Di Gilberto Migliorini
Ero andato a fare footing su per le mura della mia città. L’aria era fredda ma il sole invernale al mezzodì metteva allegria. Incontravo molti giovani, ragazzi e ragazze del liceo e universitari che si accalcavano in attesa del bus. Quasi inconsciamente sono andato alla mia generazione e improvvisamente ho visto quello che ormai non si nota più, tanto fa parte di una normale quotidianità: testa ripiegata sullo smartphone e dita a premere i tasti in un convulso movimento dei pollici… molte ragazze in sovrappeso, alcune deformate da evidente pinguedine, imbottite di zuccheri da quei proverbiali fast food e da una alimentazione fuori controllo. Peccato, una generazione votata alla ridondanza elettronica e… calorica. Soprattutto lo strumento telematico improvvisamente mi era apparso come un’appendice gigantesca; anzi, per un attimo avevo come avuto l’impressione che fossero proprio i corpi degli umani il prolungamento del mezzo tecnologico: appendici biologiche su una conchiglia di silicio, come sandwich ripieni di data e istruzioni ricorsive. Mi ero spaventato e avevo frugato nel marsupio dove di solito tengo il mio cellulare obsoleto. Per una frazione di secondo avevo avuto l’impulso luddista di scaraventare il congegno elettronico giù dalle mura.
Le trasformazioni tecnologiche degli ultimi vent’anni sono avvenute con sufficiente gradualità da non percepire la scansione dei cambiamenti nelle loro implicazioni surrettizie, sociali e culturali, ma anche con tale evidente intensità da rivoluzionare il nostro modo di pensare e di vivere. Solo andando indietro cinquant’anni quelle trasformazioni - che sono poi avvenute - ci sembrerebbero qualcosa che neppure la fantascienza più sfrenata sarebbe stata in grado di immaginare: la magia di internet e dei computer, gli sviluppi in campo biologico, la nuova fisica, i viaggi spaziali. Eppure culturalmente sembra che l’umanità abbia smarrito qualcosa di essenziale e che l’accelerazione sia stata così intensa da perdere l’orientamento nonostante l’immancabile navigatore satellitare e perfino l’auto che viaggia da sola, col pilota automatico.
Ci sono due cose che non conosciamo veramente: il nostro passato e il nostro futuro. Il passato è quello dei documenti storici in qualunque versione, dai monumenti fino alle immagini di repertorio su qualche supporto elettronico. Al di là del fatto che ci sono anche i falsi, risulta però evidente che il passato dovrebbe esistere… a meno che si tratti di una gigantesca sceneggiatura, un po’ come nel classico film che inizia con una storia che ci parla di un passato inesistente, di un antefatto solo per giustificare il presente cinematografico che ci viene raccontato. Il film che dura solo un paio d’ore ci rappresenta una vita, magari intere generazioni, addirittura la storia dell’universo…
Il passato potrebbe anche non esistere, essere soltanto una proiezione virtuale e tutto essere iniziato non si sa quando, magari all’incirca quando siamo nati. Un mondo virtuale costruito tutto per noi coi visori che ci fanno entrare in un videogame così realistico da sembrare vero, da farci credere che il mondo esisteva anche prima. I nostri ricordi d’infanzia potrebbero essere stati implementati e la nostra esistenza, proprio come in un film, essere iniziata da poco, ma con tutto quel corredo di memorie virtuali. È come se anche noi fossimo dei computer nei quali si possono immagazzinare dei dati, creare e far funzionare dei mondi virtuali.
Per il futuro si tratterebbe di aggiungere delle trasformazioni seguendo le linee di un presente che come una freccia segue la sua traiettoria. I metodi rigorosamente quantitativi indicano la necessaria e inevitabile evoluzione del sistema, il computer nel quale siamo confinati senza saperlo e che rappresenta il nostro vero ambiente esistenziale. Siamo allocati in chip senza neppure immaginare d’essere soltanto memorie virtuali, nient’altro che circuiti stampati con la vita e la morte inscritte da sempre nel nostro destino integrato?
