Articolo di Gilberto M.
Nei Racconti di Mamma Oca di Charles Perrault, Pollicino (Le Petit Poucet) si riempie le tasche di sassolini bianchi che fa cadere dietro di sé e riesce a riportare i fratelli a casa dopo che i genitori li avevano abbandonati nel bosco. Quando il giorno dopo si ripete la stessa scena, Pollicino ha a disposizione solo briciole di pane che scompaiono nel becco degli uccelli...
Quella di Pollicino sembra proprio l’allegoria di un ipertesto dove i sassolini sono i link che ci riconducono a casa o comunque nel luogo dove vogliamo andare. E le briciole di pane che scompaiono nelle gole voraci degli uccelli? Sono i nodi del labirinto nel quale ci muoviamo e talvolta sogniamo, sono i punti di giunzione delle opzioni, sono le effimere indicazioni per uscir fuori... è la grande ragnatela nella quale navighiamo metaforicamente, non solo virtualmente, e dove incontriamo i nostri interlocutori un po’ veri e un po’ fittizi.
Talvolta il web sembra ingoiarci in un dedalo dove davvero abbiamo smarrito la strada. Non sappiamo più dove ci troviamo e dove ci conducono i nostri passi… non sappiamo quale percorso apriranno le dita che danzano sulla tastiera o che digitano direttamente sul monitor. Le biblioteche un tempo erano i luoghi deputati ad accumulare ogni sorta di informazione, labirinti di stanze e scaffali come nella Biblioteca di Babele di Borges, spazialmente infinita e che raccoglie disordinatamente tutti i possibili libri di 410 pagine in cui si susseguono sequenze di caratteri senza ordine, in tutte le possibili combinazioni. Lì c’è anche il romanzo che scriveremo, quello che leggeremo e perfino quello che nessuno scriverà mai. Ma la biblioteca è anche quella delle antiche pergamene, dei punti martellinati sulla roccia, delle incisioni rupestri o dei dipinti nelle grotte. Adesso siamo navigatori di miliardi di pagine. Cerchiamo un percorso che illumini un sentiero, una strada che ci conduca da qualche parte, non sappiamo bene dove. Tornare a casa, la nostra vera casa, quella che crediamo esistere da qualche parte, perfino oltre la vita. Il labirinto nel quale navighiamo è fatto di onde, increspature che si infrangono sullo scafo della nostra imbarcazione, un esile guscio che solca i link con andatura placida e sonnolenta quando c’è bonaccia. Allora la nostra vela prende solo un alito di vento, è la finestra sul blog rassicurante dove ascoltiamo gli echi di tutti quelli che parlano la nostra lingua, che formulano le rassicuranti opinioni nelle quali il nostro io si riconosce e si sente protetto come in un’alcova, un seno materno dove succhiare avidamente il quotidiano nutrimento di parole, immagini e suoni.
Ma altre volte è l’andatura di bolina con le onde di prua, una navigazione spericolata, un procedere senza certezze e senza appigli tra pagine che parlano di cose incomprensibili e con un linguaggio che non ci è familiare. Vorremmo addentraci in quel mondo sconosciuto, perderci tra ideogrammi e alfabeti alieni, scivolare attraverso pagine che ci proiettano in dimore che non abbiamo mai visto. La nostra casa improvvisamente si dilata in stanze di cui non avevamo neppure mai supposto l’esistenza. Luoghi esotici che ci attraggono e ci spaventano. Allora è rassicurante tornare nel ventre morbido della nostra pagina, nella stanza dove echeggiano le parole che ci siamo abituati ad ascoltare, le favole che ci hanno raccontato, le filastrocche che ripetiamo per vincere l’angoscia del niente e la paura del buio. Quel mare inesplorato che si apre davanti a noi, bello e terribile, ma soprattutto incognito, che ci spaventa e ci disorienta, forse è solo un miraggio. Linkiamo lungo rotte commerciali, costeggiamo con una navigazione a vista, incapaci di avventurarci in mare aperto dove ci sentiamo nocchieri inesperti. Ci teniamo stretti alle nozioni che conosciamo, alle idee che fanno da abito al nostro io, alle ideologie che suscitano i nostri entusiasmi. Vorremmo tentare l’avventura verso l’ignoto, ma è così caldo e accogliente quel seno ideografico, quella pagina di idee e costrutti nella quale ci sentiamo protetti.
