Articolo scritto da "Pamba"
Mi hanno insegnato che per comprendere un problema bisogna prima definirlo. Dislessia dal punto di vista etimologico deriva dal greco e significa difficoltà nella lettura, ma può comprendere anche altri disturbi delle abilità scolastiche, quali disortografia (errori involontari, ripetuti anche dopo la correzione dell'insegnante), disgrafia (testi illeggibili anche agli stessi bambini, con inversioni lettere p/d, v/f p/q, m/n) e talvolta discalculia (in generale difficoltà d'apprendimento delle tabelline, errori nell'allineamento, inversioni di numero 21/12). In pratica è una difficoltà che riguarda bambini che non hanno deficit intellettivi (Q.I. nella norma o superiore), problemi psicologici, sociali o sensoriali (ci vedono bene, ma è errata a livello neurobiologico la decodifica della parola) ed interferisce notevolmente con i primi momenti dell’apprendimento.
Pertanto, se non riconosciuto ed aiutato, un bambino dislessico può anche imparare a leggere e scrivere ma riesce a fare queste cose, che per le persone normali sono automatiche, con un grande sforzo, stancandosi molto, commettendo errori e "rimanendo indietro perché più lento". In poche parole, non impara alla stessa velocità degli altri. Dunque dovrebbe essere un problema non secondario per la scuola, se è vero che la dislessia interessa circa il 4% della popolazione scolastica (almeno 1 per classe). Dove sono tutti questi bambini invisibili? La dislessia non nasce da un disturbo psicologico, i bambini sono i primi a vivere la propria difficoltà, nel fare cose normali per i loro compagni di classe, senza riuscire a darsene una spiegazione. Il disagio psicologico è dunque una conseguenza della dislessia, che ha ripercussioni sull'autostima degli alunni e che può tradursi in disturbi di comportamento (irrequietezza, disinteresse, chiusura). Ecco, potrei dire che le definizioni sono utili, ma a partire dall'effetto del problema perché è quest’ultimo aspetto la prima cosa che vediamo, prima ancora di capire come spesso succede ai genitori.
La mia esperienza da genitore è cominciata in prima elementare, quando improvvisamente quel bambino, senza alcun problema nella scuola materna e prima di allora allegro, vivace, creativo, usciva da scuola sempre più agitato ed irritabile, quaderni e diario pieni di note, compiti da rifare. Trepidante, come tutti i genitori dei "primini" all'uscita da scuola, mi sono sentita accogliere da una delle maestre con "suo figlio è tremendo, impossibile che non sia stato segnalato". Ma cosa succedeva dunque in classe? Mio figlio si distraeva spesso, eseguiva parzialmente le consegne, infastidiva i compagni, quando era calmo si metteva a giocare sotto il banco con il materiale scolastico e si alzava in continuazione per temperare la matita. In poche parole, disturbava il regolare svolgimento della lezione. Non solo, diceva bugie perché avendo scritto tutti i numeri al contrario sosteneva che era stata la maestra a scriverli così alla lavagna, e la maestra lo aveva smascherato facendogli mostrare dagli altri bambini tutti i quaderni con i numeri correttamente ricopiati.
Per i comportamenti da disturbatore era punito con il cosiddetto filo della pazienza, un nastrino che veniva tagliato dalle maestre da un gomitolo appeso vicino alla lavagna ed annodato al polso del bambino disturbatore. Stava a significare l'esaurimento della pazienza delle maestre e avrebbe dovuto servire, nelle loro intenzioni, a comunicare ai genitori la punizione poiché non poteva essere tolto neanche a casa e, se ciò avveniva, veniva riannodato il giorno dopo dalle stesse insegnanti. Ovviamente il contrassegno era ritenuto democratico. Questo perché tutti i bambini erano stati informati delle conseguenze dei loro comportamenti negativi e perché la punizione, in effetti, non riguardava solo M. ma un gruppetto di bambini agitati dal primo approccio con l'esperienza scolastica.
Il tutto, come logica vuole che sia, si ripercuoteva in famiglia. Per cui a casa iniziò un periodo di reciproche accuse sui metodi educativi, su come dovessimo essergli d'aiuto per lo svolgimento dei compiti (entrambi di formazione universitaria). Inoltre fummo portati ad un controllo ossessivo di quaderni e diario, ed a rinforzare in negativo le punizioni. Insomma, per dirla con una sola parola si viveva in un "incubo". Nel frattempo da una delle maestre, che svolgeva anche il compito d'insegnante di religione, ci veniva comunicato per iscritto che M. era l'unico bambino della sua classe che non si avvaleva dell'Insegnamento della Religione Cattolica. "Se intendete cambiare la scelta" - ci scrisse - "occorre rapidamente comprare il libro di testo”. Prontamente, per non far ricadere sul bambino l'affermazione dei nostri principi e far pesare su di lui un ulteriore diversità, decidemmo di cambiarla la scelta, rinunciando così all'insegnamento di materie alternative che avevamo fatto al momento dell’iscrizione.
