martedì 10 dicembre 2013

Francesco Tuccia: Solo otto anni di carcere perché per i giudici de L'Aquila sono stati il caso e il destino ad influenzarne il comportamento


L'avvocato di Francesco Tuccia ai giornalisti ha dichiarato: “Gli stessi testimoni ci dicono che i due avevano avuto all'interno del locale delle effusioni, consistite nel mettersi l’uno verso l’altro le mani all'interno dei pantaloni che erano slacciati, non vi è stata alcuna violenza. Questi atteggiamenti intimi rappresentano un dato di fatto, imprescindibile da qualsiasi giudizio”. Parlando poi della fuga del giovane il legale ha evidenziato che: “Tuccia non è fuggito, era seduto in un'auto ferma, intento a fumarsi una sigaretta... era sconvolto”. E a proposito della rottura che ha provocato l'emorragia nelle parti intime della ragazza ha detto: “Si tratta di una pura invenzione. Si è trattato di una manipolazione pre-rapporto sessuale che è deflagrata e ha messo paura al Tuccia: se non ci credete allora perché non si fa un'altra perizia?”. In poche parole, nessuno ha violentato nessuno e la colpa di tutto, per il legale della Difesa va addebitata a... a... a chi? Al caso? Al destino? Alle parti intime della ragazza che non hanno resistito alla manipolatrice veemenza sessuale di Francesco Tuccia? Alla stessa studentessa che aveva bevuto e non ricorda nulla? Ma davvero di sua iniziativa aveva bevuto tanto? Davvero nessuno le ha messo qualche goccia di rape drug, quella droga che in Italia va tanto di moda negli ultimi anni, in una bevanda?

Quella sostanza maledetta che la Polizia costantemente sequestra in ogni dove (anche in casa di chi risulta incensurato), quella sostanza che non lascia nella vittima alcuna memoria di quanto le accade e se non si cerca nelle primissime ore non si riscontra nel sangue e nelle urine, non ha messo piede a processo e i giudici hanno deciso che Francesco Tuccia non merita di starsene quindici e più anni a meditare in carcere sulla sua azione criminale. Chi ha giudicato Francesco Tuccia ha pensato che non ci fosse una colpa più grave da addebitargli e che, quindi, non fosse sua intenzione cagionare la morte della ragazza. Violenza sessuale sì, lesioni aggravate sì, ma tentato omicidio no. Ed è strano perché l'ha lasciata moribonda in un punto isolato decidendo di andarsene senza prestarle alcun aiuto. L'hanno condannato a otto anni, che a causa delle agevolazioni che la nostra legge permette diventeranno sei (gli ultimi due in affido ai servizi sociali o ai domiciliari), per la violenza sessuale e le lesioni personali gravissime. L'avessero invece pensato anche colpevole di tentato omicidio avrebbero dovuto sentenziare in base al codice penale italiano che all'art. 56 cita:

"Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica. Il colpevole di delitto tentato è punito con la reclusione da ventiquattro a trenta anni [se dalla legge è stabilita per il delitto la pena di morte], con la reclusione non inferiore a dodici anni [se la pena stabilita è l'ergastolo]; e, negli altri casi con la pena stabilita per il delitto (quindi non meno di 25 anni), diminuita da un terzo a due terzi. Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso. Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà"

Per cui, a mio modo di vedere, ipotizzando (perché mancano le prove) che non le abbia fatto bere alcuna sostanza, si potrebbe parlare di lesioni personali gravissime solo se il Tuccia al primo sangue uscito si fosse ravveduto e avesse desistito dai suoi propositi, o, comunque, se avesse chiesto aiuto dopo essersi accorto della grave emorragia, impedendo quindi che la ragazza rischiasse la morte per dissanguamento e raffreddamento (si era ampiamente sottozero). Così non è stato e lui l'ha lasciata fra la neve e se n'è andato. Ed è chiaro che per non far pensare a un tentato omicidio al suo avvocato è convenuto, e conviene tutt'ora, spostare l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica sui fatti che hanno preceduto il crimine. Da qui il suo dire che le effusioni, spintesi oltre i limiti da parte di entrambi, sono iniziate all'interno della discoteca: quasi che quanto capitato poi all'esterno sia stato il frutto di ciò che la ragazza aveva seminato nel locale. Come a dire che una donna che ha voglia di far sesso con un uomo (parrà strano ma capita spesso in natura) deve essere pronta a tutto. Anche a trovarsi stesa fra cumuli di neve con l'utero o l'intestino fracassato e il sangue che le cola fra le gambe. Anche a morire.

