato di ogni mossa di Catilina.  Qui, ricollegandosi al discorso iniziale, si spiega come fallissero i primi attentati, organizzati quando Catilina viene sabotato anche alle seconde elezioni. 

Uscendo dal semi-farsesco racconto di Sallustio, si spiega un fatto molto semplice, molto ovvio: Catilina è un rivoluzionario, ma al tempo stesso tenta di presentarsi in piena regolarità alle elezioni per il Consolato.  Gli avversari lo boicottano per il suo programma e per i suoi avanzati intenti sociali ed economici.  Creano quindi cortine fumogene, una catena di calunnie.  Quando si vede impossibilitato ad assumere la carica secondo le leggi, egli comincia ad organnizzare alla radice una forza militare popolare che sarebbe stata temibile e ragguardevole, se l’indiscutibile abilità poliziesca di Cicerone non fosse riuscita ad anticiparla, sabotandola prima, stroncandola poi a Roma e sul campo di battaglia.  Catilina, tuttavia, riesce, malgrado tutto, ad organizzare un suo forte nucleo armato a Fiesole, a cui pone come capo Gaio Manlio Vulsone.  Medita un’insurrezione simultanea anche nel Piceno (Marche) e in Puglia.  Predispone piani di rvolta a Roma stessa, e, capendo ormai che le difficoltà sono ordite da Cicerone, decide di farlo assassinare. Ma il traditore Curio informa Cicerone del piano [37].   Era d’uso tra i Romani importanti, la visiita alla mattina dei loro “clientes”, chiamata “salutatio”.  Quando il personaggio potente si appresta ad uscire di casa, questi servili amichetti andavano ad onorarlo, salutandolo ed augurandogli pieno successo.  Una prassi che, eccettuate le forme, perdura notoriamente anche ora, notando come cambino le forme, ma la mentalità e la sostanza continuino.  In compenso, potevano aver denaro o un’abbondante colazione.  I due attentari, quimdi, si mescolano tra i “clientes” e l’avrebbero pugnalato se, preavvisato da Curio, Cicerone non avesse impedito loro di entrare, sventando il grave tentativo.

Intanto, Gaio Manlio, in Etruria coordina i preparativi propriamente militari dell’insurrezione, si rivolge (al contrario di quanto si andava narrando) non ai coloni sillani ivi instaurati (salvo pochi, già impoveriti), ma ai cittadini etruschi che avevao perduto i loro campi proprio combattendo contro Silla o sostenendo Mario.  Ciò pone un’ulteriore ipoteca di dubbio sulla versione del “sillanesimo” di Catilina e del suo vice.   E’  assai difficle immaginare che recenti discordie così violente potessero essere state dimenticate.

Quando Cicerone capì che Catilina non se ne sarebbe stato calmo a godersi i boicottaggi elettorali, ma si predisponeva ad una partita mortale, informò il Senato  che deliberò lo stato d’allarme con la nota formula “affinché la Repubblica non subisse danno”.  Tale formula, alquanto eufemistica, indicava un grave pericolo e attribuiva ai consoli tutti i poteri necessari, anche spietati, per la repressione.  Giungeva altresì al Senato un’informazione secondo cui Gaio Manlio Vulsone i6° giorno delle Calende di novembre (sarebbe stato il 26 ottobre del 63 a:C.)  aveva costituito una forza armata.  In quest’occasione si hanno quei miracolosi eventi, di cui Cicerone e il fratello discutono nel dialogo “Sulla Divinazione”.  Come lo stesso Cicerone racconta, questi “eventi” vennero strumentalizzati quali segni divini di avvertimento, da utilizzare con la plebe ignorante e superstiziosa..  Più seriamente vi erano anche notizie di assembramenti militari e di rivolte di schiavi.   Va pure ricordato, per rendersi conto del carattere insurrezionale di questi movimenti e della loro gravità, che Silla aveva fatto estendere il pomerium (confine sacro entro il quale non si potevano portare armi ed armati) dalla città di Roma all’intera penisola, fino al fiume Rubicone, in Romagna, che diverrà famoso quando Cesare, traendo il dado, sarebbe passato con le sue legioni oltre, e puntato direttamente su Roma.   Catilina non oltrepassa il Rubicone, ma predisponde all’interno del “pomerium” la sua piccola armata rivoluzionaria, composta per la gran parte da gente povera o impoverita, dalle più modeste classi sociali.   Si ripete in sostanza qualcosa di analogo a quella che in Asia Minore era stata la rivolta di Aristonico.  E’  difficile dire quale fosse stata la più grave.

In conseguenza, i consoli inviano truppe tanto verso Fiesole, quanto in Puglia ed in Campania.  Si promise pure la libertà a quegli schiavi che avessero dato informazioni sul movimento insurrezionale e perfino i gladiatori venivano mobilitati.  Sallustio altresì aggiunge che l’intera città era terrorizzata, comprese le donne (immaginiamo le buone matrone caste e pure, non quelle sopra descritte, fautrici di Catilina), le quali gemevano per la paura e pregavano gli dèi che le salvaguardasse dalle mani lubriche dei ribelli [38].

Intanto Catilina, di tutto questo rumore popolare e senatoria, pareva incurante oppure non se ne accorgeva (?).  Era stato denunciato da Lucio Paolo per sovvertimento dell’ordine pubblico  (Legge Plauzia), ma si presentò ugualmente in Senato.  Questo stesso fatto dimostra, senza alcun dubbio, che egli in quanto già pretore e propretore,  egli stesso era un senatore.  Molti di voi avranno in mente quel celebre affresco del pittore Cesare Maccari in Senato che rappresenta con molta eleganza (ma non altrettanta esattezza storica) la seduta senatoriale, in cui si vede al centro della scena Cicerone, già con capelli bianchi, e Catilina che lo ascolta seduto, isolato dagli altri, che lo osservano con sdegno, e colmo d’ira.  La scena è storicamente inesatta: andrebbe meglio se rappresentasse una delle Filippiche contro Marco Antonio, dato che Catilina era più anziano di due anni rispetto a Cicerone e che, se lo si rappresenta giovane, Cicerone lo era ancora di più.  E’ in questa seduta che Cicerone pronuncia la prima, la più violenta e la più lunga delle Quattro Catilinarie.   Perché Catilina, ben sapendo di essere ormai sotto tiro (aveva o non aveva ricevuto la denuncia di Lucio Paolo ?)., si presenta ugualmente nel Senato.  Si è visto che Sallustio gli attribuiva capacità di simulazione e dissimulazione notevoli, ma la sua presenza era comunque una sfida al potere senatoriale. Sapeva che  prove dirette per accusarlo non  sussistevano (o almeno così riteneva), e va ad ascoltare o a difendersi.  Che non ci fossero prove contro di lui è dimostrato dal fatto che nessuno lo arresta, nessun può indirgli un processo, che mai ci fu, ma solo una reciproca dichiarazione di guerra.  Le fonti, a questo punto, non appaiono chiare, anche perché quello che noi riteniamo la Prima Catilinaria è una rielaborazione a posteriori del reale discorso di Cicerone, che Sallustio elogia, ma non riporta (non riporta nessuna delle quattro orazioni, neppure in riassunto).  Sicché è da supporre che quel discorso, così bello e così forte, è un po’ come la successiva orazione a favore di Milone. Cicerone, astuto organizzatore, facondo, non era però un coraggioso, e temeva che Catilina lo aggredisse.   Quindi il reale discorso fu assai meno ardente ed efficace di quello celebre e che ha essenziale carattere letterario.  Comincia con la frase celebre del   “Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra…”, che sembra il rullo di un tamburo, uno squillo di tromba, un attacco simile alla Quinta Sinfonia di Beethoven.  E’ l’8 novembre del 63 a.C, nel Tempio di Giove Statore : “ Fino a quando abuserai, Catilina, della nostra pazienza ?  per quanto tempo ancora codesta tua condotta temeraria riuscirà a sfuggirci?  A quali estremi oserà spingersi il tuo sfrenato ardire?  Né il presidio notturno sul Palatino né le ronde per la città, né il panico del popolo, né l’opposizione unanime di tutti i cittadini onesti, né il fatto che la seduta si tenga in questo edificio, il più sicuro, ti hanno sgomentato e neppure i volti, il contegno dei presenti?  Le tue trame sono scoperte, non te ne accorgi ?  Non vedi che il tuo complotto è noto a tutti…Ciò che facesti la notte scorsa e la precedente, dove ti recasti, quali complici convocasti, quali decisioni prendesti, credi tu ci sia uno solo che non ne sia informato? O tempi, o costumi !  di tutto questo, il Senato è a conoscenza, al console non sfugge, e tuttavia costui vive.  Vive ? che dico, si presenta in Senato, partecipa alle sedute. Prende nota di ciascuno di noi, lo designa con lo sguardo all’assassinio,  e noi, i potenti !, riteniamo d’aver fatto abbastanza  per la patria se riusciamo a sottrarci all’odio, ai pugnali di costui.  A morte te, Catilina, da tempo si doveva condannare per ordine del console,  su te doveva ricadere tutto il male che da tempo vai tramando a nostro danno…” [39].

Al di là dell’effetto letterario, splendido, bisogna dire che l’atteggiamento di Cicerone  è pieno di contraddizioni già in questo primo periodo.  Accusa Catilina di essere un nemico dello Stato, di essere informato, con tutto il Senato, delle sue trame, ma si limita a dirgli che egli meriterebbe la morte immediataper cui poi fa una serie di elogi a tutti coloro che uccisero persone sospette di rivolta o di semplice inimicizia al Senato, ripercorre  tutta la storia romana per citare esempi precedenti di uccisione illegale di vari personaggi (colpisce che ci metta anche i Gracchi), ma si guarda bene dall’arrestare Catilina che, pure, nell’aula sembra  - a dire dello stesso Cicerone -  del tutto isolato.  Come si  detto, il discorso non è un resoconto stenografico reale, ma è un rifacimento a fini letterari. Pur tuttavia linee, passaggi e contenuti sono quelli.  Si tratta di una vera requisitoria. Ma vediamo viceversa che ne dice lo stesso Cicerone in privato e per lettera al suo amico Attico : “… Tutta questa vecchia storia, che io nelle mie orazioni… sono solito dipingere con vari colori, cioè con toni fiammeggianti e stile vigoroso,  - tu conosci la mia ampollosità…  Se mai mi aiutarono giri di frasi, battute ad effetto, sillogismi, figure retoriche, fu in quel momento.  Che più ?  Uno scroscio d’applausi.  E di fatti questo era il tema:  la serietà del Senato, la concordia dei cavalieri,. il consenso di tutta l’Italia, la sparizione dei resti della congiura, i bassi prezzi, la tranquillità.  Tu conosci già in tale materia il rimbombo delle mie parole.  Esso è stato così alto che io sono più breve proprio perché penso che tu l’abbia udito da costà…” [40].

E’  facile notare molto autocompiacimento, quasi un narcisismo verso le proprie doti oratorie da parte di Cicerone, ma si svela anche la verità:  ovvero che il suo discorso contro Catilina, letterariamente bellissimo, è però giudiziariamente un bluff.  Cicerone  non ha in mano prove certe e legittime contro Catilina, ma mira a provocarlo e a far sì che egli stesso, uscendo da Roma (è quello che in sostanza gli chiede) e andando in esilio, si dichiari colpevole di tutto ciò che gli viene addebitato.  Se questo è ragionevole ipotizzare, occorre dire che egli fu anche un fine psicologo che sa giocare con abilità sui sentimenti e le reazioni degli altri.  Si sa poi che queste doti non gli riuscirono né con la morte di Clodio, né tantomeno con quella di Cesare, ma nei confronti di Catilina, per una serie di circostanze favorevoli, per il carattere assolutamente rivoluzionario (anche perché non fondato su manovre politiche di fazioni), per l’intransigenza assoluta dell’avversario, la tattica gli riesce alla perfezione.

Torno alla “Prima Catilinaria”:  l’elenco di episodi che Cicerone riporta di esecuzioni immediate e sommarie, a titolo di minaccia contro Catilina, dimostra, malgrado non sia questa l’intenzione dell’oratore, come ben prima delle guerre civili del I secolo a.C., vi erano gravi violenze interne, e parrebbe di iniziativa del Senato o della sua parte conservatrice, piuttosto che da tribuni con idee sociali troppo avanzate per quel tempo.  E, dunque, dal Senato che viene l’ammaestrameto e la consuetudine alla violenza.  Ancora, egli avvisa Catilina che è già in vigore il senatus consultum ultimum per la sua sommaria condanna a morte.  Spiega altresì, o rivela in quel momento, la preparazione insurrezionale condotta in Etruria ad opera di Gaio Manlio. Cicerone, fra l’altro, si rimprovera di aver tardato l’esecuzione della deliberazione senatoriale contro Catilina, ormai considerato nemico del popolo romano.  Cicerone dice apertamente poi di aver tardato tale esecuzione in attesa che anche i peggiori scellerati si convincano della correttezza della misura, scusa alquanto tenue e magra, visto come poi agì nei confronti di Lentulo e soci.  Espone altri eventi sull’organizzazione della rivolta, onde dimostrargli di essere a conoscenza di ogni suo passo;  gli ricorda perfino l’adunanza nella casa di Via dei Falcari  (quartiere dei fabbricanti di falci:  come mille anni dopo e più, gli artigiani romani erano riuniti in corporazioni dislocate in quartieri diversi) e i dettagli del piano insurrezionale, con annessi incendi;  svela ancora l’attentato, di cui si è detto, in casa sua.  Ma dopo tutto questi strombettare, che fa Cicerone ?  Gli consiglia di andarsene da Roma, raggiungere con tutti i suoi seguaci le forze dislocate a Fiesole.

Poi, per manfestargli il massimo disprezzo, gli elenca tutte le sue (presunte) depravazioni, la seduzione, politica o fisica non è ben chiaro, di adolescenti, l’ammaestramento di giovani all’omicidio (già visto in Sallustio, che in realtà, non fa che copiarlo da Cicerone;  le sue seconde nozze dopo aver ucciso il figlio della seconda moglie, ma, qui, sapendo di averla sparata grossa, aggiunge : “… Non mi soffermo:  lascio volentieri che non se ne parli, affinché non si sappia che nella nostra Città un reato così orrendo è stato commesso ed è rimasto impunito.  Mi astengo altresì dal soffermarmi sulla rovina dei tuoi averi:  te ne accorgerai alla scadenza delle prossime Idi [15 novembre, data di scadenza dei crediti]…” [41].

Per fargli ben capire quanto il suo servizio di spie sia ben organizzato, gli dice anche dell’aquila di Mario, usata come stemma militare.  Gli indica il suo isolamento nel Senato e la paura e l’odio che egli incute ai concittadini, tanto che tali sentimenti potrebbero trasformarsi in volontà aggressiva nei suoi confonti.  Mette in bocca alla patria un immaginario discorso in cui Catilina viene esortato ad andarsene.  Ma Cicerone, nella foga, aggiunge pure che questo personaggio, per dare garanzia della propria innocenza, si offriva di essere tenuto in custodia prima presso la casa di Marco Lepido, il quale però rifiutò,  poi perfino nella stessa casa di Cicerone, in quanto console [42].  Affermazioni piuttosto curiose, se fosse vero che Catilina stava attentando alla sua vita e che Cicerone lo sapesse con certezza.  Parrebbe che, o per obiezione di Catilina, o per formula retorica, Cicerone si contro-obietti : “Presenta un rapporto in Senato”;  Catilina gli avrebbe gridato (supponiamo) che anzi sollecitava un tale decreto e che, se vi fosse stato, sarebbe andato in esilio.  Ancora curiosamente, Cicerone si ribatte :  “No, non presenterò alcun rapporto:  ciò ripugna al mio costume” [43].  Qui si dà, dal nostro punto di vista, la zappa sui piedi:  presentare un formale rapporto di accusa o di denuncia, era contro il suo costume (?!), ma diffamare, calunniare, e spararle grosse, sembrerebbe invece di sì.  Il console si fa forte del tacito assenso dei senatori per le sue affermazioni e diffide contro l’avversario, cose che, altrimenti, il Senato gli avrebbe impedito di dire.  Prosegue ancora sollecitandolo ad andarsene con tutti i suoi fautori, e nuovamente si immagina un discorso della patria e dell’Italia che lo rimproverano per non aver celermente proceduto alle esecuzioni sommarie in difesa della Repubblica.  Cerca anche di prenderlo in giro per le sue capacità di forza e resistenza fisica alla fame, alle veglie e al freddo (anche qui è fonte della descrizione sallustiana) e gli dice che così potrà metterle alla prova.  Conclude poi i senatori a sostenerlo all’unanimità.  Ma, malgrado le sue roboanti esclamazioni, nessuno alza una mano su Catilina, nessuno lo caccia dal Senato.  Sarà Catilina stesso (lo si capisce quando riprenderò la narrazione sallustiana) a provocare una forte reazione del Senato, che fino allora sembra tacere (approvando ? non approvando ?  non è chiaro).

