Articolo di Gilberto M.
"I confini dell'anima non li
potrai mai trovare per quanto tu percorra le sue vie, così profondo è il suo
logos". Eraclito
Nella
cinematografia dei film di fantascienza spiccano tre opere emblematiche di un paradigma
relativo al futuro che ci attende: Alien
(del 1979 diretto da Ridley Scott) Blade
Runner (del 1982 diretto ancora da Ridley Scott e ispirato al romanzo
del visionario Philip Dick intitolato: "Do Androids Dream of Electric Sheep?"),
e Terminator (del 1984 diretto
da James Cameron). Le vicende che narrano sono molto diverse tra loro ma
costituiscono la premessa di sviluppi cinematografici che parlano non tanto del
nostro futuro quanto del nostro presente. Si tratta di un presente nel quale
siamo scivolati sommessamente e inconsapevolmente, quasi senza neppure
avvertire i cambiamenti che ci hanno trasferito in un’altra realtà, un mondo in
cui gli automatismi tecnologici avvolgono il nostro quotidiano, pervadono la
nostra vita e ci condizionano. Che cosa accomuna i tre film? Il tema
dell’androide, della macchina così sofisticata da apparire come un essere umano?
(anche in Alien il tema dell’androide, Ash, è la chiave del film).
Forse, ma non solo. Ai tre film che costituiscono gli antesignani di tutto un genere ne aggiungerei un quarto che sembra non entrarci nella saga delle macchine della science fiction e delle diavolerie tecnologiche e spaziali. Si tratta di The Truman Show, dirò poi come entra nel discorso, e un quinto: Matrix (un film del 1999 scritto e diretto dai fratelli Andy e Larry Wachowski), nel quale un’umanità soggiogata combatte contro le macchine intelligenti costruite all’inizio del ventunesimo secolo, che connettono gli esseri umani a una realtà virtuale e usano i loro organismi come fonte di energia. Ma lì è più interessante l’indeterminazione temporale, non si sa bene in che anno ci troviamo, o addirittura in quale secolo o in quale millennio. E’ da dire che il tema è quello del mito della caverna di Platone che ritroviamo anche in altri cineasti e, trasfigurato, in diverse opere letterarie. E’ il tema del risveglio da una condizione nella quale siamo schiavi, incatenati davanti a uno schermo, quello del fondo della caverna che scambiamo per realtà vera. Abbiamo così cinque film che costituiscono un ritratto della nostra società così come si è andata configurando negli ultimi decenni del ventesimo secolo, ma che alludono agli scenari di questo ventunesimo in modo inquietante, fornendo del nostro futuro un quadro distopico (da utopia negativa). Le angosce di fine millennio sembrano materializzarsi attraverso scenari horror dal volto minaccioso ed alieno, sia pure ancora connotati da un lieto fine convenzionale o da quello spiraglio di speranza (introdotto forse per non turbare le anime candide) di cui abbiamo tanto bisogno per sopravvivere all’angoscia e all’incertezza del futuro.
Da una prima lettura superficiale sembrerebbero semplici accentuazioni in chiave fantascientifica degli sviluppi tecnologici in una dimensione esagerata, surreale e improbabile, l’amplificazione di tutti gli effetti speciali del nostro quotidiano mestiere di vivere in uno scenario da inferno dantesco in forma digitale e cibernetica. Scenari da estetica gotica, vuoi in astronavi cupe e labirintiche, vuoi in città dalle architetture fumose e spettrali, vuoi in inquietanti congegni robotici che agiscono come macchine cieche e spietate. I cambiamenti tecnologici e gli sviluppi scientifici sono portati all’ennesima potenza per prefigurare i rischi e le incognite del futuro imminente, di una tecnologia che sfugge di mano 'all’homo faber' per farlo diventare schiavo di ciò che ha costruito. L’angoscia tecnologia occhieggia a una sorta di luddismo post industriale, in atmosfere lugubri e claustrofobiche. E’ anche il riferimento all’analisi marxiana dell’alienazione, del prodotto del lavoro che sfugge all’operaio e si erge minaccioso contro di lui dominandolo. Ai film possiamo associare un romanzo, il 1984 di George Orwell nel quale il lieto fine non c’è proprio. "1984" è un romanzo scritto nel 1948 e che avrebbe dovuto avere come titolo l’apocalittico "The last man in Europe", ma poi si è preferito invertire le ultime due cifre dell’anno di pubblicazione in Nineteen Eigthy-Four (tra l’altro è uscito anche il film Orwell 1984 - nel 1984 - diretto dal regista Michael Radford, ma noi ci riferiremo all’opera di Eric Arthur Blair, meglio conosciuto appunto con lo pseudonimo di George Orwell). A un romanzo infine voglio aggiungere l’Oratio De Hominis dignitate di Pico della Mirandola considerato il Manifesto del Rinascimento (Scritto nel 1486).
Forse, ma non solo. Ai tre film che costituiscono gli antesignani di tutto un genere ne aggiungerei un quarto che sembra non entrarci nella saga delle macchine della science fiction e delle diavolerie tecnologiche e spaziali. Si tratta di The Truman Show, dirò poi come entra nel discorso, e un quinto: Matrix (un film del 1999 scritto e diretto dai fratelli Andy e Larry Wachowski), nel quale un’umanità soggiogata combatte contro le macchine intelligenti costruite all’inizio del ventunesimo secolo, che connettono gli esseri umani a una realtà virtuale e usano i loro organismi come fonte di energia. Ma lì è più interessante l’indeterminazione temporale, non si sa bene in che anno ci troviamo, o addirittura in quale secolo o in quale millennio. E’ da dire che il tema è quello del mito della caverna di Platone che ritroviamo anche in altri cineasti e, trasfigurato, in diverse opere letterarie. E’ il tema del risveglio da una condizione nella quale siamo schiavi, incatenati davanti a uno schermo, quello del fondo della caverna che scambiamo per realtà vera. Abbiamo così cinque film che costituiscono un ritratto della nostra società così come si è andata configurando negli ultimi decenni del ventesimo secolo, ma che alludono agli scenari di questo ventunesimo in modo inquietante, fornendo del nostro futuro un quadro distopico (da utopia negativa). Le angosce di fine millennio sembrano materializzarsi attraverso scenari horror dal volto minaccioso ed alieno, sia pure ancora connotati da un lieto fine convenzionale o da quello spiraglio di speranza (introdotto forse per non turbare le anime candide) di cui abbiamo tanto bisogno per sopravvivere all’angoscia e all’incertezza del futuro.
Da una prima lettura superficiale sembrerebbero semplici accentuazioni in chiave fantascientifica degli sviluppi tecnologici in una dimensione esagerata, surreale e improbabile, l’amplificazione di tutti gli effetti speciali del nostro quotidiano mestiere di vivere in uno scenario da inferno dantesco in forma digitale e cibernetica. Scenari da estetica gotica, vuoi in astronavi cupe e labirintiche, vuoi in città dalle architetture fumose e spettrali, vuoi in inquietanti congegni robotici che agiscono come macchine cieche e spietate. I cambiamenti tecnologici e gli sviluppi scientifici sono portati all’ennesima potenza per prefigurare i rischi e le incognite del futuro imminente, di una tecnologia che sfugge di mano 'all’homo faber' per farlo diventare schiavo di ciò che ha costruito. L’angoscia tecnologia occhieggia a una sorta di luddismo post industriale, in atmosfere lugubri e claustrofobiche. E’ anche il riferimento all’analisi marxiana dell’alienazione, del prodotto del lavoro che sfugge all’operaio e si erge minaccioso contro di lui dominandolo. Ai film possiamo associare un romanzo, il 1984 di George Orwell nel quale il lieto fine non c’è proprio. "1984" è un romanzo scritto nel 1948 e che avrebbe dovuto avere come titolo l’apocalittico "The last man in Europe", ma poi si è preferito invertire le ultime due cifre dell’anno di pubblicazione in Nineteen Eigthy-Four (tra l’altro è uscito anche il film Orwell 1984 - nel 1984 - diretto dal regista Michael Radford, ma noi ci riferiremo all’opera di Eric Arthur Blair, meglio conosciuto appunto con lo pseudonimo di George Orwell). A un romanzo infine voglio aggiungere l’Oratio De Hominis dignitate di Pico della Mirandola considerato il Manifesto del Rinascimento (Scritto nel 1486).
