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giovedì 9 ottobre 2014

Prestigiatori, ventriloqui e moralisti: ecco il target della meravigliosa macchina dell’informazione...

Articolo di Gilberto Migliorini


Come Doroty gli italiani scopriranno che il potente mago di Oz è solo un vecchio ventriloquo arrivato lì con la sua mongolfiera? Il pallone, anche quello aerostatico (ma dell’aria fritta), fa parte dell’immaginario collettivo di un paese che crede di riconoscere a vista se un allenatore è di quelli bravi e se la formazione in campo è di quelle prodighe di risultati eclatanti. Chi non risica non rosica, direbbe il Pinocchio che affonda gli ottanta denari nel campo dei miracoli e annaffia per bene in attesa di coglierne i frutti. Chissà se indossando degli occhiali fatati i cittadini dello stivale potranno guardare il giovinotto in controluce, un po’ un Rodomonte che sfodera la spada e un po’ il Lanciavicchio assorto in uffoso pensiero. Il nocchiero della nave Italia, condottiero indomito e temerario, conduce il Paese con quell’estro da concorrente della ruota della fortuna. Più che un terno al Lotto sembra il giro del mondo in ottanta giorni, tanti avrebbero dovuto bastare per scoprire se il nuovo corso sia bello o se invece sia un bluff da effetto placebo, sonnambulando e zombizzando un’intera nazione, o peggio se si tratta di un inchino che finirà sugli scogli. Ma non è detto che 80 (giorni) bastino per fare il giro dell’orbe terracqueo, e che invece occorra emendare il programma di viaggio. Con temeraria schiettezza, il condottiero sposta le truppe e riformula il suo stile, prima conciso, poi scoppiettante e infine prolisso, ma con aforismi criptici e allusivi. Con feconda  alacrità, il destro paladino si fa in quattro e in otto rigirando le frittate con stile da cuoco provetto, persuaso che il santo sepolcro sia faccenda da risolvere e liberare sì, ma non troppo in fretta, lasciandoci il tempo di digerire il nuovo che avanza.

C’è ormai un paese decotto, un paese che non sa più distinguere, un paese che sa solo ripetere pedissequamente tutte le favole che vengono raccontate da una informazione asservita e avvilita (soprattutto quella televisiva). Non sa riconoscere chi lo mena per il naso, chi ne fa uno zimbello, chi gliela suona e gliela canta. Il sistema mediatico italiano, comprese le agenzie educative, non è solo nelle mani dei poteri forti, come piace tradurre sinteticamente, è ormai un sistema chiuso, autoreferenziale, un modello che si autosostiene in un circolo vizioso di ninna nanne e accordi incrociati. Non si tratta solo di programmi spazzatura nei quali l’approfondimento è solo occasione per ripetere luoghi comuni e cliché, non si tratta soltanto di un sistema fatto di pettegolezzi, cialtronerie e sentito dire raccattati con chiacchiere insulse e malevoli. Il sistema informativo nell’epoca di internet, dei social network, della tv commerciale e della pubblica spartizione protocollare, è quello degli automatismi, dei robot, del software che scrive e riscrive, un sistema esperto nel quale molti giornalisti sono ingranaggi inconsapevoli anche quando non hanno precisi referenti e ispiratori.

Lo slogan di un sistema mediatico che presuppone un’informazione libera è uno dei mantra con il quale si è creata l’illusione della società aperta, quella del flusso di dati ai quali ciascuno può attingere trascegliendo senza coercizioni. In effetti la complessità della macchina mediatica, insieme a tutti gli apporti di una pletora di specialisti e opinionisti, crea l’illusione di un sistema estroflesso nel quale affiorano sempre nuove voci, dove emergono nuovi spunti e dove ciascuno può attingere a tutte le opportunità e ai contributi che a vario titolo - e con le più svariate competenze - contribuiscono a creare informazione. L’immagine ha una sua suggestione che induce all’ottimismo, la constatazione che in una società libera tutto è possibile, che nulla è perduto, che si possono sempre emendare e correggere gli errori e le malversazioni. Un’altra immagine, quella della macchina propagandistica e soprattutto di un sistema esperto (un automa), solleva invece interrogativi non del tutto benevoli... Nell’epoca nella quale si progetta il robot che presto girerà per casa come domestico tuttofare, anche come compagno di merende, forse perfino come amante nel letto, è il caso di chiedersi se il paventato esito di un automa che prende il sopravvento e domina il suo costruttore-fruitore non esista già, non sia davvero una realtà quotidiana, quella di un sistema informativo conchiuso in un algoritmo ripetitivo che sovraintende alla cultura di un popolo e ne informa l’esistenza quotidiana. 