Questo perché per i giudici de L'Aquila non si può sapere a cosa portino le effusioni maschili. Per loro non è possibile che le donne non sappiano che la troppa eccitazione può anche superare il limite e non far ragionare l'uomo voglioso che alla vista del sangue, improvvisamente posseduto da infame paura, troverebbe nell'abbandono della partner la salvezza del proprio spirito mandato in confusione. Da queste considerazioni sono nate le parole del legale, visto che a suo dire il militare dopo l'accaduto fumava una sigaretta... e si sa che chi è sconvolto si fuma una sigaretta (stupido io che la fumo dopo aver fatto l'amore e solo dopo aver coccolato la mia partner!). In poche parole, l'avvocato ha cercato di farci credere (e in parte coi giudici c'è riuscito) che alla discoteca Guernica non c'è stato alcun crimine, che quanto è accaduto è stato un caso voluto dal destino. 

Però, pur accettando che quella notte una donna si sia eccitata in maniera consapevole, quindi senza l'ausilio di sostanze idonee a inibirne la ragione, ed abbia raggiunto il desiderio e la voglia di avere un rapporto sessuale col Tuccia... davvero sono stati il caso e il destino che hanno convinto l'estemporaneo partner a non aiutare chi poco prima l'aveva sessualmente eccitato? Davvero sono stati il caso e il destino a farlo decidere di abbandonare fra la neve il corpo privo di sensi della femmina che stava facendo sesso con lui? Davvero sono stati il caso e il destino a non fargli pensare che a causa del sangue perso e del freddo intenso di quella notte sottozero, senza il suo aiuto quella ragazza sarebbe finita in una bara? Davvero sono stati il caso e il destino a far andare il militare al guardaroba per ritirare il suo cappotto come se nulla fosse accaduto? Davvero sono stati il caso e il destino a farlo sedere in auto, sigaretta in bocca, pronto ad andarsene coi suoi amici? Davvero sono stati il caso e il destino a fargli negare inizialmente l'evidenza del suo gesto? A fargli dire che non aveva fatto nulla quando invece aveva fatto troppo? Davvero sono stati il caso e il destino a volere che la vita di quella ragazza per Francesco Tuccia non valesse una telefonata al 118 o una richiesta d'aiuto ai suoi amici o a chi lavorava in quella discoteca?

Tutti i giudici del tribunale de L'Aquila paiono aver abbracciato questa tesi miracolosa e non solo hanno rifiutato di condannarlo a 14 anni di carcere (giusta richiesta avanzata dal Pubblico Ministero in primo grado) ma si son rifiutati di condannarlo pure agli 11 chiesti in Appello. Questo nonostante si debba logicamente ammettere che, anche non avendo un'iniziale intenzione di uccidere, col suo comportamento successivo Francesco Tuccia ha dimostrato che la studentessa la voleva morta... probabilmente perché prestarle soccorso avrebbe significato andare incontro a beghe di vario genere (sai che casino veniva fuori!). Si deve logicamente ammettere, quindi, che se il titolare del locale non fosse stato un fumatore non sarebbe andato in quel preciso momento a fumare all'esterno, lontano dall'entrata. Si deve logicamente ammettere, quindi, che quel corpo insanguinato non avrebbe ricevuto aiuti nei giusti modi e tempi e, appurato questo, si deve logicamente ammettere che il militare ha mostrato a tutti la sua volontà omicida nel momento stesso in cui ha cercato di andarsene pur sapendo di aver ferito una ragazza in modo grave, pur sapendo di averla abbandonata sulla neve. Si sia trattato di manipolazione manuale o altro non importa, lui la voleva morta e qui inizia e finisce la storia perché non ha pensato a null'altro se non che se ne doveva andare in fretta da quel luogo. E il fatto che fosse un caporale dell'esercito doveva aggravare la sentenza perché i militari dovrebbero essere addestrati a reagire in maniera onesta e giusta... non a scappare come conigli cercando di evitare le conseguenze dei loro gesti.

Ma il tentato omicidio, è scritto sulle motivazioni di primo grado, non lo si poteva accettare perché i dubbi non lo rendevano certo. Ed è vero che in tribunale i dubbi si devono sempre valutare prima di condannare chiunque. Però è strano che se ne trovino nei processi in cui non ne sussistono proprio, mi riferisco a Francesco Tuccia che chiaramente avrebbe lasciato morire la ragazza, mentre in quelli dove ne esistono a migliaia non si vedano o si decida di condannare all'ergastolo senza considerarli. O forse non è affatto strano e si deve ammettere che i giudici sono essere umani che come quasi tutti noi si fanno influenzare dalla sovraesposizione mediatica della "parte civile". Difficile resistere alle lacrime di una famiglia che ogni giorno in tivù punta l'indice su un ipotetico assassino e chiede giustizia all'opinione pubblica prima che ad un giudice imparziale.