Sette
opere per un tentativo di interpretazione della realtà che si apre con il nuovo
anno così pieno di incognite e di interrogativi. Ah! Dimenticavo l’11
settembre, non perché sia importante nel discorso che sto per fare, quanto
perché costituisce una data importante nell’immaginario collettivo, una sorta
di switch, un interruttore simbolico
in grado di accendere le angosce che ricordano i supposti terrori dell’anno
mille (peraltro invenzione della storiografia ottocentesca), un chiliasmo
ricorrente insieme ai periodici proclami della fine del mondo. E’ anche il mito
dell’eterno ritorno, la dissoluzione dell’ordine esistente, la mitologia delle
periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo fino alla catastrofe terminale
o al regno felice dopo l’Apocalisse. Ma l’angoscia del futuro è anche quella
dell’entropia allorquando l’intero universo raggiungerà uno stato di
composizione chimica e di temperatura uniformi e non sarà più possibile la
vita. L’oroscopo ci può illudere che esista un copione (le posizioni planetarie
che vengono definite su base astronomica) che determina la nostra esistenza.
Tutto GIA’ SCRITTO, la sceneggiatura della nostra vita esiste già nel libro del
destino o nella volontà di un Dio onnipotente, o semplicemente in
quell’universo quadrimensionale dove anche il tempo raggelato, in fondo non
esiste veramente.
Lo storico cerca gli oggetti del passato, il biologo elabora teorie sull’evoluzione del vivente, l’astrofisico proietta lo sguardo fino all’inizio cosmico (o quasi) e descrive l’evoluzione dell’universo. In realtà siamo confinati in una dimensione dalla quale guardiamo il mondo (quello che chiamiamo il mondo) da un’unica prospettiva, quella che fa capo ai nostri sistemi di rilevamento percettivo o a quello degli strumenti che abbiamo costruito. Karl Popper scriveva polemicamente a proposito del determinismo scientifico che pretende di poter calcolare in anticipo ogni evento futuro conoscendo le leggi di natura e lo stato presente e passato del mondo. In Flatlandia (il bellissimo e irripetibile racconto fantastico a più dimensioni di Edwin Abbott Abbott scritto attorno al 1884) gli esseri bidimensionali che la popolano non possono credere che possa esistere un’altra dimensione aggiuntiva e, in analogia, noi creature a tre dimensioni non possiamo neanche immaginare che ne possano esistere altre. Ma non si tratta solo di fisica o di matematica, si tratta di una sorta di antropocentrismo miope che non riconosce il proprio relativismo culturale e che guarda dall’alto in basso qualsiasi altra esperienza conoscitiva che non sia quella canonizzata dalla propria tradizione culturale. Un gatto o un alieno forse fanno esperienza del mondo con modalità che non conosciamo veramente perché non siamo gatti e probabilmente non siamo alieni (a meno che quelli, gli alieni, non siano già tra di noi come nella migliore fantascienza sotto le mentite spoglie del vicino di casa o addirittura del Presidente del Consiglio di turno).
Torniamo ai film. Terminator è una macchina così perfetta che per un attimo ci ha illuso che si tratta proprio di un essere pensante, di un uomo in carne ed ossa, che il sicario, il terminatore, è per davvero uno di noi, sia pure crudele e senza scrupoli. Schwarzenegger con tutti quei muscoli non si direbbe proprio un interprete che nasconde sotto un fisico da culturista una struttura fatta di un sofisticato hardware metallico e, soprattutto, di un software che ci illude che sia un essere pensante e non una macchina deterministica in cui le opzioni sono prelevate da un complicato algoritmo di progettazione. Solo quando una ferita sul volto mette a nudo la telecamera nell’orbita oculare del protagonista non abbiamo più dubbi sulla natura del terminator. Sì, si tratta proprio di una macchina (androide o cyborg che dir si voglia) e le opzioni che appaiono in un menù a tendina ci dicono che è governato da un software in cui le scelte possono anche essere complesse, sia in ragione dell’interazione con l’ambiente che all’interno di una programmazione predefinita e computazionale. Ma cos’è un essere pensante? Crediamo di saperlo. In Blade Ranner l’interrogativo è ancora più sofisticato. Per dimostrare che qualcuno è veramente un essere umano e non un androide, occorre sottoporlo ad un test, il test di Turing, che smascheri l’inganno di un replicante che si spaccia per un essere umano.
Alan Mathison Turing, matematico, logico e crittografo britannico, è stato antesignano dell’intelligenza artificiale. Era stato anche analista nel decifrare i messaggi tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale allo scopo di violare i cifrari nazisti. Nell'articolo Computing machinery and intelligence, nel 1950 sulla rivista Mind, viene posto un problema logico con implicazioni filosofiche per niente trascurabili e delle quali sembra essersi resa conto più la fantascienza e la letteratura piuttosto della ricerca in ambito prettamente ‘scientifico’ che sembra dar tutto per scontato. Turing dice testualmente “la sola via per sapere che un uomo pensa è quello di essere quell'uomo in particolare. [...] Probabilmente A crederà: "A pensa, mentre B no", mentre per B è l'esatto opposto: "B pensa, ma A no". Invece di discutere in continuazione su questo punto, è normale attenersi alla educata convenzione che ognuno pensi”. Sì, è buona cosa attenersi educatamente alla convenzione che anche le persone più irragionevoli e illogiche, anche i tipi senza scrupoli siano esseri pensanti e con una coscienza. Siamo naturalmente portati ad empatizzare, a metterci nei panni degli altri e a immaginare la loro sofferenza rapportandola alla nostra, a provare pietà per il dolore degli altri che non sperimentiamo in prima persona ma che riusciamo a immaginare. (anche se, sfortunatamente non accade sempre, talvolta rimaniamo duri e insensibili perché non scatta in noi la capacità di metterci nei panni dell’altro, di immaginare le sue emozioni, di guardare il mondo attraverso i suoi occhi, e se si tratta di un animale ci è ancora più difficile arguire che stia soffrendo proprio come noi).
La natura del pensiero ci è completamente ignota. Non sempre riusciamo a immedesimarci e allora diventiamo duri e insensibili. Possiamo inferire che una persona pensa (e soffre) solo sulla base dei suoi comportamenti osservabili e delle sue risposte, ma quello che avviene nella scatola nera della sua coscienza ci è ignoto. Possiamo studiare l’attività elettrica e biochimica di un cervello, forse possiamo perfino comunicare telepaticamente e far muovere degli oggetti attraverso l’attività elettrica, ma questo non costituisce prova certa che il nostro vicino di casa non sia una sofisticata apparecchiatura che simula quello che intendiamo per un uomo, che non sia una macchina tipo terminator. La fantascienza mette il dito sulla piaga. Tutto si svolge nella nostra mente e non abbiamo certezza che il mondo là fuori esista proprio come ce lo immaginiamo, potrebbe essere semplicemente un sogno o un inganno di qualche diavoleria che ci fa credere di non trovarci in un loculo con attaccati dei fili controllati da qualche entità informatica (Matrix), schiavi incatenati sul fondo di una caverna (Platone) o abbindolati da un genietto malefico (Cartesio) che ci fa credere di esistere. E che il problema non sia poi così teorico ce lo dice quel protocollo di Harvard (che in molti paesi è fortemente messo in discussione, ma non in Italia dove l’ideologia laica e quella cattolica vanno a braccetto sulla questione). Il protocollo in parola ha inventato la cosiddetta morte cerebrale per procedere all’espianto di organi (es: fegato, cuore e polmoni) da un ‘donatore’ a cuore battente.
Matrix non è poi così improbabile se oggi si può macellare una persona che solo cinquant’anni fa’ era considerata ancora viva. A una visione olistica che rispetta il processo del morire e perfino la sacralità della salma (la morte è un processo che coinvolge tutti gli organi e per molte culture conserva tutto il suo mistero), si è sostituita una visione riduzionista che vede nel cervello (anzi solo in alcune sue parti) la sede della coscienza e/o dell’anima, e questo senza conoscere molto del cervello e delle sue funzioni e senza poter dare una definizione univoca della vita e della morte, che in realtà sfuggono alla nostra comprensione, e senza sapere cosa sia veramente la coscienza. L’industria dei trapianti non sembra minimamente turbata da un dibattito che a livello internazionale si è fatto piuttosto acceso intorno a quella morte cerebrale che molti medici e scienziati considerano un falso scientifico e che vien messo sempre più in discussione. Purtroppo anche molti programmi di divulgazione hanno accreditato un’immagine della scienza di tipo sostanziale, nel senso che i procedimenti sperimentali ci darebbero la visione vera del mondo colto ontologicamente nella sua essenza e non semplicemente un insieme di procedure atte a selezionare dei dati in vista di un loro utilizzo pratico e in forza di scelte che dipendono comunque da considerazioni di natura extrascientifica. All’ideale descrittivo newtoniano e alle sensate esperienze e certe dimostrazioni galileiane, è subentrata la hybris, la tracotanza positivista e scientista che ritiene la scienza non semplicemente una procedura di indagine ma una fede. Mancando un criterio sperimentale che dimostri che il metodo scientifico-sperimentale è l’unico sistema di approssimazione alla verità, lo scientismo contraddice proprio il metodo sperimentale di cui si fa paladino.