Il giorno dopo Catilina esce dalla città e Cicerone, stavolta nel Foro (sembrerebbe quindi in assemblea aperta al pubblico),  ribadisce con foga accresciuta le sue opinioni sull’avversario :
 I, 1  Finalmente, o Quiriti [il termine equivale a Curiati, si riferisce ai guerrieri romani in armi, la prima assemblea popolare;  poi esteso a tutti i  cittadini romani, prescindendo da origini o condizioni pubbliche, ma con diritto di voto], L. Catilina, audace fino al delirio, spirando malvagità da tutti i pori, teso perfidamente a promuovere la rovina della patria, a minacciare voi e questa Città col ferro e col fuoco, l’abbiamo espulso dall’Urbe o, se volete, l’abbiamo lasciato andar via, o, meglio ancora, quando è partito l’abbiamo accompagnato con i nostri saluti.  Se n’è andato, è fuggito… quel mostro nefando non provocherà più sciagure entro queste mura a queste mura…” [44].

Altra curiosità:  Cicerone informa il popolo dell’uscita di Catilina in tre versioni per nulla concordanti:  una è quella della cacciata, l’altra di un’uscita indisturbata, la terza con accompagnamento e saluti,  perfino di buon viaggio.  Ironia ?  O ripete le versioni circolanti per la città ?  Sta di fatto che Catilina esce da Roma, si avvìa  per l’Aurelia, dichiarando di andarsene in esilio.  Anche questo verrà esaminato con la descrizione data da Sallustio.   Secondo quest’altro discorso, ormai Catilina sarebbe piegato e perfino in lacrime, per non essere riuscito nel suo piano insurrezionale.  Cerca poi di spiegare perché non lo ha fatto uccidere subito, e in questo si arrabatta più con la retorica, che non con chiarezza. Ma sembrerebbe di capire che non lo ha fatto in quanto i suoi numerosi (e dovevano dunque essere tanti) seguaci sono rimasti in Roma e, non essendo tutti individuati, avrebbero almeno in parte eseguito i suoi piani di rivolta.  Per confortarsi ricorda che le sue foze, a confronto dell’esercito regolare (cita Metello e le reclute in addestramento:  va ricordato che le forze più potenti sono in oriente con Pompeo), sono miserande, addirittura si spaventerebbero per un solo editto del pretore (propaganda denigratoria, com’è poi dimostrato in Sallustio e nelle successive opere di Cicerone stesso, già ricordate). Irride, o tenta di farlo anche riguardo ai rimasti a Roma,”lustri di pomate e sgargianti di porpora”, ma tuttavia avrebbe preferito, malgrado le denunciate mollezze, che uscissero. Dice pure:  se Catilina stesso ha avuto paura scappando, anche gli altri, rimasti in Roma, lo imitino.  Si vanta, e nessuno infatti può togliergli questo merito storico, di aver scoperto la congiura contro lo Stato.  Prosegue poi con la diffamazione rimproverando questo rivoluzionario temibile, come pur deve riconoscere, di essere un pedofilo o amante di adolescenti, di essere pieno di vizi e di avere tra amici e sostenitori persone della peggior specie (giovinastri, vecchioni disoccupati, e schiavi rbelli), ma al tempo stesso ne ammette l’alta cultura o classe sociale.  Mentre si prende il merito della cacciata di Catilina e della scoperta della congiura, nondimeno ribatte all’accusa di averlo cacciato in esilio, cosa che non gli poteva spettare (dice).  Ma anche qui è ben curioso:  si vanta che avrebbe potuto farlo uccidere sommariamente, ma non di poterlo mandare in esilio, malgrado il decreto senatoriale.  Se avesse potuto, allora avrebbe mandato tutti gli altri in esilio.  Ma la contraddizione sta appunto nel segnalare la gravità, nel dire di avere le prove, e nondimeno pare che gli sfugga il fatto di avere le mani legate, ovvero, malgrado la deliberazione del Senato, egli non aveva poteri giuridici idonei.  E’, pertanto, molto probabile che tali poteri vengano in realtà dati ai consoli non con la seduta della Prima Catilinaria, bensì appena quando a Roma si viene a sapere che, invece di andare a Marsiglia in esilio,  Catilina va presso il campo di Fiesole, alla testa dei rivoltosi.  E’  in quel momento che sarebbe scattata la vera azione repressiva, sia in Roma contro Lentulo, sia  contro le forze ormai operative in Etruria ed altrove.  Nel rielaborare retoricamente la vicenda, tanto Cicerone, quanto Sallustio rimescolano evidentemente i fatti.[45] 

Come se non l’avesse già detto e ripetuto,  Cicerone sottolinea le molteplici qualità di Catlina, ma dicendo che le ha acquistate nei vizi, ad esempio sostenendo che sa sopportare freddo, fame e veglie praticando adultèri e delitti, il che appare alquanto incongruo.  Così pure dei suoi uomini, che erano solo delinquenti, debitori insolventi e gaudenti, gente che cerca prostitute e orge, e blatera di incendi della città, abbracciati mollemente a donne di malaffare.  Si capisce la foga, ma anche allora chi avrebbe potuto credere a queste idiozie ?   A questo punto svela anche che non era vero che si dirigesse in esilio verso Marsiglia, ma verso il campo di Fiesole, prendendo la strada meno diritta, ovvero l’Aurelia invece della Cassia.  Di ciò si vedrà tornando a Sallustio, come preavvisato.  Qui poi, come fanno i giuristi, distingue le sei categorie dei malfattori di Catilina:  i debitori insolventi, che  - dice Cicerone – resteranno delusi dalle speranze di cancellazione proposte da Catilina, in quanto sarà il console, ovvero Cicerone stesso, a far vendere all’asta i loro beni (ma come, non sarebbe stato proscritto e ucciso dai rivoltosi ?  come avrebbe potuto far vendere all’asta qualcosa ?);  la seconda categoria è quella sempre di debitori insoventi, ma cooperatori della rivolta (per cui i primi erano solo elettori, non rivoluzionari);  la terza categoria è quella di uomini attempati, ma ancora robusti per l’assiduo esercizio delle armi (e qui cita Gaio Manlio, che egli qualifica come soltanto centurione), tutti  - secondo Cicerone ex-sillani, brava gente, ma stordita dall’improvviso arricchimento, che si sono indebitati con spese sontuose;   la quarta categoria è una mescolanza di tutte le altre, gente rovinata da tempo, indolenti, non capaci d gestire i propri interessi, numerosi, ma al tempo stesso per nulla animosi.  Vi è pure una quinta categoria, quella dei veri e propri criminali. Nell’ultima fa un ultimo quadro di viziosi e pericolosamente subdoli   Sono sei categorie, in realtà riducibili a due, volendo:  gli ex- sillani ormai in crisi per la perdita del potre e tutta una turba di viziosi o di incapaci debitori insolventi.  Per confortarsi e placare gli ascoltatori, così aggiunge : “…  Ma in sostanza che cosa vanno cercando questi miserabili ? porteranno al campo le donne ? e come potranno farne a meno, ora che le notti sono già così lunghe  [non dimentichiamo che il discorso avviene in giornate come quelle in cui sto scrivendo, ovvero nella prima decade di novembre] ?  e come affronteranno le brinate e le nevi dell’Appennino ? a meno che non pensino d’esser adatti a sopportare il freddo meglio degli altri per aver danzato tante volte nei festini senza niente addosso…” [46].

Perché li descrive in questo modo ?  Nel sarcasmo e nella diffamazione serpeggia in lui la paura, che cerca di esorcizzare in questo modo. Ma anche per dimostrare alla plebe che ascolta, come sarà facile batterli e scoraggiare così eventuali tentativi all’interno della città.  Solo, ripeto, chi avrebbe potuto credere a questa teatrale rappresentazione    da commedia, conoscendoli nella loro realtà ?  Lo stesso Cicerone deve ammettere che le voci circolanti sull’episodio non erano poi tutte a favore delle sue azioni, e come dovrà poi ammettere qualche anno dopo, si trattava di uomini di ben altra tempra.  Sotto un certo aspetto, Cicerone è realistico, contrappone le forze regolari di cui Roma e i municipi d’Italia dispongono a quelle, forse numerose, ma mal combinate, addestrate, equipaggiate, di Catilina.  Più avanti elenca i provvedimenti presi soprattutto a Roma:  ora anche qui emerge la contraddizione.  Se gli uomini di Catilina fossero stati quei poveri disgraziati che descrive, se le forze da contrapporgli erano così sicure,  come mai è costretto a predisporre misure di sicurezza perfino nella città ?  evidentemente perché il successo non era ancora così accertabile.  Qui cita pure i gladiatori, verso i quali, per non ripetere una seconda rivolta di Spartaco, dice di aver assunto misure per reprimere ogni tentativo iniziale.  Conta sulle capacità di Quinto Metello Celere per reprimere ogni tentativo di Catilina di ricongiugersi ai Galli (transpadani e narbonensi, ovvero dell’Italia settentrionale e dell’attuale Provenza), turbolenti e bellicosi per definizione.  Un ricongiungimento tra queste popolazioni e il resto delle forze catilinarie in Italia poteva essere esplosivo, ed infatti dice che questa terribile rivolta, quale mai poteva avvenire in Italia, sarebbe stata soffocata da lui, da un comandante civile, togato, e non da un militare, senza eccessi repressivi.  Anche qui si nota una certa spacconerìa visto che aveva pur dichiarato che le forze armate regolari avrebbero avuto facile ragione di una turba di rabbiosi e disordinati viziosi.  Ma evidentemente si prende il merito (come pure la responsabilità) di tutto ciò che sta facendo.  Conclude la sua roboante tiritera con i segni miracolosi degli dèi ed esorta alla preghiera.

Il 3 dicembre del medesimo anno, pronuncia la Terza Catilinaria, sempre nel Foro al popolo riunito.  Dice di aver salvato Roma dalla rivolta.  E come ?   Qui entra in gioco l’azione di Publio Lentulo, il capo del gruppo romano.  Costui, rimasto a Roma, con altri congiurati [47], era in contrasto con Catilina per l’utilizzazione degli schiavi nella rivolta.  Lentulo, come risulta dalla lettera intercettata dagli agenti di Cicerone, invitava Catilina a rivolgersi agli “infimi”, alludendo appunto agli schiavi, anche se non è accertato in modo assoluto (potevano essere i cittadini romani più poveri, ma evidentemente il segnalare questo punto da parte di Cicerone, come di Sallustio, è indicativo dell’alta probabilità che si trattasse appunto degli schiavi).  Lentulo vuole formare un’alleanza fra cittadini romani liberi e poveri con gli schiavi.  Catilina non accetta questo, probabilmente perché capisce che i ricordi della rivolta di Spartaco incombono ancora e sarebbe stato controproducente.  E’  pure probabile che distiguesse tra gli schiavi per debiti e gli schiavi di guerra, come appunto era stato Spartaco,  Ma  Lentulo vuole fare anche politica “internazionale”.  Cerca dunque contatti con un’ambasceria di Galli Allobrogi (nelle attuali Savoia e Val d’Aosta), ma sarà questo suo grossolano affidarsi e contare su chiunque a tradirlo.  Lentulo era uomo ambizioso, ed appartenendo alla famiglia dei Corneli, riteneva di essere destinato a diventare console egli stesso.  Si può desumere, anche dal successivo discorso di Catilina il giorno della battaglia, che egli fosse un estremista verboso, ma alquanto confusionario.  Si dimostra poco cauto in tutto, e Cicerone, da ottimo capo di Polizia, riesce a far cogliere in flagrante gli Allobrogi, grazie alla loro collaborazione (i Galli sperano di averne dei riscontri se il console vince), in trattativa con Lentulo ed altri; inoltre intercetta numerosi messaggi,  inviati a Catilina dai congiurati rimasti a Roma;  si tratta probabilmente di informazioni sui preparativi di difesa in città, spostamenti di truppe e, soprattutto, esortazioni a Catilina a muoversi. C’è in effetti una reciproca confusione, a quanto può risultare dai testi:  Lentulo, Cetego ed altri si aspettano che Catilina marci su Roma, come avevano fatto Mario, Silla e avrebbero fatto Cesare e Marco Antonio (ma questi avevano a disposizione legioni complete ed addestrate, mentre Catilina aveva forze poco preparate ad una guerra campale).  Catilina viceversa organizza una sorta di guerriglia o di preparazione a questa, aspetta la rivoltà a Roma, che getti nel caos le difese interne, per poi scendere a sud.  Due strategie diverse, ma appare evidente che Catilina si rendeva conto di non poter utilizzare forze tali da affrontare legioni regolari, ancorché non veterane come quelle allora in oriente.  Sta di fatto che Lentulo si fa scoprire con facilità da Cicerone, non manda a Catilina lettere in codice, ma facilmente comprensibili e, per giunta, con i suoi sigilli riconoscibili.  Era facile per gli agenti di Cicerone arrestare i messaggeri, far loro consegnare con la forza  il messaggio scritto, le cui caratteristiche  esteriori riportavano appunto a Lentulo.  Il resto era un gioco abbastanza facile, costringendo Lentulo, Cetego ed altri capi catilinari di Roma a riconoscere i sigilli e a far confessare il resto.  Più o meno la descrizione è confermata da Sallustio, per cui è facile vedere che la sua fonte, più forse altre a noi ignote (la maggior parte dovevano essere versioni orali e non scritte), erano le stesse Catilinarie.  Si parla anche di uno scontro in occasione dell’incontro con gli Allobrogi, il che chiarisce, con la resistenza armata, la natura illegale di quell’incontro, così i partecipanti vengono arrestati.  Seguono convocazioni di Statilio (uno dei capi), Cetego, ed infine Lentulo.  Curiosamente Cicerone, riferendosi a questo, dice che Lentulo nella notte precedente non aveva dormito, per scrivere la lettera (in realtà poche righe, già sopra citate)“contrariamente alle sue abitudini”.  Lentulo dunque non era di quelli che si davano alle lussurie notturne con donnacce ed efebi ?