Per cui, una volta di più la nostra giustizia si dimostra personale ed alquanto bizzarra. Per capirlo meglio, basta rapportare i due giudici italiani che hanno disatteso le richieste dell'Accusa condannando a soli otto anni di carcere Francesco Tuccia che in maniera gravissima violentò una donna e dopo averla ferita la lasciò a morire su un cumulo di neve (poco importa da cosa derivino le ferite e poco importa che la donna non sia poi morta visto che se fosse stato per l'imputato non sarebbe viva), a un altro giudice italiano che ha dapprima chiesto alla procura di cambiare imputazioni e poi condannato a ben 14 anni di carcere la guardia giurata Crocifisso Martina (qui il link della notizia) che durante il suo turno di lavoro, allertata da una sirena di allarme, sparò contro una banda di rapinatori, uno morì e alla sua famiglia spetteranno 670.000 euro di risarcimento morale, che stava compiendo un furto in una stazione di servizio Q8 sulla superstrada salentina (su una delle auto usate per la rapina, rubata il giorno prima, vennero rinvenute 500 stecche di sigarette).

Devo essere sincero? Mi disgusta il fatto che per la giustizia italiana chi lavora di notte per difendere la proprietà privata e la nostra sicurezza, ed anche la sua vita visto che di questi tempi i criminali girano armati, viene trattato come una erbaccia da estirpare, mentre chi violenta una donna e la abbandona moribonda sulla neve viene trattato come un figlio da recuperare in fretta alla società (povera anima). Anche queste ingiustizie sono da addebitare al caso e al destino? Oppure è vero che molti uomini vedono nella figura femminile una sorta di "diavolo tentatore"? In fondo ci vuol poco ad alimentare i dubbi: per ottenere sgravi di pena a certi giudici basta dire che la donna aveva i jeans, che era consenziente e non c'è stato alcuno stupro. In fondo, ormai l'abbiamo capito, la nostra giustizia, tanto acida e cattiva con chi si professa innocente, è magnanima con chi confessa i delitti e vedrete che presto ci imbatteremo anche nell'assassino che per scontare pochi anni di carcere ci dirà che la donna da lui violentata era consenziente e che lei stessa gli ha chiesto di abbandonarla fra la neve e lasciarla morire assiderata.

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20 commenti:

Chiara ha detto...

Massimo
ora dirò cose che saranno difficili da comprendere, perchè quando il tecnicismo legale sovrasta il senso comune i risultati sono sempre aberranti (summum ius summa iniuria), ma occorre anche essere consapevoli che la precisione tecnica è inevitabile - e voluta ab origine - in uno stato di diritto che non lascia spazio alla "personalizzazione" del diritto (com'è invece possibile in misura certamente superiore negli ordinamenti di common law).

Fatta la premessa, qual è dunque la chiave tecnica di questa sentenza, che tutti schifiamo?

La chiave sta nella natura del delitto tentato, che (incredibile ma vero) è fondamentalmente diversa da quella dei delitti compiuti: per questi ultimi la giurisprudenza ha elaborato un elemento soggettivo (tale è definito l'animus dell'agente: o di dolo o di colpa) "spurio", quello della "colpa cosciente" o del "dolo eventuale".

Per quanto ci riguarda viene in considerazione il solo "dolo", anche nella forma attenuata del dolo "eventuale" (il tentativo è ontologicamente incompatibile con la colpa: non puoi "tentare" un evento che non "vuoi").

Proprio nella categoria del dolo eventuale rientrerebbe il fatto come da te descritto: "avesse chiesto aiuto dopo essersi accorto della grave emorragia, impedendo quindi che la ragazza rischiasse la morte per dissanguamento e raffreddamento (si era ampiamente sottozero). Così non è stato e lui l'ha lasciata fra la neve e se n'è andato".
Tradotto, questo significa "consapevole accettazione del rischio-morte e suo consapevole non impedimento": non c'è un dolo pieno - perchè l'azione non parte con intenzione omicidiaria - ma nel volgere degli eventi è effettivamente emersa una forma di dolo più attenuata, consistita nel non avere allontanato da sè - anche solo come intima convinzione - la probabilità prossima alla certezza che l'evento avrebbe portato alla morte altrui.