C’è un’immagine di Popper che rappresenta criticando questa presunzione dello scientismo quando immagina la nostra conoscenza, metaforicamente, come una rete che gettiamo per catturare il mondo. La rete però ha maglie abbastanza larghe perché qualcosa sfugga sempre. E’ l’immagine di una scienza che non ha la pretesa di cogliere l’essenza del mondo per così dire ontologicamente, ma soltanto di approssimarsi a qualcosa la cui natura riusciamo ad afferrare solo in modo approssimativo e parziale, usando strumenti che risultano per loro natura convenzionali e relativi. La coscienza per quanti sforzi possiamo fare è qualcosa che rimane ignoto e che riguarda un osservatore inosservato. Difficile dunque sceverare tra uomini, cyborg ed androidi. Perfino nei robot alla fine potrebbe (come nel computer Hal 9000 di 2001 odissea nello spazio) scoccare la scintilla dell’intelligenza o perlomeno uno di quei sentimenti così umani che ci fanno desiderare di annientare i nostri nemici (o perlomeno quelli che consideriamo tali). Ma si tratta pur sempre di algoritmi, di codici numerici e di matrici...
In sostanza si tratta di decidere se qualcuno sia un uomo e non una macchina, se è in grado di fornirci delle risposte che non riescano ad ingannarci circa il suo statuto ontologico (di macchina o di essere umano). Il problema però è che la macchina potrebbe diventare così sofisticata da non riuscire più a distinguerla da un vero essere umano. Si prevede che presto non sarà facile decidere, in una conversazione telefonica, se stiamo parlando con un’entità uomo o con una simulazione così sofisticata da farci credere che all’altro capo dell’etere non ci sia soltanto un computer con implementato un software che lo imita in modo sorprendentemente convincente e realistico. Attualmente è vero che gli automi rispondono al telefono, in sostituzione degli esseri umani, in modo a dir poco irritante con una voce meccanica e inespressiva, ma soprattutto dimostrandosi incapaci di prendere seriamente in considerazione i nostri problemi, facendoci infuriare per quella loro ottusa logorrea che ripete sempre il solito ritornello. Ma presto le macchine verranno rivestite da una epidermide artificiale, muscoli e quant’altro in grado di simulare perfino signorine dall’aria sognante e dal portamento leggiadro e flessuoso. Saranno presto in grado di una complessità di risposte e di una interazione così sofisticata da farci credere che stiamo conversando amabilmente con un essere pensante e senziente, un interlocutore dai modi e dai gesti da vero gentiluomo (o nobildonna).
Prendendo per mano il nostro interlocutore, uno splendido esemplare di androide, proveremo il contatto di pelle, sudorazione simulata e occhi dilatati talmente realistici da illuderci di aver trovato l’anima gemella. Già si parla di robot che si emozionano, capaci di riprodurre stati emotivi nelle espressioni del viso, in grado di empatizzare con gli esseri umani attraverso il linguaggio meta-verbale (posture, sguardi, ammiccamenti, perfino il pianto con lacrime artificiali) con un profluvio di motori sotto l’epidermide e un complesso sistema di sensori e attuatori per captare i segnali dell’interlocutore umano e rispondere in modo adeguato. Un ruolo importante e di transizione avranno i telefonini emozionali, non solo smart ma anche simpatetici, in grado sia di analizzare quello che diciamo, sia anche come stiamo dicendo quello che diciamo, insomma protesi digitali che ci diranno stati d’animo del nostro interlocutore, perfino se ci sta mentendo o ci sta provando... Il passo seguente ci metterà a contatto con organismi cibernetici indistinguibili dagli originali umani? Anche facendo a pezzi gli androidi in questione non è detto che - come invece in Terminator – l’organismo cibernetico nasconda occhi artificiali e uno chassy di un acciaio ad altissima resistenza. Potrebbe trattarsi di organi artificiali, cuore fegato e polmoni, e perfino un cervello imitato con tanta perfezione da risultare indistinguibile da quello di un essere comunemente chiamato uomo (o donna). Organismi di sintesi costruiti con manipolazione genetica e magari con Dna artificiale riprogettato per amplificare alcuni caratteri. E l’anima? In Blade Runner gli androidi sembrano perfino possederne una, sia pure ancora rudimentale e senza i sensi di colpa e le remore degli umani. I replicanti del film sono perfino in grado di passare da un desiderio di vendetta ad uno di estrema e disinteressata generosità. Come quando l’androide invece di annientare il protagonista (Harrison Ford) - che gli ha ‘ritirato’ (ucciso) la compagna replicante - lo trae in salvo. Nel celebre monologo l’androide pare perfino commuoversi per la propria vita che si sta spegnendo, una vita da replicante artificiale. Prima di ‘morire’ ricorda il passato con nostalgiche e dolenti emozioni:
« I've seen things you people wouldn't believe. Attack ships on fire off the shoulder of Orion. I watched c-beams glitter in the dark near the Tannhauser Gate. All those... moments will be lost... in time, like tears... in rain. Time to die. »
« Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire. »
Perfino gli androidi amano l’esistenza artificiale che hanno avuto in dono dal loro piccolo dio, l’ingegnere che li ha progettati e che ha dato loro una vita breve ed effimera che però brucia con maggiore intensità perché tutto in loro è come amplificato, organismi di qualità superiore, con funzioni accentuate ancorché di sintesi. In Alien l’alieno è una creatura pura, senza nessuna remora nell’usare i suoi ospiti come carne da macello, come contenitore per impiantare il proprio seme. Lui non ha quegli stupidi pregiudizi e quegli scrupoli insulsi che caratterizzano molti umani (non tutti per la verità). La purezza dell’alieno consiste nella sua capacità di sopravvivenza mettendo in campo strategie e qualità che lo rendono capace di affrontare anche le condizioni ambientali più avverse, un parassita che mette in gioco tutta la sua forza straordinaria e la sua aggressività di creatura xenomorfa. E’ pur vero che viene aiutato da un membro dell’equipaggio, proprio l’androide che la compagnia ha imbarcato sull’astronave alla ricerca di organismi alieni da sfruttare come armi biologiche. Ma è anche altrettanto vero che la creatura sembra in grado di piegare qualunque situazione a proprio vantaggio, in grado di strumentalizzare anche chi la vorrebbe utilizzare per i suoi di scopi meschini. Gli umani sembrano molto furbi e ben attrezzati di tecnologia, ma molto più furbo non a caso sembra la mascotte presente sull’astronave, il gatto Jones legato a un istinto che non si lascia ingannare. Alien è una metafora della vita o semplicemente l’immagine che ci siamo dati per giustificare quello che siamo diventati, delle macchine senz’anima?
In The Truman Show la macchina (l’alter ego cibernetico) smette di identificarsi con il robot o l’androide (o la creatura aliena) per diventare un meccanismo teatrale nel quale l’ignaro protagonista è calato fin dalla nascita. Il trentenne Truman Burbank ignora di essere il fulcro dello spettacolo televisivo che tiene incollati agli schermi da trent’anni un pubblico assatanato di realtà virtuale e televendite. L’isolotto dove vive Truman - protagonista ignaro di far parte di un colossale reality - è in realtà un gigantesco studio televisivo e tutte le centinaia di persone che Truman incontra sono attori, compresi i suoi parenti, sua moglie e i suoi amici, tutti spudorati simulatori di un enorme spettacolo di merchandising in cui ogni cosa è artificiale, compreso il giorno e la notte, i temporali, il mare e il cielo dipinto sulla cupola del gigantesco studio. Il film è stato variamente interpretato come denuncia della crescente invadenza del mezzo televisivo, come sistematica violazione della privacy da parte del sistema massmediatico e come metafora della condizione umana in un intreccio di temi culturali, antropologici e filosofici. Quello che interessa a noi però in questo film non è l’aspetto allegorico o il richiamo a tematiche religiose (Truman fugge dal giardino dell’eden simboleggiato dall’isola felice, una sorta di gigantesco centro commerciale virtuale dove la gente compra a suon di musica, si ferma a mangiare, vive felice ed ignara, come Adamo ed Eva in un ambiente protetto e senza pensieri, senza idee, felici dei frutti che crescono direttamente nelle ceste o su alberi artificiali ad altezza naturale).