Il tutto, come logica vuole che sia, si ripercuoteva in famiglia. Per cui a casa iniziò un periodo di reciproche accuse sui metodi educativi, su come dovessimo essergli d'aiuto per lo svolgimento dei compiti (entrambi di formazione universitaria). Inoltre fummo portati ad un controllo ossessivo di quaderni e diario, ed a rinforzare in negativo le punizioni. Insomma, per dirla con una sola parola si viveva in un "incubo". Nel frattempo da una delle maestre, che svolgeva anche il compito d'insegnante di religione, ci veniva comunicato per iscritto che M. era l'unico bambino della sua classe che non si avvaleva dell'Insegnamento della Religione Cattolica. "Se intendete cambiare la scelta" - ci scrisse - "occorre rapidamente comprare il libro di testo”. Prontamente, per non far ricadere sul bambino l'affermazione dei nostri principi e far pesare su di lui un ulteriore diversità, decidemmo di cambiarla la scelta, rinunciando così all'insegnamento di materie alternative che avevamo fatto al momento dell’iscrizione.
Ai primi colloqui di classe, dopo tre mesi dall'inizio della scuola, dopo un colloquio tra le nuove maestre e l'insegnante della materna (da me sollecitato), la situazione non era affatto cambiata, dal punto di vista del comportamento in classe di mio figlio, ma sicuramente era cambiato il mio atteggiamento. Certamente difendevo il modello educativo della nostra famiglia, anche se un po' debolmente con frasi del tipo: "siamo bravi genitori, non capisco perché M. si comporti così", ma nello stesso tempo iniziavano a sorgere in me i primi dubbi. L'occasione venne da un confronto con mio figlio in cui mi accusava di averlo mandato a scuola prima del tempo, perché lui aveva capito che avrebbe soltanto cambiato scuola materna non vita. Ed il ritrovarsi in quella scuola, già preoccupato al momento di entrare perché le scale sembravano quelle di un Tribunale, lo aveva spiazzato e soltanto quando aveva visto altri bambini si era sentito un po' tranquillizzato.
Ed a questo punto, con l’unico obiettivo di pensare al bene di mio figlio, mi sono data da fare cercando informazioni in "rete", parlando con amici e conoscenti, insegnanti e psicologi di professione, fino ad approdare, senza saperlo, ad un centro psicopedagogico specializzato nei disturbi dell'apprendimento. Mio figlio è stato precocemente valutato ed aiutato, anche se la diagnosi: "affetto da dislessia evolutiva" (ma non avevano detto che non era una malattia?) è stata fatta con certezza solo alla fine della seconda elementare. Le insegnanti hanno incontrato la psico-pedagogista e pur con qualche resistenza alle prime spiegazioni (una delle due avrebbe detto "comunque per me è soltanto maleducato!") hanno iniziato a considerare diversamente il percorso didattico del bambino. In particolare maggiore sensibilità è stata dimostrata proprio dall'insegnante di religione, che abbiamo scoperto essere stata, in gioventù, insegnante delle famigerate scuole differenziali, dove probabilmente finivano anche bambini dislessici quando ancora non c'era conoscenza del problema.
La definizione del suo disturbo ha comportato per M. una maggiore tranquillità psicologica ma anche un ulteriore impegno, comunque positivo per i risultati, dovendo seguire un percorso di riabilitazione settimanale presso il centro, con esercizi al computer da svolgere a casa. Per noi è stato un impegno economico, dato che si parla sempre di strutture private, che abbiamo sostenuto fino alla prima media. Ora M., sempre per la statistica, è un "dislessico compensato". Le stesse maestre delle elementari, che spero abbiano riflettuto su quest'esperienza e l'abbiano fatta loro, lo hanno aiutato anche nell'inserimento alla scuola media, dedicandogli tempo non conteggiato nell'orario di lavoro. M. è stato dunque fortunato, ma cosa succede a quei bambini invisibili della statistica (il 4% della popolazione scolastica)? In tutti questi anni di conferenze, incontri tra genitori, partecipazione a seminari per insegnanti (a volte purtroppo scarsamente frequentati, se non validi come punteggio per la formazione), dialoghi con amici e genitori, che sentivo più sensibili al tema delle diversità, ho scoperto che questi bambini invisibili esistono veramente ma, spesso e volentieri, non sono altrettanto fortunati.