Poi un giorno all’improvviso crediamo di essere pronti al folle volo, come degli Ulisse che varcano i confini del mondo conosciuto, dei pionieri che lasciano la stanza dell’eco dove ascoltiamo le parole che ci lusingano e ci rassicurano. Volgiamo finalmente la prua verso il mare aperto. Pagine talvolta troppo ostiche per il nostro palato inesperto, lingue che ci sono ignote e… una strana insidia, la sensazione di trovarci fuori rotta. Di botto avvertiamo tutta l’incertezza della nostra navigazione, ma anche il fascino dell’andare a diporto, senza meta, senza neppure un giubbotto di salvataggio. Sappiamo che stiamo abbandonando il porto rassicurante della nostra isola, che lasciamo il certo per l’incerto, che il nostro è un azzardo verso l’ignoto. Avvertiamo l’angoscia della perdita dei consueti punti di riferimento. Ci siamo smarriti? La stella polare dell’icona del nostro profilo sul social network sembra però offrire al navigante ancora un appiglio, tra isole che non conosciamo possiamo ancora cercare in cielo la nostra buona stella. Linkiamo con la certezza di poter ritrovare la via del ritorno, di poter tornare là dove siamo già stati, di poter approdare finalmente nella terra amata, nel luogo dentro di noi dove possiamo riconoscerci, nel nostro vero io. Quel profluvio di pagine non ci spaventa. Neppure i font desueti o le immagini che appaiono e scompaiono in un palinsesto che imperversa senza tregua ci fanno temere di non ritrovare quel nido caldo e familiare dove ci sentiamo protetti.
Tra le icone di banner pubblicitari ci addentriamo sempre più disperdendo le briciole di un sapere che ci appare troppo vasto e complesso per poter essere abbracciato in uno sguardo d’insieme. Non siamo più neppure Pollicini, siamo solo naufraghi alla deriva su una zattera dove oscilla una piccola vela dall’aria spaurita. Soli, sotto un cielo plumbeo guardiamo preoccupati il nero che avanza. Senza bussola né sestante siamo sballottati qua e là da un mare di informazione, l’oceano di bit, dove perfino il nostro io è rappresentato in forma di icona, siamo un nome dissipato tra mille altri che ci sono omonimi, siamo naviganti irretiti. Dispersi in un fiume che scorre inesorabile insieme al cursore delle pagine cerchiamo qualche indizio per sapere chi siamo e dove siamo... dove andiamo. Sì, siamo sempre lì, nella nostra pagina personale del social network, esistiamo davvero, un punto caldo di pixel che lampeggiano sul monitor.
L’immagine del labirinto come nella trilogia del film The cube ci riporta a un marchingegno che non è soltanto un mostruoso e illimitato palcoscenico dove gli attori si sono smarriti e non trovano quel filo che possa ricondurli nel luogo familiare della narrazione. Il marchingegno è anche uno strumento di tortura. Quando pensiamo a quella pratica con la quale veniva inflitto dolore sia per punire e sia per estorcere confessioni (ma sempre con l’intento sadico di provare piacere per l’altrui sofferenza) non possiamo non immaginare alcuni strumenti che fanno orribile mostra di sé in qualche museo itinerante con il quale si vuole sensibilizzare (giustamente) l’opinione pubblica su quel lato nefasto ed orripilante della nostra natura. E’ così che ci capita di rimanere senza parole di fronte alla ‘Vergine di Ferro’ di Norimberga, un sarcofago antropomorfo dove il condannato veniva introdotto e torturato da una porta irta di chiodi affilatissimi che veniva chiusa lentamente. Il malcapitato poteva penare anche più giorni e passare a miglior vita mentre i chiodi gli erano penetrati in ogni parte del corpo. Uno strumento davvero ingegnoso! Che dire della ghigliottina (Louison o Louisette), della Garrota o della eviscerazione dell’intestino con la quale venivano soprattutto puniti gli indios nel nuovo mondo? E ancora, che dire del supplizio della ruota, sulla quale si sistemava il condannato a cui, a colpi di verga, venivano poi spezzati gli arti? La vittima si trasformava in un specie di grande pupazzo ululante, un polpo gigante con quattro tentacoli disarticolati tra rivoli di sangue, carne cruda e ossa rotte... la fantasia dei sadici massacratori può davvero sbizzarrirsi tra strumenti tanto ingegnosi quanto crudeli.