A noi interessa lo spostamento del paradigma. La macchina non è più rappresentata dai meri strumenti tecnologici o da creature cibernetiche che interagiscono con gli umani. Qui gli umani sono dentro la macchina, compreso l’audience di The Truman Show che ogni tanto si vede nel film. Non si tratta soltanto di strumenti tecnologici più o meno sofisticati. La macchina in questione, quella che fa capo ad un sistema economico-produttivo, è l’ambiente nel quale siamo calati fin dalla nascita, costituisce l’agenda interpretativa di tutto quello che siamo e nel quale crediamo. Uscir fuori dal marchingegno non è cosa semplice, richiede coraggio, determinazione, spirito di osservazione, arte del sospetto (rischiando perfino la paranoia), insomma, richiede la messa in discussione di tutto quello in cui crediamo essere vero per poter approdare a nuovi punti vista, sollevare il velo di Maya. Il finale a lieto fine - Truman che scopre l’inganno e fuoriesce dal suo mondo fittizio - ci fa dimenticare che proprio noi siamo come Truman e che non vediamo l’incredibile apparato massmediatico che ci avvolge, proprio come il protagonista, e ci fa credere che noi siamo solo spettatori e non interpreti, ci illude che non siamo protagonisti nostro malgrado di un altro reality. La macchina in questione è meno identificabile, è distribuita, ubiqua e inafferrabile, è un sistema di cui forse nessuno in particolare conserva la chiave di accesso, neppure il deus ex machina, il regista, che ne è un ingranaggio. Che poi Truman si sia davvero liberato come lo schiavo di Platone ci lascia qualche dubbio. Cosa troverà fuori dal teatro?
Il 1984 di Orwell è sicuramente l’opera più complessa e probabilmente non del tutto compresa, spesso equivocata e ridotta alla parodia del Grande Fratello. Si sa che spesso la letteratura anticipa e di molto la comprensione della realtà. 1984 è avanti... forse troppo avanti. Chi è il Grande Fratello che guarda onnipresente dagli enormi manifesti e dai teleschermi che insieme trasmettono e prendono immagini, che rubano dentro la privacy degli appartamenti?
In tutto il 1984 scorre l’autoironia di chi con amarezza scopre le illusioni che lui stesso aveva coltivato nelle istituzioni, nelle ideologie, nelle filosofie e negli ideali. Nella società del 1984 il futuro appare determinato e immodificabile in quanto non esiste, mentre proprio il passato diviene fluido ed aperto (il partito manomette e modifica continuamente la memoria del passato in quanto non più determinato da quel che è accaduto ma plasmato e controllato da un presente retroattivo: “Who controls the past controls the future, who controls the present controls the past”). Si tratta di uno dei tre principi del Socing: The Mutability of the Past. Tale controllo del tempo si rende possibile attraverso il Doublethink, attraverso cioè la tecnica della doppia verità con la quale si afferma una cosa e il suo contrario senza per questo violare il principio di non contraddizione e il Newspeak che consiste in una distruzione di parole che ha lo scopo di distruggere la letteratura e il modo di pensare precedente (“Orthodoxy means not thinking – not needing to think. Ortodoxy is unconsciousness”). Winston, il protagonista, viene arrestato e sottoposto a un calvario di percosse e torture in attesa di venir condotto nella misteriosa stanza 101 dove subirà una tortura ad personam. E’ qui che Winston scopre che il Partito persegue il potere per il potere (“Power is not a means, it is an end”) e quando cerca di appellarsi alla vita, alla natura umana, allo spirito dell’uomo... gli viene inflitta l’ultima tortura che ne spezza l’illusione. Perfino il suo amore per Giulia viene annientato. La gabbia dei topi applicata al suo viso infrange il suo ultimo tentativo di ribellione in nome dell’amore (“Do it to Julia! Do it to Julia! Not me”) e Winston può finalmente amare il Grande Fratello.
Ma non sembrano veramente queste le minacce che ci attendono, non sembra la ribellione delle macchine l’evento angosciante del nostro futuro e neppure il Grande Fratello. Per ora basta staccare la spina quando il telefono si fa assillante o spegnere il cellulare quando siamo stanchi di essere interconnessi, spegnere la tv quando non se ne può più. Ma è anche vero che potremmo essere connessi anche a nostra insaputa, controllati come nel 1984 dove il volto onnipresente del Grande Fratello guarda ovunque. L’immagine che la scienza ci sta dando di noi stessi è quella di macchine. Le macchine non sono più fuori di noi, siamo noi. La scoperta del dna ci ha fatto credere di aver svelato il segreto della vita, ci ha illuso di essere qualcosa che può essere smontato e rimontato, ci ha ridotto a cose. Non passa giorno che non si individui un nuovo gene che spieghi quello che siamo, un nostro attributo fisico o una nostra capacità sensoriale. L’immagine che abbiamo di noi è sempre più quella di una macchina fatta di parti e non un’unità, un corpo che può essere rimodellato all’occorrenza con tecniche chirurgiche di vario tipo, un corpo artificiale, e perfino una mente che può essere corretta farmacologicamente, un cervello che può essere robotizzato se occorre. Siamo noi i robot, gli androidi, i cyborg, stiamo diventando creature aliene a noi stessi, siamo noi, ciascuno di noi, il Grande Fratello. L’evoluzione verso la versione 2.0 dell’homo sapiens è già cominciata. La distruzione dell’ambiente, il nostro pianeta è solo un epifenomeno della trasformazione che stiamo operando sulla nostra immagine.
Il discorso De hominis dignitate di Pico della Mirandola, elogia la capacità intellettiva e deduttiva dell’essere umano. L’intelligenza significa libertà, capacità di dirigere la propria sorte in senso buono o cattivo. Nelle parole di un altro autore rinascimentale, Machiavelli, l’uomo in parte, per una metà, è costretto (condizionato) dalla fortuna (buona o cattiva sorte) ma per l’altra metà tutto dipende da lui, dalla sua capacità di piegare gli eventi a suo favore. Per Niccolò Cusano (1401-1464) l’uomo è un microcosmo che contrae in sé tutte le cose. Nell’uomo risplende la perfezione della totalità dell’universo perché la natura intellettuale dell’uomo è potenzialmente infinita. Pico della Mirandola, erudito formidabile e temperamento passionale (fu coinvolto in uno scandalo per il ratto di una nobildonna fiorentina), è forse l’autore più emblematico di quella temperie culturale che nella riscoperta dei classici greci e latini ha posto in essere il passaggio alla storia moderna. La sua opera è un po’ la sintesi dell’umanesimo rinascimentale, una concezione dell’uomo come essere libero di plasmarsi e scolpirsi, una natura camaleontica e proteiforme. Nell’uomo c’è una essenza indefinita, una natura indeterminata. Tale bellissima immagine dell’uomo non è condizionante, non lo riduce ad essere un burattino del suo genoma e neppure un essere determinato dal suo passato.
Lo storico cerca gli oggetti del passato, il biologo elabora teorie sull’evoluzione del vivente, l’astrofisico proietta lo sguardo fino all’inizio cosmico (o quasi) e descrive l’evoluzione dell’universo. In realtà siamo confinati in una dimensione dalla quale guardiamo il mondo (quello che chiamiamo il mondo) da un’unica prospettiva, quella che fa capo ai nostri sistemi di rilevamento percettivo o a quello degli strumenti che abbiamo costruito. Karl Popper scriveva polemicamente a proposito del determinismo scientifico che pretende di poter calcolare in anticipo ogni evento futuro conoscendo le leggi di natura e lo stato presente e passato del mondo. In Flatlandia (il bellissimo e irripetibile racconto fantastico a più dimensioni di Edwin Abbott Abbott scritto attorno al 1884) gli esseri bidimensionali che la popolano non possono credere che possa esistere un’altra dimensione aggiuntiva e, in analogia, noi creature a tre dimensioni non possiamo neanche immaginare che ne possano esistere altre. Ma non si tratta solo di fisica o di matematica, si tratta di una sorta di antropocentrismo miope che non riconosce il proprio relativismo culturale e che guarda dall’alto in basso qualsiasi altra esperienza conoscitiva che non sia quella canonizzata dalla propria tradizione culturale. Un gatto o un alieno forse fanno esperienza del mondo con modalità che non conosciamo veramente perché non siamo gatti e probabilmente non siamo alieni (a meno che quelli, gli alieni, non siano già tra di noi come nella migliore fantascienza sotto le mentite spoglie del vicino di casa o addirittura del Presidente del Consiglio di turno).