La nostra natura di macchine sembra emergere in modo sempre più evidente con tutte le implicazioni morali e teoretiche che ne derivano. Viviamo insomma in un eterno presente con un passato e un futuro puramente virtuali: l’uno una semplice memoria implementata nel nostro hardware - che forse è solo virtualmente biologico - l’altro una proiezione di qualcosa già inscritto nel qui e ora.
La moderna civiltà delle macchine, degli automatismi, degli algoritmi e dei metodi quantitativi sta insinuandoci il dubbio che tutto in fondo si regga su procedimenti ricorsivi, su un sistema di banche dati che costruiscono il nostro mondo quotidiano, giorno per giorno, illudendoci di avere una storia da raccontare, una vita da vivere come se fosse la nostra e non quella della macchina informatica che la esegue pedissequamente con le istruzioni del software. Il bene e il male esisterebbero soltanto come contrassegni di un soggetto che di fatto non può scegliere di preferire l’uno o l’altro, in quanto risultato di una memoria preconfezionata, un programma che ‘gira’ come un videogame. La filosofia moderna ne ha già più volte esplicitato il concetto che porta a sottrarre qualunque responsabilità all’attore sociale ridotto a quell’androide che il famoso test di Turing vorrebbe finalmente smascherare. Siamo soltanto un sistema al quale attribuiamo la capacità di pensare, in grado di riprodurre le funzioni cognitive in un meccanismo a stati finiti?
L’assassino potrebbe essere il filosofo più ancora dello scienziato. L’erede di Galileo in fondo opera nel suo orticello e adotta salomonicamente l’aforisma newtoniano: hypotheses non fingo, nell’ideale di una mera descrizione dei fenomeni senza l’aggiunta di interpretazioni meccanicistiche, deterministiche o… metafisiche. Il filosofo invece non si trattiene, porta tutta la faccenda alle estreme conseguenze e indica proditoriamente… la morte di Dio e perfino dell’uomo come attore di scelte libere e autonome. I ragazzi che digitano ossessivamente sullo smartphone e sul tablet sembrano dar ragione al test immaginato da Alan Turing. Il dispositivo telematico sarebbe più ancora di un sistema di comunicazione, addirittura la dimostrazione dell’evoluzione verso l’intelligenza come mero artificio di un soggetto appendice di quella spinoziana Ethica ordine geometrico demonstrata rigorosamente definita secondo il metodo assiomatico-deduttivo nel determinismo naturale (deus sive natura).
Alla deresponsabilizzazione dell’attore sociale corrisponde la perdita della sua libertà? Il nuovo habitat dell’uomo del ventunesimo secolo è il supermercato dove si acquista tutto ciò che necessita con la carta fidaty barattando una illusoria libertà con i beni di consumo. L’adeguamento avvenuto per gradi porta più o meno tutti a considerarsi latori di una schedatura che ci assicura la promozione e il privilegio dello sconto fidelizzandoci perfino quando si tratta delle utenze della nostra casa. L’automazione che credevamo riservata agli elettrodomestici si sta lentamente e progressivamente interiorizzando, alla fine siamo noi gli automi programmati a dare risposte congrue rispetto al sistema complessivo delle cose e delle idee. Anche la devianza sociale è parte necessaria del sistema, promuove tutti i connessi interessi al contorno, nella repressione, nella pena, nel recupero e perfino nel processo di redenzione spirituale del colpevole. Il sistema è quello degli automatismi di una società integrata, di circuiti dove gli atomi sono le persone che fungono da componenti, segnali informativi in una interconnessione modulare globale.
Il supermercato è il luogo del negoziato, l’habitat per antonomasia nel quale avviene la transazione economica: siamo anche noi una merce di scambio, la nostra dignità in cambio dello sconto promozionale, del regalo che immancabilmente ci viene promesso. Messi a nudo per come mangiamo, sogniamo e facciamo all’amore con la marca del condom prediletto: tutto rigorosamente registrato ed elaborato nel chip della nostra carta fedeltà, organizzato per rendere i nostri acquisti sempre più conformi al nostro estro programmato nella natalizia frenesia degli acquisti. Ci aggiriamo tra gli scaffali con un’aria disorientata cercando qualcosa che non sappiamo bene, un quid che forse è dentro di noi. Ci chiediamo insistentemente perché siamo entrati e cosa troveremo all’uscita. Torneremo a casa?