Nel caso ciò fosse avvenuto (ossia se il soggetto non avesse avuto, ragionevolmente, coscienza dell'incombente evento-morte) la morte sarebbe attribuita all'agente come "conseguenza non voluta di altro reato"; ma se quel "non voluta" non può affermarsi perchè a chiunque dotato di media diligenza sarebbe apparso evidente che la morte si sarebbe verificata, allora interviene quella figura-limite che è il dolo eventuale: non intendevi, "ab origine", uccidere, ma avresti dovuto capire che lo stavi facendo.

In base a questo schema, se la ragazza fosse morta, ritengo che Tuccia sarebbe stato senz'altro condannato per omicidio volontario con dolo eventuale (quindi con pena solo lievemente attenuata).

Il punto è che la ragazza non è morta, quindi per poter ragionare sulla fattispecie "omicidio" è necessario far riferimento al reato tentato.
E cosa ci dice la norma che hai citato? che gli atti devono essere "idonei e diretti in modo non equivoco" a uccidere.

Per valutare la sussistenza della non-equivocità ci si mette quindi "a monte" delle azioni per vedere se in esse può ravvisarsi la SICURA volontà di uccidere (non "a valle" giudicandone gli esiti).

In questo caso, "a monte delle azioni" di Tuccia, c'era sicuramente la volontà di avere un rapporto sessuale; sicuramente la volontà di spingerlo oltre al consenso della partner (violenza sessuale); sicuramente la volontà di farle del male (lesioni).

Ma può provarsi "a monte" una volontà di uccidere?

continua

Chiara ha detto...

segue

Effettivamente - sul piano strattamente tecnico - non pare dimostrabile oltre ogni ragionevole dubbio: egli ha sicuramente accettato il rischio molto concreto che, in seguito al dissanguamento provocato dalle lesioni, la ragazza morisse (e se fosse morta avrebbe risposto di omicidio con dolo eventuale) ma "a monte" i suoi atti (di penetrazione violenta con un oggetto lesivo) non erano diretti INEQUIVOCABILMENTE alla morte, bensì alla violenza sessuale ed alle lesioni.
Quindi, dovendo ragionare su un delitto tentato e dovendosi attenere alla regola espressa dalla relativa norma incriminatrice, non può affermarsi oltre ogni ragionevole dubbio, che quella penetrazione (certamente idoena) fosse (anche) diretta in maniera inequivoca a cagionare la morte della ragazza.

Non so se sono riuscita a spiegare la differenza (che non significa approvarla, ma tant'è).

In pratica, è la norma sul tentativo il problema, perchè così come formulata lega le mani non consentendo l'elaborazione di un "escamotage" giurisprudenziale come quello del dolo eventuale che invece il reato di omicidio, in virtù della sua formulazione ampia, ha consentito.

Se la norma fosse stata: "nel caso in cui l'agente avrebbe risposto del reato compiuto qualora l'evento si fosse verificato, ne risponde a titolo di tentativo nel caso in cui l'evento, per qualunque motivo indipendente dalla sua volontà, non si verifichi" allora sarebbe stato possibile punire anche a titolo di tentativo l'omicidio con dolo eventuale (perchè a quel punto la sussistenza del tentativo dipenderebbe solo dalla mancata verificazione dell'evento; viceversa la puntuale formulazione della norma (summum ius) - che richiede la prova della indubbia e inequivoca voluntas necandi a monte delle azioni lesive - crea un divario incolmabile tra la fattispecie tentata e quella compiuta, in quanto gli "elasticismi" elaborati per la seconda (gradi di "intensità del dolo") in assenza di parametri legali che l'impediscano sono invece impediti nel primo caso proprio in virtù della puntualità della norma incriminatrice.

Ovviamente ci sono i motivi "ontologici" perchè la norma è stata formulata in quel senso anzichè nell'altro e hanno a che fare con la repulsa del nostro ordinamento verso la figura della "responsabilità oggettiva", ma il discorso si fa davvero troppo specifico e lascerei stare.

Ci tenevo solo a spiegare come sia possibile che, applicando la legge, si giunga ad esiti tanto lontani da quelli della coscienza sociale; è uno di quei casi in cui una maggiore elasticità della norma meglio risponderebbe alla "personalizzazione" del giudizio e quindi, in definitiva, all'assicurazione di una migliore giustizia per la vittima; ma il nostro ordinamento ha fatto scelte differenti e ancora non si è trovato il modo di superare il dato testuale, TROPPO preciso da questo punto di vista.