Torniamo ai film. Terminator è una macchina così perfetta che per un attimo ci ha illuso che si tratta proprio di un essere pensante, di un uomo in carne ed ossa, che il sicario, il terminatore, è per davvero uno di noi, sia pure crudele e senza scrupoli. Schwarzenegger con tutti quei muscoli non si direbbe proprio un interprete che nasconde sotto un fisico da culturista una struttura fatta di un sofisticato hardware metallico e, soprattutto, di un software che ci illude che sia un essere pensante e non una macchina deterministica in cui le opzioni sono prelevate da un complicato algoritmo di progettazione. Solo quando una ferita sul volto mette a nudo la telecamera nell’orbita oculare del protagonista non abbiamo più dubbi sulla natura del terminator. Sì, si tratta proprio di una macchina (androide o cyborg che dir si voglia) e le opzioni che appaiono in un menù a tendina ci dicono che è governato da un software in cui le scelte possono anche essere complesse, sia in ragione dell’interazione con l’ambiente che all’interno di una programmazione predefinita e computazionale. Ma cos’è un essere pensante? Crediamo di saperlo. In Blade Ranner l’interrogativo è ancora più sofisticato. Per dimostrare che qualcuno è veramente un essere umano e non un androide, occorre sottoporlo ad un test, il test di Turing, che smascheri l’inganno di un replicante che si spaccia per un essere umano.
Alan Mathison Turing, matematico, logico e crittografo britannico, è stato antesignano dell’intelligenza artificiale. Era stato anche analista nel decifrare i messaggi tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale allo scopo di violare i cifrari nazisti. Nell'articolo Computing machinery and intelligence, nel 1950 sulla rivista Mind, viene posto un problema logico con implicazioni filosofiche per niente trascurabili e delle quali sembra essersi resa conto più la fantascienza e la letteratura piuttosto della ricerca in ambito prettamente ‘scientifico’ che sembra dar tutto per scontato. Turing dice testualmente “la sola via per sapere che un uomo pensa è quello di essere quell'uomo in particolare. [...] Probabilmente A crederà: "A pensa, mentre B no", mentre per B è l'esatto opposto: "B pensa, ma A no". Invece di discutere in continuazione su questo punto, è normale attenersi alla educata convenzione che ognuno pensi”. Sì, è buona cosa attenersi educatamente alla convenzione che anche le persone più irragionevoli e illogiche, anche i tipi senza scrupoli siano esseri pensanti e con una coscienza. Siamo naturalmente portati ad empatizzare, a metterci nei panni degli altri e a immaginare la loro sofferenza rapportandola alla nostra, a provare pietà per il dolore degli altri che non sperimentiamo in prima persona ma che riusciamo a immaginare. (anche se, sfortunatamente non accade sempre, talvolta rimaniamo duri e insensibili perché non scatta in noi la capacità di metterci nei panni dell’altro, di immaginare le sue emozioni, di guardare il mondo attraverso i suoi occhi, e se si tratta di un animale ci è ancora più difficile arguire che stia soffrendo proprio come noi).
La natura del pensiero ci è completamente ignota. Non sempre riusciamo a immedesimarci e allora diventiamo duri e insensibili. Possiamo inferire che una persona pensa (e soffre) solo sulla base dei suoi comportamenti osservabili e delle sue risposte, ma quello che avviene nella scatola nera della sua coscienza ci è ignoto. Possiamo studiare l’attività elettrica e biochimica di un cervello, forse possiamo perfino comunicare telepaticamente e far muovere degli oggetti attraverso l’attività elettrica, ma questo non costituisce prova certa che il nostro vicino di casa non sia una sofisticata apparecchiatura che simula quello che intendiamo per un uomo, che non sia una macchina tipo terminator. La fantascienza mette il dito sulla piaga. Tutto si svolge nella nostra mente e non abbiamo certezza che il mondo là fuori esista proprio come ce lo immaginiamo, potrebbe essere semplicemente un sogno o un inganno di qualche diavoleria che ci fa credere di non trovarci in un loculo con attaccati dei fili controllati da qualche entità informatica (Matrix), schiavi incatenati sul fondo di una caverna (Platone) o abbindolati da un genietto malefico (Cartesio) che ci fa credere di esistere. E che il problema non sia poi così teorico ce lo dice quel protocollo di Harvard (che in molti paesi è fortemente messo in discussione, ma non in Italia dove l’ideologia laica e quella cattolica vanno a braccetto sulla questione). Il protocollo in parola ha inventato la cosiddetta morte cerebrale per procedere all’espianto di organi (es: fegato, cuore e polmoni) da un ‘donatore’ a cuore battente.
Matrix non è poi così improbabile se oggi si può macellare una persona che solo cinquant’anni fa’ era considerata ancora viva. A una visione olistica che rispetta il processo del morire e perfino la sacralità della salma (la morte è un processo che coinvolge tutti gli organi e per molte culture conserva tutto il suo mistero), si è sostituita una visione riduzionista che vede nel cervello (anzi solo in alcune sue parti) la sede della coscienza e/o dell’anima, e questo senza conoscere molto del cervello e delle sue funzioni e senza poter dare una definizione univoca della vita e della morte, che in realtà sfuggono alla nostra comprensione, e senza sapere cosa sia veramente la coscienza. L’industria dei trapianti non sembra minimamente turbata da un dibattito che a livello internazionale si è fatto piuttosto acceso intorno a quella morte cerebrale che molti medici e scienziati considerano un falso scientifico e che vien messo sempre più in discussione. Purtroppo anche molti programmi di divulgazione hanno accreditato un’immagine della scienza di tipo sostanziale, nel senso che i procedimenti sperimentali ci darebbero la visione vera del mondo colto ontologicamente nella sua essenza e non semplicemente un insieme di procedure atte a selezionare dei dati in vista di un loro utilizzo pratico e in forza di scelte che dipendono comunque da considerazioni di natura extrascientifica. All’ideale descrittivo newtoniano e alle sensate esperienze e certe dimostrazioni galileiane, è subentrata la hybris, la tracotanza positivista e scientista che ritiene la scienza non semplicemente una procedura di indagine ma una fede. Mancando un criterio sperimentale che dimostri che il metodo scientifico-sperimentale è l’unico sistema di approssimazione alla verità, lo scientismo contraddice proprio il metodo sperimentale di cui si fa paladino.
C’è un’immagine di Popper che rappresenta criticando questa presunzione dello scientismo quando immagina la nostra conoscenza, metaforicamente, come una rete che gettiamo per catturare il mondo. La rete però ha maglie abbastanza larghe perché qualcosa sfugga sempre. E’ l’immagine di una scienza che non ha la pretesa di cogliere l’essenza del mondo per così dire ontologicamente, ma soltanto di approssimarsi a qualcosa la cui natura riusciamo ad afferrare solo in modo approssimativo e parziale, usando strumenti che risultano per loro natura convenzionali e relativi. La coscienza per quanti sforzi possiamo fare è qualcosa che rimane ignoto e che riguarda un osservatore inosservato. Difficile dunque sceverare tra uomini, cyborg ed androidi. Perfino nei robot alla fine potrebbe (come nel computer Hal 9000 di 2001 odissea nello spazio) scoccare la scintilla dell’intelligenza o perlomeno uno di quei sentimenti così umani che ci fanno desiderare di annientare i nostri nemici (o perlomeno quelli che consideriamo tali). Ma si tratta pur sempre di algoritmi, di codici numerici e di matrici...
In sostanza si tratta di decidere se qualcuno sia un uomo e non una macchina, se è in grado di fornirci delle risposte che non riescano ad ingannarci circa il suo statuto ontologico (di macchina o di essere umano). Il problema però è che la macchina potrebbe diventare così sofisticata da non riuscire più a distinguerla da un vero essere umano. Si prevede che presto non sarà facile decidere, in una conversazione telefonica, se stiamo parlando con un’entità uomo o con una simulazione così sofisticata da farci credere che all’altro capo dell’etere non ci sia soltanto un computer con implementato un software che lo imita in modo sorprendentemente convincente e realistico. Attualmente è vero che gli automi rispondono al telefono, in sostituzione degli esseri umani, in modo a dir poco irritante con una voce meccanica e inespressiva, ma soprattutto dimostrandosi incapaci di prendere seriamente in considerazione i nostri problemi, facendoci infuriare per quella loro ottusa logorrea che ripete sempre il solito ritornello. Ma presto le macchine verranno rivestite da una epidermide artificiale, muscoli e quant’altro in grado di simulare perfino signorine dall’aria sognante e dal portamento leggiadro e flessuoso. Saranno presto in grado di una complessità di risposte e di una interazione così sofisticata da farci credere che stiamo conversando amabilmente con un essere pensante e senziente, un interlocutore dai modi e dai gesti da vero gentiluomo (o nobildonna).