Ma davvero la tortura è una pratica relegata al passato o comunque in una lontananza geografica che non riguarda i cosiddetti stati democratici dell’area occidentale? Quando pensiamo alla tortura immaginiamo qualche orribile strumento di legno e di ferro, degli ingegnosi strumenti di supplizio che Manzoni (Storia della colonna infame) e Pietro Verri (Osservazioni sulla tortura) o Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene) hanno denunciato con le loro opere. Pensiamo al ceppo della pubblica gogna, alla sedia inquisitoria, al banco di stiramento, alle pinze e tenaglie. Immaginiamo Giordano Bruno e il suo supplizio a Campo dei Fiori, pensiamo al processo agli untori... a tutto quell’armamentario di catene, ferri roventi, pere anali e vaginali, maschere di ferro che imprigionavano la lingua conficcata in un chiodo perché il condannato non turbasse con i suoi strepiti la funzione religiosa che si accompagnava al supplizio. La tortura nella realtà delle nostre società - che si vantano di aver definitivamente chiuso con quel passato in cui la stessa Chiesa con la Santa Inquisizione aveva usato la tortura in modo sistematico inquadrando i nuovi ordini religiosi (francescani e dominicani) nella pratica abominevole – sembra una procedura definitivamente relegata al passato. In realtà nella società moderna, la tortura ha assunto sempre più un carattere evanescente e invisibile applicandosi più alla mente che al corpo, usando il corpo non come fine ma come mezzo per penetrare nell’anima, nell’intimo della persona. Possiamo dire che in certo modo la pratica si è raffinata, ha decantato gli aspetti più truculenti e spettacolari per l’elemento essenziale della sofferenza della psiche.
L’immagine del labirinto come nella trilogia del film The cube ci riporta a un marchingegno che non è soltanto un mostruoso e illimitato palcoscenico dove gli attori si sono smarriti e non trovano quel filo che possa ricondurli nel luogo familiare della narrazione. Il marchingegno è anche uno strumento di tortura. Quando pensiamo a quella pratica con la quale veniva inflitto dolore sia per punire e sia per estorcere confessioni (ma sempre con l’intento sadico di provare piacere per l’altrui sofferenza) non possiamo non immaginare alcuni strumenti che fanno orribile mostra di sé in qualche museo itinerante con il quale si vuole sensibilizzare (giustamente) l’opinione pubblica su quel lato nefasto ed orripilante della nostra natura. E’ così che ci capita di rimanere senza parole di fronte alla ‘Vergine di Ferro’ di Norimberga, un sarcofago antropomorfo dove il condannato veniva introdotto e torturato da una porta irta di chiodi affilatissimi che veniva chiusa lentamente. Il malcapitato poteva penare anche più giorni e passare a miglior vita mentre i chiodi gli erano penetrati in ogni parte del corpo. Uno strumento davvero ingegnoso! Che dire della ghigliottina (Louison o Louisette), della Garrota o della eviscerazione dell’intestino con la quale venivano soprattutto puniti gli indios nel nuovo mondo? E ancora, che dire del supplizio della ruota, sulla quale si sistemava il condannato a cui, a colpi di verga, venivano poi spezzati gli arti? La vittima si trasformava in un specie di grande pupazzo ululante, un polpo gigante con quattro tentacoli disarticolati tra rivoli di sangue, carne cruda e ossa rotte... la fantasia dei sadici massacratori può davvero sbizzarrirsi tra strumenti tanto ingegnosi quanto crudeli.