Per essere al sicuro da accuse di abuso, Cicerone convoca addirittura i senatori, fa perquisire la casa di Cetego ad opera dl pretore Sulpicio, e vi si trova un “ingente deposito di pugnali e di spade”. Volturcio, con promesse di impunità, confessa di essere stato incaricato della trasmissione di quella lettera a Catilina, dove appunto lo si esortava a far insorgere gli schiavi.  Qui il console accusa Lentulo di voler essere il terzo Cornelio, dopo Cinna (mariano) e Silla, ad impadronirsi di Roma: parla addirittura di “regnum” , nel senso odiato dai Romani, di potere assoluto e dispotico (com’era stato quello di Silla che, tuttavia, alla fine si dimise dal potere e morì del tutto sereno e tranquillo, malgrado le proscrizioni e i massacri, che gli furono addebitati contro i mariani).  Cetego poi, secondo Cicerone, cercò prima di giustificare la armi dicendo di esserne collezionista (!!!), poi però di fronte alle continue prove, ovvero altri messaggi in tavolette di cera per esortare gli Allobrogi alla rivolta,  messe in mostra, tace del tutto.  Infine anche Lentulo viene interrogato sui messaggi intercettati.  Lentulo, a difesa, si rivolge agli Allobrogi, forse sperando che neghino il progetto di azione comune, ma questi confermano.  Alla fine, anche Lentulo confessa.  Infine tocca a Gabinio. Tutti, di fronte all’irrefutabilità degli atti e delle testimonianze degli ambasciatori allobrogi, appaiono ormai schiantati, con gli sguardi a terra o reciprocamente furiivi    Come si era anticipato, i nove congiurati catturati vengono sottoposti a custodia cautelare presso cittadini sicuri [48].

Va rilevato a questo punto che la procedura utilizzata da Cicerone è tuttora di estremo interesse: egli, come detto, agisce da ottimo capo di Polizia, che non procede ad arresti indiscriminati, per poi ricavarne confessioni più o meno forzate, ma inserisce suoi agenti e doppiogiochisti tra le file avversarie.  Opera con una catena di informatori e confidenti da fare invidia alle Polizie moderne. Anche qui si dimostra come la Roma repubblicana fosse stata un gioiello di organizzazione.  Grazie a questa sua opera, dove le capacità di analisi filosofica coincidono esattamente con quelle di investigazione scientifica, di alto livello per i tempi, ma anche modello valido tuttora, egli riesce nell’intento dimostrativo per quanto riguarda la congiuura.  Cicerone non disponeva certo dei mezzi tecnici d’oggi, ma sapeva seguire le sue piste, e trovare le prove senza fatica eccessiva, ma con molta costanza.  Così ha dalla sua tanto testimonianze mal confutabili, quanto prove materiali precise (armi e lettere).  Una volta avuto in mano tutto questo, entra in azione e sgomina l’organizzazione avversaria.  Certo, fu facilitato dalla superficialità del gruppo lentuliano, troppo propenso a mandare in giro lettere con tanto di sigilli personali e  disinvolti tentativi di avvicinare persone poco affidabili da un punto di vista ideologico e politico.  Pur ammettendo tutto ciò, bisogna riconoscere con obiettività che l’opera di Cicerone fu veramente attenta, prudente ed efficace.  Non altrettanto può dirsi per l’altra fase in cui agisce, non più da capo di Polizia, ma da giudice.

La quarta orazione contro Catilina ed i suoi viene pronunciata due giorni dopo, ovvero il 5 dicembre del 63 a. C., tenuta al Senato nella sede, che doveva vessere abituale, del Tempio di Giove Statore.  In quel periodo Catilina è ancora in Etruria tallonato da due eserciti. La città, malgrado la cattura del gruppo lentuliano, era ancora in fermento.  Cicerone, non più al popolo, ma ai senatori, cerca di spiegare il proprio operato, sempre calcando sui sentimenti, soprattutto di paura, di odio e di vendetta.  A sentire le sue descrizioni dei due giorni trascorsi, non rivela per nulla la tranquillità dei cittadini, dei familiari, dei senatori.  Certo, esagerazioni, perché per dirla con Omero, la bilancia di Giove ormai pendeva a favore di Cicerone e della dirigenza governativa.   E nondimeno la consapevolezza che Catilina fosse tutt’altro che un avversario da deridere, appariva chiara. Probabilmente, malgrado la stagione di autuno avanzato, si temeva un continuo afflusso di ribelli, specialmente schiavi e persone ormai in miseria, prossime a diventarlo.  Ma si temeva amche il sordo brontolìo della plebe romana che voleva la liberazione dei lentuliani, o vendicarsi per il loro arresto.  La partita che, per dirla in termini calcistici, era 1 : 0, a favore del console, nondimeno era tutt’altro che finita.  Cicerone, ripetute in quella sede le prove acquisite, e mette ai voti le deliberazioni proposte per punire i rivoltosi.  Secondo Duilio Silano, dovevano essere prontamente uccisi;  secondo Gaio Giulio Cesare (da taluni considerato complice, in realtà cercava di guadagnarsi demagogicamente il favore del popolo),  dovevano essere lasciati vivi, ma incarcerati in varie località e con la confisca di tutti i loro beni [49]. Stando a Cicerone, e a Sallustio, sembra che il Senato fosse titubante, non certo verso i rei, ma per timore della reazione popolare.  Chi spingerà la maggioranza ad orientarsi verso la pena di morte, inflitta rapidamente  senza rispettare le procedure, sarà Catone, detto il Giovane, poi l’Uticense, uccisosi quando Cesare riuscirà a vincere le ultime resistenze dei Pompeiani.   Cicerone attribuisce proprio in tale occasione a Casare l’appartenenza al partito popolare, ma sottolinea pure che proprio i popolari espressero lodi e rigraziamenti per la rapida repressione del moto catilinario.  Ricorda ancora la legge Sempronia, stabilita a seguito della morte dei Gracchi,  tutelava i cittadini romani, ma i nemici del popolo romano, come dichiarati dal Senato, perdevano automaticamente ogni diritto di cittadinza e, quindi, le garanzie giudiziarie.  Per essere più convincente, il console ricorda ai senatori che Catilina è ancora libero ed in armi, e potrebbe minacciare la città:  segnala che, se arrivasse, non sarebbe più sicura nessuna matrona romana, né le madri, né le figlie, né le vergini, neppure gli adolescenti  (ah, ma che vizioso !), ed infine nemmeno le Vestali, le sacerdotesse del sacro fuoco di Vesta, doverosamente caste.  Tutte potevano essere violate (altro che Berlusconi e i suoi bunga-bunga !!!).  Il console elenca pure tutte le forze mobilitate in difesa del Senato e dei consoli, in caso di tumulti popolari, anche se poi sostiene che, a loro favore, erano tutti unanimi (ed allora perché tante preoccupazioni ?).   Si aspetta dunque un voto favorevole per la morte onde intimidire ogni eventuale ribelle e le stesse forze di Catilina che ancora attendono la rivolta in Roma [50].

L’intervento di Catone, a favore della morte, anzi dell’immediata esecuzione dei congiurati in arresto (il gruppo lentuliano, ma ben altri oltre a quei nove, dovevano esservi, e di cui parla pure Cicerone),  è decisivo.  Catone propone che, per tener tranquilla la popolazione ancora in fermento, si concedesse in via straordinaria una frumentatio, una cessione di grano gratuita o a prezzi bassissimi.  Come si vede, il motto “panem et circenses”  invocato dalla plebe per gran parte della storia dell’Impero, era già una forte arma politica.  Non vi era ovviamente più una coscienza civica piena (se mai vi fosse stata) nella cittadinanza più numerosa e povera.  Se erano in rivolta, se protestavano, ecco la consegna di un “piatto di lenticchie”, e tutto passava nel dimenticatoio, compreso lo sdegno per la cattura di gente che, ben o male, si era battuta per il loro interesse.  Il marcio quindi dell’Impero viene già da questo periodo.  Ci si accontenta di promesse, di benefici casuali e provvisori, enorme difficoltà nel capire che la soluzione dei problemi sociali fosse ben più complessa.  Di qui comincia a fornarsi, almeno relativamente ai documenti che abbiamo, quella mentalità del facile accontentamento che caratterizza la storia d’Italia anche, ahinoi, contemporanea ed attuale. Una radice malefica che dura da oltre 2000 anni.

La questione straordinaria (il termine è tecnico nel Diritto penale romano), che oggi diremmo contemplasse reati che dal nostro vigente Codice Penale sono così qualificati proprio all’inizio del Libro Secondo: attentati contro l’integrità dello Stato, portare le armi contro lo Stato, istigazione ai militari a disobbedire alle leggi, associazioni sovversive e con finalità di terrorismo, apologia sovversiva, attentato contro il capo dello Stato, attentato per finalità terroristiche, attentato contro la Costituzione, insurrezione armata, devastazione saccheggio e strage, guerra civile, usurpazione di comando militare, venne risolta con rapidità.   I prigionieri vennero condotti al Carcere Tulliano o Mamertino (antica cisterna etrusca) dove, nel buio vennero strangolati ad uno ad uno:  stessa fine compiuta con Giugurta e più tardi Vericingetorige.  Al popolo ammassatosi per chiedere l’integrazione processuale con l’appello al popolo (ultima istanza) davanti ai Comizi,  Cicerone apparve pronunciando un solo verbo (proprio lui, sempre così facondo) di sinteticità cesariana o laconica :  “Vixerunt”  (“vissero”, nel senso che era inutile protestare, ormai l’atto decisivo era compiuto:  l’esecuzione sommaria dei congiurati).   Il popolo, confortato dalla frumentatio,  rinunciò in quel momento a reagire con la violenza.  Il colpo dato pareva decisivo.  In realtà, non lo fu affatto e Cicerone scontò poi questo atto nel resto della sua vita, prima con l’esilio e la confisca dei beni imposti dal tribuno Publio Clodio per l’rregolarità della procedure, poi più tardi dalla tardiva vendetta di Marco Antonio che lo fece decapitare, con l’assenso di Ottaviano.  Occorre ricordare che in base a tre leggi, la Valeria, la Porcia e la Sempronia (queste denominazioni derivano o dal propositore o dal console che le attuava), imponevano che ogni cittadino romano, di fronte a reati molto gravi che prevedevano la pena di morte, aveva diritto alla “provocatio ad populum” (letteralmente, “chiamata davanti al popolo”, ovvero appello), quindi di essere ri-giudicato in ultima istanza.  Cicerone, nel corso della “Quarta Catilinaria”, aveva detto che tale legge valeva bene per i cittadini romani, non per coloro che non venivano considerati più cittadini, ma anzi “nemici del popolo romano”: questo, a parere di Cicerone quale giurista, faceva perdere loro ogni diritto costituzionale ed ogni garanzia giudiziaria.  Nondimeno, le cose non dovevano essere interpretate in questo modo, visto che poi Clodio riuscì (corrompendo i giudici, secondo Cicerone, ma questa è una tesi discutibile in quanto faziosa) a farlo condannare all’esilio, per essere reintegrato dopo la morte di Clodio stesso.  Infatti, c’era un giro vizioso nel ragionamento di Cicerone e dei senatori a lui fedeli:  per poter dichiarare“nemico del popolo romano” qualcuno, occorreva sottoporlo ad un processo in cui l’imputato si sarebbe potuto difendere.  Vediamo invece che i lentuliani vengono bensì arrestati, ma il processo, discusso appunto nel Senato, non previde una difesa degli imputati, non poterono neppure tentare di giustificarsi. Arrestati ai primi di dicembre, già il 5, massimo 6 novembre, vengono trucidati. Ovviamente si tratta di situazione indubbiamente eccezionale, ma è dichiarato dallo stesso Cicerone, che ne fa ripetute apologie, l’esecuzione era sommaria, anche di semplici sospettati di rivolta, o di sovvertimento delle istituzioni (a causa di proposte di legge favorevoli alla massa dei poveri),  che le regole processuali non dovevano venir eseguite.  Il Senato quindi dimostra di aver agito in modo illecito, difendendo non tanto Roma, o la popolazione, o le vergini, o gli adolescenti  come tuonava il console, ma semplicemente il proprio potere oligarchico.   Di qui, la relativa pace sociale stabilita da Silla, con misure durissime, viene a crollare del tutto e ad avviare la Repubblica Romana verso nuove guerre civili, all’instaurazione prima di una forma velata di monarchia semi-assoluta, ma formalmente elettiva;  quindi a divenire un Impero retto da muilitari che decidevano su chi nominare “imperator”, in origine semplice comandante vittorioso meritevole del trionfo, poi divenuta carica a tutti gli effetti monarchica, ancorché sempre formalmente elettiva fino alla fine dell’Impero d’Occidente (476 d.C).,  Tale elettività del resto fu ereditata perfino dal Sacro Romano Impero fondato da  Carlo Magno (800 d. c.) e crollato sotto Napoleone (1806)  [51].

Riprendiamo, dunque, la narrazione sallustiana, che ho interrotto per dare alla versione ciceroniana nel vivo della vicenda la dovuta priorità, altrimenti si doveva andare e tornare in modo un po’ disordinato, oltreché ripetitivo  Siamo al punto in cui Cicerone pronuncia e conclude il suo forte atto d’accusa.  Sallustio, a differenza di altri, non ne riporta il testo, nemmeno in modo riassuntivo: questo per il fatto assai probabile che essa era disponibile e consultabile per gli interessati, non altrettanto poteva dirsi per scritti o testi tramandati di Catilina, probabilmente già distrutti (quando Sallustio scrive le sue opere, Cesare era morto, per cui si parla del 44 a. C.),  e quelli dei due futuri rivali Cesare e Catone.  Sallustio si limite a definire la “Prima Catilinaria”  quale “orazione magnifica ed utile alla Repubblica” :  evidentemente ne apprezzava sia la forma che i contenuti.  Sallustio ora non riporta il discorso di Catilina in risposta, che molto probabilmente dovette essere assai ironico. Lo storico romano, anche per seguire l’immagine di un Catilina “simulatore e dissimulatore”, sostiene che all’inizio il tono sembrava contrito, scongiurava i senatori di non dar credito alle voci calunniose su di lui, in quanto aveva sempre beneficato i poveri, ma qui il tono cambia (il discorso è sempre indiretto).  Egli, vero romano di nobile stirpe,  non aveva certo aspettato per i suoi benefici un Cicerone, un “inquilino della città di Roma”.  Se fosse un romano d’oggi, direbbe (forse) con la classica spocchia “So’  romano de Roma, non un burino come te, Marco Tullio…” con questo console venuto dalla provincia di Frosinone a dettare legge.  Beninteso, le parole citate non furono queste, ma reinterpreto il senso, perché il passaggio del tono apparentemente umile allo sprezzante sarcasmo dimostra come Catilina considerasse il suo rivale.  Riporto ora quanto scrive Sallustio nella citata traduzione, dove si vede che l’uomo, benché completamente solo in quel momento tra irca 900 senatori: “… Poiché seguitava a proferire contumelie, si levarono clamori, lo chiamarono nemico della patria, parricida, ed egli allora furente ‘ Ebbene  - gridò [il testo latino propriamente dice “inquit” ovvero “disse” e non “gridò”: questo denota il suo sangue freddo, malgrado la frase successiva] – poiché mi vedo circondato da nemici e spinto nel precipizio [è un’aggiunta della traduttrice:  Catilina dice “praeceps”, ovvero  “sono minacciato, spinto con violenza, cacciato…”]estinguerò il mio incendio con una catastrofe’…” [52].