Prendendo per mano il nostro interlocutore, uno splendido esemplare di androide, proveremo il contatto di pelle, sudorazione simulata e occhi dilatati talmente realistici da illuderci di aver trovato l’anima gemella. Già si parla di robot che si emozionano, capaci di riprodurre stati emotivi nelle espressioni del viso, in grado di empatizzare con gli esseri umani attraverso il linguaggio meta-verbale (posture, sguardi, ammiccamenti, perfino il pianto con lacrime artificiali) con un profluvio di motori sotto l’epidermide e un complesso sistema di sensori e attuatori per captare i segnali dell’interlocutore umano e rispondere in modo adeguato. Un ruolo importante e di transizione avranno i telefonini emozionali, non solo smart ma anche simpatetici, in grado sia di analizzare quello che diciamo, sia anche come stiamo dicendo quello che diciamo, insomma protesi digitali che ci diranno stati d’animo del nostro interlocutore, perfino se ci sta mentendo o ci sta provando... Il passo seguente ci metterà a contatto con organismi cibernetici indistinguibili dagli originali umani? Anche facendo a pezzi gli androidi in questione non è detto che - come invece in Terminator – l’organismo cibernetico nasconda occhi artificiali e uno chassy di un acciaio ad altissima resistenza. Potrebbe trattarsi di organi artificiali, cuore fegato e polmoni, e perfino un cervello imitato con tanta perfezione da risultare indistinguibile da quello di un essere comunemente chiamato uomo (o donna). Organismi di sintesi costruiti con manipolazione genetica e magari con Dna artificiale riprogettato per amplificare alcuni caratteri. E l’anima? In Blade Runner gli androidi sembrano perfino possederne una, sia pure ancora rudimentale e senza i sensi di colpa e le remore degli umani. I replicanti del film sono perfino in grado di passare da un desiderio di vendetta ad uno di estrema e disinteressata generosità. Come quando l’androide invece di annientare il protagonista (Harrison Ford) - che gli ha ‘ritirato’ (ucciso) la compagna replicante - lo trae in salvo. Nel celebre monologo l’androide pare perfino commuoversi per la propria vita che si sta spegnendo, una vita da replicante artificiale. Prima di ‘morire’ ricorda il passato con nostalgiche e dolenti emozioni:
« I've seen things you people wouldn't believe. Attack ships on fire off the shoulder of Orion. I watched c-beams glitter in the dark near the Tannhauser Gate. All those... moments will be lost... in time, like tears... in rain. Time to die. »
« Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire. »
Perfino gli androidi amano l’esistenza artificiale che hanno avuto in dono dal loro piccolo dio, l’ingegnere che li ha progettati e che ha dato loro una vita breve ed effimera che però brucia con maggiore intensità perché tutto in loro è come amplificato, organismi di qualità superiore, con funzioni accentuate ancorché di sintesi. In Alien l’alieno è una creatura pura, senza nessuna remora nell’usare i suoi ospiti come carne da macello, come contenitore per impiantare il proprio seme. Lui non ha quegli stupidi pregiudizi e quegli scrupoli insulsi che caratterizzano molti umani (non tutti per la verità). La purezza dell’alieno consiste nella sua capacità di sopravvivenza mettendo in campo strategie e qualità che lo rendono capace di affrontare anche le condizioni ambientali più avverse, un parassita che mette in gioco tutta la sua forza straordinaria e la sua aggressività di creatura xenomorfa. E’ pur vero che viene aiutato da un membro dell’equipaggio, proprio l’androide che la compagnia ha imbarcato sull’astronave alla ricerca di organismi alieni da sfruttare come armi biologiche. Ma è anche altrettanto vero che la creatura sembra in grado di piegare qualunque situazione a proprio vantaggio, in grado di strumentalizzare anche chi la vorrebbe utilizzare per i suoi di scopi meschini. Gli umani sembrano molto furbi e ben attrezzati di tecnologia, ma molto più furbo non a caso sembra la mascotte presente sull’astronave, il gatto Jones legato a un istinto che non si lascia ingannare. Alien è una metafora della vita o semplicemente l’immagine che ci siamo dati per giustificare quello che siamo diventati, delle macchine senz’anima?
In The Truman Show la macchina (l’alter ego cibernetico) smette di identificarsi con il robot o l’androide (o la creatura aliena) per diventare un meccanismo teatrale nel quale l’ignaro protagonista è calato fin dalla nascita. Il trentenne Truman Burbank ignora di essere il fulcro dello spettacolo televisivo che tiene incollati agli schermi da trent’anni un pubblico assatanato di realtà virtuale e televendite. L’isolotto dove vive Truman - protagonista ignaro di far parte di un colossale reality - è in realtà un gigantesco studio televisivo e tutte le centinaia di persone che Truman incontra sono attori, compresi i suoi parenti, sua moglie e i suoi amici, tutti spudorati simulatori di un enorme spettacolo di merchandising in cui ogni cosa è artificiale, compreso il giorno e la notte, i temporali, il mare e il cielo dipinto sulla cupola del gigantesco studio. Il film è stato variamente interpretato come denuncia della crescente invadenza del mezzo televisivo, come sistematica violazione della privacy da parte del sistema massmediatico e come metafora della condizione umana in un intreccio di temi culturali, antropologici e filosofici. Quello che interessa a noi però in questo film non è l’aspetto allegorico o il richiamo a tematiche religiose (Truman fugge dal giardino dell’eden simboleggiato dall’isola felice, una sorta di gigantesco centro commerciale virtuale dove la gente compra a suon di musica, si ferma a mangiare, vive felice ed ignara, come Adamo ed Eva in un ambiente protetto e senza pensieri, senza idee, felici dei frutti che crescono direttamente nelle ceste o su alberi artificiali ad altezza naturale).
A noi interessa lo spostamento del paradigma. La macchina non è più rappresentata dai meri strumenti tecnologici o da creature cibernetiche che interagiscono con gli umani. Qui gli umani sono dentro la macchina, compreso l’audience di The Truman Show che ogni tanto si vede nel film. Non si tratta soltanto di strumenti tecnologici più o meno sofisticati. La macchina in questione, quella che fa capo ad un sistema economico-produttivo, è l’ambiente nel quale siamo calati fin dalla nascita, costituisce l’agenda interpretativa di tutto quello che siamo e nel quale crediamo. Uscir fuori dal marchingegno non è cosa semplice, richiede coraggio, determinazione, spirito di osservazione, arte del sospetto (rischiando perfino la paranoia), insomma, richiede la messa in discussione di tutto quello in cui crediamo essere vero per poter approdare a nuovi punti vista, sollevare il velo di Maya. Il finale a lieto fine - Truman che scopre l’inganno e fuoriesce dal suo mondo fittizio - ci fa dimenticare che proprio noi siamo come Truman e che non vediamo l’incredibile apparato massmediatico che ci avvolge, proprio come il protagonista, e ci fa credere che noi siamo solo spettatori e non interpreti, ci illude che non siamo protagonisti nostro malgrado di un altro reality. La macchina in questione è meno identificabile, è distribuita, ubiqua e inafferrabile, è un sistema di cui forse nessuno in particolare conserva la chiave di accesso, neppure il deus ex machina, il regista, che ne è un ingranaggio. Che poi Truman si sia davvero liberato come lo schiavo di Platone ci lascia qualche dubbio. Cosa troverà fuori dal teatro?
Il 1984 di Orwell è sicuramente l’opera più complessa e probabilmente non del tutto compresa, spesso equivocata e ridotta alla parodia del Grande Fratello. Si sa che spesso la letteratura anticipa e di molto la comprensione della realtà. 1984 è avanti... forse troppo avanti. Chi è il Grande Fratello che guarda onnipresente dagli enormi manifesti e dai teleschermi che insieme trasmettono e prendono immagini, che rubano dentro la privacy degli appartamenti?
In tutto il 1984 scorre l’autoironia di chi con amarezza scopre le illusioni che lui stesso aveva coltivato nelle istituzioni, nelle ideologie, nelle filosofie e negli ideali. Nella società del 1984 il futuro appare determinato e immodificabile in quanto non esiste, mentre proprio il passato diviene fluido ed aperto (il partito manomette e modifica continuamente la memoria del passato in quanto non più determinato da quel che è accaduto ma plasmato e controllato da un presente retroattivo: “Who controls the past controls the future, who controls the present controls the past”). Si tratta di uno dei tre principi del Socing: The Mutability of the Past. Tale controllo del tempo si rende possibile attraverso il Doublethink, attraverso cioè la tecnica della doppia verità con la quale si afferma una cosa e il suo contrario senza per questo violare il principio di non contraddizione e il Newspeak che consiste in una distruzione di parole che ha lo scopo di distruggere la letteratura e il modo di pensare precedente (“Orthodoxy means not thinking – not needing to think. Ortodoxy is unconsciousness”). Winston, il protagonista, viene arrestato e sottoposto a un calvario di percosse e torture in attesa di venir condotto nella misteriosa stanza 101 dove subirà una tortura ad personam. E’ qui che Winston scopre che il Partito persegue il potere per il potere (“Power is not a means, it is an end”) e quando cerca di appellarsi alla vita, alla natura umana, allo spirito dell’uomo... gli viene inflitta l’ultima tortura che ne spezza l’illusione. Perfino il suo amore per Giulia viene annientato. La gabbia dei topi applicata al suo viso infrange il suo ultimo tentativo di ribellione in nome dell’amore (“Do it to Julia! Do it to Julia! Not me”) e Winston può finalmente amare il Grande Fratello.