In Italia precorriamo i tempi più che in altri paesi, in certo senso siamo all’avanguardia in tutto quello che fa tendenza: la moda, la corruzione e l’informazione visceralmente addomesticata (salvo ovviamente qualche eccezione encomiabile). Non si tratta di un qualche congegno antropomorfo che ci guarda servizievole con i suoi occhi artificiali da pesce lesso, si tratta di un diagramma di flusso, un programma di istruzioni che regola la nostra vita sociale comprensiva dei valori e dei pregiudizi che ne fanno da corollario. Il software invisibile che gira nel computer Italia rappresenta il surrogato di una società aperta, in realtà un paese allegato in un sistema di illusioni, di miraggi e di fate morgane. È sufficiente assistere a molteplici e variegati programmi televisivi, salvo qualche perla di bellezza e intelligenza sempre più rara, perché un occhio non del tutto distratto possa estrapolare alcune righe di programmazione del software che ne sovraintende lo svolgersi. Si tratta di quei cicli for-next, di quelle iterazioni e subroutines che, per quanto non appaiano sullo schermo in modo palese, rappresentano, al di là della varietà dei programmi, una sorta di surrettizio codice sorgente inscritto in tutto il palinsesto, il motivo ispiratore di tanta programmazione dall’apparenza casuale o puramente commerciale, ma che in realtà è configurato organicamente con istruzioni ad hoc.

In primis c’è un moralismo che informa una pletora di performance giornalistiche e di intrattenimento, sia che si tratti di un tg, di un dibattito, di un format o di qualsiasi altra invenzione del medium, comprese televendite e consigli per gli acquisti. È una sorta di orpello appiccicoso, un condom più o meno trasparente e colorato che avvolge qualsiasi evento mediatico. Una carta domopack imbusta le notizie in un regno dell’equivalenza salvo poi porgerle su piatti di portata, in opportune scenografie culinarie con presentazioni esteticamente allettanti confezionate con tutti i crismi dell’intrattenimento. In qualche caso l’evidenza di disparità e di effetti speciali si traduce in rassegnazione, come se l’utente fosse consapevole che non se ne può far niente e che quelle melense e patetiche finzioni, quei paternalismi edulcorati, quei buoni sentimenti artificiosi, siano ormai inevitabili e facciano parte del costume di un popolo e di certe sue tradizioni false ed ipocrite, dei suoi vezzi e civetterie declinate un po’ col catechismo e un po’ con l’astuzia del politicamente corretto. Ma in altre circostanze ben più pregnanti, il moralismo assume il carattere di un teorema e diviene organigramma. 

Da destra a sinistra (per non parlare del centro) il moralismo rappresenta il carattere peculiare (perfino nei toni di voce, nelle posture, nella gestualità) di un sistema di pensiero orientato non già a informare quanto ad ammaestrare. L’italiano – l’ottentotto ignorante e cafone fin dall’unificazione del paese (vedi la lettera semiseria del Berchet) - considerato dalle confraternite al potere un po’ un animale (da soma, da compagnia, da mattanza) un po’ una cavia (sulla quale produrre esperimenti scientifici e all’occorrenza da espiantare), un po’ soldato da mandare al massacro e un po’ un pagliaccio da circo e da intrattenimento, un figurante da esporre in vetrina, da portare a un comizio, da tirar fuori dal cappello quando serve come supporter in una tribuna politica e in occasione di qualche turno elettorale. Nei casi più eclatanti e singolari se ne è fatto un idealtipo, un emblema di ideologie, un modello esemplare da sacrificare sull’altare del glorioso sol dell’avvenir.

Il potere ha sempre considerato il popolo italiano come una massa di manovra, carne da cannone, scimmie da accudire, indottrinare e usare a piacimento come oggetti da collezione, soprammobili e perfino come vittime sacrificali sull’altare del progresso. La scuola è stata concepita come palestra di addestramento per replicanti, equilibristi e contorsionisti, un modello di cittadino che ripete pedissequamente valori e idee che gli vengono appiccicati come decalcomanie, vuoi nel mito di qualche posto al sole e vuoi in quello di ideologie della liberazione in nome di una filosofia della storia o di un ineluttabile processo dialettico scandito come un teleromanzo a puntate.