Anche qui la traduzione non rende bene la frase:  più che minacciare Roma di incendio, cone vorrebbero far credere i suoi nemici e i loro traduttori al seguito, Catilina sostiene che, essendo evidentemente accerchiate da persone tutte preventivamente orientate contro di lui (anche se ciò doveva immaginarselo), non  avrebbe esitato ad andare fino in fondo nell’azione già decisa.  Esce dunque rapidamente dal Senato, senza che alcuno osi interporsi, e nondimeno se nelle mani di Cicerone vi fossero state quelle prove che diceva (e che viceversa avrebbe avuto soltanto con i documenti in mano agli Allobrogi e alla loro testimonianze) avrebbero dovuto bloccarlo.   Non era forse il Semato circondato da uomini in armi come Cicerone stesso aveva declamato all’inizio dell’orazione ?  Eppure nessuno lo ferma né in quel momento, né poi.  Anzi, Sallustio sostiene che egli riflettè a lungo sullo svelamento della congiura e questo rendeva impossibile una rivolta in città. Sempre Sallustio sostiene che allora Catilina decide di partire ed avviarsi verso Fiesole per riunirsi alle forze di Gaio Manlio, prima che Cicerone potesse mobiliate le sue (ma non erano gà mobilitate ?). Ordina quindi ai suoi seguaci Lentulo e Cetego di preparare la città alla rivolta, ma già sappiamo come essa andò a finire.  Intanto, Gaio Manlio, in attesa di Catilina e incerto sulle notizie che, ben o male arrivano da Roma, scrive a Quinto Marcio Re la già ricordata lettera, in cui giustifica la sollevazione in armi dei poveri a causa degli usurai e dei pretori, ma chiede che siano assunte misure a favore dei debitori.  Minaccia in caso contrario l’azione bellica.  Marco Re gli replica di deporre le armi, e di presentare suppliche, ma ben sapendo come la faccenda poteva concludersi, non se ne fece nulla.  Catilina stava arrivando.    Qui, sempre sulla base delle affermazioni ciceroniane riprese anche da Sallustio, Catilina cercò di ingannare il Senato avviandosi per la Via Aurelia (che notoriamente  percorre la costa in prossimità del mare) invece che per la Cassia.  In realtà ci si dimentica il fattore geografico e quello climatico.  In linea d’aria, per raggiungere Fiesole la Via Cassia era sicuramente più breve e diretta, ma in realtà percorreva, come ora, territori collinari e montuosi.  Si era inotre in novembre, e, come lo stesso Cicerone dice,  il tempo meteorologico era piuttosto tendente al freddo.  Se Catilina avesse voluto, come sostengono altri, recarsi a Marsiglia in esilio, avrebbe mandato un messaggio a Manlio consigliando di sciogliere le forze ed attendere momenti migliori [53].  Certo  Catilina aveva anche un altro motivo per percorrere l’Aurelia fino ad arrivare alla valle dell’Arno e risalire fino a Fiesole (notoriamente vicina all’attuale Firenze), per riunirsi alle forze ivi raccolte.  Ormai le carte erano scoperte, Catilina sapeva benissimo che non lo avrebbero lasciato in pace, attentatori (come scrive a Quinto Lutazio Catulo) inviati da Cicerone, lo tallonavano lungo la strada, dimostrando che il Senato non aveva alcuna intenzione di lasciarlo vivo e tranquillo, benché in quel momento la realtà rivoluzionaria del suo movimento non era ancora del tutto assodata.  E’  lungo la strada che Catilina manda a Quinto Lutazio Catulo la lettera in cui gli raccomanda di proteggere la propria moglie Orestilla da eventuali vendette:  di che poi successe alla donna, nessuno dice nulla.  Catilina dunque arriva fino ad Arezzo con Gaio Flaminio e da lì punta su Fiesole.  Intanto Senato e consoli decretano Catilina e Manlio nemici di Roma, fissano un ultimatum verso i loro sostenitori affiché si arrendano senza grosse punizioni,  ma Sallustio osserva, in contrasto con quanto asserito da Cicerone sulle sei categorie di aderenti : “… eppure, vi furono cittadini pervicacemente decisi a perdere se stessi e la repubblica.  Infatti, ad onta dei due decreti del Senato, non vi fu uno da tanta massa di popolo che, allettato dal premio, rivelasse qualcosa su la congiura, né uno che disertasse dal campo di Catilina:  tanta era la virulenza del male…”[54].

I Catilinari, dunque, erano gente di tempra dura, altro che viziosi finiti per caricarsi di debiti. Sallustio, pur ex-cesariano ed appartenente al “partito popolare” (non quello democristiano, per carità, quello demagogico-militarista alla maniera dei Mario e dei Cesare), vede anch’egli come fumo agli ochi i ribelli di Catilina ma, sia pure a denti strettissimi, deve riconoscere che non erano facili da manovrare.  Infatti,  aggiunge ancora che non solo i fuoriusciti erano “alienati”, ma  anche la plebe romana (probabilmente artigiani, modesti lavoratori manuali, proletari)  approvava   - egli dice -  le iniziative di Catilina.  Poi, seguendo Cicerone, classifica negativamente tutti questi simpatizzanti, la cui maggioranza, tuttavia, non doveva essere politicamente attiva, ma solo elettori nei concilia plebis e nei Comizi Tributi.  Rimesso in vigore il tribunato da Pompeo e Crasso, sostiene lo storico romano,  molti giovani seguivano quella strada riprendendo l’azione riformatrice graccana.  Allontanatosi Pompeo per la guerra contro Mitridate, re del Ponto (l’attuale Mar Nero, sulla costa turca),  molti di questi ne approfittavano per sobillare la plebe e tenere sotto controllo gli avversari.  Anche Sallustio ribadisce che, se Catilina e i suoi avessero vinto,  vi sarebbero stati massacri terribili, ma qui non fa che ripetere la roboante propaganda ciceronina, tanto è vero che nessuno di questi sostiene che, durante la permanenza dell’esercito catilinario a Fiesole e durante gli ultimi due o tre mesi di preparazione, venisse commessa una qualche violenza sulle popolazioni o sui capi locali.  Erano indisturbati e non disturbavano.  Non hanno commesso  né stragi né violenze, né incendi;  nondimeno arrivando alle migliaia di combattenti, qualche danno avrebbero potuto farlo, Neppure risulta che guarnigioni isolate venissero distrutte [55].  Ma su eventuali masacri o incendi reali, non una parola da parte nemmeno di Cicerone o di Sallustio, o di chi sia.  Sallustio poi si ricollega ai fatti della città, già visti con Cicerone.  Narra, senza differenze significative, del tentativo di attrarre nelle operazioni insurrezionali gli ambasciatori degli Allobrogi e del tradimento che costoro, fosse per paura del consolato o perché non approvavano una simile azione, diffidenti dei ribelli di Lentulo, dopo una prima apparente adesione, compirono svelando il tutto, tramite il loro patrono (protettore) Quinto Fabio Sanga, a Cicerone, ma non solo,  collaborando attivamente per “incastrarli”, facendoli cogliere sul fatto.   Repressione del movimento avviene pure nelle Gallie, cisalpina o transpadana  (la “Padania” di Bossi) e nell’attuale Provenza, o Gallia Transpadana (la conquista dell’intera Gallia doveva avvenire solo più tardi con Cesare).  Il moto risulta facilmente reprimibile proprio per la fretta, e talvolta (come a Roma)  per una certa disinvoltura nell’azione, tattiche sicuramente superficiali, ma comprensibili, visto che organizzare insurrezioni era qualcosa di poco sperimentato. Era facile, dunque scoprirsi, all’occhio attento dei militari romani.  Si è già parlato di Roma e dell’abile repressione compiuta da Cicerone:  Sallustio non aggiunge cose diverse, per cui è facile dedurre che utilizza, oltre che la propria ed altrui memoria diretta dei fatti, anche la fonte ciceroniana.  Compiuti gli arresti di Lentulo e compagnia, questi vengono condotti in Senato [56], per quella specie di processo (in realtà un semplice interrogatorio), già descritto.  Di Lentulo in particolare si sottolineano le sue ambizioni, più che politiche, in quanto si diceva (anche Cicerone lo afferma) che, stante una profezia dei Libri Sibillini (ovvero della Sibilla  Cumana),  Roma sarebbe stata dominata per la terza volta da un appartenente alla gens Cornelia, di cui faceva parte Lentulo. Egli quindi si sarebbe considerato il terzo Cornelio che avrebbe avuto pieni poteri in Roma, dopo Cinna (mariano) e Silla.  Ovviamente, non avendo altre fonti a disposizione, non si può dire se tale dicerìa corrispondesse o meno alla convinzione di Lentulo, ma considerato il suo comportamento, può ritenersi attendibile che egli si considerasse il futuro e prossimo dominatore di Roma  (i Romani, è noto, erano abbastanza superstiziosi, malgrado il loro grande senso pratico ed organizzativo, quindi nulla di strano sulle aspettative di Lentulo;  si può supporre, per induzione, che questo fosse anche motivo di frizione con Catilina, il vero organizzatore della rivolta).

Sallustio, altresì, descrive anche l’accusa fatta contro Crasso e Cesare, relativamente ad una partecipazione alla congiura, e aggiunge che Cicerone, in base ad alcune pressioni, fa considerare tale Lucio Tarquinio (anche questo di lontana ma evidente origine etrusca) testimone non solo inattendibile, ma pure lo minaccia di arresto se non ritratta (come si vede, nihil sub sole novi). Questo Tarquinio sosteneva la complicità di Crasso, mentre Quinto Catulo e Gaio Pisone sollecitavano Cicerone ad incolpare Cesare, addirittura (sostiene il cesariano Sallustio) tentando di corromperlo (anche qui nihil sub sole novi).  Ma Cicerone risultò su questo piano irremovibile, malgrado Cesare fosse già in odio a molti, come si vedrà dopo il suo discorso legalitario in Senato. Sia Pisone, sia Catulo (che doveva essere quello stesso a cui Catilina raccomanda la moglie Orestilla) avevano motivi d’odio personale verso Cesare, sia per ragioni politiche che giudiziarie.  Sallustio sostiene che, uscendo dal Senato dopo l’intervento (ricordato da Cicerone) per il rispetto delle norme sull’esecuzione di condanna a cittadini romani (egli prevedeva una forma di ergastolo, nonché di “domicilio coatto” o “confino”, per i Lentuliani),  Cesare ricevette minacce a mano armata da parte di individui non precisati [57].    Come ho più volte ribadito, l’accusa a Crasso e Cesare di aver partecipato alla congiura, fondata unicamente su una certa collaborazione elettorale precedente la stessa, deriva dalla visione dei “partiti“ romani come una sorta di raggruppamenti anglosassoni, conservatori da un lato (pro Senato ), “popolari” (pro classi povere) dall’altro.  Le diverse strategie utilizzate dimostrano che non esisteva un “partito popolare” unico, ma forze democratico-rivoluzionarie e forze demagogico-militariste, con il solo obiettivo comune di indebolire fortemente il potere del Senato, per divergere poi su tutto il resto.  Questa impostazione elimina alla base il sospetto che Crasso e Cesare, come ritiene qualche storico ingenuo,  fossero stati “catilinari” o che Catilina fosse stato un prototipo per il modello “Cesare”.

Sallustio poi riporta i discorsi, probabilmente abbastanza vicini all’autenticità, sia di Cesare (allora trentasettenne), sia di Marco Porcio Catone (ancora più giovane del primo), il primo dove appunto si propongono soluzioni non cruente per le condanne, pur durissime, da infliggere ai congiurati [58]. Il secondo, viceversa si richiama, come pena, alla morte per direttissima, secondo il mos maiorum(il costume degli antenati, praticamente in riferimento alla spietatezza delle XII Tavole), che prevedeva di trattare ribelli o traditori senza alcuna garanzia procedurale.  La proposta di Catone trionfa e la sentenza viene applicata con rapidità mediante strangolamento.  Il curioso è che, per questa condanna, pagò solo Cicerone in persona, mentre Catone, colui che fece decidere il Senato, non subì alcuna persecuzione, se non alla fine, a causa del suo affiancamento a Pompeo e alla conseguente disfatta dei pompeiani e senatoriali (anche qui spesso identificati in un unico gruppo). In realtà,  Catone non era un “pompeiano”,  bensì un sostenitore del supremo potere del Senato, che non doveva coincidere in nessuna persona fisica particolare, e pertanto avversario di Cesare, quanto, sia pure in modo minore di Pompeo.   E’ anche interessante rilevare che Cesare argomenta pure in senso della filosofia del Diritto, probabilmente sulla base di precedenti argomentazioni greche:  egli osserva che la pena di morte, troncando rapidamente le sofferenze del condannato, non è certo proporzionale alla gravità dei reati contestati ai Lentuliani.  Dunque, è più opportuno far pagare loro i delitti per il resto della loro vita, piuttosto che eliminarli immediatamente.  Questo ragionamento, mutatis mutandis, si ritrova niente po’  po’ di meno che in Cesare Beccaria, proprio trattando della pena di morte,  più di 1700 anni dopo !   Così nulla di cui meravigliarsi se Quintiliano, circa un secolo dopo rispetto a Cesare, segnala l’inutilità della tortura per carpire informazioni, con argomenti per nulla dissimili da quelli di Beccaria.  E questo, tanto per dimostrare come certi princìpi siano frutto della razionalità umana, molto prima di quanto ci aspetteremmo, e nondimeno sempre disattesi per ragioni di comodità procedurale o di vero e proprio sadismo di chi condanna.   Altra cosa è la vendetta, ben altra l’applicazione della razionalità, se non della Giustizia, in questioni processuali [59].

Sallustio annota che degli arrestati furono strangolati Lentulo, Cetego, Statilio, Gabinio e Cepario. Altri tre dei capi restanti, sembra riuscissero a fuggire, senza che poi se ne parli più.  Intanto Catilina riordina le proprie forze riuscendo a costituire due legioni, per un totale ipotetico di 6000 - 8000 uomini.  Si discute in merito al numero esatto, ma si può ben capire che, trattandosi di forze non regolari, non potevano corrispondere all’organico formale del tempo (dai 4000 ai 6000 legionari per ciascuna legione).  Altri, senza regolare armamento ed equipaggiamento, dovevano presumibilmente costituire bande irregolari, piuttosto adatte a forme di guerriglia che non a scontri in campo aperto.  Alontana gli schiavi, in quanto, secondo Sallustio, non voleva associare la causa dei cittadini poveri con quella di schiavi (da presumere ex-prigionieri di guerra o acquistati, non cittadini caduti in schiavitù per debiti:  ma questa distinzione non è certa).  Temeva probabilmente rigurgiti di “spartachismo” e conseguenti timori delle popolazioni, oltreché motivi disciplinari. Tutto ciò però è ipotesi in quanto né Sallustio né altri entrano in dettagli, ma un allontanare gli schiavi, dopo averli prima accolti, con quella motivazione sembrerebbe un tantino contraddittorio.  Tallonato dalle legioni regolari, Catilina, per almeno due mesi, si sposta tra i monti (il che suscita perplessità in quella stagione e in condizioni che in quell’epoca dovevano essere pressoché proibitive).   L’armata ribelle si sposta dunque da Fiesole verso Pistoia.  Se ne desume che segua strade irregolari, sia perché allora non sussistevano tutte le strade di oggi, sia per sfuggire all’inseguimento avversario, nella speranza di potersi spostare nella Gallia Cisalpina (oggi Lombardia e Piemonte), trovando sostegno nelle popolazioni galliche, ancora irrequiete.  Quinto Metello Celere, intanto,  dislocava forze dalla parte nord dell’Appennino, onde bloccarlo appena sceso a valle in direzione del Po.  Dalla parte sud, si muoveva, viceversa, Gaio Antonio, quello stesso che era stato suo alleato alle elezioni consolari.

Sapendo ormai di essere in “scacco matto”,  a Catilina non restava che affrontare il nemico più debole o, perlomeno, quello che gli era stato amico ed alleato fino a non molto tempo prima, ovvero Gaio Antonio,  e decide di affrontarlo militarmente proprio nei campi di Pistoia, nella zona presumibile della tuttora esistente strada che conduce al Passo della Porretta, ponendosi con le spalle alla catena montuosa per impedire ogni possibile accerchiamento.    Sa che ormai la partita è perduta, ma si tratta di reggere non solo l’onore militare di colui che si considerava un console legittimo, in quanto boicottato da brogli elettorali, ma anche perché non aveva alcuna intenzione di fare la fine di Lentulo, di cui era informato.  Aggiungo, prima di passare al suo discorso alle forze ribelli, discorso che segnala un temperamento d’acciaio e che Sallustio riporta non tanto nel senso dell’autentico testo, quanto per i contenuti (si presume riportati da spie, in quanto nessuno sopravvisse tra i catilinari, per poterlo riportare) e per l’atteggiamento,  che non è ben certo (causa i problemi di datazione tra diversi sistemi di calendario, tra quello attribuito a Numa Pompilio allora vigente, o quello di Cesare, che però sarebbe partito successivamente).  Infatti la maggoranza degli storici identifica nel 5gennaio del 62 a. C il giorno della battaglia;  altri nei primi giorni di marzo. Considerato che ai piedi dell’Appennino Toscano in gennaio non faceva caldo particolare (come ognuno sa, l’effetto serra è qualcosa di molto recente),  è difficile pensare che si combattesse tra una nevicata e l’altra, qualche valanga, scarsamente forniti di cibo;  né gli storici rilevano che l’allora popolazione di Pistoia rifornisse i ribelli con vivande e vino per scaldarsi, pur riconoscendo che il movimento in battaglia riscalda i corpi e i cuori, nondimeno appare difficle immaginare uno scontro in un periodo in cui, di solito, le truppe del tempo (e non solo) si ritiravano nei quartieri d’inverno. Quindi, a rigore di logica e di clima, è più ragionevole che lo scontro avvenisse ai primi di marzo, se non addirittura più avanti.  E’  pur curioso che gli storici fissino una data trascurando il passaggio ad un diverso sistema di calcolo, e pure le condizioni climatiche.