Ma non sembrano veramente queste le minacce che ci attendono, non sembra la ribellione delle macchine l’evento angosciante del nostro futuro e neppure il Grande Fratello. Per ora basta staccare la spina quando il telefono si fa assillante o spegnere il cellulare quando siamo stanchi di essere interconnessi, spegnere la tv quando non se ne può più. Ma è anche vero che potremmo essere connessi anche a nostra insaputa, controllati come nel 1984 dove il volto onnipresente del Grande Fratello guarda ovunque. L’immagine che la scienza ci sta dando di noi stessi è quella di macchine. Le macchine non sono più fuori di noi, siamo noi. La scoperta del dna ci ha fatto credere di aver svelato il segreto della vita, ci ha illuso di essere qualcosa che può essere smontato e rimontato, ci ha ridotto a cose. Non passa giorno che non si individui un nuovo gene che spieghi quello che siamo, un nostro attributo fisico o una nostra capacità sensoriale. L’immagine che abbiamo di noi è sempre più quella di una macchina fatta di parti e non un’unità, un corpo che può essere rimodellato all’occorrenza con tecniche chirurgiche di vario tipo, un corpo artificiale, e perfino una mente che può essere corretta farmacologicamente, un cervello che può essere robotizzato se occorre. Siamo noi i robot, gli androidi, i cyborg, stiamo diventando creature aliene a noi stessi, siamo noi, ciascuno di noi, il Grande Fratello. L’evoluzione verso la versione 2.0 dell’homo sapiens è già cominciata. La distruzione dell’ambiente, il nostro pianeta è solo un epifenomeno della trasformazione che stiamo operando sulla nostra immagine.
Il discorso De hominis dignitate di Pico della Mirandola, elogia la capacità intellettiva e deduttiva dell’essere umano. L’intelligenza significa libertà, capacità di dirigere la propria sorte in senso buono o cattivo. Nelle parole di un altro autore rinascimentale, Machiavelli, l’uomo in parte, per una metà, è costretto (condizionato) dalla fortuna (buona o cattiva sorte) ma per l’altra metà tutto dipende da lui, dalla sua capacità di piegare gli eventi a suo favore. Per Niccolò Cusano (1401-1464) l’uomo è un microcosmo che contrae in sé tutte le cose. Nell’uomo risplende la perfezione della totalità dell’universo perché la natura intellettuale dell’uomo è potenzialmente infinita. Pico della Mirandola, erudito formidabile e temperamento passionale (fu coinvolto in uno scandalo per il ratto di una nobildonna fiorentina), è forse l’autore più emblematico di quella temperie culturale che nella riscoperta dei classici greci e latini ha posto in essere il passaggio alla storia moderna. La sua opera è un po’ la sintesi dell’umanesimo rinascimentale, una concezione dell’uomo come essere libero di plasmarsi e scolpirsi, una natura camaleontica e proteiforme. Nell’uomo c’è una essenza indefinita, una natura indeterminata. Tale bellissima immagine dell’uomo non è condizionante, non lo riduce ad essere un burattino del suo genoma e neppure un essere determinato dal suo passato.
Leggiamo le parole straordinarie nel testo originale con il quale l’artefice parla all’uomo.
“Nec certam sedem, nec propriam faciem, nec munus ullum peculiare tibi dedimus, o Adam, ut quam sedem, quam faciem, quae munera tute optaveris, ea, pro voto, pro tua sententia, habeas et possideas. Definita ceteris natura intra praescriptas a nobis leges coercetur. Tu, nullis angustiis coercitus, pro tuo arbitrio, in cuius manu te posui, tibi illam praefinies. Medium te mundi posui, ut circumspiceres inde commodius quicquid est in mundo. Nec te caelestem neque terrenum, neque mortalem neque immortalem fecimus, ut tui ipsius quasi arbitrarius honorariusque plastes et fictor, in quam malueris tute formam effingas… Poteris in inferiora quae sunt bruta degenerare; poteris in superiora quae sunt divina ex tui animi sententia regenerari”.
“Non ti ho dato Adamo né un aspetto, né un luogo che ti sia proprio, né alcuna prerogativa che ti sia particolare, affinché il tuo volto, il tuo posto e i tuoi attributi tu li voglia, li ottenga e li possieda secondo il tuo voto e la tua volontà. La natura determinata di altri (esseri) è inscritta in leggi da me stabilite. Ma tu che non soggiaci ad alcuna limitazione, secondo il tuo arbitrio, al quale ti affidai, tu definisci da te stesso la tua natura. Ti ho posto al centro del mondo perché tu possa scorgervi meglio ciò che esso contiene. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché da te stesso, in guisa di artefice plasmassi e scolpissi la tua immagine... Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo la tua volontà, nelle cose superiori, quelle divine.”
“Nec certam sedem, nec propriam faciem, nec munus ullum peculiare tibi dedimus, o Adam, ut quam sedem, quam faciem, quae munera tute optaveris, ea, pro voto, pro tua sententia, habeas et possideas. Definita ceteris natura intra praescriptas a nobis leges coercetur. Tu, nullis angustiis coercitus, pro tuo arbitrio, in cuius manu te posui, tibi illam praefinies. Medium te mundi posui, ut circumspiceres inde commodius quicquid est in mundo. Nec te caelestem neque terrenum, neque mortalem neque immortalem fecimus, ut tui ipsius quasi arbitrarius honorariusque plastes et fictor, in quam malueris tute formam effingas… Poteris in inferiora quae sunt bruta degenerare; poteris in superiora quae sunt divina ex tui animi sententia regenerari”.
“Non ti ho dato Adamo né un aspetto, né un luogo che ti sia proprio, né alcuna prerogativa che ti sia particolare, affinché il tuo volto, il tuo posto e i tuoi attributi tu li voglia, li ottenga e li possieda secondo il tuo voto e la tua volontà. La natura determinata di altri (esseri) è inscritta in leggi da me stabilite. Ma tu che non soggiaci ad alcuna limitazione, secondo il tuo arbitrio, al quale ti affidai, tu definisci da te stesso la tua natura. Ti ho posto al centro del mondo perché tu possa scorgervi meglio ciò che esso contiene. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché da te stesso, in guisa di artefice plasmassi e scolpissi la tua immagine... Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo la tua volontà, nelle cose superiori, quelle divine.”
I
progressi in campo scientifico promettono mirabolanti doni all’umanità. La
digitalizzazione del sapere, i metodi quantitativi applicati in ogni ambito,
anche là nel tempio della coscienza, promette una versione 2.0 dell’homo
sapiens. Le fosche nubi che si addensano sui possibili scenari apocalittici
globali (non i soliti millenarismi infondati basati sui cicli convenzionali del
calendario) relativamente alla versione precedente dell’apprendista stregone
impegnato a distruggere il pianeta sono solo fenomeni accessori, conseguenze
fortuite del processo di trasformazione dell’immagine che l’uomo ha di se
stesso. Seguendo il discorso di Pico della Mirandola l’uomo in quanto artefice
della sua natura indeterminata (né celeste né terreno) sta scolpendo la sua
immagine in una forma che forse neppure l’umanista del quindicesimo secolo
aveva previsto: né un bruto e né un angelo, solo una macchina. Tale immagine di
sé è solo una sua scelta, non risponde a nessuna natura umana che in quanto
indeterminata ed aperta rimane libera di plasmarsi e di scolpirsi, di patteggiare
col diavolo come Faust o di sciogliere il patto. Il nostro futuro sembra dipendere
più ancora che dal problema ambientale dall’immagine che l’uomo ha di se stesso. Gilberto M.
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Carissimo Gilberto,
RispondiEliminail tuo articolo (che è più di un articolo) è molto interessante, e suscita interesse anche per cercare nella storia filosofica e letteraria i prototipi di certa novecentesca letteratura fantascientifica, che spesso precede il lavoro, effettivamente scientifico, successivo. Basterebbe pensare ad un Verne, ad esempio. Propriamente non so a quando risalga l'idea tecnica di produrre un uomo-macchina. Sappiamo che il pitagorico Archita di Taranto riuscì a produrre una macchina volante a forma di colomba. Cartesio fu il primo a formulare, in modo filosofico e scientifico, l'idea dell'uomo macchina che, in più, da Dio ha avuto il pensiero, come anima pensante. Condillac immaginò una statua che diventava "uomo", progressivamente acquisendo un senso alla volta. Lamettrie intitolò, se non ricordo male, una sua opera appunto "L'uomo macchina".
