Articolo di Gilberto Migliorini
C’è ormai
un paese decotto, un paese che non sa più distinguere, un paese che sa solo ripetere
pedissequamente tutte le favole che vengono raccontate da una informazione asservita
e avvilita (soprattutto quella televisiva). Non sa riconoscere chi lo mena per
il naso, chi ne fa uno zimbello, chi gliela suona e gliela canta. Il sistema
mediatico italiano, comprese le agenzie educative, non è solo nelle mani dei
poteri forti, come piace tradurre sinteticamente, è ormai un sistema chiuso,
autoreferenziale, un modello che si autosostiene in un circolo vizioso di ninna
nanne e accordi incrociati. Non si tratta solo di programmi spazzatura nei
quali l’approfondimento è solo occasione per ripetere luoghi comuni e cliché,
non si tratta soltanto di un sistema fatto di pettegolezzi, cialtronerie e
sentito dire raccattati con chiacchiere insulse e malevoli. Il sistema
informativo nell’epoca di internet, dei social network, della tv commerciale e della
pubblica spartizione protocollare, è quello degli automatismi, dei robot, del software che scrive e riscrive, un sistema esperto nel quale molti giornalisti sono
ingranaggi inconsapevoli anche quando non hanno precisi referenti e ispiratori.
Lo slogan
di un sistema mediatico che presuppone un’informazione libera è uno dei mantra
con il quale si è creata l’illusione della società aperta, quella del flusso di
dati ai quali ciascuno può attingere trascegliendo senza coercizioni. In
effetti la complessità della macchina mediatica, insieme a tutti gli apporti di
una pletora di specialisti e opinionisti, crea l’illusione di un sistema
estroflesso nel quale affiorano sempre nuove voci, dove emergono nuovi spunti e
dove ciascuno può attingere a tutte le opportunità e ai contributi che a vario
titolo - e con le più svariate competenze - contribuiscono a creare informazione. L’immagine
ha una sua suggestione che induce all’ottimismo, la constatazione che in una
società libera tutto è possibile, che nulla è perduto, che si possono sempre
emendare e correggere gli errori e le malversazioni. Un’altra immagine, quella
della macchina propagandistica e soprattutto di un sistema esperto (un automa),
solleva invece interrogativi non del tutto benevoli... Nell’epoca nella quale
si progetta il robot che presto girerà per casa come domestico tuttofare, anche
come compagno di merende, forse perfino come amante nel letto, è il caso di
chiedersi se il paventato esito di un automa che prende il sopravvento e domina
il suo costruttore-fruitore non esista già, non sia davvero una realtà
quotidiana, quella di un sistema informativo conchiuso in un algoritmo ripetitivo
che sovraintende alla cultura di un popolo e ne informa l’esistenza quotidiana.
In Italia precorriamo i tempi più che in altri paesi, in certo senso siamo all’avanguardia
in tutto quello che fa tendenza: la moda, la corruzione e l’informazione visceralmente
addomesticata (salvo ovviamente qualche eccezione encomiabile). Non si tratta
di un qualche congegno antropomorfo che ci guarda servizievole con i suoi occhi
artificiali da pesce lesso, si tratta di un diagramma di flusso, un programma
di istruzioni che regola la nostra vita sociale comprensiva dei valori e dei
pregiudizi che ne fanno da corollario. Il software invisibile che gira nel computer Italia rappresenta il surrogato
di una società aperta, in realtà un paese allegato in un sistema di illusioni, di
miraggi e di fate morgane. È sufficiente assistere a molteplici e variegati
programmi televisivi, salvo qualche perla
di bellezza e intelligenza sempre più rara, perché un occhio non del tutto
distratto possa estrapolare alcune righe di programmazione del software che ne
sovraintende lo svolgersi. Si tratta di quei cicli for-next, di quelle iterazioni
e subroutines che, per quanto non
appaiano sullo schermo in modo palese, rappresentano, al di là della varietà
dei programmi, una sorta di surrettizio codice
sorgente inscritto in tutto il palinsesto, il motivo ispiratore di tanta
programmazione dall’apparenza casuale o puramente commerciale, ma che in realtà
è configurato organicamente con istruzioni ad hoc.
In primis
c’è un moralismo che informa una pletora di performance giornalistiche e di
intrattenimento, sia che si tratti di un tg, di un dibattito, di un format o di
qualsiasi altra invenzione del medium, comprese televendite e consigli per gli
acquisti. È una sorta di orpello appiccicoso, un condom più o meno trasparente
e colorato che avvolge qualsiasi evento mediatico. Una carta domopack imbusta
le notizie in un regno dell’equivalenza salvo poi porgerle su piatti di portata, in opportune scenografie culinarie con presentazioni esteticamente allettanti confezionate con tutti i crismi dell’intrattenimento. In qualche caso
l’evidenza di disparità e di effetti
speciali si traduce in rassegnazione, come se l’utente fosse consapevole
che non se ne può far niente e che quelle melense e patetiche finzioni, quei
paternalismi edulcorati, quei buoni sentimenti artificiosi, siano ormai inevitabili
e facciano parte del costume di un popolo e di certe sue tradizioni false ed
ipocrite, dei suoi vezzi e civetterie declinate un po’ col catechismo e un po’
con l’astuzia del politicamente corretto. Ma in altre circostanze ben più
pregnanti, il moralismo assume il carattere di un teorema e diviene organigramma.
Da destra a sinistra (per non parlare del centro) il moralismo rappresenta il
carattere peculiare (perfino nei toni di voce, nelle posture, nella gestualità)
di un sistema di pensiero orientato non già a informare quanto ad ammaestrare.
L’italiano – l’ottentotto ignorante e cafone fin dall’unificazione del paese (vedi
la lettera semiseria del Berchet) - considerato dalle confraternite al potere un po’ un animale (da soma, da compagnia, da mattanza) un
po’ una cavia (sulla quale produrre
esperimenti scientifici e all’occorrenza da espiantare), un po’ soldato da
mandare al massacro e un po’ un pagliaccio da circo e da intrattenimento, un
figurante da esporre in vetrina, da portare a un comizio, da tirar fuori dal
cappello quando serve come supporter in una tribuna politica e in occasione di
qualche turno elettorale. Nei casi più eclatanti e singolari se ne è fatto un
idealtipo, un emblema di ideologie, un modello esemplare da sacrificare
sull’altare del glorioso sol dell’avvenir.
Il potere
ha sempre considerato il popolo italiano come una massa di manovra, carne da cannone,
scimmie da accudire, indottrinare e usare a piacimento come oggetti da
collezione, soprammobili e perfino come vittime sacrificali sull’altare del
progresso. La scuola è stata concepita come palestra di addestramento per
replicanti, equilibristi e contorsionisti, un modello di cittadino che ripete
pedissequamente valori e idee che gli vengono appiccicati come decalcomanie,
vuoi nel mito di qualche posto al sole e vuoi in quello di ideologie della
liberazione in nome di una filosofia della storia o di un ineluttabile processo
dialettico scandito come un teleromanzo a puntate.
L’attuale
potere politico, nella quasi totalità, non ha nessun interesse a promuovere
condizioni di consapevolezza e razionalità nei cittadini, minerebbe la sua
forza e il suo ascendente su una plebaglia amorfa che in ultima analisi disprezza e
considera solo come strumento da usare, come massa inerte da strumentalizzare e
asservire, come interlocutore da orientare e plasmare in vista dei propri obiettivi
inconfessabili. Il mantenimento del potere dei ceti privilegiati, quelli che
comandano per delega e per intercessione, trae vantaggio dal moralismo
imperante che loro stessi incoraggiano nelle masse mediatiche e che nel privato
del backstage disprezzano e irridono.
Il moralismo è davvero un instrumentum
regni per tutto quel mondo di parvenu, sfruttatori e reggitori che si fanno
beffe del popolo mentre lo lisciano, lo circuiscono, lo leccano e lo lusingano.
Per questo il potere espresso in camarille, partitocrazie e massonerie, incoraggia tutto quello che ha il sapore dell’ipocrisia, del perbenismo, di
tutti quei luoghi comuni tranquillizzanti di un popolo di sonnambuli (i dormienti
di Eraclito), aggiornati nella nuova versione dei figuranti che parlano a
comando, degli zombi che conoscono a menadito tutto il repertorio delle cose da
dire e da non dire, dei tabù da evitare e delle circostanze da omettere.
Incoraggiare sempre e comunque tutto quello che fa tendenza, moda e conformismo
affinché tutti si sentano parte di una grande famiglia, mettendo all’indice quel che abbia anche solo l’apparenza della consapevolezza di essere
portatori di diritti e di giudizi autonomi.
È il trionfo di un sistema del
consenso basato sul divertificio,
sullo sportificio e sull’idolatria, di un ideologismo nebulizzato
mediante un palinsesto banale e ripetitivo che serve a indottrinare mantenendo
l’italiano immerso in un liquido amniotico, in uno stato di perenne sospensione
dentro un limbo uterino.
La
macchina informativa, in un sistema chiuso e autoreferenziale usa quello della retorica mascherata: un sistema simbiotico di rimandi e collusioni in grado di
mimetizzarsi come sistema di valori e di trasfigurarsi nella forma della
consequenzialità logica indossando i panni del ‘sano realismo’. L’argomento è di attualità soprattutto per quel
sentirsi in sintonia automatica con tutto ciò che fa tendenza, per
quell’immediato vibrare emotivamente all’unisono a quel segnale convenzionale che
scatta senza neppure avvertirne il suono e l’odore e che innesca l’applauso, il
pianto o il riso. Si tratta di una consonanza che non ha bisogno di attivare le
sinapsi cerebrali, bastano gli automatismi spinali. Con la retorica si può
controllare l’elettorato meglio ancora che con le droghe, gli psicofarmaci e
perfino gli ottanta euri virtuali in busta paga. Una televisione
senza retorica è come una casa senza stanza da bagno, non si sa dove evacuare.
La retorica serve per l’appunto per trasformare anche il più insulso dei
bisogni in un sontuoso e liberatorio intermezzo con accompagnamento musicale e
quell’inconfondibile profumo con-sensuale.
Ovviamente c’è anche una retorica che si serve dell’immagine per dare
all’informazione un carattere incisivo e immediato, per rendere più chiaro il
messaggio.
Ma c’è anche una retorica che considera il destinatario come un soggetto da
circuire, un target interdetto sul quale è del tutto agevole utilizzare
pratiche suggestive e operare condizionamenti utilizzando un registro che
sfrutti le emozioni epidermiche, le ingenuità affettive, i vezzi caratteriali
di un popolo da sempre assuefatto, vuoi alle paure infernali e vuoi alle agiografie
dei santi e dei beati (popolo di santi,
poeti e navigatori). Un target, insomma, considerato alla stregua di bambocci
sui quali esercitare l’arte della mistificazione dell’Io. I comizi politici e i
programmi televisivi nazional-popolari offrono esempi del disprezzo sistematico
nei confronti dell’utenza considerata come massa infantile alla quale
raccontare qualche bella storia edificante. Esiste poi la simulazione, la
contraffazione e la menzogna. Ma per saper mentire in modo credibile occorre
mescolare anche l’ingrediente del vero. Si tratta di una questione di dosi e di saper miscelare
gli ingredienti in modo da rendere sufficientemente appetibile la preparazione
culinaria. È pur vero che ci sono quelli di bocca buona per i quali non serve
uno chef e a cui va bene qualsiasi intruglio e intrallazzo. Per i più esigenti, però, occorre
non indulgere troppo a dissimulare. Usando il giusto equilibrio è possibile
convincere anche i più refrattari. Mescolare verità è menzogna è l’arte sublime
di una informazione per la quale la retorica diviene verosimiglianza.
Il
software informativo, per trovare completa consonanza in quello che comunemente
viene definito sistema democratico
dell’informazione, ha bisogno di un ingrediente del tutto speciale,
sicuramente il più importante: dell’autorevolezza. L’autorità della conoscenza è
in genere espressa dagli specialisti, persone ferrate nella disciplina della quale
hanno competenze, il campo o l’orticello (a seconda che si tratti di are o
centiare) che conoscono bene. Ci sono, è vero, anche i tuttologi, i cibernetici e, immancabilmente, i ‘cosmologi’. Il fatto
è che quando si parla del mondo reale, quel mondo della quotidianità, il mondo concreto
della vita delle persone con tutta la sua complessità e le sue contaminazioni -
e qui come lupus in fabula faranno la loro apparizione il sociologo e l’economista
- allora perfino lo specialista ci fa la figura dell’apprendista stregone,
farfuglia qualche teoria "del tutto", traccia alcune equazioni a più incognite e alla
fine se ne esce con una conclusione apodittica dal sapore esoterico.
L’italiano
medio è stato persuaso che qualcuno davvero possieda le chiavi della macchina
mondo e che tutto sia sotto controllo, che gli economisti sappiano quello che
fanno e che il pianeta (e il nostro bel Paese) non rischi il collasso. Tanti
programmi scientifici divulgativi illudono che tutto trovi consonanza, e
spiegazione, e che il sano buon senso sia ormai obsoleto. La razionalità viene
sostituita dalla nuova fede acritica in una scienza asservita agli interessi
economici e regolata da una informazione che le fa da supporto. È l’illusione
di una società aperta, del controllo del nostro futuro attraverso i metodi
quantitativi, la statistica, le procedure controllabili e misurabili declinate
col supporto di strumenti di precisione. La realtà è che in questa epoca nessuno è in grado di
controllare il sistema complessivo delle cose, a differenza di molte culture
tradizionali che conoscevano perfettamente i limiti e le opportunità del loro
sviluppo e che si fondavano sui bisogni reali e su scelte autonome. La realtà è
quella di una cultura globalizzata dove nessuno controlla più la macchina mondo
con tutte le incognite di un futuro oscuro e incerto.
L’informazione invita ad
affidarsi ciecamente all’esperto, a delegare chi possiede la ricetta del
nostro benessere. I cittadini sono considerati ingranaggi passivi del sistema
produttivo. La macchina informativa autoreferenziale, un algoritmo automatico, sta
lentamente soffocando un Paese sotto l’egida di una classe dirigente trasformista che agisce in funzione esclusiva
dei propri interessi, di quelli dei suoi referenti e della propria
sopravvivenza.
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Gilberto, a quale “scuola” ti riferisci? A quella, ormai superata, del nozionismo?
RispondiEliminaLa scuola che ricordo io (che ormai sono in pensione!) è quella in cui sia l’alunno/a sia l’insegnante sono attivi e pronti a imparare insieme; il/la docente segue costantemente corsi di formazione in presenza e on-line (rapportandosi con colleghi di ogni ordine e grado, dalla scuola materna all’università, nell’ottica della continuità educativa e didattica in ambienti virtuali creati dall’istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa); Tali ambienti virtuali vengono utilizzati sia per la formazione continua sia per i rapporti collaborativi in rete (orizzontali e verticali) per docenti e per classi diverse, che condividono interessi e progetti di studio e di lavoro e l’insegnante, nella sua ricerca-azione, ha imparato a utilizzare sempre di più lo scambio di idee, cerca di allargare i domini conoscitivi di ogni partecipante grazie alla valorizzazione della poliprospetticità dei diversi punti di vista implicati. Si ridesta nell’intimo di ogni insegnante l’archetipo del/della comunicatore/comunicatrice e dell’avventuiero/a.
Internet ha offerto la possibilità di non rispettare i turni conversazionali, ma di rispettare i tempi personali di ciascuno/a e si è acquistato il potere dell’ubiquità; si è passati dalla logica “gutemberghiana” a quella della “reticolarità del pensiero”, navigando all’interno di universi plurimi, densi di informazione e di conoscenze…
Si valorizza l’intelligenza specifica di ogni alunno/a focalizzando l’insegnamento-apprendimento sulla “produzione” e non sulla “riproduzione”, tenendo in considerazione che l’essere umano crea significati attraverso il dialogo… La costruzione del significato è attiva, polisemica e non predeterminabile.
Cordialmente
Ivana Niccolai
Cara Ivana
RispondiEliminaNon posso risponderti nel riquadro. L'argomento è troppo complesso per una risposta telegrafica e merita senz'altro un approfondimento che per il momento non è nelle mie corde. Il tuo ottimismo ti fa onore, però forse la realtà è un po' diversa da come la descrivi...
Caro Gilberto,
RispondiEliminasei un docente?
Io ho descritto sinteticamente il mio vissuto professionale, vissuto grazie al quale ho tratto innumerevoli stimoli alla mia sete di conoscenza; gli ambienti virtuali (di studio e di lavoro!) messi a disposizione dall’Indire, e da me costantemente frequentati, mi hanno dato l’opportunità di continuare a imparare confrontandomi con colleghi/e di ogni ordine e grado; ho conosciuto punti di vista differenti, non sono mancati gli scontri dialettici utili per una riflessione critica sulle proprie convinzioni e ho stretto amicizie virtuali (per collaborazioni continue) con insegnanti (di ogni ordine e grado!) sparsi in diverse località italiane con cui condivido specifici interessi culturali. Grazie alla valorizzazione delle varie competenze, messe a disposizione della comunità scolastica virtuale, mi sono arricchita professionalmente e credo di aver offerto altrettanti stimoli agli/alle alunne per conoscere diverse realtà scolastiche, cambiando modalità lavorative alla luce delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie:
exempla trahunt
Il mio obiettivo è stato quello di essere allestitrice e animatrice di ambienti di apprendimento, méntore, guida e sostegno alla partecipazione consapevole e responsabile degli alunni, in modo che la scuola avesse la specificità di essere prioritariamente luogo di pensiero.
Ivana
RispondiEliminaSono certo che dal tuo lavoro hai avuto stimoli e arricchimento portando il tuo contributo con passione e professionalità. Il discorso a cui accennavo è però relativo alla scuola italiana in generale, alle sue strutture fisiche e 'metafisiche', e soprattutto alla sua organizzazione, ai suoi metodi e alla concezione politica che la informa. Come ho già detto, è un discorso che per ora non ho voglia di affrontare, soprattutto come commento. Mi piacerebbe scrivere sull'argomento, ma attualmente ho altre priorità e sono impegnato con altri interessi.
Con stima e simpatia.
Gilberto
Grazie, Gilberto, per la fiducia...
RispondiEliminaCon altrettanta stima e simpatia
Ivana