Tornando alla descrizione sallustiana, visto che era impossibile procedere verso nord (allo sbocco si sarebbero trovate di fronte le più agguerrite legioni di Metello Celere), che vi era qualche speranza che Gaio Antonio non dimenticasse la vecchia alleanza, benché solo elettorale,  Catilina decide di passare all’azione e quindi si rivolge ai suoi combattenti con un discorso secco, da comandante, e non certo con la pompa usata normalmente in Senato o in tribunale.  Lo riporto per una caratterizzazione psicologica del personaggio, il tocco finale, in quanto prova che l’uomo, ben lungi dal’essere un vizioso capo di viziosi, era persona tutta d’un pezzo, dal carattere intransigente e deciso: “ So bene, soldati, che le parole non infondono coraggio né fanno d’un vile un eroe [già l’attacco dimostra come fosse uomo di poche chiacchiere e poco portato a credere che basti la parola, ben ricamata, a trasformare in guerrieri dei pecoroni] e che il discorso del generale non rende valoroso un esercito di pavidi.  In guerra si manifesta il coraggio che ciascuno possiede per natura o per la sua formazione:  è inutile esortare chi non è stimolato dall’amore di gloria o dai pericoli,  la paura gli tura le orecchie… Come certamente sapete, soldati, Lentulo con la sua negligenza e la sua viltà [giudizio durissimo, forse anche motivato da informazioni non del tutto precisesottovalutando così l’abilità indiscutibile di Cicerone nel condurre l’opera di indagine e di repressione ] ha provocato un danno immenso a se stesso e a noi;  mentre attendevo rinforzi da Roma, mi era impossibile trasferirmi in Gallia.  Perciò in questo momento voi tutti vi rendete conto, quanto me, quale sia la nostra situazione. Ci sbarrano la strada due eserciti, uno sulla via di Roma, l’altro su quello della Gallia.  Anche se ci bastasse l’animo di restare più a lungo in questi luoghi, ce lo impedirebbe la scarsità di grano e d’altri generi alimentari [come testimonia Cesare nelle sue opere, il legionario romano si nutriva essenzialmente di pane],  in qualunque direzione si voglia andare, si deve aprire la strada con il ferro… vi invito ad essere forti e risoluti…, tener presente che il vostro braccio porta la ricchezza, l’onore, la gloria, e soprattutto la libertà e la patria.  Se vinceremo, sarà tutto nostro:  ci verranno date vettovaglie…, i municipi e le colonie [nel senso romano del termine, città fondate dai veterani romani in territori conquistati] ci apriranno le porte.  Se la paura ci farà retrocedere, tutto si volterà contro di noi…:  noi ci battiamo per la patria, la libertà, la vita;  a loro [i nemici] poco importa combattere per il potere di pochi [Catilina segnala ai suoi che gli avversari sono semplicemente dei mercenari, soldati in senso letterale, non volontari, non rivoluzionari, non idealisti]Siate dunque più arditi all’attacco, memori della virtù antica; avremmo potuto trascorrere la vita ignominiosamente in esilio;  alcuni di voi… vivere a Roma di carità… non si passa dalla guerra alla pace se non da vincitori… sperare salvezza nella fuga… è pura follìa.  Nei combattimenti, il maggior pericolo lo corrono quelli che hanno più paura:  l’audacia è la miglior difesa. Quando vi considero, soldati…, spero molto nella vittoria… I nemici non possono accerchiarci:  lo impedisce l’angustia dei luoghi.  E se la fortuna non vorrà favorire il vostro valore, badate a non cadere invendicati e piuttosto che farvi catturare per essere sgozzati come pecore, battetevi da prodi. E se lasciate ai nemici la vittoria, che sia pagata a prezzo di lutti e di sangue” [60].

Rude, chiaro, senza fronzoli, realistico:  il discorso di Catilina è da vero militare che spiega sinteticamente le ragioni del combattimento, incoraggia ma senza illusione e, soprattutto, dice alla fine:  se dovete essere sconfitti, che questa non sia per il nemico una passeggiata.  Se dovete essere uccisi, fatelo con l’arma in pugno, non come bestiame da macello.  Che non fossero solo parole, lo dimostra la descrizione di Sallustio.  Costui, come tutti gli storici romani, come ben più tardi Dione Cassio ed altri,  stima il coraggio anche nei nemici.   Se ha precedentemente mentito, mistificato sulla situazione, qui, come avverrà perfino nel poco coraggioso Cicerone, non riesce a mentire, e Catilina con tutti i suoi ne esce giganteggiando, come colui che, per un ideale, sa morire combattendo.  Non faranno la fine di Spartaco e dei suoi, a cui probabilmente molti di loro pensano, non finiranno barbaramente appesi ad una croce, o buttati nel circo in pasto alle belve:  muoiono tutti sul campo di battaglia, nessuno ferito alla schiena (ovvero in fuga), nessuno senza aver dato all’avversario altrettante perdite umane.

Intanto, Gaio Antonio, col pretesto di un attacco di gotta, se ne sta rintanato nella tenda e affida a Marco Petreio il suo luogotenente e veterano il comando attivo delle operazioni.  Anche questo è un comandante di poche parole, anche questo fa il suo bravo discorso, in cui qualifica gli avversari come “latrones” [61], gente facilmente battibile, gente che fuggirà non appena vedranno i legionari romani.   I due schierano le rispettive forze,  ma Catilina, coraggioso sì ma non fesso, si pone sulla parte alta del pendìo che sale fuori da Pistoia e con la montagna alle spalle, in modo che Petreio non possa accerchiarlo e infatti non ci riuscirà.  Allontana i pochi cavalli e organizza uno scontro di opposte fanterie.  Questo per parificare tutti nella medesina condizione, dal comandante al più umile gregario, in modo da servire da stimolo e da esempio.  Sull’ala destra  pone al comando Gaio Manlio, sull’ala sinistra un “tal Fiesolano”: il nome rimane ignoto, e si è incerti se fosse stato un Etrusco oppure un colono già sillano stabilito nella zona.  Catilina si pone al centro del proprio schieramento.   Sul fronte opposto Petreio si pone a cavallo ed incita le sue truppe, lanciando il segnale d’attacco. La battaglia comincia, i Catilinari, approfittando del terreno ad essi più favorevole (veramente Sallustio parla di terreno pianeggiante, ma ciò sarebbe in contrasto col pjano esposto ai suoi da Catilina stesso;  del resto chi conosce Pistoia e dintorni sa bene che la parte pianeggiante è breve e comunque in pendìo ovviamente perché si addossa all’Appennino), contrattaccano immediatamente.  Mentre nella tattica normale si passava dal lancio di frecce, quindi delle aste, Sallustio dice che, dopo il primo lancio di frecce, lo scontro avviene violentissimo subito con le spade, quindi corpo a corpo.   Anche qui, a fissare la reale figura di Catilina, ecco la descrizione quasi cinematografica, che ne fa Sallustio : “Catilina, con alcuni armati alla leggera [velites], si prodiga in prima linea, soccorre quelli che si trovano in difficoltà, sostituisce i feriti con uomini sani, provvede a tutto, s’impegna di persona, spesso colpisce il nemico, adempie contemporaneamente alle funzioni di valoroso soldato e di comandante efficientissimo…” [62].

Non male, dunque, per un violatore di vergini, di vestali e di adolescenti, un vizioso e corrotto, indebitato e corruttore!

Quando Petreio si accorge che i catilinari non sono quei pecoroni che supponeva, pronti alla fuga  o a farsi ammazzare, fa intervenire la sua riserva, il corpo scelto della coorte pretoria.  Ora anche qui vi è in Sallustio un’incongruenza: egli sostiene che la ccorte pretoria sfonda il centro, al cui comando vi è Catilina, ma sostiene che, viceversa, cadono tra i primi Gaio Manlio e il Fiesolano, che invece comandavano rispettivamente l’ala destra e l’ala sinistra.   E’  probabile che egli, dopo un primo tentativo sul centro, non pienamente riuscito, decida di sferrare l’attacco alle ali.  Ciò doveva essergli possibile per la superiorità numerica e per gli effetti della stanchezza sulle forze catilinarie, le quali non disponevano evidentemente di riserve, e che tuttavia vendono cara la pelle, come si usa dire.   Sallustio termina infatti la descrizione della battaglia con la scena finale, già riportata in Premessa: non c’è un vero sfondamento, né ancor meno un accerchiamento. I Catilinari cadono ad uno ad uno senza abbandonare il posto a loro affidato: ovviamente da non prendersi alla lettera, ma mantenendo le proprie posizioni. Catilina, vista ormai perduta la battaglia, praticamente da solo si lancia sulle schiere nemiche e, a guisa di un eroe omerico, ne uccide diversi prima di essere a sua volta colpito [63].

Come testimoniano Cassio Dione e Svetonio, il movimento non venne del tutto annientato in quell’occasione, ma privo di un capo valido, probabilmente si sgretolò i  gruppi isolati.  Con la battaglia di Pistoia e la fine della rivolta catilinaria si conclude un’epoca storica ed un progetto di speranza:  le lotte genuinamente popolari e rivoluzionarie cessano per essere sostituite da operazioni militari di guerra civile tra frazioni di eserciti regolari, siano questi favorevoli al Senato e al mantenimento del suo predominio, oppure a singoli capi e personalità influenti e potenti (come più tardi tra Cesare e Pompeo, e tra Giunio Bruto con Cassio contro Ottaviano e Marco Antonio). Dissolte anche le forze senatoriali, la lotta resterà, praticamente per secoli, tra comandanti con le loro rispettive legioni.  Il progetto di riscossa sociale, tra i Gracchi e Catilina, si dissolve e la plebe proletaria ed agricola romana si trasformerà nella plebaglia sanguinaria che desidera solo “panem et circenses”, non curandosi più di sollevarsi in un popolo cosciente di sé.  Vi saranno ancora rivolte, ma non per un miglioramento generale, bensì solo per soddisfare esigenze momentanee di sopravvivenza e di divertimento.  Un popolo rincitrullito che, malgrado resistesse per alcuni secoli ancora, fu alla fine sommerso dalle ondate barbariche, salvandosi come memoria solo grazie al fatto che nella parte occidentale il Cristianesimo, come Chiesa romana, si sostitui all’Impero senescente e morente, e ne salvò in parte la cultura, la lingua, le istituzioni, i riti, e determinati simboli.

NOTE: 

[1]    Di sciocchezze sull’Italia e la sua storia se ne dicono tante.  Perfino Benedetto Croce cadde in questo errore grossolano nella sua “Storia d’Italia”.  Con maggior precisione il suo alunno Luigi Salvatorelli vide proprio nella guerra sociale, o meglio nella sua conclusione positiva con la concessione della cittadinanza romana a tutti gli Italici, la nascita di un’Italia politicamente intesa, almeno come Stato “federale”, nel senso antico di Stato legato da un patto e, in parte, anche nel senso attuale di Stato con un’unica Costituzione, ma legislativamente caratterizzato da autonomie.Il nome di Italia sembra nato in Calabria col nome di “Vitulia”, terra dei vitelli.  In realtà il termine è usato dai popoli federati di Roma, che lo inseriscono nelle loro monete col simbolo del toro sabellico che lotta con la lupa di Roma, e costituiscono perfino una capitale nella città di Corfinio (Sannio).  Il termine, in un primo tempo, si estese alla parte sub-appenninica, ne restavano escluse le isole e la parte settentrionale (Gallia Cisalpina o Transpadana).  Questa venne inserita invece  con Augusto (I secolo a.C.) e Virgilio si sente già “italiano”.  Quando rappresenta i fuggitivi da Troia,  essi devono cercare l’Italia, non il solo Lazio o o la sola Roma, per decreto del Destino (“Eneide”, Libro III vv. 163 – 171), e nelle “Georgiche”  il mantovano Publio Virgilio Marone, quindi con probabili ascendenze celtico-etrusche, canta l’Italia in questo modo: “… Il suolo italico  non fu sconvolto da tori spiranti / fuoco dalle narici, seminati i denti del mostruoso drago / né vi spuntò una messe di guerrieri irta di elmi e di fitte lance / ma traboccò di pregne biade e del massico / umore di Bacco;  lo occupano oliveti e floridi armenti. /  Di qui avanza in campo eretto il cavallo da guerra / di qui, o Clitunno, le bianche greggi e il toro, / solenne vittima, molte volte aspersi dalle tue acque sacre, / guidarono i trionfi romani ai templi degli dèi. /  Qui è sempre primavera e, in mesi non suoi, estate; / duplice è la fecondità del bestiame, duplice la fruttuosità degli alberi…/  Aggiungi tante egregie città e fervore di opere, / le numerose rocche costruite dall’uomo su scoscese / montagne,/ i fiumi che scorrono ai piedi di antiche mura. /   A che ricordare il mare che lo bagna in alto e in basso ? /  e gli ampi laghi ?  e te, vastissimo Lario, e te, /  Benaco che sorgi in flutti e in fremito marino? / A che ricordare i porti e la diga sul Lucrino / la distesa marina che irata vi si frange con alto fragore, / laddove l’onda Giulia risuona del riflusso delle acque / e il ribollire del Tirreno penetrò nel lago d’Averno? /…  Questo generò i Marsi, stirpe di duri guerrieri, / e la gagliardìa dei Sabelli, e i Liguri resistenti alla sventura, e i  Vosci /  armati di spiedi, e i Deci, i Marii, i gloriosi Camilli, / gli Scipìadi aspri in guerra. E te, grandissimo Cesare /…  Salve, grande genitrice di messi, terra Saturnia, / grande madre di eroi: per te incedo fra antichi / fasti di gloria e d’arte, osando dischiudere le sacre fonti, / e canto il carme di Ascra per le città romane…”.