Chiara ha detto...

p.s. ciò detto, se fossi un giudice (e forse proprio per questo non lo sono) intanto condannerei motivando al mio meglio, sperando che la sentenza passi il vaglio di legittimità e si stabilizzi così da creare anche un utile precedente: rispetto per la mia coscienza, anzitutto (perchè quel ragazzo è una belva senza un briciolo di resipiscenza), e che con la stretta rispondenza ai canoni di legge se la vedano gli altri (in fondo ci sono tre gradi no? posso sempre sbagliare....)!

Chiara ha detto...

Ciao Massimo, ho finito ora la lettura dell'articolo e mi ha molto colpita la riflessione che fai su una probabile "misoginia" strisciante tra i banchi di quell'aula: perchè davvero non si comprende l'attinenza delle argomentazioni del difensore circa la consensualità iniziale al rapporto! E' da mò che è riconosciuta (incredibile non fosse sottintesa, ma tant'è) la sacrosanta libertà di revocare il consenso a qualunque punto del rapporto e da lì in poi diventa violenza sessuale. Per questo mi stupisco che le domande tese all'accertamento di quel fatto siano state ammesse: che c'entra col seguito - ossia con l'oggetto del processo - se si era strusciata in discoteca e se si era appartata volontariamente? Davvero poteva apparire ragionevole dimostrare che quel consenso iniziale avrebbe potuto far dedurre anche il consenso ai successivi atti di devastazione fisica (che tale era l'intenzione difensiva del legale)? Se non lo fermava la coscienza, avrebbero dovuto fermarlo i giudici quel senza-pudore di avvocato!
Invece il suo intento probabilmente l'ha raggiunto: in fondo non siamo ancora così civili da riconoscere (anche) alle donne il diritto di vivere una sessualità libera e disinibita, credo anch'io che in quei giudici aleggiasse una sorta di pre-giudizio per la condotta "immorale" della ragazza (le mani nelle mutande dell'uomo e via a trombrare dietro l'angolo! inaccettabile!) e che in fondo in fondo, un poco se la sia cercata. Rabbrividisco a immaginare che questo pensiero possa esistere, eppure davvero sembra che solo Maria Goretti abbia diritto di veder riconosciuta la propria integrità e a non vedersi additare come "complice morale" del carnefice. Che nausea...

Unknown ha detto...

E' chiaro, Chiara, che tu in teoria hai ragione da vendere. Ma è altrettanto chiaro che nell'articolo ho inserito delle forzature per evidenziare come i giudici vadano ognuno per proprio conto senza seguire per forza né la legge né il buonsenso. Gli escamotage legali sono all'ordine del giorno (proprio grazie a una legge che si può applicare in base alle proprie convinzioni personali), ma in questo caso l'escamotage che potesse superare la legge e far arrivare ad una sentenza di buonsenso, 14 anni di carcere, al giudice l'aveva offerto l'Accusa con le sue richieste di condanna.

Però, a quanto pare, al tribunale de L'Aquila si è capaci di non accettare i ricorsi motivati a modo e con logica dai legali del Parolisi (ma qui i pianti e gli indici puntati in tivù si sprecavano), ma non si riesce a dar ragione alla procura quando la famiglia della vittima chiede riservatezza e non si mostra sullo schermo restando in disparte (l'unico che ha fatto il nome della ragazza, suscitando un vespaio, è stato l'avvocato del Tuccia in un pomeriggio televisivo).

Infatti in primo grado i giudici non hanno accettato una condanna a 14 anni (che in buona sostanza suppliva alle carenze legislative facendo scontare all'imputato anche il tentato omicidio), ed in appello neppure quella ad 11 anni (il pubblico ministero forse conosceva i giudici e ha cercato di mediare fra gli 8 inflitti in precedenza dalla corte e i 14 che voleva l'accusa per ottenere almeno una condanna semi-equa).

Però la legge è talmente ambigua che sarebbe da discutere anche per quanto riguarda il mettere le azioni "a monte" dell'accaduto e verificare quale fosse l'intenzione iniziale dell'imputato. Se non c'è un cadavere (ma davanti a te, in tribunale, c'è una ragazza che è stata in ospedale una infinità di tempo, che a causa dell'accaduto è stata operata ed ha la vita rovinata) si dovrà cercare di capire se al momento del fatto ci fosse una volontà omicida o meno: ma come si può dar per certo che non volesse uccidere in corso d'opera (come capita a chi litiga in casa e si trova un coltello da cucina in mano), visto che la ragazza non ricorda e lui può raccontare ciò che vuole?

Se non lo è per la legge, per me è chiaro che l'intenzione non può essere desunta da quanto voluto a monte ma da quanto capitato durante, fino ad arrivare a valle. A questo proposito voglio fare un paragone (stupido ma capibile).

Mettiamo che a un padre piaccia giocare alle slot machine e non paghi per un anno gli alimenti né al figlio né alla ex moglie. Mettiamo che la madre non abbia né un lavoro né del denaro perché l'uomo s'è sputtanato tutto al Bingo. In teoria sia il figlio che la madre potrebbero trovarsi senza energia elettrica (non pagando le bollette), restare al freddo e non aver nulla da mangiare per mesi e mesi... e quindi rischiare di morire. A questo punto mettiamo che i vicini li trovino moribondi e chiamino il 118 che li porta in ospedale. Li vengono curati, sfamati e salvati dalla morte.

La logica ci dice che l'uomo inadempiente sapeva bene che se non avesse pagato, sia sua moglie che suo figlio sarebbero morti... oppure per la legge non lo sapeva visto che pensava che in un modo o in un altro si sarebbero arrangiati? Se a monte il padre non aveva intenzione di uccidere, quindi, ma solo quella di non farsi mancare il suo vizio quotidiano, è giusto che non gli venga contestato il tentato omicidio solo perché grazie ad altri non vi sono stati cadaveri?

continua...

Unknown ha detto...

Il Tuccia ha una situazione simile. Lui inizialmente voleva soddisfare una sua voglia, un suo vizio, non uccidere, ma la sua voglia stava per portare alla morte una ragazza e lui, pur sapendolo, non ha fatto nulla per salvarla. Non si tratta di tentato omicidio?

Il tentato omicidio non vuol dire solo sparare o colpire con un coltello intenzionalmente un altra persona che però si salva. In ipotesi, se una donna da uno schiaffo a un uomo che le mette una mano sul sedere e questo cade a terra e sbatte la testa sul marciapiede finendo in coma, rischia l'imputazione di tentato omicidio. E rischia l'imputazione non per quanto accaduto a monte, non voleva certo farlo andare in coma, ma per quanto accaduto a valle.

Ciò che mi fa arrabbiare è che a L'Aquila il tentato omicidio lo si era subito inserito e per questo il Tuccia era finito in cella assieme al Parolisi. Poi, per poterlo liberare e mandare ai domiciliari, lo si è tolto dalle imputazioni nonostante il Gip avesse scritto: La estrema brutalità dimostrata nell’azione, la crudeltà usata, la totale mancanza di scrupolo nel lasciare la ragazza massacrata esposta alla morte per gelo o dissanguamento pone la pericolosità sociale dell’indagato ai massimo livelli e fa concludere che nessuna misura cautelare oltre la custodia in carcere possa essere minimamente idonea a ovviare alle esigenze cautelari esistenti e in particolare al pericolo della reiterazione di ulteriori reati della spessa specie...

Vorrei capire cosa è cambiato dai primi mesi ad oggi? A quanto mi risulta nulla di nulla...

Ciao, Massimo

Chiara ha detto...

Ciao Massimo
una piccola nota sull'esempio dello schiaffo e del coma; no, non verrebbe incriminata per tentato omicidio, perchè se la morte fosse avvenuta il reato sarebbe stato omicidio preterintenzionale, ossia "oltre l'intenzione" e quindi, per il discorso già fatto e già solo per il significato linguistico della espressione "praeter intentio" non essendoci intenzione non c'è l'inequivocabilità della direzione degli atti (intentio necandi=volontà di uccidere).

sul resto credo anch'io che non fosse impossibile giungere alla condanna per tentato omicidio e vorrei sapere come abbia argomentato l'accusa.

secondo me la strada era questa (spero di non essere troppo tecnica):
anzitutto SCINDERE l'azione in due momenti distinti e, in definitiva, in DUE AZIONI DISTINTE, la prima "commissiva in senso proprio" e la seconda "commissiva mediante omissione" (poi spiego un po' sta cosa).
La prima azione (commissiva propria) comincia con il momento in cui deve ritenersi che il consenso della ragazza sia venuto meno e termina con l'avvenuta penetrazione impropria: realizza i reati di violenza sessuale e di lesioni personali (reato che non è ontologicamente assorbito nel primo e quindi ne è consentita la contestazione a parte);
La seconda azione (commissiva mediante omissione) comincia alla fine della penetrazione e perdura "sine die" (non si è infatti attivato lui per evitare l'evento letale); leggerla in questo senso, ossia come se un film si fosse concluso e ne fosse cominciato uno del tutto distinto, sarebbe stata la chiave di volta, perchè allora la "retrocessione a monte" non si sarebbe spinta fino all'uscita dalla discoteca ma si sarebbe arrestata al momento delle compiute lesioni.
Quindi ciak, comincia un film del tutto distinto dal primo: c'è una ragazza a terra in ambiente proibitivo, con una vasta emorragia e in luogo nascosto alla vista dei passanti (circostanze che fanno ritenere con elevata probabilità prossima alla certezza la morte del soggetto), qual è la condotta richiesta a chi vi assista (a prescindere che ne fosse stato la causa)? Ovviamente il soccorso.
Ecco quindi che il caso si configura nè più nè meno come quelli dei neonati lasciati privi di cure subito dopo la nascita da chi assista al parto della donna (la madre ha un altro titolo di reato): in questi casi è pacifica l'affermazione di omicidio volontario sotto forma di commissione mediante omissione.

La commissione mediante omissione è una figura "standard" della teoria del diritto penale, nulla di speciale o di avanguardistico, ed è pienamente compatibile con la figura del tentativo (perchè l'animus necandi c'è, sia pure espresso sotto forma di omissione di atti diretti a salvaguardare la vita di un soggetto evidentemente impossibilitato a sopravvivere senza l'intervento altrui).

continua

Chiara ha detto...

segue


Fondamentale, però, in questo caso, è potere considerare il fatto omicidiario (anche di mero tentativo) in sè e non come conseguenza "naturale" del reato di lesioni, altrimenti è inevitabile "retrodatare" l'intenzionalità all'evento lesivo e indagare se in QUEL momento la volontà fosse di uccidere.

Quindi solo considerando CHIUSA la vicenda stupro+lesioni e aperta una NUOVA vicenda con una vittima a terra moribonda presso la quale non si intervenga è possibile aprire uno squarcio nella vicenda giuridica perchè a quel punto si va ad indagare quale fosse la volontà sottesa a quella omissione: fu volontà di morte o no? Allora entrano in gioco tutti gli indizi indicati: l'evidenza della gravità dell'emorragia, la proibitività delle condizioni climatiche, la non evidenza ai passanti della persona morente; e direi che è già sufficiente per affermare la intentio necandi mediante omissione; POI, a questo va aggiunto il fatto ULTERIORE E DISTINTO (è fondamentale questo punto e non mi stufo di sottolinearlo) che a ridurre la persona in quelle condizioni sia stato lo stesso agente che poi ne ha tentato l'uccisione "impropria": questa circostanza non solo vale a corroborare il giudizio di gravità e concordanza degli altri indizi, ma costituisce la cosiddetta "aggravante teleologica", ossia quella di avere commesso il reato per conseguire l'impunità da un altro (art. 61 n. 2): desiderava morisse affinchè non potesse riferire chi l'avesse massacrata.

Allora sarebbe davvero importante sapere come il p.m. abbia impostato l'accusa perchè, a mio modesto avviso, ribadisco che senza la "scissione" tra prima e dopo, tra un'azione conclusa e una del tutto distinta che comincia (solo occasionalmente collegata dalla medesima identità dell'agente), il tecnicismo normativo non lasciava scampo (e va combattuto con eguale tecnicismo, non con la "pancia" e nemmeno con il senso comune, purtroppo).

Spero di non averla fatta troppo lunga o poco comprensibile.

Sira Fonzi ha detto...

Ciao Chiara e Massimo

Chiara
sei stata chiarissima, ma l'escamotage possibile di cui parlava Massimo poteva essere appunto la scissione di cui parli, eppure non si è voluto ragionare in quel senso.

Questa è l'ingiustizia, ma in fondo basta che nella giuria cia sia un numero elevato di giurati che arcaicamente crede ancora che alcune donne con determinati atteggiamenti possano istigare alla violenza, e il gioco è fatto.

E' purtroppo un problema culturale, di apertura mentale, che nonostante si cerchi di camuffare è radicato in moltissime persone, e i giurati prima di essere giurati sono esseri umani, con le loro radicate convinzioni che possono alterare, se errate, la visione degli eventi e i successivi provvedimenti.

Ciao Sira

PINO ha detto...

@ Ciao SIRA!
Pur essendo ineccepibile, sul piano giurisprudenziale, l'esposizione di Chiara, interpreto, come te, il suggerimento di Massimo sulla mancata "scissione" in due tempi, dell'intero, selvaggio accadimento (peraltro avanzato dalla stessa Chiara), da parte della pubblica accusa.
Ma, l'amico Prati, al freddo tecnicismo giudiziario associa il dettame della coscienza, individuale e collettiva, che non può essere scisso dalla ragione, sia pur contenuta nei termini codificati delle nostre leggi.
In questo caso, oltremodo sconcertante, quei dettami della coscienza, a cui ho accennato, non hanno trovato posto nelle "convinzioni" di un giudice che, in altri casi, sono stati determinanti per distruggere la vita di chi si è trovato imbrigliato nelle reti di una legge che non sempre è "uguale per tutti".
Un abbraccio affettuoso, cara Sira, e tanti auguri per un sereno Natale. Pino

Mimosa ha detto...

Ciao a tutti
Chiara mi pare abbia rgionato da avvocato difensore! vorrei vederla nella versione di legale di parte civile!

PINO ha detto...

Si MIMOSA.
Sarei curioso anch'io di conoscere come, Chiara, imposterebbe la sua trattazione nelle vesti di avversario.
@ CHIARA, ce ne forniresti, gentilmente, un saggio?
Sono certo che ti destreggerai con altrettanta acutezza tecnica.
Pino

Chiara ha detto...

Pino e Mimosa:

ma io l'ho detto: è la strategia della "scissione dei momenti" di cui ho parlato negli ultimi due commenti del 10 dic, che a mio avviso è l'unica idonea a neutralizzare la - tecnicamente corretta - impostazione della difesa intorno alla nozione giuridica del "tentativo".
mi chiedevo, appunto, se l'accusa (leggasi anche parte civile, vale per entrambe) avesse adottato questa strategia o no.

Marco ha detto...

ciao Chiara, da quello che scrivi immagino tu sia una Collega.
Ad ogni buon conto, hai ragione allorquando dici che l'azione delittuosa vada scissa in due parti, la prima attinente alla violenza sessuale + lesioni, la seconda riferibile all'abbandono della persona in quella situazione, dando per certa o altamente probabile la morte...
effettivamente bisognerebbe verificare l'esatta imputazione formulata dal PM, ma ritengo che si possa parlare di violenza sessuale e lesioni, attinte da concorso formale, in continuazione con un tentato omicidio...

Marco ha detto...

In effetti, pensandoci bene, forse ci potrebbe essere qualche problema a ravvisare il disegno criminoso unitario predeterminato...

PINO ha detto...

@ MARCO (avvocato?)

Indipendentemente dalle considerazioni di carattere giudiziario (capite e scontate in quanto molto chiare)), il nocciolo del riferimento verteva sui numerosi, altri particolari da cui il reato veniva caratterizzato, evidenziati dal blogger Massimo Prati, suppongo, più con la coscienza e la logica, che con i codici fra le mani che, come ho già scritto, potevano ( ma non è stato così) trovar posto nelle "convinzioni" dei giudicanti.
Buona serata, Pino

Marco ha detto...

@Pino

Sì, concordo che "umanamente" e "socialmente" si sarebbe potuto decidere diversamente... il senso del mio intervento non era certo per giustificare una decisione che non condivido quanto, piuttosto, proprio di riconoscere che c'era anche la possibilità di una decisione diversa sotto il profilo giuridico... mi chiedo solo... chi avrà veramente sbagliato? Giudici o PM?

Chiara ha detto...

Ciao Marco, prendo in prestito la tua risposta per Pino che condivido in ogni parola: umanamente non c'è da cavillare, l'ha mezza ammazzata e stop, magari marcisse in galera.
Ma in processo occorre usare gli strumenti relativi e se una parte ti pone una questione giuridica "critica" (che, appunto in termini giuridici, sussiste e occorre farci i conti) allora è sempre con questioni giuridiche che se ne esce.
La possibilità c'era, come abbiamo detto, e giustamente al di là dell'impostazione d'accusa (che non è vincolante) il giudice in tutta coscienza avrebbe dovuto fare i salti mortali per individuarla.
Quindi probabilmente è vero che qualcosa è "saltato" nel corretto inquadramento, in scienza e coscienza, di questa abominevole vicenda delittuosa.

Sira Fonzi ha detto...

Ciao Pino,
ti ho inviato una mail al tuo indirizzo di posta elettronica.
Un abbraccio
Sira

Anonimo ha detto...

Secondo me e' solo una persona ke nn ragiona e solo perche' e' spinto dalle sue azioni sessuali sregolate fa del male alle ragazze ke schifo fa ce' da vergognarsi!!