Ma davvero la tortura è una pratica relegata al passato o comunque in una lontananza geografica che non riguarda i cosiddetti stati democratici dell’area occidentale? Quando pensiamo alla tortura immaginiamo qualche orribile strumento di legno e di ferro, degli ingegnosi strumenti di supplizio che Manzoni (Storia della colonna infame) e Pietro Verri (Osservazioni sulla tortura) o Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene) hanno denunciato con le loro opere. Pensiamo al ceppo della pubblica gogna, alla sedia inquisitoria, al banco di stiramento, alle pinze e tenaglie. Immaginiamo Giordano Bruno e il suo supplizio a Campo dei Fiori, pensiamo al processo agli untori... a tutto quell’armamentario di catene, ferri roventi, pere anali e vaginali, maschere di ferro che imprigionavano la lingua conficcata in un chiodo perché il condannato non turbasse con i suoi strepiti la funzione religiosa che si accompagnava al supplizio. La tortura nella realtà delle nostre società - che si vantano di aver definitivamente chiuso con quel passato in cui la stessa Chiesa con la Santa Inquisizione aveva usato la tortura in modo sistematico inquadrando i nuovi ordini religiosi (francescani e dominicani) nella pratica abominevole – sembra una procedura definitivamente relegata al passato. In realtà nella società moderna, la tortura ha assunto sempre più un carattere evanescente e invisibile applicandosi più alla mente che al corpo, usando il corpo non come fine ma come mezzo per penetrare nell’anima, nell’intimo della persona. Possiamo dire che in certo modo la pratica si è raffinata, ha decantato gli aspetti più truculenti e spettacolari per l’elemento essenziale della sofferenza della psiche.
La moderna tortura, salvo certi regimi nostalgici del passato, ha eliminato tutto quello che nella pratica era accidentale e inessenziale, l’ha ripulita da quanto poteva urtare le anime dei benpensanti. In 1984 - di George Orwell - la tortura ad personam ha come fine di amare il Grande Fratello, ma nella nostra società la tortura che sembra bandita dalle leggi si è in realtà trasformata in tortura invisibile. Nell’epoca del nominalismo in cui le cose sono connotate dalle etichette apposte ad hoc, soprattutto nella pratica politica, l’uso linguistico rimanda a quel sistema di significati che colui che parla mostra di ritenere (implicitamente) auspicabile e degno di essere propugnato, oppure esecrabile e oggetto di denuncia. La tortura è sempre quella applicata altrove, in altre realtà, rappresenta sempre l’alterità che i nostri sistemi politici non contemplano e che anzi aborriscono. Basta cambiare etichetta, modificare il significato, denotarla e soprattutto connotarla in altro modo. Tenere per anni una persona in attesa di giudizio non viene rilevato come un atto di prevaricazione e di violenza, come un metodo di coercizione fisica e psicologica. Il sovraffollamento carcerario, la gogna mediatica, i procedimenti giudiziari inquisitori, sembrano assurgere a norma di un sistema repressivo alieno dal concetto di tortura in quanto normalizzati. Ma si tratta ancora di procedimenti visibili e oggetto di denuncia da parte di chi ha a cuore la legalità e i diritti umani. Perfino la deprivazione sensoriale, la privazione del sonno, l’esposizione al freddo e le intimidazioni per piegare l’individuo psicologicamente e moralmente, rientrano in criteri di visibilità, per quanto occorra un’indagine più accorta per smascherarli, e sono pratiche stimmatizzate e oggetto di controllo degli ispettori ONU che possono effettuare visite a sorpresa nelle strutture carcerarie per verificare il rispetto dei diritti umani.
E sul nostro paese (ma non solo) dell’area occidentale, ci sarebbe molto da dire in fatto di violazioni. Ma come anticipavo, siamo ancora in un’area di visibilità in cui la tortura e i sistemi connessi possono essere descritti sulla base di precisi parametri neuro-fisiologici, con registrazioni degli effetti sull’organismo umano mediante strumenti appropriati, con misurazioni quantitative. Quella che invece la scienza (descrittiva) non può registrare, dunque non esiste nei suoi paradigmi interpretativi, è la tortura invisibile, cioè un tipo di tortura per la quale non esistono criteri descrittivi né tantomeno nomologici. Davvero, quindi, non esiste? In epoca contemporanea la tortura ha raggiunto il massimo di raffinatezza e di efficienza attraverso l’omologazione. La tortura è la normalità. Qualcuno penserà che stia scherzando o stia usando il paradosso. Niente di tutto ciò. Ormai la normalità è diventata così pervasiva da non avvertirne più il suo peso insostenibile, il suo carattere di onnipresenza e di pervasività. L’omologazione rappresenta il criterio di sopravvivenza per eccellenza, il conformismo una necessità per tirare avanti, il pensiero unidirezionale lo strumento di adattamento per antonomasia. Riguardo alle nostre società si è spesso parlato di anomia intendendo uno stato di dissonanza cognitiva (vedi Durkheim) caratterizzata dal continuo mutamento sociale proprio della società industriale e del connesso disadattamento in ragione di un crollo dell’ordine normativo. In realtà la normalità è un continuum che comprende un ventaglio di possibilità che vanno dall’integrazione fino alla devianza in un reticolo di possibilità codificate e regolate dagli opportuni ordinamenti istituzionali.
Il grado di controllo che la società esercita sull’individuo (sia quello che si adegua ai tempi, ai modi e ai ritmi; sia quello che devia secondo modalità che comportano sanzioni più o meno gravi) è diventato così profondo e pervasivo da poter essere considerato, come nella società orwelliana, talmente perfetto da non ammettere alcuna trasgressione che non sia già preventivamente codificata, prevista e catalogata. Per quanto possiamo immaginare di poter trasgredire, la nostra devianza è già preventivamente linkata. Segno che ormai stiamo diventando trasparenti, prevedibili, incapaci di uscir fuori dai binari dell’ipertesto narrativo nel quale navighiamo in quanto attori sociali. Nella società orwelliana perfino l’oppositore è un finto oppositore, un oppositore istituzionalizzato e approntato dallo stesso potere. Il sistema istituisce un controllo totalizzante dando l’illusione che davvero esista una organizzazione che voglia capovolgere il meccanismo ipertestuale esistente, ma che in realtà ne è solo una propaggine costruita per smascherare qualsiasi forma di dissenso. L’ipertesto narrativo ha già in sé tutti i percorsi collaterali, perfino quelli eretici. L’oppositore, insomma, è soltanto una controfigura del potere, uno stratagemma per rendere il controllo ancora più capillare e per smascherare chiunque manifesti una forma di dissenso e critica rispetto a un ordine tanto più immutabile quanto in costante trasformazione. L’ipertesto è un reticolo di link, di punti nodali, dove il labirinto assume appunto la funzione di una rete, una rete nella quale il navigante si crede libero solo per il fatto che l’universo nel quale si muove è uno spazio illimitato.
Le moderne procedure di controllo presuppongono che lo stato di coercizione non sia visibile, che la tortura sia anche quella autoinflitta, un cilicio virtuale e una cintura di castità all’ultima moda. L’assuefazione lenta e costante a un sistema di auto-repressione ha rimosso perfino la consapevolezza che la nostra libertà è quotidianamente violata, che navighiamo in un labirinto che ha tutti i caratteri di uno strumento di tortura tanto raffinato quanto invisibile e immateriale. La complessità e la vastità del labirinto ci illude di poterci muovere senza incontrare ostacoli, di poter disporre liberamente delle nostre facoltà come se davvero si aprisse davanti a noi un mare incognito. Non si tratta qui semplicemente del freudiano disagio della civiltà in cui proprio il progresso limita la libertà istintuale degli individui. Il reticolo metaforicamente è quello di un ipertesto narrativo in cui Pollicino è inesorabilmente condannato a finire nella casa dell’Orco, il luogo degli orrori della moderna società industriale avanzata. Quali orrori? La retorica del finto oppositore farebbe un elenco congeniale agli sdegni televisivi, un indottrinamento di un target addomesticato ai luoghi comuni. Inquinamento, guerra, corruzione, violenza sono gli ambiti di una litania ricorrente in una sorta di autoipnosi. Il futuro che attende l’uomo viene dipinto attraverso i più mirabolanti scenari in cui la scienza la fa da padrona. Tale immagine di derivazione ottocentesca, quando i progressi tecnologici hanno cominciato ad incidere profondamente sulla vita di milioni di persone, rimanda a scenari da fantascienza. La commistione tra scienza e interessi economici, crea le premesse per una società integrata in cui non è solo l’individuo ad essere una appendice del sistema produttivo.
Le persone non sono solo ingranaggi intercambiabili, non sono solo strumenti reificati, ma esse stesse sono i link di una rete che agisce in perfetta autonomia in quanto meccanismo svincolato da qualsiasi controllo. Il marchingegno è ormai autonomo, una nuova intelligenza planetaria costituisce e sostituisce qualsiasi forma consapevole di azione. Gli automatismi sostituiscono la forma cosciente con cui le menti operano. Gli individui in quanto intercambiabili e integrabili mantengono il meccanismo sempre efficiente e in grado di compiere le opportune riparazioni allorquando nelle crisi periodiche il sistema entra in sofferenza e in fibrillazione. Le ricorrenti crisi finanziarie attestano da un lato la fragilità di un sistema che ha bisogno di continue correzioni per mantenere l’equilibrio omeostatico, dall’altro dimostrano la capacità di riparazione che la macchina nel suo complesso possiede, modulando interventi di correzione che nella sostanza non ne alterino il funzionamento. Questo sistema purtroppo sembra avviarsi verso il collasso. La macchina creata dalla cultura occidentale è condannata in questo secolo a incepparsi definitivamente? La crescita continua che l’economia di mercato ci fa credere possibile, in uno scenario di sviluppo illimitato, è l’illusione che il sistema attuale possa procedere in modo indefinito. Come e quando accadrà il collasso è impossibile da prevedere, ma i segni e gli scricchiolii sono evidenti; si finge di non vedere e non sentire, siamo un po' come i Troiani nell’Eneide, che ignoravano i moniti di Laocoonte e Cassandra a proposito dell’enorme cavallo di legno che nascondeva l’insidia dei guerrieri greci.
Il labirinto che abbiamo creato ci sta portando alla catastrofe? Uscir fuori dal marchingegno non sarà per niente facile. La fiducia acritica nella scienza, così enfatizzata da tanti programmi e pubblicazioni divulgative, fa credere ai più che sia tutto sotto controllo, che abbiamo le chiavi del labirinto, che possiamo uscirne quando vogliamo, che l’ipertesto narrativo comporti il lieto fine come nella favola di Pollicino. Due secoli di progressi scientifici illudono l’opinione pubblica circa la figura dello scienziato, visto in chiave di ricercatore neutrale dedito al bene dell’umanità. Nell’immaginario collettivo si rimuovono gli interessi economici e di potere sottesi alla pratica della ricerca scientifica. I giganti della scienza del passato vengono sponsorizzati per dare un’immagine idilliaca della ricerca, olografie da martiri (Galileo che abiura in ginocchio) o da viaggiatori dell’orbe terracqueo che elaborano le loro teorie sui reperti biologici in assoluta autonomia dal contorno sociale (Darwin). Ci vengono descritte le meraviglie di un futuro tecnologico in cui la vita umana progredisce in lunghezza, un presente dinamicamente proteso verso le meraviglie di un orizzonte splendente. L’Orco e l’Orchessa purtroppo non sono facilmente identificabili, assumono vari aspetti, sono anche dentro di noi. Scivoliamo in una realtà da incubo come se stessimo approdando direttamente in un paradiso di delizie. Tutto quello che solo cinquant’anni fa ci avrebbe fatto orrore - dall’ultima guerra mondiale con Auschwitz, ma anche con Hiroshima - oggi ci appare del tutto normale. La realtà è che il marchingegno, che ha l’apparenza di un mare aperto e senza confini, ci sta stritolando, che niente è più sotto controllo e che a differenza di molte altre civiltà collassate nei millenni, noi non avremo altro posto in cui andare.
Quando gli scricchiolii saranno troppo evidenti non potremo neppure fuggir fuori dalla nostra casa perché l’ipertesto narrativo è ormai globalizzato. Si dice che la scienza ha avuto diversi martiri, tutti quelli che nel tentativo di far progredire il sapere hanno patito le conseguenze di qualche errore di previsione. L’errore ha però poi prodotto analisi più accurate, altri hanno continuato il lavoro di quei pionieri che hanno aperto nuove strade. Purtroppo un errore globale nel valutare l’impatto del marchingegno sulla nostra vita non consentirà aggiustamenti. Quando a crollare sarà il sistema nella sua interezza non avremo altro posto in cui andare. L’ipertesto narrativo, che abbiamo costruito con impegno alacre e piuttosto miope, sarà la nostra trappola? Forse il regista del film in proiezione affiderà a qualche altro attore (forse un’altra scimmia antropomorfa, ma non è detto) il tentativo di costruire un nuovo mondo felice... però, chissà: forse l’ipertesto narrativo conserva ancora qualche sorpresa. Forse in una sala esagonale della labirintica Biblioteca di Babele di Borges, esiste davvero il libro della Verità.
In ogni caso mi sorge il dubbio che anche questo articolo sia parte integrante dell’ipertesto narrativo... che dunque si tratti dell’ennesimo, quanto inutile, tentativo di uscir fuori dal labirinto. Gilberto M.
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5 commenti:
Carissimo Gilberto,
hai impostato un discorso estremamente complesso e si direbbe anche altamente pessimistico. Usciremo dal labirinto creato dall'uomo ? Dovremmo ripensare all'antico mito di Dedalo, di Icaro e di Minosse. Potremo crearci le ali per uscire dal labirinto da noi stessi creato ? Precipiteremo nel mare per la pretesa di Icaro di avvicinarci troppo al Sole ?
Una risposta negativa renderebbe inutile ogni discorso, anche la presa di coscienza dell'insuperabilità di questo labirinto, per cui essere divorati dal Minotauro diverrebbe inevitabile.
Dunque solo la probabilità di saper equilibrare bene le nostre ali tra un Sole troppo rovente ed un mare troppo umido o tempestoso, la speranza del saper trovare tale equilibrio, può darci una qualche garanzia per salvarci.
Ma tutto il discorso simbolistico può ridursi a un fatto del tutto interiore: è nella mente, nella volontà umana come fatto collettivo piuttosto che individuale, nella coscienza di imporci lo sforzo necessario, la capacità di trovare l'equilibrio utile al volo, un volo che è sempre "controvento" per mutuare dal titolo di questo blog un punto saliente.
Senza tale consapevolezza, il Minotauro o l'Orco di Pollicino saranno sempre pronti a divorarci.
Carissimo Manlio.
Sì, si tratta anche di una provocazione. La metafora di Dedalo e Icaro è perfetta. Però la minaccia questa volta incombe davvero. Il labirinto non è solo allegorico, la sfida è veramente mortale. Si tratta proprio di andare controvento, di non farci trascinare dalla corrente. Cosa non facile. Il finale autoreferenziale non vuole essere uno spunto pessimistico ma uno sprone a riconsiderare le certezze e le verità di cui ci sentiamo paladini. Gilberto M.
Buongiorno Gilberto,
ho letto il tuo interessantissimo articolo nel quale momenti di poesia s'intrecciano con il mondo virtuale e con quello reale.