Non sappiamo neppure bene se abbiamo una casa. Cosa c’è davvero là fuori. Lo squillo dello smartphone ci rassicura, qualcuno ci chiama, dunque esistiamo. Al cogito cartesiano sostituiamo lo squillo telematico. Si tratta di un messaggino di quelli prodotti in serie dal gestore telefonico. Non ci rassicura più di tanto. Il dubbio che il mondo finisca lì nel centro commerciale si insinua pernicioso mentre nella ressa ci sentiamo sempre più disorientati. È un bailamme di squilli e di persone piegate sul cellulare, alcune digitano, altre sembra parlino da sole. Che si tratti davvero di un gigantesco inganno, il cartesiano genietto malefico? Siamo destinati ad aggirarci per sempre nel gigantesco labirinto di un chip-superstore? Cerchiamo nervosamente di individuare una cassa libera. Sono tutte con code chilometriche....
Una donna mi sorride solidale vedendomi spaesato. Finalmente infilo il bancomat nel suo alloggiamento, ma con uno strano presentimento. La cassiera mi guarda sospettosa, la carta magnetica non viene accettata. Riprovo mentre sono consapevole che non ho contante e guardo il mio carrello colmo all’inverosimile… Il mio cellulare ha ripreso a suonare con insistenza e perfino la donna che mi ha sorriso adesso sta parlando al suo smartphone di ultima generazione. Nel bailamme di suoni, squilli e parole non so più bene chi sono e dove devo andare. Un corteo di persone anonime mi guardano mentre frugo nelle tasche alla ricerca della carta prepagata che di solito mi trae d’impaccio, però non so bene quanto credito contiene. Mi chiedo se sono in un mondo vero o solo dentro a un sogno.
Sta per concretizzarsi il giro di boa, il 2016. Dove stiamo andando? La sensazione non è solo quella di un futuro incerto e nebuloso riguardo al nostro ambiente di vita e alla situazione internazionale. Nubi grigie all’orizzonte, si aspetta la neve. Sembra che perfino il presente sia davvero un’incognita. Forse l’umanità non ha davvero più punti di riferimento, neppure quelli che un tempo davano il senso di un corteo in cammino verso una meta (immanente o trascendente a seconda dell’utopia: il mondo celeste o la futura società senza classi, comunque il paradiso ritrovato dopo la cacciata).
Mai come oggi le incognite gravano al punto che i dubbi potrebbero riguardare perfino la nostra natura ontologica: siamo solo macchine in un grande palcoscenico di effetti speciali, un film dove recitiamo senza sapere cosa prevede veramente il copione? La civiltà del computer e dei metodi ricorsivi ci sta insinuando dubbi radicali e perniciosi. La scienza sembra trasformarci in automi programmati togliendoci perfino l’illusione di essere creature del tutto speciali. Abbiamo ancora qualcosa a cui aggrapparci per dire che non siamo solo ombre inconsistenti votate al nulla, bruciate quando il computer viene spento e la RAM rende definitivamente volatile l'informazione multipla (la nostra esistenza originale e irripetibile) non più alimentata elettricamente e dal soffio vitale?
C’è un messaggio d’amore che nonostante tutto continua a illudere credenti e non credenti riguardo a una speranza che non smette di bussare alla porta. Forse là fuori c’è davvero qualcosa che non conosciamo. A casa qualcuno ci aspetta veramente? Quel nascente bambino in una grotta conserva ancora intatto il suo messaggio d’amore e nonostante tutto preserva in noi la speranza che c’è dell’altro e che forse la nostra vita ha davvero un senso che ancora non conosciamo. Forse nessuna macchina potrà mai simulare quello che andiamo cercando, ancora avvolto nel dolore e nel mistero.
1 commento:
Che bellissimo articolo.
Grazie, e a tutti un buon Natale...qui ed ora.
eli
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