(Publio Virgilio Marone,  “Le Georgiche” , Libro II, vv.  140  -  176;  ed. it. BUR, Milano,  2007,  con testo a fronte,  commento di Antonio la Penna e Riccardo Scarcia, traduzione di Luca Canali,  pagg. 203 – 209.  L’elogio all’Italia, un canto che mai potrà ripetersi con lo stesso entusiasmo, prosegue ancora.   Virgilio ricorda l’antichità e la gloria non solo dei Romani, ma anche quella delle popolazioni ad essa associate, ormai un tutt’uno pressoché indistinguibile.  E questo lo scriveva un “padano”, come direbbe oggi qualcuno, a cui si associò un altro “padano”  lo storico Tito Livio, di Padova.   Ma già Cicerone, proprio descrivendo la reazione degli Italici, in sostegno del Senato, e contro Marco Antonio, identifica l’Italia, non solo a sud del Rubicone e dell’Appennino Emiliano, ma anche in quella che allora era  chiamata Gallia Transpadana o Cisalpina, nonché la Venezia (nord-est): cfr. XII Filippica, cap.  4 – 12,  ed. it. BUR (Milano,  2003),  testo latino a fronte, trad. a cura di Giovanni Bellardi, pagg. 453  -  471.   Cfr. pure  Marta Sordi,  “Il Mito Troiano e l’eredità etrusca di Roma” ed. Jaca Book ,  Milano, 1989.  Il mito troiano, portato in Italia probabilmente dagli stessi Etruschi che ne raffigurano episodi nelle tombe, non caratterizza soltanto i primordi della storia di Roma, ma anche quella degli antichi Veneti, quando si narra che Antenore, eroe troiano, arriva nel nord-est d’Italia e fonda Padova.  Non solo, ma è Tito Livio stesso, padovano, a ricordare che furono gli Etruschi a dare una certa unità alla penisola, conquistandola dall’attuale Lombardia fino alla Campania.  Il mito troiano, tuttavia rovesciato, vale anche nell’Italia meridionale, di cui molte città si dicono fondate da eroi greci (es.  Diomede), vagando nel Mediterraneo oppure per scelta.  Non è easgerato dire che la prima idea di un’”unità” della penisola e del nord nasce proprio dal comune riferimento alla guerra di Troia, che trova negli Etruschi e nei Greci i principali narratori alle popolazioni italiche autoctone o di più antica immigrazione.

La coscienza dell’unità fisica, culturale, giuridica dell’Italia è, pertanto, ben più antica del 1861.  Ma non è qui il luogo per farne tutta la storia, perché ci vorrebbero libri interi.  Dalle guerre sociali fra Italici e Romani del I secolo a.C,  il binomio Roma-Italia diventerà inscindibile, malgrado poi cambiamenti di capitale, situazioni disgregatrici e tutto quello che avvenne in circa 1400 anni di storia.

[2]   Quando si intende parlare di “organizzazione” nell’antica Roma, non va inteso un semplice processo tipicamente anglosassone di “equilibrio tra poteri” (il checks and balances, col metodo dei pesi e contrappesi che tanto entusiasma i nostri moderni costituzionalisti, sempre pronti a scopiazzare cose altrui), ma ben altro:  come si deduce dal celebre apologo di Menenio Agrippa sul rapporto tra patrizi e plebei come quello tra stomaco e braccia, e sul quale i grandi economisti moderni dovrebbero meditare  molto a lungo,  il concetto romano di organizzazione non è analogo ad un orologio meccanico a cucù, oppure al celebre turco che gioca a scacchi, ma quello di un organismo vivente dove, come si è detto, ogni organo ha una precisa funzione.  Il senso dell’apologo di Menenio Agrippa è naturalmente da vedere in un’ottica popolare, non certo filosofica, ma il succo della concezione è questo:  ogni classe sociale rappresenta un organo di quel corpo vivente che è lo Stato, regolato da leggi.  La rottura di queste relazioni, dove un organo svolga o voglia svolgere funzioni non proprie, l’Organismo finisce per corrompersi e morire.  Possiamo pure pensare alla costituzione interna della Legione, la quale, a dfferenza dello schieramento oplitico ellenico e della falange macedone, non si limitava a muovere compatta contro il nemico, per sfasciarsi quando una parte cominciava a cedere, ma memore delle esperienze delle guerre sannitiche, si distingueva in sotto-reparti.  Ogni blocco o quadrato era distinto in tre file:  quando la prima (hastati) stanca dal combattimento, retrocedeva, la sostituiva la seconda fila, quella deiprincipes.  Logorata anche questa, appare la fila dei triarii.  In tal modo, la Legione romana poteva contrapporre al nemico forze relativamente più fresche rispetto al nemico. Ma non basta: la Legione si distingueva in coorti, manipoli, centurie, in modo da scomporsi e ricomporsi ad ogni necessità. Ogni reparto poi era retto con una gerarchia ben precisa, poi imitata da tutti i moderni Eserciti. In tal modo, i Romani potevano affrontare nemici anche superiori di numero e in qualunque condizione di terreno, nell’eventualità della morte del comandante aveva pronto un subordinato che lo sostituisse.  Nessun altro popolo del tempo seppe mai avere corpi militari di tale elasticità e manovrabilità.   A ciò si aggiungevano le grandi capacità ingegneristiche di quel popolo che, con pazienza e temacia (la cosa appare chiara anche nel celebre assedio di Alesia da parte di Cesare contro i Galli, da lui stesso descritto), sapeva erigere sbarramenti che separassero decisamente la città assediata da eventuali rinforzi esterni pur numerosi, o di costruire in quei tempi un ponte di legno per attraversare il fiume Reno, non quello romagnolo, ma quello che separa Francia e Germania.

[3]  Per dirla esattamente alla latina sarebbero le “Orationes in Catilinam”“in” ha valore di “contro”, mentre a favore si dice “pro” come in italiano.   Riguardo alla strumentalizzazione di fenomeni climatici o fisici “strani” in senso politico ed anticatilinario, cfr.  “Sulla Divinazione”, Libro I, XI, 17  -  ed. it.  Garzanti (Milano, 1999), testo latino a fronte,  trad. Sebastiano Timpanaro, pag. 17 (note alle pagg.  245 – 249), relativamente alle considerazioni del fratello Quinto Cicerone; Libro II, III, 6  pag.  113, e nota di pag. 331.

[4]  Marco Licinio Crasso era uomo ricchissimo, un vero capitalista mai soddisfatto delle ricchezze. Soffocò la rivolta di Spartaco, crocifiggendo lui e gran parte degli schiavi catturati nel 71 a. C. .  Alleato di Cesare, divenne con lui triumviro e proprio per brama di ricchezze si fece mandare in guerra contro i Parti.   Questo popolo, erede dei regni ellenistici seguiti all’Impero Persiano, occupante grosso modo l’Irak e l’Iran occidentale di oggi) aveva una tattica particolare fondata sulla veloce cavalleria.  Come anche gli Sciti, fingevano di fuggire, non senza lanciare colpi precisi di freccia (la celebre “freccia del Parto”);  quindi, stancato l’avversario, contrattaccavano improvvisamente, spesso vincendo il nemico.  I Romani, non addestrati a questa tattica e sempre privi di una numerosa e adeguata cavalleria, vennero spesso battuti. A Carre, nel 53 a. C, Crasso e il suo esercito vennero praticamente annientati. In particolare,  Crasso, catturato vivo, venne fatto uccidere dalla regina Tamiri con oro fuso versatogli in gola, vista la sua brama di ricchezze.   Sembra che molti legionari prigionieri venissero venduti come schiavi in Cina, e qualche ricercatore avrebbe individuato in una certa popolazione i loro discendenti.  Cesare, proprio nell’ultima fase della sua vita, voleva organizzare una spedizione contro i Parti, proprio per vendicare tale disfatta, ma la congiura di Bruto e di Cassio ne provocò la morte in Senato con diversi colpi di pugnale.  Da qui la nuova serie di guerre civili tra forze senatoriali  e quelle cesariane (Filippi), poi tra antoniani e augustei, per finire con la vittoria di Ottaviano ad Azio e la conquista dell’Egitto, ultimo regno ellenistico ancora indipendente.

[5]  Publio Virgilio Marone,  “Eneide”, Libro VIII, vv. 668 – 669;  ed. it. BUR (Milano,  2002), testo latino a fronte, trad. e commento di Riccardo Scarcia, vol. II, pag. 821.  E’  certo curioso che Dante, pur appellandosi a Virgilio come a proprio maestro ed ispiratore, si dimentichi completamente di Catilina    e lo ignori, mentre teoricamente avrebbe dovuto inserirlo tra i seminatori di discordie o tra i superbi, mentre non dimentica di mettere Bruto e Cassio perfino in bocca a Lucifero (nel posto peggiore dell’Inferno).  Dimenticanza voluta o involontaria sapendo anche che Catilina, nel Medioevo, era considerato il “padre” delle lotte intestine nella Valle dell’Arno ?   Non solo, ma Dante si rifà brevemente alle varie leggende medioevali su Catilina ricordandolo nel “Convivio”.  Forse la potente immagine di Farinata degli Uberti ricorda per certi versi l’immagine che di Catilina si aveva nella tradizione fiorentina.

[6] Gaio Svetonio Tranquillo “Vite dei Dodici Cesari” (contati a partire da Gaio Giulio Cesare a Domiziano), Libro II, “Divo Augusto”, III, 1  -  ed. it.  Rusconi, Milano, 1994, a cura di Gianfranco Gaggero,  pag.  203.  E’  importante ricordare che di questa battaglia o guerra condotta dal padre di Ottaviano contro spartachiani e catilinari uniti, probabilmente operanti con tecniche di tipo “partigiano” o di guerriglia, Svetonio è l’unico storico testimone.   Dimostra comunque che la lotta popolare, sociale e rivoluzionaria non era stata del tutto spenta dalla repressione di Cicerone e con la battaglia di Pistoia.

[7]   Vulso, –onis (Vulsone) è la latinizzazione del nome etrusco Velzna.  Manlius (altrimentiManilius come il celebre studioso di astrologia) è pure esso considerato etrusco, anche se ignoro la forma etrusca originaria, e significa “nato di mattino”.    Del “quendam Faesulanus” non sappiamo nulla, ma doveva essere personaggio importante nel moto catilinario, se potè usufruire del comando in terza posizione, e probabilmente il capo di tutti gli Etruschi che vi aderirono.

[8]  Non è per nulla un caso che le deliberazioni senatoriali venissero sempre chiamate “senatus consulta”, non “leges”, in quanto era espressione di pareri maggioritari o unanimi all’interno di quell’organo,  mentre la legge era deliberata, almeno formalmente, dai soli Comizi.   E nondimeno di fatto i consulti del Senato avevano valore, diremmo oggi, di decreto con efficacia immediata, particolarmente il più tremendo di questi, il “senatus consultum ultimum”, che dava ai consoli i pieni poteri per la repressione di ogni tentativo di rivolta, con largo uso indiscriminato della pena di morte  (soprattutto gli schiavi ribelli venivano condannati alla crocifissione, che è un’orrenda pena di morte rallentata ed insieme una straziante tortura).

[9]  Marco Tullio Cicerone, “In difesa di Marco Celio”,  cap. VII, ed.  Società Editrice Dante Alighieri, Roma, 1957 testo in latino con trad. interlineare, pagg. 21 – 23 e  24 – 25.

[10]  M. T. Cicerone,  “Filippiche”, Quarta, 6, 15  - ed. it. BUR (Milano, 2003), trad. a cura di Giovanni Billardi, pag. 251.  Cfr anche, Seconda Filippica, ibidem, pagg. 101 e 201,   dove dice altra frase celebre:  “defendi rem publicam adulescens, non deseram senex;  contempsi Catilinae gladios, non pertimescam tuos” “Difesi la repubblica ancora giovane, non l’abbandonerò da vecchio;  non temetti le spade di Catilina, non temerò le tue [Antonio]. E’ anche divertente che si professi“adulescens”, quando in realtà, essendo nato nel 106,  nel 64 – 63 a. C, aveva oltre quarant’anni d’età, mentre in quel momento aveva sorpassato i sessant’anni.  Cfr. Ottava Filippica, pag. 353  eTredicesima Filippica, pag. 497 (dove, sempre nel confronto, accosta Marco Antonio a Spartaco prima, a Catilina poi, ma sempre come modelli migliori).

[11]  Gli antichi, almeno delle classi  agiate, non pranzavano come noi seduti a tavola, ma distesi su lettini attorno a basse tavole riccamente imbandite, e serviti da schiavi, questo tanto fra i Greci, quanto fra gli Etruschi ed i Romani.

[12]  Ne riporta il testo, probabilmente molto vicino a quello originale, Sallustio :
“Ho sperimentato per prova la tua lealtà.  Mi’è stata di conforto nelle ore difficili e m’incoraggia a scriverti questa raccomandazione…  non ho il minimo senso di colpa. In nome di Dio, constaterai un giorno che quanto scrivo è la verità.  Esasperato dalle ingiustizie e dagli affronti, defraudato del frutto delle mie fatiche…, ho fatta apertamente mia la causa dei poveri [aggiunge anche che, proprio grazie all’aiuto di Orestilla e, perfino, della figlia, aveva potuto pagare i debiti, di cui era stato garante per conto d’altri, senza difficoltà]… perché vedevo insigniti di onori uomini che non ne erano degni e sentivo d’essere tenuto in disparte per sospetti infondati… Vorrei scriverti di più, ma mi dicono che si sta preparando qualche atto di violenza contro di me.  Ti raccomando Orestilla, l’affido alla tua amicizia [veramente il testo sallustiano non parla di “amicizia”,  ma della “Fides”, un principio giuridico molto importante nel Diritto romano, tradotto nel meno forte “buona fede”.  La Fidesromana aveva un valore di sacralità religiosa inviolabile.  Catilina e Catulo non sono amici, anzi, ma Catilina conta sul rispetto e sulla lealtà di Catulo].  Difendila dalle offese, te lo chiedo in nome dei tuoi figli.  Addio”  (Gaio Crispo Sallustio,  “La Congiura di Catilina”, cap. XXXV,  ed. it. BUR (Milano, 1980),  resto latino a fronte, trad. Lidia Storoni Mazzolani, pag. 135.

[13]   Le cariche pubbliche duravano un anno con regolari elezioni presso i Comizi (Centuriati e Tributi;  quelli Curiati allora dovevano essere ormai in disuso.  I Comizi centuriati  comprendevano i cittadini capaci alle armi;  quelli Tributi tutti i cittadini maschi, patrizi, plebei, cavalieri, ecc.).  Non dovevano differire granché dalle elezioni moderne.  Dopo l’ottenimento della pretura si aveva un compito di amministratore nella province, cosiddetto “propretore” e, dopo il consolato, di “proconsole” con funzione maggiormente rilevante.  Questa carica consentiva spesso abusi soprattutto in sede fiscale,  E’ celebre il processo contro Verre, di cui accusatore fu proprio Cicerone e che lo rese famoso, perché riuscì a vincere l’allora primo oratore di Roma, Ortensio.

[14]  Cicerone è un classico avvocato, oggi diremmo sia difensore di imputati e sia di parte civile. Riportato in “Le Catilinarie”, ed. it BUR (Milano,  1979),  con testo latino a fronte,  trad.  di Livia Storoni Mazzolani, Introduzione, Testimonianze ciceroniane su Catilina, pag. 64.  Lettere ad Attico, I, 2, I.
[15]  Generalmente si crede che i processi, civili e penali in Roma, sulla base di quante regole ci sono state trasmesse dal Codice Giustinianeo, fossero una cosa seria. Ma è lo stesso Cicerone che, in una lettera all’amico Attico del maggio 61 a.C,  a proposito di un processo contro Clodio e Curione difesi da Ortensio, ci descrive così la reale situazione che dimostra come, anche allora, tra lo scrivere, il dire e il fare passasse un’enorme differenza : “… io ammainai le vele vedendo bene l’inadeguatezza dei giudici; e non dissi nulla come teste, se non quello che era tanto noto e tanto confortato da testimoni da non poterlo tacere.  Perciò, se chiedi il motivo dell’assoluzione… ti dico che fu la miseria e la disonestà dei giudici:  e ciò è accaduto in grazia della trovata di Ortensio, il quale… non capì che era meglio lasciare costui (Clodio) nell’abiezione e nel fango piuttosto che affidarlo a un processo di esito incerto…" - "…  non c’è mai stato in uno spettacolo di varietà una compagnia più indecente:  senatori malfamati, cavalieri al verde, tribuni non tanto danarosi quanto di infimo rango…" - "… E poi  -  badate, o buoni dèi, al fatto vergognoso  - certi giudici per giunta al compenso in denaro poterono passare alcune notti con signore d’alto rango e godersi i favori di nobili giovinetti che erano stati loro procurati…”.  In M.T. Cicerone,  Frammenti delle Orazioni Perdute”, ed. it.  A. Mondadori (Milano, 1971), testo latino a fronte, a cura di Giulio Puccioni, pagg. 102,  104  e 108.  Già a suo tempo si era visto che nella Grecia di Esiodo le cose non erano granché diverse, ma questo, scritto da Cicerone, avveniva nella “Patria del Diritto” per antonomasia.   Anche volendo fare la tara alle maldicenze di Cicerone, sempre poco “politicamente corretto” con i suoi avversari, nondimeno ne esce un quadro desolante sulla realtà giudiziaria romana, eufemisticamente descritta nei sacri testi della storia del Diritto romano e di Diritto privato romano, dove di certo casi simili non vengono neppure supposti.  Una cosa è l’impostazione formale della giurisprudenza, altra l’effettiva realtà.   Se tutto il mondo è “paese”, anche ogni momento storico è un momento attuale.