Sono quelli scoperti tardivamente e dopo ripetuti insuccessi scolastici, quando è ormai troppo tardi per un percorso riabilitativo, utile solo se effettuato nei primi momenti d'apprendimento della letto-scrittura. Sono quei bambini che non hanno risorse economiche per usufruire di strutture private ed il pubblico, nei centri minori, si occupa soltanto di certificazione dell'handicap, concessa per giunta sempre più raramente. E i dislessici non necessitano d'insegnante di sostegno, a meno che il loro problema non sia associato ad handicap d'altro tipo. Quando il disturbo si manifesta in una situazione familiare disagiata i dislessici, quasi mai riconosciuti come tali, finiscono per essere segnalati ai servizi sociali, dalla stessa scuola che frequentano, o, al limite, il loro problema viene inserito nell'ambito della "psicologia comportamentale". Esistono persino delle statistiche che associano la dislessia a comportamenti socialmente devianti. Infine, tra questi bambini invisibili, ci sono purtroppo anche figli di insegnanti che rifiutano la diagnosi o l'aiuto esterno (ne ho conosciuti), perché pensano di fare da soli riconducendo il problema alla necessità di un maggiore impegno del bambino e della famiglia.
Sono quelli scoperti tardivamente e dopo ripetuti insuccessi scolastici, quando è ormai troppo tardi per un percorso riabilitativo, utile solo se effettuato nei primi momenti d'apprendimento della letto-scrittura. Sono quei bambini che non hanno risorse economiche per usufruire di strutture private ed il pubblico, nei centri minori, si occupa soltanto di certificazione dell'handicap, concessa per giunta sempre più raramente. E i dislessici non necessitano d'insegnante di sostegno, a meno che il loro problema non sia associato ad handicap d'altro tipo. Quando il disturbo si manifesta in una situazione familiare disagiata i dislessici, quasi mai riconosciuti come tali, finiscono per essere segnalati ai servizi sociali, dalla stessa scuola che frequentano, o, al limite, il loro problema viene inserito nell'ambito della "psicologia comportamentale". Esistono persino delle statistiche che associano la dislessia a comportamenti socialmente devianti. Infine, tra questi bambini invisibili, ci sono purtroppo anche figli di insegnanti che rifiutano la diagnosi o l'aiuto esterno (ne ho conosciuti), perché pensano di fare da soli riconducendo il problema alla necessità di un maggiore impegno del bambino e della famiglia.
E’ vero che la scuola si giustifica con il rifiuto di molti genitori che, quando vengono invitati ad approfondire un disagio, preferiscono cambiare classe o scuola al proprio figlio. Gli insegnanti lamentano poi la crisi del riconoscimento del loro ruolo nella società, la scarsità delle risorse a loro disposizione (il computer è fondamentale per garantire l’uguaglianza dei dislessici nell'apprendimento), i tagli del personale ed i continui cambiamenti cui sono costretti dalle ultime riforme. Eppure la scuola si trincera dietro a sigle altisonanti (PEP – Piano Educativo Personalizzato, Equipe Psicopedagogica) ed alla conoscenza delle circolari ministeriali sugli strumenti compensativi e dispensativi per dislessici, che però spesso sono parole vuote, la cui applicazione, pur minima, si basa sulla sensibilità del Preside e di qualche insegnante. Una concessione che comporta comunque una costante richiesta ed attenzione da parte del genitore. E' triste che finiscano per essere proprio i bambini, i principali soggetti da tutelare, a fare le spese delle difficoltà della scuola italiana.
E' un peccato che il riconoscimento di un proprio diritto dipenda frequentemente soltanto dalla componente umana. Come è successo a M. quest’anno, in seconda media, quando il nuovo professore d'italiano, preventivamente contattato, ha esordito citando Valeriano Magni, un precursore della moderna pedagogia, il quale sosteneva che per insegnare "bisogna amare i ragazzi". Quest'amore ha comportato che per la prima volta il computer portatile di M. è finalmente entrato in classe, almeno nei temi d'italiano, mentre sia alle elementari che in prima media era sconsigliato dagli insegnanti stessi. Si faceva, mi veniva detto, per non marcare la diversità di M., anche se spesso ho avuto l’impressione che il "pc" comportasse più problemi agli insegnanti ed alla scuola, tutta basata sulla certificazione della produzione cartacea e sul mantenimento dell'ordine in classe, perché "anche gli altri bambini" - cosiddetti normali - "lo avrebbero voluto usare". La componente umana ha determinato che quest'anno M. frequenti senza traumi i corsi di recupero pomeridiani (gratuiti, finalmente), ai quali non era stato indirizzato l'anno precedente, sempre per non rimarcare la sua diversità, tanto era già seguito fuori della scuola. La componente umana ha determinato il ritorno della "lavagna interattiva" nella classe, non disponibile inizialmente quest'anno perché non ve n'erano a sufficienza per tutti i bambini.