Devo rileggerlo di nuovo e con attenzione, ma la prima impressione che ho avuto è la sollecitazione di un ricordo di una lettura antropologica che feci molti anni fa sui miti di antichi popoli sudamericani.
Uno in particolare mi stupì non poco, perché è unico e molto attuale, quello chiamato " La rivolta degli oggetti ".
Nella Piramide della Luna presso Trujillo, Perù, è affrescato questo mito che racconta la fine del mondo precedente.
Gli oggetti formati,utilizzati dall'uomo dopo essere stati usati e sfruttati, decisero di ribellarsi proprio all'uomo,non volevano più eseguire i comandi e iniziarono a scioperare.
( Forse, insieme con lo sciopero che dovette sedare Menenio Agrippa, questo è l'altro messo in atto in un tempo arcaico ).
Persino il re venne messo in discussione, per questo motivo gli esseri umani non poterono più continuare a vivere senza utilizzare gli oggetti e gli strumenti quotidiani.
Così finì la quarta Era, ora stiamo vivendo la quinta, secondo questo mito.
Sì " la realtà è un marchingegno " che ci sta stritolando come tu dici.
La realtà aggiungo, va esplorata con spirito critico,con prudenza, mantenendo un atteggiamento direi umile.
Non come l'Ulisse dantesco che affronta il mare aperto " per seguire virtude e conoscenza " fini a sé stessi, quasi a sfidare il volere divino. E Dante lo fa affondare con il legno un attimo dopo che vede il Monte.
Chiedo scusa, mi fermo qui si è fatto tardi, continuerò in seguito.
Grazie per l'articolo.
Vanna
« "O frati," dissi, "che per cento milia/perigli siete giunti a l'occidente,/a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è del rimanente/non vogliate negar l'esperïenza,/di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza". »
Dante canto XXVI
Grazie Vanna per le tue parole di apprezzamento.
Però la conoscenza di cui parla Dante non è certo quella di una tecnologia che ormai è diventata il fine (insieme agli enormi profitti e allo sfruttamento dell’uomo) e non il mezzo con cui l’uomo si realizza. Nella cultura aristotelica la mente umana è rappresentata come una nave (ecco il navigante internettiano). La prua è la fantasia, la poppa è la memoria. Nel Purgatorio dantesco abbiamo l’immagine della navigazione: "Per correr migliori acque alza le vele / ormai la navicella del mio ingegno/che lascia dietro a sé mar sì crudele ". Sulla soglia dell'ingresso del Paradiso (II, 1-3) si ritrova l'immagine. “O voi che siete in piccioletta barca/ desiderosi d’ascoltar, seguiti/dietro al mio legno che cantando varca,”
La rivolta degli oggetti si ritrova in molti mini e racconti anche di scrittori recenti, nel cinema russo d’avanguardia, nel futurismo. Majakovskij nelle sue poesie celebrava la rivolta degli oggetti.
Interessante il tuo riferimento alla cultura incaica. Perché non proponi un tuo articolo?
Gilberto M.
Gilberto grazie per il ricordo accurato delle rime dantesche, sempre care, preziose ed attuali.
Sì è vero che la conoscenza di cui parla Dante non è quella tecnologica, ma quella filosofica aristotelica.
Il nostro "navigare" via internet è altra cosa e la dipendenza che noi abbiamo nei confronti della tecnologia può avere risvolti interessanti o inquietanti, dipende da cosa si cerca.
Tornerò a parlarne.
Grazie per l'apprezzamento e il consiglio.
La cultura che dipinse nei corridoi della Huaca della Luna non era incaica ma Chimu-Mochica.
Gli Incas, così come oggi si conoscono, furono l'ultima civiltà di quel territorio che noi conosciamo come Perù. Essi sconfissero tutte le popolazioni incontrate nella loro conquista e tra queste anche la cultura della costa Mochica.
Ora devo andare: mi si sta bruciando il soufflée
Vanna
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