[16]   Chiunque abbia una certa cultura umanistica, sa che alla base della fondazione della Repubblica Romana sta la celebre leggenda di Lucrezia, moglie di Bruto:  costei era insidiata da Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo, e presumibile erede al trono.  Mentre Bruto era al campo per una delle tante guerre contro i Latini (allora Roma era città storicamente etrusca, perfino nel nome), Sesto penetrò nella sua casa, violentò la moglie Lucrezia che si uccise per la vergogna.  Il marito tornò appena in tempo e seppe la causa del suicidio.  Da lì  i  Ramnes e Titienses (ovvero i discendenti di Romolo e dei Sabini) opposti ai Luceres i discendenti degli etruschi immigrati, insorsero contro la monarchia etrusca ed instaurarono la repubblica. Ne seguì tuttavia la spedizione di Porsenna, lucumone di Chiusi, il quale, malgrado l’accanita resistenza della città (anche qui i celebri episodi di Clelia, di Orazio Coclite e di Muzio Scevola che, secondo la tradzione annalistica e liviana convinsero Porsenna a togliere l’assedio), riuscì ad assoggettarla nuovamente, sia pure  per breve tempo.  Agli studiosi di storia etrusca, per quel poco che se ne può ricavare dai testi antichi e, soprattutto dalle iscrzioni e dai resti archeologici, è noto che in Etruria le rivolte di schiavi furono numerose;  inoltre gli Etruschi in contemporanea dovettero sostenere sia la penetrazione gallica, nella valle del Po, sia quella dei Greci e  dei Sanniti in Campania.  Questo può spiegare come il ripristino del dominio etrusco in Roma fu, tutto sommato, breve, e il patriziato romano/sabino riassumesse ben presto il controllo della situazione.  Da allora in avanti comincia l’espansione romana nel Lazio a spese dei Latini, dei Sabini, degli Equi, dei Volsci, degli Etruschi di Veio (potente città etrusca subito otre il Tevere, distrutta dopo un lungo assedio da Furio Camillo).  La Repubblica Romana nasce  proprio sulla base di un’idea della donna, moglie casta e pura, madre affettuosa e severa insieme, senza nessun grillo per la testa (modello classico la madre dei Gracchi, Cornelia).  L’idea etrusca di una donna libera, capace finanziariamente o politicamente, era qualcosa che terrorizzava le forze conservatrici romane, e perduranti ben oltre  tempi che affrontiamo qui e la maggior libertà o licenza di costumi della fine della Repubblca  dell’Impero.  Ma sappiamo che l’inferiorità giuridica della donna, come figlia e moglie, sono tipiche del Diritto civile romano ed ereditata poi dallo stesso Codice Napoleonico e derivati. Sul discorso programmatico, dove è inserita la frase che lo avvicina a Tiberio Gracco,  dirò più avanti, riportandone larga parte.  Qui rinvìo al cap. XX dell’opera di Sallustio .

[17]  Meno celebre, ma forse abbastanza grave, fu quella di Euno (soprannominatosi Antioco, come erede del Regno di Siria), in Sicilia tra il 135 e il 132 a. C. .

[18]  G. C. Sallustio, op. cit.,  cap. XLV,  ed. cit.,  pag.149.   La traduzione della Storoni Mazzolani forse non rende a pieno il senso del documento:  Sallustio dice “infimis”, ovvero gli ultimi nella scala sociale. Non si parla di schiavi.  Attenzione, siamo in una vera azione rivoluzionaria, quindi è necessario mantenere un grado di segretezza.  Infatti, anche il mittente non  scritto, bensì fatto dire al messaggero stesso.

[19]   Si trattava di legge sociale dei consoli Petelio e Papirio del 326 a. C., che vietava per i cittadini romani insolventi, sia il carcere, sia la schiavitù.

[20]  G. C. Sallustio, op. cit. , cap. XXXIII, ed. cit. pagg. 131 – 133.

[21]   ibidem,  cap. III, pag. 81.   Relativamente ad un possibile parallelo tra la nostra epoca di crisi, in realtà perdurante dal 1973 almeno e non  certo da pochi anni, è da notare come vi siano alcune forti somiglianze soprattutto nell’aumento di quella differenza economico-sociale che  viene chiamata “forbice” tra ricchi e poveri, e prevista del resto dalle dottrine sociali del tardo Settecento e dell’Ottocento, tale da preparare un guerra civile e di classi;  pur tuttavia a noi oggi mancano cervelli e cuori vigorosi, non abbiamo ora né i Gracchi, né i Catilina, né  i Cicerone, né i Catone, né Cesare, né Bruto, e neppure Marco Antonio ed Ottaviano:  abbiamo, a dirigerci, una massa non  di nani, né di insetti, né di lombrichi, bensì di batteri, di virus e di prioni, talvolta soltanto elettroni e neutroni rispetto a quelli, che furono veri giganti per la parola, per il pensiero, per l’azione.  Non abbiamo neppure la plebe romana che spesso insorgeva, chiedendo “panem et circenses”,  oggi abbiamo solo una plebaglia che chiede esclusivamente “circenses”  e si lascia portare via il “panem” dalla bocca e dalle mani, mentre guarda citrullamente la “televisionem” !   La tragedia attuale è oggi  tutta qui !

[22]   ibidem,  cap. IV, pag. 83.

[23]   ibidem,  cap. XVI,  pag. 103.

[24]  ibidem,  cap. XVII, pagg. 103 – 105.

[25]  In altra nota del testo Lidia Storoni Mazzolani  osserva che in questo gruppo dovevano esservi nel 66 a. C. (non meravigliamoci della divergenza di date, per il motivo di un diverso sistema del calcolo annuale, per cui gli episodi vengono descritti in modo cronologicamente confuso:  taluni parlano del 65 a. C., talaltri del 66 a.c.  Qui stesso si dice 64, e poi si parla del 66),  Gaio Giulio Cesare e Marco Licinio Crasso.  Ora, come ho osservato, che ci fossero o non ci fossero, non posso saperlo. Malgrado sia anziano, allora ero di là a venire e non ho assistito.  Ma chiunque di noi sa che, quando vi sono riunioni politiche, vi sono varie presenze, non necessariamente persone che aderiscano alle proposte.  Talvolta appaiono anche disturbatori veri e propri.  E’  estremamente facile capire che né Cesare (felicemente ricco), né Crasso (ancora più felicemente ricco, sebbene bramoso di altre ricchezze), erano in condizioni vicine alla miseria.  Appare altresì evidente l’enorme differenza di metodologia di questi due, ben inseriti nel sistema politico e militare del tempo, a differenza dell’emarginatissimo Catilina,  fra costui e i due, che, in quanto vicini al partito e ai programmi popolari, non andavano certo oltre le elargizioni di giochi e di “frumentationes”  (lo stesso moralissimo Catone ne proporrà una per tenere buona la plebaglia, quando Lentulo e i suoi vennero strangolati nel carcere Tulliano), doveva esservi, checché ne dicano molti storici che seguono pedissequamente le versioni di Svetonio e di Plutarco  (ben lontani tuttavia dai fatti in  questione), un abisso di differenza ideologica, morale, e strategica:  basterebbe confrontare la fine di Catilina con la spada in pugno rimasto solo contro i nemci, quella di Crasso costretto a bersi oro incandescente, e quella di Cesare, fattosi pugnalare con la toga sugli occhi, per capirlo.   Come sempre in tali casi, va nettamente distinta la pura demagogia dalla lotta sociale dei Gracchi, di Spartaco e di Catilina.

[26]  Ad esempio, il Marco Lepido qui citato, non è lo stesso che partecipò, con Marco Antonio e Ottaviano, al secodo triumvirato, ma forse suo padre.  Siccome poi manca un’”anagrafe” dell’età romana, è difficile districarsi tra tutti questi nomi e avere le idee più chiari sui personaggi, sui fatti, sugli anni di questa congiura.  L’impressione che ne esce è lo scambiare un periodo di propaganda ed organizzazione elettorale con la preparazione di una congiura.

[27]  Le None sono il secondo gruppo di giorni del mese romano.  Non dimenticando l’incertezza sulle date conseguente alla differenza tra i calendari, il tentativo di assalto dovette essere effettuato tra il 5 e il 7 febbraio di quell’anno.

[28]  Per l’esattezza, il testo latino non parla necessariamente di coraggio ma di “virtus et fides”,  il che non implica forza, coraggio fisico, coraggio militare, o simili, ma semplicemte onestà e coerenza, mantenimento della parola data.  Fides è usato anche nei contratti di natura giuridica, tradotta da noi con “buona fede”.  Molto spesso i tradutori si lasciano prendere la mano forzando il testo.  Ibidem, cap. XX,  pag. 111.

[29] « In libertatem vindicamus »  è il motto (oggi diremmo “slogan, logo”) del movimento catilinario, usato anche da Gaio Manlio nella lettera a Marcio Re.  RIVENDICHIAMO LA LIBERTA’, sottinteso nel senso che vogliamo difenderci dalla schiavitù e dalla carcerazione per debiti. Riassumeva ad uso popolare il programma sociale (non socialista, cone qualcuno anacronisticamente dice) dei Catilinari.

[30]  A questo punto i commentatori annotano che Catilina si riferisce al periodo post-sillano.  In realtà, non risulta alcuna allusione a Silla, di cui si pretende fosse stato seguace e combattente.  Egli allude, come lo stesso Sallustio fa nella sua presentazione storica, al periodo in cui il Senato, e la classe in esso dominante, ovvero i cavalieri, cioè i più ricchi, concentrarono il potere nelle loro mani, togliendolo di fatto, se non di diritto, ai Comizi Tributi, e considerarono la maggioranza del popolo una massa di pecore da comandare, mentre essi si impadronivano di tutte le ricchezze acquisite sugli altri popoli o sugli stessi cittadini romani per mezzo delle imposte.  Come si vede, anche in tema fiscale, in 2000 e più anni di storia, le cose in Italia non sono cambiate poi tanto !

[31]  Qui gli storici osservano che Sallustio, mettendo in bocca a Catilina questa frase, lo fa per irridere l’attacco che Cicerone fa nella Prima Catilinaria, il celeberrimo “Quousque tandem abutère, Catilina, patientia nostra ?…” (Fin quando, dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza” ?).   Mi pare un’interpretazione discutibile, in quanto il discorso sopra citato di Catilina è anteriore di circa due anni rispetto all’orazione di Cicerone. Sarebbe parso ai lettori del tempo una cosa anacronistica, come se, a titolo d’esempio, mettessimo in bocca a Berlusconi, ieri governante, una frase di Monti oggi governante. La cosa apparirebbe evidentemente assurda.  E’  una formula d’attacco, probabilmente comune nell’oratoria del tempo, quando si voleva suscitare una determinate reazione.  Potrebbe anche, semmai, essere vero l’inverso, ossia che fosse Cicerone, uomo non privo di umorismo e di sarcasmo, colui che si fa beffe di una frase spesso ripetuta da Catilina.

[32]   G. C. Sallustio, op, cit., ed. cit.,  pagg. 111 –113.

[33]   ibidem, cap. XXI, pag. 115.

[34]   ibidem, cap. XXII,  pagg. 115 – 117.

[35]   ibidem,  cap.  XXIII, pagg. 117 – 119.

[36]   ibidem, capp.  XXIV – XXV, pagg. 119 – 121.

[37]   ibidem, capp. XXVI  - XXVIII, pagg.  121 – 123.  Per la mentalità classica, l’attentato alla vita di un qualche potente, in particolare se tiranno, non era vista negativamente.  Lo si vede bene con Gaio Giulio Cesare, in Plutarco, ed anche nella tradizione greca.  Oggi a noi, inevitabilmente,  un tentativo di aggressione al console Cicerone fa un’impressione negativa, ma bisogna anche correlare il tutto al fatto che egli era la mente direttiva che aveva impedito a Catilina qualunque azione di carattere legale, con brogli ed ogni altro impedimento alle elezioni.  Ormai tra i due vi era una guerra, una questione di vita e di morte.  Questo spiega la decisione di eliminarlo.  Né  dimenticherei di segnalare che tale aggressione era meno vile di quanto possa sembrare, perché i due uomini non affrontano Cicerone da solo, ma circondato da suoi non pochi “clientes” e, in quanto console, non privo di guardie del corpo.  Cesare, ad esempio, fu invece solo, accerchiato dai congiurati in Senato e avendo lasciato ogni difesa, essendosi accorto che tra di essi vi era Bruto, suo figlio adottivo (“Tu quoque, Brute, fili mi !”:  “Anche tu Bruto, figlio mio !”).  E, copertosi il capo con la toga, si lasciò pugnalare, dopo un primo tentativo di resistenza.

[38]  ibidem, capp. XXIX – XXXI,  pagg.  125 – 127.

[39]   M. T. Cicerone, “Prima Catilinaria” §§ 1 e 2,   ed. it. BUR (Milano, 1979), trad. e commento di Lidia Storoni Mazzolani, testo latino a fronte,  pagg. 87 – 89.

[40]   M.T. Cicerone,  “Lettere ad Attico” I, 14, 2, scritta il 13 febbraio del 61 a. C, poco oltre un anno dalla battaglia finale a Pistoia contro Catilina  -  riportato in “Frammenti delle Orazioni Perdute” a cura di Giulio Puccioni, ed. Mondadori (Milano, 1971),  testo latino a fronte, pag. 100.

[41]  M. T. Cicerone, op. cit., ed. cit., capp. I  -  VI, pagg. 89 – 99.

[42]   Per capire un simile fatto, ossia del darsi o essere messo in custodia da privati (del resto la cosa avvenne, in un primo momento, anche al gruppo di Lentulo), bisogna pensare ad un Diritto penale ancora legato alle tradizioni privatistiche e personalistiche delle XII Tavole.  Il fatto stesso che un’esecuzione sommaria, esercitata sulla base di un decreto senatoriale, potesse essere effettuata, senza reazioni a loro volta penali, da privati, dimostra appunto che la tradizione arcaica  era in parte ancora vigente, sebbene rigettata da leggi successive più progredite e garantiste.  Ma l’aspetto interessante di queste “Catilinarie”, proprio sul piano giuridico, è che dimostrano, fin da tempi lontani da noi, che una cosa è la procedura scritta, quella che poi si ritrova nel Codice Giustinaneo e nei manuali di Diritto romano, ben altra la triste realtà del tempo.

[43]  ibidem,  cap. VIII, 20, pag. 105.

[44]  M.T.C., « Seconda Catilinaria », ed. cit., pag.  117.

[45]  ibidem, capp. II – VI, pagg. 119  -  127.

[46]   ibidem,  capp. VII -  X,  pagg. 127 -  135.  Per la precisione, la frase citata è a pag. 135.

[47]   La data di questa terza orazione  è del 3 dicembre;  nondimeno Cicerone, riferendosi alla partenza di Catilina dice “pochi giorni or sono”, mentre invece si sarebbe trattato di quasi un mese (primi di novembre, con una certa elasticità di calcolo).  Vero è che tutto è relativo, ma dimostra come le date non siano state  ricostruite con esattezza.  Inoltre, ora riconosce e si vanta di aver cacciato fuori da Roma egli stesso, a differenza delle ambiguità della Seconda Catilinaria.  Forse perché il pubblico era diverso, o forse, essendo riuscito a prevenire la rivolta in città predisposta da Lentulo, ama dichiararsi il vero vincitore e coordinatore dell’azione.  Cfr.,  “Terza Catilinaria”,  cap. I, 1 – 4, ed. cit., pagg.  143 - 145 .