E la stessa componente umana è determinante, stavolta in negativo, quando in classe viene richiesto al ragazzino, nonostante la sua certificazione, di ricopiare a mano ricerche effettuate al computer o quando gli vengono assegnati e valutati una gran quantità di compiti, e questo anche il giorno successivo al corso di recupero pomeridiano, perché avrebbe dovuto avvantaggiarsi nei giorni precedenti. Comunque di un insegnamento non tradizionale, con schemi, mappe concettuali, uso di strumenti informatici, audiovisivi, apprendimento dalle esperienze e dalle attività manipolative, potrebbero avvantaggiarsi tutti i ragazzi. E' quanto risulta in poche esperienze nella scuola pubblica, prevalenti al nord della nazione italica, in particolare nel modello emiliano, o in Scandinavia, mentre in Italia, nel privato, già sappiamo che il problema non si pone (le famose scuole steineriane, ad esempio).
La mia personale conclusione è che, purtroppo, la scuola italiana è impreparata di fronte alle tante diversità di ogni tipo, da quelle culturali e socio-economiche (estrazione sociale, Paese di provenienza) a quelle relative a problematiche specifiche, e non sufficientemente sostenuta a livello politico e sociale. E vorrei tanto che quel filo della pazienza della scuola elementare diventi il filo della speranza per una scuola che, non ferma agli apprendimenti specialistici ed al programma, persegua il progetto educativo di formare i giovani, in fondo tutti uguali e tutti diversi.
Concludo con la frase che più mi ha aiutato in questi anni. Anzi, non è una frase, è una battuta di "Cetto La Qualunque", alias Antonio Albanese, nel suo programma elettorale: "I giovani, non mi stancherò mai di dirlo, non sono una risorsa, i giovani sono un problema".
Cara Pamba,
RispondiEliminail tuo articolo è molto bello, e descrive bene le difficoltà che alunni e genitori devono affrontare spesso a scuola.
Sono un insegnante di scuola secondaria superiore, che ha frequentato quei famosi corsi di aggiornamento di cui parli. Fin da quando ho iniziato ad insegnare, ormai da più di 20 anni, ho avuto nelle classi ragazzi con DSA. Ti posso dire che in molti cerchiamo di usare una didattica adatta a questo disturbo specifico, ma in passato molto era lasciato, come tu dici, all'umanità dei singoli.
Oggi però esiste una legge, la 170/2010 ed un decreto attuativo del luglio di quest'anno e ti posso assicurare che, almeno nella mia scuola, la Dirigente l'ha più volte portata all'attenzione di tutti i colleghi. Siamo forse solo agli inizi, probabilmente tu e tuo figlio dovrete lottare ancora a lungo, ma qualcosa si sta muovendo. Forse anche un articolo come il tuo potrà stimolare la sensibilità di chi questi problemi, per sua fortuna, non li vive.
Per consolarti ti dico, ma già lo saprai, che molti dei geni del passato sono stati dislessici (lo dicono ad es. di Einstein), ma anche tanti pittori, cantanti ed attori contemporanei lo sono, ad es. Tom Cruise. Probabilmente sono stati aiutati dall'avere persone speciali al loro fianco, speciali, come per esempio, lo può essere una mamma.
Continua con la tua determinazione,
Tiziana
Grazie Tiziana per le belle parole ed anche per i riferimenti legislativi più recenti, che non conoscevo.
RispondiEliminaMi fa molto piacere trovare insegnanti come te, che si impegnano nella ricerca di una didattica adatta ai DSA. Come avrai visto sono ragazzi normali, ai quali basterebbe veramente poco se fossero stati valutati ed aiutati nei primi anni dell’apprendimento.
Paradossalmente, mio figlio è stato fortunato anche perché ha manifestato “fisicamente” il suo disagio ed ha richiamato l’attenzione su di sé. D’altra parte, le sue maestre come avrebbero potuto capire da lettere e numeri rovesciati, parole scritte in modo speculare, lettura sillabata, molto frequenti nell’apprendimento dei primi elementi della letto-scrittura? E successivamente alle stesse maestre riconosco molto impegno e dedizione nell’affrontare un problema completamente nuovo.
Per questo mi piacerebbe che l’applicazione delle nuove norme, screening ed iniziative di formazione per insegnanti e genitori iniziassero proprio dai primi anni della scuola. Senza drammi, per far capire anche ai genitori che è solo un piccolo problema, tra i tanti da affrontare nella vita, che può diventare grande se non affrontato in tempo.
Pamba