Articolo di Gilberto M.
“A large-screen color TV dominates a room sparsely decorated with expensive furniture of the twenties. There are no books, magazines, newspapers to be seen. A man, CHANCE, is in bed, sleeping”. Inizia così la sceneggiatura di Being There (Oltre il giardino).
Caverna di Platone |
Uno strano contrasto quello di un televisore a colori in un arredamento degli anni venti. Un’immagine d’altri tempi. Ma forse modernissima, attualissima, non ci sono né libri né giornali né riviste. Quello che con i formati elettronici è destinata a diventare la casa del futuro. Chance non sa leggere né scrivere. Ma chissà, forse c’è un tablet nascosto da qualche parte, anche se il film (1979) è girato prima ancora che esistesse il computer di massa e il cellulare. Il contrasto riguarda l’impossibilità di situarci in una precisa dimensione, anche il tempo è un grumo, un blob dove passato e futuro si confondono in un eterno presente. Chance prima di allora non è mai uscito dalla casa dove ha lavorato come giardiniere, la sua esistenza è tutta inscritta nel rettangolo del televisore, quel medium capace di dare consistenza e realtà a un uomo venuto dal nulla, di dargli qualunque identità, indipendentemente dalla sua storia, sovrapponendo e incollando, creando dal niente un personaggio (un eroe o un assassino, un mentecatto o addirittura un presidente designato). L’idiot che diviene savante per effetto mirabile del circo mediatico. Il Fade in (l’assolvenza) della storia potrebbe essere collocato ieri oggi o domani. Ci si potrebbe trovar lì a commentare qualcosa che perfino deve ancora accadere, forse un viaggio nel tempo come nel film 2001, nel silenzio angosciante rotto dalle note di “Sul bel Danubio blu”. Una favola apocalittica con Hal (il computer) che prende il sopravvento sugli umani. Uno stupido elaboratore elettronico (un database di memorie e algoritmi, ferramenta, hardware a governare l’astronave) che sfugge al controllo dei suoi costruttori, che li domina e li uccide. Una science fiction dalle tinte angoscianti e allusive.
Ma i media dell’informazione sono in certo senso più potenti e talora distruttivi del supercomputer che controlla l’astronave con le sue memorie, più intrusivi e dirompenti degli algoritmi che tengono in scacco gli astronauti della Discovery. Nel circo mediatico le persone reali divengono personaggi estrapolando dei frammenti dalle loro esistenze, isolandoli dal loro contesto e deformandoli in una sorta di crudele parodia o accentuandoli in una retorica ampollosa. Un film ‘verità’ semplificato e banalizzato attraverso una sceneggiatura che della persona reale conserva solo elementi isolati, talvolta perfino inventati di sana pianta, dedotti secondo criteri di spettacolarizzazione, in funzione di una rilevanza puramente esteriore. Se si vuol creare un eroe negativo la persona-personaggio viene messa alla berlina e ridicolizzata da altri attraverso un’operazione di isolamento di alcuni fatti, riducendo la complessità delle sue esperienze ad una sorta di slapstick semplificato, una sceneggiatura alla ridolini. Una sistematica violazione della privacy trasformando la vita delle persone in una sorta di acquario, una vetrina dove viene messa a nudo la loro anima, come se si trattasse soltanto di un film.
Pare che "l'italiano medio" legga pochissimo. Anche perché l'uso di protesi elettroniche, gadget e quant’altro, è diffusissima. I cellulari cinguettano ovunque con toni di motivetti e suonerie più o meno gradevoli. Le dita sfiorano le tastiere e le icone sul display dentro il metrò, sul treno, al supermarket, dal dentista, al ristorante... polpastrelli danzanti tra volti ammutoliti e sguardi assenti nella ressa e nel bailamme di una babele di voci e di messaggi incrociati. L’eco di bip mescolati al frastuono. Congegni che squillano all’improvviso nascosti dentro una borsa. Vibrano come un serpente a sonagli in chissà quale tasca... cicalini e motivetti che rompono la monotonia del silenzio montano, dello sciabordare delle onde sul bagnasciuga, dello stormire di fronde e pensieri in un tiepido pomeriggio sonnolento. Perfino nei luoghi di culto può accadere, durante l’omelia, che proprio il sacerdote riceva direttamente dal cielo lo squillo di un messaggio imprevisto. Sconcerto tra i fedeli. Chi il prediletto?
Messaggi di importanza vitale, comunicazioni laconiche: talvolta in codice, intriganti, appassionate, tormentate, professionali, spesso sull’onda del niente, twitter insignificanti, cinguettii per mascherare il rumore di fondo e quel nulla che viene avanti e sembra volerci annientare. Ma per fortuna siamo interconnessi, magari solo per fare gossip, forse solo per mandare un saluto, per dire che esistiamo, per far sentire la nostra voce nell’etere. Chi non ha il cellulare è visto come un matto, un disadattato, quasi un individuo sospetto, un eccentrico balordo, un sordo senza il cornetto acustico o l’impianto cocleare. Sui display degli smartphone corrono i messaggi. Parole suoni ed immagini di un discorso integrato sul touchscreen. Talvolta solo icone, numeri e simboli. Folgoranti note che confermano l'arrivo di altri messaggi, informazioni sul tempo (quello atmosferico), resoconti bancari, messaggi d’amore, dichiarazioni appassionate, tabulati azionari, invettive, notizie lampo, un O.K., una parolaccia, laconici NO o SI, quesiti senza risposta, punti interrogativi ed esclamativi, invettive, messaggi vocali, squilli misteriosi e talvolta inquietanti. Lo smartphone è l’unico che ci conosce veramente, riconosce la nostra voce, il nostro viso, con la telecamera frontale perfino i nostri gesti, meglio del nostro cane o del nostro gatto con il suo sistema operativo intelligente, Vedrete che presto potrà perfino annusarci e scodinzolare virtualmente con un motivetto di riconoscimento. Una chiave d’accesso olfattivo ai nostri dati, il nostro odore impresso nelle sue memorie, un fiuto inconfondibile, meglio di una password alfanumerica, più precisa di quella del naso di un cane da tartufi.
A capotavola nella famiglia italiana non si siede nessuno, c’è la televisione, magari non fisicamente, ma senz’altro come convitato di pietra, come alter-ego, come eminenza grigia che influenza il nostro modo di guardare, di pensare, di vivere. Si è in balia di un’informazione pervasiva, onnicomprensiva, equivalente, un blob che ricorda un film di fantascienza degli anni ’50: "Fluido Mortale". Il medium fisico (il monitor) si trova ubiquamente in vari ambienti domestici, non collocato materialmente a capotavola (magari in salotto, in camera, perfino nel cesso) ma in posizione preminente, non solo con schermi panoramici, anche sul pc, sui tablet, sugli smart… con l’autorevolezza che spetta alle note informative ed alle news di un’emittente instancabile, senza pause e senza riposo. Inquadra un mezzobusto che squaderna le ultime notizie, un moderatore, un conduttore, un divulgatore. E' un monitor narrativo magari collegato direttamente a un chip cerebrale. Roba da fantascienza dietro l’angolo. Il nostro futuro, il nostro passato, il nostro eterno presente.
Il computer? Una finestra sul mondo. Anzi molte finestre. Windows appunto. Libri? Volumi in 3D? Pochi nella famiglia media, ormai immagazzinati in un tablet dalla memoria prodigiosa, virtuali, in formato elettronico, simulando pergamene e incunaboli con font desueti e carta anticata, magari perfino odori di muffe e cellulosa in decomposizione con nasi elettronici a supporto. Un Braille simulato per dare alle dita l’illusione della consistenza di una pagina vera ed alle nostre cellule olfattive quel sentore di colle e quei profumi di cose d’altri tempi, simulando infiorescenze prodotte dai parassiti della carta. Tutto illusoriamente vero, ricostruito elettronicamente per darci l’ebbrezza di scartabellare tra le antiche pagine degli amanuensi, quattrocentine con le macchie di inchiostro e le orecchie sulle pagine stropicciate. Computer quantistici, biblioteche elettroniche in forma di ipertesti, navigazione a vista attraverso un reticolo immenso di strade, un labirinto senza il Minotauro oppure con uno addomesticato a far da guida nei punti nodali e indirizzarci a dovere. Quella sensazione d’avventura, di un mare aperto, senza frontiere, come un immensa scacchiera. Anche il gioco degli scacchi automatizzato, più scaltro e perfido del cervello umano al quale ha dato finalmente il matto. Un ipertesto narrativo dove il lettore è un Pollicino, semina mollica di pane per trovare la via del ritorno, ma poi si perde, si smarrisce... ed alla fine cerca la scorciatoia che lo riconduca nei luoghi familiari della narrazione, nel materno e rassicurante seno della propria pagina personalizzata con tanto di foto e biografia sul social network.
Le notizie, gli oroscopi, i commenti e gli articoli costruiti con degli automi informatici che tagliano, assemblano, cuciono parole e concetti usando dei software dedicati e dei sofisticati algoritmi per estrapolare e filtrare da un immenso database. Giornalisti virtuali, figure retoriche pescate da magazzini di memorie, nelle directory di server dai mostruosi terabyte. Traduttori e trasduttori istantanei che smontano e rimontano pezzi e documenti, glosse e scartafacci che alla fine scodellano chiose e commenti, articoli di fondo e esegesi come se dietro ci fosse una vera testa pensante e non soltanto una procedura di istruzioni, un archivio di modelli da assemblare, lo schema pedissequo di un modulo burocratico o il paradigma di un sistema combinatorio. Chissà, forse anche questo articolo è stato costruito così, mediante un automa informatizzato. Un taglia e incolla ha miscelato un po’ qua e un po’ là shakerando quanto basta mediante procedimenti e calcoli stocastici, usando sistemi probabilistici e simulazioni numeriche. Un articolo scritto da un cervello elettronico e messo insieme con la cura solerte di un word processor di ultima generazione, un terminator della carta stampata. L’utente finale commenta un articolo come se fosse scritto da un autore in carne ed ossa, da qualcuno che veramente si fosse applicato a digitare sulla tastiera o avesse fatto sentire la sua voce in un dittafono. Solo uno scartafaccio assemblato col supporto di equazioni matematiche, non lineari, applicate a un magazzino di dati. Un agente informatico, istruzioni in linguaggio macchina che cerca notizie sul web e poi sforna un testo senza errori ortografici, con un discreto periodare, con un lessico aggiornato all’ultima edizione del dizionario della lingua italiana. Abbastanza plausibile, credibile, persuasivo, verosimile... nei lemmi e nelle concordanze, nelle subordinate, con inferenze dall’apparenza ineccepibile, perfino con il gusto dell’iperbole e della citazione dotta. Commenti assemblati da una base di dati, giusto per sollecitare gli utenti veri, in carne ed ossa, a uscir fuori dal loro guscio ed illuderli di far parte di un vasto circo mediatico.
Il paradosso del mentitore, appunto. Il dubbio autoreferenziale in cui anche l’utente finale una protesi? Forse. Il sospetto che le cose non sono come appaiono, che può esserci l’inganno. Il dubbio è l’argomento per antonomasia della filosofia. Scoprire di avere un’anima di silicio, che sia in atto una mutazione dell’homo sapiens, un incommensurabile salto evolutivo, un nuovo assetto nel dna, un ‘Rna’ ricombinante nell’ipertesto biologico, ma soprattutto culturale. L’operazione è in sordina, senza fare tanto chiasso, ma già in avanzata fase di sviluppo. Automi programmati a rispondere secondo stimoli "s-r". Frequentatori di talk-show televisivi, emozioni e sentimenti prodotti senza neppure più il bisogno di essere a comando, procedure automatiche, implementate direttamente sugli engrammi neuronali, interventi indolori e in totale anestesia. Basta solo il suono di una musichetta, l’input di un segnale convenuto, un interruttore analogico, come per il cane pavloviano, per suscitare la risposta appropriata nell’utente-testimonial: sdegno, commozione, ilarità, pianto, paura... Un pubblico addestrato ai sentimenti epidermici, ai ragionamenti standardizzati, ai dettami moralistici, alle formule canoniche (semplicemente predisposti a pensare per modelli, non più indottrinati ma programmati). Una gamma di risposte testate e riprodotte secondo un pattern, forme costruite idealmente con l’ausilio di schemi e tabelle statistiche. Il moderatore di turno recita la sua parte di anchorman, secondo le proiezioni degli indici di ascolto e eventualmente le esigenze degli sponsor, dei committenti e dei padroni della rete televisiva. Professionisti addestrati a non uscire dai gangheri, a mantenersi entro gli schemi, a non sforare da quanto programmato, concordato e delimitato entro la finestra, nel canovaccio. Opinionisti che girano su cardini perfettamente lubrificati. Educati a non eccedere quando non serve ed a sproloquiare quando il copione lo prevede, perfino incazzandosi se lo script lo contempla.
Sceneggiature che sembrano parlare di cose vere, mentre le cose vere sembrano inventate di sana pianta. Ci si commuove fino alle lacrime per casi umani costruiti a tavolino mentre si rimane impietriti e indifferenti di fronte all’orrore di ingiustizie palesi. Si preferisce credere all’esotico, all’eccentrico, al complicato, piuttosto che far fede sul buon senso, troppo banale o troppo poco di richiamo sull’audience. Meglio ravanare nel torbido, nel difforme, nello stupefacente e nel pruriginoso, per aumentare gli indici di ascolto, per far salire gli indici di gradimento. Un reality globale sull’onda dell’informazione a tutto campo, senza remore e conflitti morali, con utenti perfettamente nel ruolo, ben integrati, motivati, perfino competenti e "à la page", acculturati quanto basta per partecipare ai giochi di ruolo, informati come di dovere per non sfigurare nel certamen di un quiz o in un dibattito sul tema del momento. Oppure sporchi, stupidi e cattivi, quando serve dare una botta di realismo da ricerca sul campo e da inchiesta verità. Pronti a indossare le maschere appropriate a seconda del target, sincronizzati e modulati in funzione degli orari di trasmissione e dei consigli per gli acquisti, senza interferire con la digestione e senza turbare il sonno delle anime candide. Esperti e opinionisti che con espressioni diverse dicono cose tutte uguali, per non contraddirsi, per non dissentire e per trovarsi sempre perfettamente sintonizzati; solo talvolta discordando tra loro, giusto per far vedere che c’è un barlume di contraddittorio. Se poi occasionalmente c’è una rissa, è sempre ben preparata e organizzata fin nei minimi dettagli. Utenti e quasi attori collaborativi anche quando dissentono. Conformi al progetto perfino quando sembrano polemizzare e contrastare.
Il tema è anche il leitmotiv del film The Truman Show o di certa fantascienza, dove si scopre che tra noi ci sono androidi, cyborg, macchine che simulano gli esseri umani soltanto nella veste esteriore, ma che in realtà sono guidate da una logica inscritta in circuiti elettronici, che sotto pelle hanno solo pulegge ed attuatori, che al posto degli occhi hanno telecamere all’infrarosso e nel cervello una densa schiuma di neuroni sintetici. Macchine che talvolta sembrano perfino possedere debolezze e sentimenti umani, sia pure in forma simulata e artefatta. Forse siamo soltanto cervelli in una vasca, nutriti con informazioni ad hoc, tenuti sospesi in una sorta di mondo illusorio. Immaginiamo una realtà là fuori, ma tutto si svolge dentro di noi, un mondo costruito per darci l’illusione di esserci. Macchine che desiderano, amano e muoiono, nella speranza che non sia tutto vano, solo una finzione per farci credere che esistiamo. Tutti in fondo amiamo il grande fratello orwelliano, lo abbiamo introiettato, cresce dentro di noi come un parassita, l’Alieno che prima o poi ci squarcerà il petto per uscir fuori. Ma quel mostriciattolo che ci cresce dentro è solo una metafora. In fondo ci piace così tanto lasciarci guidare da quei chip inseriti sotto pelle... per il nostro bene ovviamente, per la diagnosi delle malattie (sembra che verranno resi obbligatori).
No, ancora non ci sono stati impiantati (solo a cani e gatti) o almeno ci illudiamo che non navighino già dentro di noi nel flusso ematico, insufflati con l’aerosol, introdotti con qualche "ogm" o semplicemente con una pillola contro il mal di testa... le nanoteconolgie ultimamente hanno fatto passi da gigante. Statene certi, per il nostro benessere psicofisico presto ci verranno inseriti. Qualcuno dice sul dorso della mano, per facilitare le operazioni bancarie e la spesa al supermercato al posto della carta fedeltà, qualcuno scommette sul tronco encefalico, per veloci comandi wireless e favorire comunicazioni telepatiche. Per chi ironizza sulle sfere di cristallo non ci saranno più scuse sulla possibilità di controllo a distanza dei robot, saremo guidati come gli zombi verso un paradiso di delizie. Tutto avverrà con il nostro benestare, con il nostro assenso entusiasta, un controllo totalizzante peer-to-peer, finalmente monitorati nelle nostre malattie, nei nostri malesseri, nei nostri bisogni, nelle nostre devianze, perfino nelle nostre fantasie e nei nostri sogni. E non dovremo neppure più aver bisogno di dimostrare che abbiamo sognato. I nostri più reconditi pensieri affioreranno tra i chip che un software solerte e discreto provvederà a decodificare in tempo reale. Non ci sarà neppure più bisogno di far da testimoni nelle cause civili o penali: i processi dureranno poco più di un lampo, come memorizzare un file, con condanne e assoluzioni perfino prima che si compia un delitto, senza bisogno nemmeno di avvocati difensori e di prove. Basterà scaricare le memorie dal chip installato sulla corteccia cerebrale e d’un baleno si scoprirà l’assassino, il movente e l’arma del delitto.
Memorie processate in diretta con una connessione integrale, telecamere miniaturizzate negli spazi intersinaptici a svelare l’arcano di un giallo insolubile, di un amore tormentato, di una combine sportiva. Il tutto è vero e il tutto è falso. Sì, in fondo è così bello ogni tanto lasciarci ingannare, fingere di sentirci protagonisti... per la nostra sicurezza, per la nostra felicità, per la nostra salute e il nostro benessere. Una società globale, perfettamente omogenea, salvo quei fastidiosi timori di un pianeta sull’orlo di una apocalittica crisi ambientale, quell’oscuro malessere di una catastrofe incombente, quel senso di irrealtà e solitudine che ci prende soprattutto quando siamo in mezzo alla gente. Fantasie da eliminare, soltanto disturbi comportamentali, depressioni bipolari. Patologie da curare farmacologicamente, solo nei casi estremi da lobotomizzare con interventi cruenti e con impianti di sostituzione. Neuroni sintetici e protesi artificiali. Nei chip sottopelle un rilascio lento e graduale di ansiolitici e antipsicotici risolverà perfino i casi conclamati di follia. Ritroveremo tutti la pace interiore, nessuna paura irrazionale a turbare i nostri week end al mare o in montagna con lo squillo rassicurante del cellulare... saremo già interconnessi. Ma se non bastasse il farmaco di ultima generazione testato con gli elettrodi impiantati sul cervello di un Beagle? Niente paura. Ci sarà un chip posizionato a guardia sull’assone nervoso, uno psicoanalista virtuale, un cranioscopo portatile sempre pronto ad ascoltare le nostre angosce più segrete, sempre pronto a reintegrarci nel nostro ruolo sociale sfruculiando amorevolmente la nostra corteccia cerebrale. Telecamere dentro e fuori di noi, nanosensori in un ambiente simulato e perfettamente integrato, la nostra vita da Truman, contenti delle favole che ci raccontano (la favola bella che ieri mi illuse e che oggi mi illude).
Nel mito della caverna Platone ci parla di schiavi che incatenati nel loro mondo oscuro vedono sulla parete della grotta dove vivono delle ombre che scambiano per cose vere, per il mondo vero. Sì, proprio un televisore ante litteram, un incubo perenne anche senza tubo catodico o lo schermo al plasma. C’è da chiedersi davvero dov’è il passato e dov'è il futuro se più di duemila anni fa’ c’erano già spettatori davanti ad uno schermo, sia pure tecnologicamente meno avanzato e più rudimentale, sia pure con strumenti di costrizione primitivi come le catene. Oggi ci sono i bracciali elettronici... e di più ancora quei lacci impalpabili, nemmeno cinture di sicurezza, suadenti legami psichedelici, dolci promesse del nirvana, polverine magiche o soltanto onde impalpabili che corrono nell’etere. Orbene, nel racconto di Platone uno di questi schiavi riesce a liberarsi e ad uscir fuori dalla caverna dove arde un fuoco che proietta le ombre sul fondo della grotta illudendo gli schiavi con un gioco di chiaroscuri. Lo schiavo liberato si rende improvvisamente conto dell’inganno. Una volta fuori alza a fatica le palpebre, per via della luce intensa alla quale non è abituato, ed alla fine i suoi occhi riescono a scrutare il mondo vero, non quello illusorio della caverna. Un sole caldo e luminoso brilla nel cielo, non è più l’ambiente claustrofobico dove aveva sempre vissuto incatenato.
Un lieto fine? Anche Truman (The Truman Show) alla fine scopre l’inganno (il cinema pesca a piene mani nella letteratura e nella filosofia). Anche il protagonista dello show è stato costretto a vivere fin dalla nascita in un ambiente simulato. Per rendere più realistica e credibile la vicenda ai telespettatori del reality, altrimenti come potrebbero identificarsi? Ma c’è un atroce sospetto. Non ci vien detto (non esplicitamente) lasciandoci contenti di un bel finale edificante, che là fuori potrebbe esserci un teatro ancora più grande (un’altra caverna ben illuminata da un altro sole artificiale appeso in cielo come un’abatjour). Che i telespettatori sono interpreti di un altro reality. Schiavi incatenati, ma senza saperlo, in un grazioso e accessoriato studio televisivo con tutti gli effetti speciali e le diavolerie del caso. Partecipano ad un talkshow. Crediamo di essere commentatori di Cold Case, di aver capito tutto perché noi non ci facciamo di certo menare per il naso, sappiamo bene come va il mondo, chi è il colpevole. Siamo interpreti di un reality che non riusciamo a vedere, comparse per rendere il soggetto e lo script virtualmente credibile? Platone ci parla degli svegli e dei dormienti. E forse come Chance (is in bed, sleeping) siamo davvero addormentati davanti a un televisore. Ipnotizzati da quel fluire ininterrotto di immagini rielaboriamo nel sonno le ultime notizie, sognamo di essere svegli, di uscir fuori dalla caverna e di sentire un rumore di risacca, di vedere un mare immenso, un panorama mozzafiato dove dei gabbiani volano liberi nel cielo.
È solo un oceano di bit con un sole caldo che ci inonda del suo fluido elettromagnetico? Siamo veramente svegli? Chissà...
Gilberto M.
8 commenti:
Una visione assai crudelmente precisa della realtà attuale. Personalmente ritengo che la tecnologia, ormai mirante non semplicemente ad aiutare l'uomo in ogni sua fatica fisica ed intellettuale, ma a sostituirlo integralmente, porterà alla distruzione di sé e dello stesso uomo, che ormai non potrà più farne a meno, neppure nelle più naturali funzioni biologiche. Un'assenza prolungata di energia, in un tempo nel quale l'uomo farà tutto tramite macchine, potrebbe portare alla sua morte.
Una delle ipotesi sulla scomparsa dei grandi dinosauri è il fatto che il loro cervello fosse stato troppo piccolo relativamente alle dimensioni corporee e che avesse avuto bisogno di centri nervosi autonomi per il funzionamento delle zampe posteriori.
La tendenza ad utilizzare la macchina al posto del cervello potrebbe portare all'atrofizzazione delle zone nobili del cervello e, alla fine, alla distruzione della specie, che non avrà più gli strumenti creativi per sopravvivere in casi di emergenza. Il problema, già posto dagli Illuministi e Romantici (cfr. E.T.A. Hoffmann ne "L'Uomo della Sabbia"), relativamente ai celebri automi meccanici, come il "Turco giocatore di scacchi", ebbe ulteriori analisi col celebre "black out" di New York, negli anni Sessanta, e poi nel mondo intero con la crisi petrolifera negli anni Settanta. Gilberto M. riprende ed approfondisce il tema con spietato realismo, lasciando però - mi pare - sullo sfondo gli aspetti autodistruttivi del fenomeno.
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