[48]  ibidem, ,  III Catilinaria,  capp. I – VI,  pagg.  143  - 157 . 

[49]  ibidem,  IV Catlinaria, capp. I – III,  pagg.  171 – 177.   Anche in questa occasione, si vede lì’enorme differnza tra le strategie di Catilina e di Cesare:  il primo era sempre su posizioni rivoluzionarie, anche quando cercava una strada legalitaria per compiere la propria rivoluzione; Cesare è un demagogo, ma ben saldo su posizioni di superiorità della classe ricca;  il popolo, i poveri vanno ben che tenuti buoni con donativi, con giochi, con promesse, ma distolti da un esercizio diretto o, anche, parziale del potere.  Certo, in quell’adunanza, davanti al cumulo di prove contro di loro non poteva fare grandi cose, ma avrebbe potuto insistere sulla regolarità della procedura che, riguardando la vita di cittadini romani esigeva l’appello al popolo, nei Comizi Tributi.  Cesare, pare, fece poco in questo.  Chiedeva solo di evitare la pena di morte, né si chiedeva le profonde ragioni di quella tentata ribellione sociale.  Proprio in tale occasione, Cicerone lo inserisce nel partito “popolare”, ma più esattamente sarebbe da qualificare in quello demagogico-militarista (nel prosieguo dei secoli, poi detto appunto  “cesarista”), come del resto Gaio Mario, Cinna e, più tardi, Marco Antonio ed Ottaviano.

[50]   ibidem,  capp. V  - XI (finale), pagg. 179 – 193.

[51]   La narrazione degli eventi successivi alla pronuncia del discorso di Cicerone il 5 dicembre si trova nell’opera di Sallustio che ora riprenderemo (capp. XXXVII – LV).

[52]  G. C. Sallustio, op. ed. citate,  cap. XXXI,  pag. 129.

[53]   Similmente avrebbe fatto, nel XX secolo e con ben altri mezzi di trasporto, il generale delle forze angloamericane Alexander in Italia nell’inverno 1944, quando consigliò ai partigiani di interrompere le loro azioni di guerriglia, cone se la cosa fosse materialmente possibile e le forze germaniche e quelle della RSI avrebbero rispettato anch’essi la tregua invernale, invece di fare, come hanno fatto, di concentrare le loro forze nella repressione del movimento partigiano.

[54]  ibidem, capp. XXXI  - XXXVI,  pagg. 129 – 137.

[55]   ibidem,  capp.  XXXVII – XXXIX,  pagg. 137 – 141.   La storia, è noto da tempo, si ripete.  Lo stesso accadde alla Spedizione di Sapri, quando Carlo Pisacane, con 300 uomini, sbarcò sulla costa campana, sperando nell’appoggio della popolazione che, anzi, lo aggredì al suono di campane, aizzata dagli sgherri borbonici.  I Trecento, per dirla con Luigi Mercantini, erano descritti dalla Polizia borbonica come “ladri usciti dalle tane”, “ma non portaron via nemmeno un pane”.  Se i Catilinari fossero stati quei violenti sanguinari, violentatori di donne e di ragazzi, avrebbero dovuto infierire sulle popolazioni locali, o sui coloni ivi imposti da Silla.  Ma di ciò le fonti nulla dicono, per cui ne ricaviamo che le popolazioni locali aderirono del tutto spontaneamente alla rivolta, fornendo vestiario, cibo, armi, altrimenti una situazione così tranquilla e silenziosa senza nemmeno ricordare qualche rapina nei “thermopolia” (osterie, “bar” dell’antica Roma) o nelle locande per viandanti, malgrado la preparazione bellica, sarebbe del tutto inspiegabile.

[56]   I prigionieri romani non venivano, almeno finché ancora da giudicare, legati o incatenati, come poteva viceversa accadere a prigionieri di guerra e nemici non romani.  Sallustio usa un ternine tecnico che appare fraintendibile nella traduzione fatta dalla Storoni Mazzolani, a volte un po’  frettolosa o non competente in materia giudiziaria romana.  Il testo dice “manu tenere” che viene tradotto con un “tenere per mano”, il che fa sembrare i prigionieri come bambinetti da condurre a scuola.  In effetti, essi venivano tenuti attorno al polso, come un oggetto di possesso. Infatti, in Diritto penale “manu tenere” ha un senso molto forte, vuol dire avere in proprio possesso la persona per farne quanto dovuto o voluto.  Il prigioniero avrebbe potuto anche tentar di fuggire, ma l’uomo che lo teneva per il polso era accompagnato da guardie armate, e questo sconsigliava la fuga.  Così Cicerone ed altri conducono tenendo per il polso i prigionieri, e non mano nella mano come fidanzatini di Peynet.

[57]  G. C. Sallustio, op.  ed. citate,  capp. XL  -  L,  pagg. 143 – 159.  Sallustio annota altresì di aver udito lo stesso Cicerone asserire di essere stato egli stesso a far circolare la notizia della complicità di Crasso nella congiura (ibidem,  fine cap. XLVIII, pag. 157).

[58]   Cesare cita una delle tre leggi che obbligavano il rinvìo ai Comizi Tributi in caso di pena di morte ad un cittadino romano, ovvero la Legge Porcia.  Le altre due, la prima più antica, la terza più recente, erano le leggi Valeria e Sempronia, quest’ultima di Gaio Gracco.  La guerra civile tra Mario e Silla avevano, tuttavia, se non  abrogato formalmente, comunque disapplicato in larga misura ciascuna di queste leggi, del resto fin dalla morte di Gaio Gracco stesso, avvenuta in un tumulto scatenato dai senatori contro di lui.

[59]   G.C. Sallustio, op. ed. citate, capp. LI  - LV,  pagg. 161  -  185.  Relativamente a Quintiliano,  cfr. “Institutio oratoria”, Libro V, cap. IV,  ed. it. BUR (Milano, 2001) testo a fronte, trad. Calcante – Corsi, vol. II,  pag.  773.  Quando si studia Diritto romano, Quintiliano appare del tutto ignoto, mentre non lo è affatto in storia della letteratura latina.  Perché ?   Ritengo che apparisse scomodo tanto ai  giuristi contemporanei a lui, quanto ai successivi, perché  egli mirava ad una formazione completa e “scientifica”  (relativamente ai tempi ed alle conoscenze dell’epoca) del giurista.  I giuristi si limtano a considerarlo un “rètore”, mentre egli dispiega una conoscenza molto vasta dei princìpi e delle procedure giuridiche e processuali., nonché la parte pedagogica.didattica della formazione del giurista (avvocato, ovvero oratore forense).

[60]  G. C. Sallustio, op. ed. citate,  capp.  LVI – LVIII,  pagg.  185 – 191.  Il discorso di Catilina si trova alle pagg. 189 – 191.

[61]  Il termine “latro, - onis” in latino è un termine spregiativo, ma si rivolge non tanto al ladro o al predone da strada, come sembrerebbe letteralmente o etimologicamente, ma allo schiavo ribelle. Sono “latrones” gli uomini di Spartaco, sono pure “latrones” gli Ebrei ribelli appesi con Gesù sulla croce.  Ma di questo riparlerò nel prossimo saggio sul processo a Gesù.  Qualunque ribelle viene qualificato come tale, non necessariamente i soli schiavi.  Ricorda da vicino il germanico “Achtung, Banditen” nelle zone di forte presenza partigiana nella Seconda Guerra Mondiale.

[62]    Siamo alla parte finale del racconto di Sallustio, capp.  LIX – LX, pagg. 191 – 195.  Il comportamento di Catilina quale comandante è a pag. 195.

[63]  ibidem, capp. LX – LXI,  pagg. 195 – 197.   Ingenti, sempre a quanto sostiene Sallustio, furono le perdite delle legioni regolari di Petreio, per cui la vittoria fu pagata a caro prezzo.

[64]  Cfr.  Cassio Dione,  “Storia romana”, opera in greco,  ed. it con testo a fronte BUR (Milano, 2000), trad.  Giuseppe Norcio,  Libro XXXVII, 10 (sulle origini della congiura) e 29  -  42,  pagg. 185 e 211 - 229.  Cassio Dione che segue la versione augustea della storia delle guerre civili attribuisce a Catilina il sacrificio umano di un bambino, ed aggiunge alcuni particolari, dovuti probabilmente alla fonte ciceroniana.  Riconosce tuttavia alla fine il valore dei combattenti catilinari.  Aggiunge anche la notizia, non data da Sallustio, ma forse da qualche scritto ciceroniano, che venne mozzata la testa di Catilina ed inviata a prova della sua morte.  A Pistoia vi è la tradizione medioevale che il corpo del ribelle romano fosse stato sepolto nella città, dove esiste oggi una torre detta di Catilina (che è anche un hotel).  Andai a Pistoia nell’ormai lontano 1987, ma allora nessuno pareva conoscere nulla della storia più antica della città, nemmeno in un’agenzia turistica (ignoravano zone archeologiche etrusche o romane)!    Cercando in una libreria un testo sula storia della città, mi dissero che era appena in pubblicazione.  Questo è dovuto perché la storia di Pistoia è soprattutto medioevale con un centro storico molto bello.   Teoricamente dovebbe esistere anche un sepolcreto o necropoli dei caduti (dai 3000 agli 8000, stando alle fonti), ma non pare esservene traccia (forse bruciati ?) . 

RIFERIMENTI  BIBLIOGRAFICI

Di carattere generale,  manuali universitari di storia romana e di storia del Diritto romano;  per la letteratura latina:

1)  Concetto Marchesi,  “Storia della Letteratura Latina” ed. Principato (Milano, 1969), vol. I.  
2)  Fernando Fasciotti e Michelangelo Marchi,  “Magister Ludi”, antologia scolastica  di brani latini con particolare spazio dato a Sallustio e Cicerone, ed approfondito commento,  ed.  D’Anna (Firenze, 1957). 
3)   Augusto Serafini,  “Storia della letteratura latina”, ed.  SEI  (Torino, 1965).

    Classici, opere generali:
4)  Appiano di Alessandria (95 – 165 d. C),  “Storia delle guerre civili”,  XIII  -  XVII.
5)  Cassio Dione Cocceiano (155 ca. – 230 ca. d. C) -,  “Storia Romana”, ed. it. BUR (Milano, 2000) con testo greco a fronte,  trad. Giuseppe Norcio, vol. I .
6)  Plutarco di Cheronea (50 ca – 120 ca d. C), “Vite Parallele”, specialmente “Vita di Cicerone” “Vita di Cesare”,  “Vita di Crasso”,  “Vita di Pompeo”,  “Vita di Catone Uticense o il Giovane”,  ed. it. Mondadori (Milano, 1981), trad.  Carlo Carena, voll. 3.
7)   Gaio Svetonio Tranquillo (77 incerto -  130/140 d.C.),  “Vite dei Dodici Cesari”  ed. it Rusconi (Milano, 1990), specialmente “Vita di Cesare” e “Vita di Augusto”,  trad.  Gianfranco Gaggero.
8)  Publio Virgilio Marone (70 - 19 a.C),  “Georgiche”, ed. it.  BUR (Milano, 2007), trad. Luca Canali: Eneide” , ed. it. BUR (Milano, 2002), testo latino a fronte, trad. Riccardo Scarcia, voll. 2.

     Classici, opere specifiche sull’argomento, ovvero su aspetti specifici dell’argomento in analisi:
9) Marco Tullio Cicerone (106 – 43 a. C),  “Orazioni contro Catilina” 4,  ed. it. BUR (Milano, 1979), testo latino a fronte, trad. Lidia Storoni Mazzolani; “Prima Orazione Catilinaria”  ed.  Carlo Signorelli (Milano, 1962), note di Antonio Pozzi; “Orazione a favore di Marco Celio” ed.  Dante Alighieri (Milano, 1957), testo latino con trad. interlineare, commento anonimo;  “Orazione a favore di Milone” ed.  Dante Alighieri (Milano, 1969) , testo latino con trad. interlineare, commento anonimo; “Frammenti delle Orazioni Perdute” ed. it. Mondadori (Milano, 1971), a cura di Giulio Puccioni, testo latino a fronte;  “Sulla Divinazione” dialogo col fratello Quinto, ed. it. Garzanti (Milano. 1999), testo latino a fronte, trad.  Sebastiano Timpanaro.
10)  Marco Fabio Quintiliano (35 ca. – 100 ca. d. C.),  “Institutio Oratoria”,  Libri V – XII; ed.  BUR (Milano, 2001),  trad. Calcante e Corsi.  Il testo quintilianeo è essenziale perché documenta la procedura effettivamente utilizzata nei processi civili e penali, in un’epoca prossima al periodo repubblicano
11)  Gaio Crispo Sallustio (86 – 35 a.C),  “Sulla Congiura di Catilina” ,   ed. it.  BUR (Milano, 1980), testo latino a fronte, trad. Lidia Storoni Mazzolani.  Cfr.  “La Congiura di Catilina”, ed.  Dante Alighieri (Milano, 1980), testo latino con trad. interlineare, commento anonimo.

     Testi di autori moderni:
12)  W. Allen,  “In difesa di Catilina”,  saggio inglese del 1939 (probabilmente tradotto dal Marchesi, sopra citato, ne “Il cane di terracotta”, ristampato nel 1986 a Verona dall’Edizione del Paniere,  dove è definito come l’ultimo dei Romani autentici).
13) Battistin, De Poli e Pallavisini, “I Gracchi”, collana I Grandi Contestatori, ed.  Mondadori, (Milano, 1973)  con varie note sulla Roma tardorepubblicana.
13)  Emilio Gabba,  Appiano e la storia delle guerre civili, ed. La Nuova Italia (Firenze, 1956), analisi approfondita del testo appianeo e delle sue fonti, particolarmente Asinio Pollione, del quale tuttavia rimangono scarsi frammenti (probabilmente in quanto già fautore di Marco Antonio).
14)  Eugenio Manni, “Lucio Sergio Catilina” ed. La Nuova Italia (Firenze, 1939), il quale dà credito al presunto sacrificio rituale secondo l’importazione dall’oriente dei legionari sillani.
15)  Giovanni Pavano,  “La Rivolta di Catilina”, ed. I Dioscuri (Genova, 1989):  rappresenta Catilina come un pre-Cesare, il quale a sua volta sarebbe stato catilinario; descrizione positiva di Catilina, ma su basi non fondate.   Presenta una ricca bibliografia.
16)  Marta Sordi,  “Il mito troiano e l’eredità etrusca di Roma”, ed. Jaca Book (Milano, 1989), specialmente il cap. V sulle lotte civili, ma anche l’importanza che il mito troiano ha nella storia dei popoli italici e particolarmente di Roma.
17)  Pietro Zullino, “Catilina, l’inventore del colpo di stato”, ed.  Rizzoli (Milano, 1985), lavoro tipico di giornalista, poco propenso al metodo storico, confonde con disinvoltura mentalità ed eventi moderni con quelli antichi.  Vede in Catilina l’inventore del colpo di stato, che è in realtà stato “inventato” da Mario seguito da Silla, o ancora meglio preceduti dai senatori anti-popolari ed antigraccani del II secolo a. C..
Vanno altresì considerati i commenti alle opere dei classici sopra riportati. Spesso gli autori specifici (in modo particolare lo Zullino), per necessità narrative, tendono a romanzare la vita di Catilina, in realtà del tutto oscura, in quanto cancellata dalla “damnatio memoriae”, che comportava la distruzione dei ritratti e di eventuali scritti del “condannato”, o in suo favore, lasciando in circolazione solo le opere denigratorie.

Nessun commento: