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lunedì 5 gennaio 2015

Viva viva il Presidente...

Di Gilberto Migliorini


Sulle prossime dimissioni del Presidente della Repubblica e sul suo successore si sono già spese molte parole e fatte le solite previsioni comprese di eventuali probabilità e notazioni cabalistiche. A parte gli addetti ai lavori e i dietrologi sempre piuttosto ben informati, edotti dalla statistica e dalle reminiscenze profetiche, l’opinione pubblica sembra ‘fremere di curiosità, in fibrillazione per il prossimo passaggio di consegne della più alta carica dello stato’. La prima funzione dello Stato prossimamente vacante, ci rende inquieti e spaesati: si sta come d’autunno sugli alberi le foglie - per dirla con il poeta - per quel vuoto incerto e pencolante quando ci si sente orfani, senza più guida, in quel limbo di anime smarrite, sanza infamia e sanza lodo, cani sperduti senza collare. La transizione è anche avvertita come una sorta di gioiosa kermesse. Una di quelle rappresentazioni che sollecitano fantasie e sogni, o quelle inquietudini da tifoseria dell’ultimo minuto con lo scrutinio delle schede in qualche incerto e imprevedibile testa a testa tra due schieramenti... con il solito aleatorio intermezzo di qualche outsider "cavato fuori" come il classico coniglio dal cappello. L’uomo provvidenziale che salva capra e cavoli. Mediazione in zona Cesarini.

Più prosaicamente si tratta di quell'uva nella vigna con la botte piena e la moglie ubriaca. Aulicamente un bell'abito per ogni stagione, ma a la page e con tutti gli accessori al punto giusto, senza inutili fronzoli, ma due diamanti per gemelli, un bastone di cristallo… e sul candido gilet, come dice la canzone, un papillon di seta blu.. Forse il colore è più sfumato, magari a pois o in tinta arlecchino. Nel parterre mediatico, fremiti di simpatia per questo e per quello, e apprensione per il rappresentante della nazione che ci infonde sicurezza, ci fa dormire sonni sereni, ci dà contezza che qualcuno veglia su di noi con paterna, amorevole e disinteressata condiscendenza. Seppur lontano, nelle auliche stanze, la più alta carica ci appare davvero come l’angelo custode della nostra memoria patria, una storia pur così puerile (poco più di 150 primavere) eppure densa di eventi drammatici e piena di risvolti torbidi e inesplicabili. Si tifa per il pater familias proiettato nell'empireo del Quirinale, ascetica lontananza di un uomo solo, eppure così disponibile ad ascoltare e prender nota delle spontanee rimostranze dell’italica gente, dispensando buffetti a destra e a manca, ma con predilezione per quei piccoli italiani che fremono di gioiosa e infantile eccitazione. Un padre burbero e austero che formula discorsi edificanti alla nazione, giusto a fine anno per dare lievito e ispirazione al nostro futuro.

D’improvviso l’elezione a Presidente innesca non solo quella scenografia d’altri tempi con cavalli e corazzieri, ma solleva l’eletto in quell'olimpo precluso ai comuni mortali. La sacrale investitura proietta quello che poco prima era solo un tapino, o al più un personaggio di lignaggio, forse d’ingegno, in una aliena lontananza, lassù come serafica ed eterea silloge del mondo iperuranio, lontano davvero dai meschini intrallazzi e dai compromessi inconfessabili del mondo ipogeo. Sul collis, montagna per eccellenza al paragone delle aule sorde e grigie degli antri parlamentari, si sta con tutto il prestigio e la devozione che l’onore e l’onere contemplano. Sarà per il fatto che quella carica ai più è sempre apparsa come un magnifico ornamento, ovviamente necessario come garante della Costituzione. Ruolo sicuramente indispensabile per promulgare le leggi e per quelle funzioni di rappresentanza, normative, legislative, esecutive, giurisdizionali… ma pur sempre una cariatide scolpita in quella torre eburnea, il Quirinale, da dove l’omelia presidenziale risuona con timbri aulici e maestosi, e con regale ecolalia. 

I discorsi alla nazione danno sì all'alta carica tutta la solennità della sua rappresentanza, ma relegano anche l’augusta persona in una sorta di empireo ascetico, lontano dai vacui interessi mondani e dalle pervicaci controversie della vita politica, in veste di neutrale mallevadore, nell'interesse della comunità nazionale. Il capo dello stato è più ancora di un simbolo e di una icona: è garante dell’unità e integrità costituzionale, è il simbolo stesso della nazione. Pur vero che non ha il bianco abito talare, né il triregno della simbologia papale, ma fan da corona cavalli e cavalieri, intorno a quella Lancia Flaminia come il carro di Giove da dove il portamento fiero e la mano solenne sembrano sempre sul punto di lanciare strali e messaggi alle camere, di infondere baldanza e integrità alla nazione. Magari qualcuno ingenuo e sprovveduto penserà che una rappresentanza più discreta, meno sontuosamente aulica, meno dispendiosa e non così elegante e sfarzosa, possa risultare più in sintonia con le pezze sul culo di un paese non più all'apice delle sue glorie storiche, un paese non proprio dagli esiti fastosi, forse in fase di stanca… Ma Noblesse oblige. La Roma dei Cesari e dei Papi, per quanto abbia sofferto ultimamente di qualche défaillance, non può certo svendere la sua storia e il suo prestigio fornendo il fianco a qualche demagogo che vorrebbe, così di punto in bianco, portare i fasti del paese a quella volgare e popolare mise da borgomastro o da maestro di bottega. 

La lettera semiseria di Giovanni Berchet scritta nel lontano 1816, stava tra Scilla e Cariddi, immaginava l’italiano (quello vero) tra il ‘Parigino’ (l’aristocratico debosciato e illanguidito dagli ozi e corrotto dai vizi) e l’’Ottentoto’ (troppo preso dal peso della sua sopravvivenza fisica per poter aderire a un programma di unità nazionale e troppo zotico per poter essere attratto da problemi morali e civili). Il programma politico nasceva nel solco di quell'Italia ancora di belle speranze e di patemi d’animo quando si parlava di amor di patria e di idealità incorrotta nel clima della nuova letteratura romantica e di una poesia popolare. Oggi il Parigino ha assunto quell'aria furba da politicante sornione, per niente illanguidito, ma animato da una smania speculativa senza freni e senza scrupoli, un maneggione machiavellico e affarista, il prototipo di tanto sottobosco politichese...

L’ottentotto è diventato un po’ figurante e un po’ comparsa, quasi un istrione e un servitore di due padroni, un piede di qua e quell'altro di là, equilibrista e giocoliere sia mediatico e sia vernacolare, con quel provvidenziale colpo al cerchio e quell'altro alla botte. Tra i due prototipi di razza gagliarda, c’è solo lo iato di un amen, come le due facce di un francobollo. In mezzo ci sta la palude: da quelli visceralmente onesti, per vocazione e convinzione, a coloro che tirano a campare (fin che la barca va), fino a quelli che come Totò ti vendono la famosa fontana. Il garante della Costituzione intona l’inno nazionale con una mano sul cuore. Per l’altra non si sa dove la tiene, non si sa quale sia il referente, tra tanta italianità eterogenea e difforme qualche volta si può far confusione.

Ma noi siamo davvero fiduciosi che ancora una volta il Presidente rappresenterà davvero tutti gli italiani. Tutti si intende quelli veri. La canzone forse non ci aiuta a capire quali siano gli italiani certificati e autenticati con timbro di garanzia. Così d'emblée si direbbe quelli che amano il loro paese. Ma l’Amour ultimamente ha assunto un significato ambiguo, non siamo più tanto sicuri della sua semantica). Si dice amore e si intende interesse, si parla di unità e si costruiscono ghetti, si disquisisce di diritti e si intende quello del più forte, si allude ai doveri e il riferimento è sempre a quelli degli altri. Il Presidente firma, irresponsabilmente - non è responsabile per gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, recita la norma, salvo per Attentato alla Costituzione ed Alto Tradimento. Con le monarchie costituzionali nate dopo che la louisette e la scure avevano mietuto un po’ di teste coronate legittimate da Dio, la nuova formula The King can do no wrong metteva tutti più tranquilli con quella responsabilità diluita e quel consociativismo del divide et impera.

Riguardo alla Costituzione c’è quella sorta di elemento interpretativo che emerge come personalismo presidenziale, quello stile originale che fa di ogni presidente un unicum nell'interpretare il suo ruolo. Il Divino Servitore dello Stato scende dal suo piedistallo etereo e interpreta il suo alto mandato con maggiore o minore temperamento, con personalità più anonima o più spiccata, con stile originale o accondiscendente, con timbro elegiaco o cacofonico. 

Che la massima carica dello stato sia al di fuori della mischia, alata testa senza corpo, è soltanto uno slogan, nella migliore delle ipotesi, e un segno di ignavia nella peggiore. Un presidente di tutti gli italiani non significa un presidente di tutti indistintamente, di quelli buoni e di quelli cattivi, degli onesti e dei Parigini, degli incorrotti e della massa degli ottentotti mediatici. Da un Presidente come Dio comandi (si fa per dire) ci si aspetta che non sia super partes, ma che prenda le parti... le parti dell’Italiano Vero, quello onesto che ama il suo paese, anzi diciamolo pure, che ama la sua Patria. 

Un capo di stato magari senza tanti orpelli, fronzoli e operine, ma che vada al sodo e dica pane al pane e vino al vino senza eufemismi e tentennamenti. 


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