Nel "Faust" di Goethe si rappresenta il suo assistente universitario che cerca di produrre in provetta l'"homùnculus", che è l'anticipazione dell'uomo bionico di certe nostre storie attuali. Chi ne ha fatto un racconto "nero" fu E.T.A Hoffmann ne "L'Uomo della sabbia". Un scienziato italiano, non a caso chiamato Spalanzani (con una elle soltanto) crea un'automa-donna, che chiama Olimpia e che arriva a sedurre il protagonista Nathanael, che se ne innamora (sotto sotto anche per dire che la donna è per l'uomo un soggetto sempre indecifrabile, come lo è questo automa, che diventa credibile come donna, perché le sue stranezze e il suo fascino sono simili alle fascinose stranezze femminili vere e proprie). Anche Freud si occupò di questo racconto, ma per i simbolismi inconsci (ad esempio, le lenti dello Spalanzani, visti da Nathanael come occhi).
Né infine vanno dimenticati gli esperimenti settecenteschi sulla creazione di automi con viso "umano" e meccanismi ad orologeria: celebre per tutti il "turco che gioca agli scacchi", un'anticipazione del computer ad uso ludico. Sono proprio questi automi reali ad impressionare la famtasia di Hoffmann che giunge ad immaginare anche lui un essere meccanico, ma esteriormente umano quale "Olimpia", che appare a tutti gli effetti un'affascinante fanciulla, salvo con stranezze che il protagonista non riesce a decifrare come "meccaniche".
Dietro a tutto questo, come hai ben rilevato citando Pico della Mirandola, si nasconde il tema terrificante di che cosa sia l'uomo, un "monstrum naturae", insieme bestiale e spirituale, capace di immensi slanci nel bene come nel male, capace di sacrificare la vita per un'idea, oppure di strisciare come verme pur di avere qualche materiale beneficio, capace di grandi odi, di grandi amori e di una spesso terrificante indifferenza.
Mi piace questo articolo, è decisamente contemporaneo e le riflessioni in esso contenute sono meno teoriche di quel che potrebbe sembrare ad un primo impatto.
RispondiEliminaStavo giusto riflettendo su quel progetto di Obama riguardo l'inserire un microchip nella mano - o sulla fronte degli americani, al fine di migliorare il Servizio sanitario.
Non ci vorrà molto affinchè questa dell'impianto di un microchip diventi una forma di identificazione comune.
Sarebbe molto più semplice di una scheda di un cellulare o di una carta dei servizi, e sono sicura che verrà ben pubblicizzato.
Ma..
non devo spiegare il grosso pericolo che potrebbe rappresentare per la libertà individuale e collettiva.
Tabula
Carissimo Manlio
RispondiEliminaCome al solito i tuoi interventi vogliono approfondire anche sul piano storico-genetico. Interessante il tuo exursus che nel nostro caso sembra condurre a un postumanesimo (una umanità aumentata con innesti e modificazioni artificiali) L’interfaccia uomo-macchina prefiguarata non è più solo l’hardware e il software del calcolatore o addirittura l’interfaccia neurale (che ormai non sembra più solo fantascienza) ma l’immagine speculare che l’uomo ha di se stesso con tutte le implicazioni che questo comporta. Comunque si può ricordare anche il filone cyberpunk anticipato dal Futurismo che esalta la fusione uomo-macchina (Marinetti) . Possiamo riferirci al mito di Pigmalione la cui statua di Galatea prese vita. Nella mitologia classica il dio Vulcano crea servi meccanici. Nell’ebraismo si parla del Golem, una statua di argilla che si anima in forza della magia cabalistica. Leonardo da Vinci sembra abbia progettato un robot umanoide, un cavaliere meccanico. Nel XVII secolo viene effettivamente fabbricato un androide che suona il flauto, antesignano dei Babbo Natale meccanici che suonano il sax. E si può proseguire con Frankestein fino alla logica fuzzy dei frigoriferi...
Gilberto M.
@Tabula
Grazie per l'apprezzamento.
@Gilberto
RispondiEliminanon c'è di che
dai un'occhiata all'artista Stelarc,
se già non lo conosci
ibrida se stesso con protesi cyborg
Tabula
@ Tabula
RispondiEliminaNo Tabula, non lo conoscevo. Ho scoperto su wikipedia che si è fatto impiantare su un suo braccio un orecchio creato in laboratorio con le proprie cellule (innesto che poi ha dovuto amputare) e un microfono per consentire agli altri di essere partecipi delle sue percezioni acustiche. Ma anche la moda dei piercing e dei brillantini incastonati nelle varie parti del corpo, e della chirurgia plastica a scopo estetico preludono a una concezione del corpo come macchina e a una immagine di sé artificiale.
Gilberto M.
Ma l’immagine di noi come macchina più ancora che nell’hardware (per usare il linguaggio informatico) riguarda la parte di noi che chiamiamo anima. Se è pur vero che il piercing ha origini preistoriche quando veniva usato vuoi a scopo cerimoniale e religioso e vuoi per distinguere i membri del gruppo, tale immagine si esprime soprattutto nel software. Pensiamo agli insegnanti reclutati sulla base di test a risposte chiuse, pensiamo al condizionamento operante Skinneriano, pensiamo alle immagini subliminali della pubblicità, alla pianificazione dei comportamenti collettivi. Internet, il mezzo che stiamo usando, di fatto è in gran parte costituito da automi (e se il mio articolo fosse stato assemblato da un programma automatico e Gilberto M. fosse solo l’acronimo di un sistema esperto, un software che costruisce articoli in automatico?) Pensiamo alla organizzazione del lavoro dove l’uomo è un ingranaggio che si adegua a dei ritmi artificiali (ma anche al tempo libero e allo shopping più o meno compulsivo, più o meno determinato da una programmazione collettiva). Ma pensiamo soprattutto a un sistema educativo che da molti anni è diventato un sistema di istruzioni (si parla di industria dell’educazione e di tecnologia dell’insegnamento). E pensiamo alla scienza che da molto tempo non è più al servizio dell’uomo ma al servizio del sistema produttivo… Gilberto M.
RispondiEliminaQuando l'uomo confonde la tecnologia, che è semplicemente lo studio del perfezionamento dei mezzi che usa, con la sua propria realtà, e ne fa il fondamento della propria vita, oltre che coprirsi di presunzione (sentirsi Dio), si avvìa con le proprie mani alla morte della propria specie. Quando tutta questa tecnologia non avrà più alimento energetico e quando quella parte di umanità avrà fatto della tecnologia il fondamento ossessivo della propria esisatenza, allora sparirà dal pianeta, mentre potranno vivere o sopravvivere solo coloro che non utilizzano tale tecnologia.
RispondiEliminaLa tragedia dell'uomo è, come sempre, scambiare i mezzi per i fini o per i fondamenti della propria realtà: questo tragico equivoco è la causa futura della propria distruzione.
buongiorno,che dire di questo articolo,che è tutto un discorso....
RispondiEliminaci provo a dire in poche parole,penso che il potere fa parte malata della mente e purtroppo anche contaggiosa,fin'ora a quanto sembra non si è trovato l'antibiodico,quel brutto virus continua a circolare.....
specifico non deve essere confuso il potere con autorità questo è chiaro.....
sono daccordo con Signor Gilberto a riguardo del sistema della tecnologia,si sta perdendo il senso della letteratura....
con questo non vorrei dire che la tecnologia vada buttata via,dipende con quale consapovolezza se ne fa uso....dov'è la nostra autorità?.....un caro saluto a tutti e che l'anno nuovo ci porti veramente un risveglio di coscienze come disse i maia....auguri auguri....Carla
Sì Carla il senso del discorso è proprio quello che dici, il risveglio delle coscienze. Ciao e Buon Anno.
RispondiEliminaGilberto
grazie Signor Gilberto e contracambio i auguri a lei e famiglia....Carla
RispondiEliminaComplimenti per l'articolo, decisamente interessante e che, soprattutto, suscita più spunti di riflessione. Inoltre noto (anche da precedenti scritti) che l'autore è anche un appassionato di cinema. Per il resto, condivido anche le virgole dell'ultimo commento di Manlio Tummolo, e per fortuna la storia del microchip era solo una bufala internettiana. Buone Feste e Buon Anno a tutti :)
RispondiEliminaCarissimo Gilberto,complimenti per l'articolo,le faccio i miei migliori auguri di un felice e sereno anno nuovo.
RispondiEliminagrazie Vito
RispondiEliminaBuon anno a te e a tutti gli affezionati del blog
Gilberto M.