L’attuale potere politico, nella quasi totalità, non ha nessun interesse a promuovere condizioni di consapevolezza e razionalità nei cittadini, minerebbe la sua forza e il suo ascendente su una plebaglia amorfa che in ultima analisi disprezza e considera solo come strumento da usare, come massa inerte da strumentalizzare e asservire, come interlocutore da orientare e plasmare in vista dei propri obiettivi inconfessabili. Il mantenimento del potere dei ceti privilegiati, quelli che comandano per delega e per intercessione, trae vantaggio dal moralismo imperante che loro stessi incoraggiano nelle masse mediatiche e che nel privato del backstage disprezzano e irridono. Il moralismo è davvero un instrumentum regni per tutto quel mondo di parvenu, sfruttatori e reggitori che si fanno beffe del popolo mentre lo lisciano, lo circuiscono, lo leccano e lo lusingano. Per questo il potere espresso in camarille, partitocrazie e massonerie, incoraggia tutto quello che ha il sapore dell’ipocrisia, del perbenismo, di tutti quei luoghi comuni tranquillizzanti di un popolo di sonnambuli (i dormienti di Eraclito), aggiornati nella nuova versione dei figuranti che parlano a comando, degli zombi che conoscono a menadito tutto il repertorio delle cose da dire e da non dire, dei tabù da evitare e delle circostanze da omettere. Incoraggiare sempre e comunque tutto quello che fa tendenza, moda e conformismo affinché tutti si sentano parte di una grande famiglia, mettendo all’indice quel che abbia anche solo l’apparenza della consapevolezza di essere portatori di diritti e di giudizi autonomi. 

È il trionfo di un sistema del consenso basato sul divertificio, sullo sportificio e sull’idolatria, di un ideologismo nebulizzato mediante un palinsesto banale e ripetitivo che serve a indottrinare mantenendo l’italiano immerso in un liquido amniotico, in uno stato di perenne sospensione dentro un limbo uterino.

La macchina informativa, in un sistema chiuso e autoreferenziale usa quello della retorica mascherata: un sistema simbiotico di rimandi e collusioni in grado di mimetizzarsi come sistema di valori e di trasfigurarsi nella forma della consequenzialità logica indossando i panni del ‘sano realismo’. L’argomento è di attualità soprattutto per quel sentirsi in sintonia automatica con tutto ciò che fa tendenza, per quell’immediato vibrare emotivamente all’unisono a quel segnale convenzionale che scatta senza neppure avvertirne il suono e l’odore e che innesca l’applauso, il pianto o il riso. Si tratta di una consonanza che non ha bisogno di attivare le sinapsi cerebrali, bastano gli automatismi spinali. Con la retorica si può controllare l’elettorato meglio ancora che con le droghe, gli psicofarmaci e perfino gli ottanta euri virtuali in busta paga. Una televisione senza retorica è come una casa senza stanza da bagno, non si sa dove evacuare. La retorica serve per l’appunto per trasformare anche il più insulso dei bisogni in un sontuoso e liberatorio intermezzo con accompagnamento musicale e quell’inconfondibile profumo con-sensuale. Ovviamente c’è anche una retorica che si serve dell’immagine per dare all’informazione un carattere incisivo e immediato, per rendere più chiaro il messaggio. 

Ma c’è anche una retorica che considera il destinatario come un soggetto da circuire, un target interdetto sul quale è del tutto agevole utilizzare pratiche suggestive e operare condizionamenti utilizzando un registro che sfrutti le emozioni epidermiche, le ingenuità affettive, i vezzi caratteriali di un popolo da sempre assuefatto, vuoi alle paure infernali e vuoi alle agiografie dei santi e dei beati (popolo di santi, poeti e navigatori). Un target, insomma, considerato alla stregua di bambocci sui quali esercitare l’arte della mistificazione dell’Io. I comizi politici e i programmi televisivi nazional-popolari offrono esempi del disprezzo sistematico nei confronti dell’utenza considerata come massa infantile alla quale raccontare qualche bella storia edificante. Esiste poi la simulazione, la contraffazione e la menzogna. Ma per saper mentire in modo credibile occorre mescolare anche l’ingrediente del vero. Si tratta di una questione di dosi e di saper miscelare gli ingredienti in modo da rendere sufficientemente appetibile la preparazione culinaria. È pur vero che ci sono quelli di bocca buona per i quali non serve uno chef e a cui va bene qualsiasi intruglio e intrallazzo. Per i più esigenti, però, occorre non indulgere troppo a dissimulare. Usando il giusto equilibrio è possibile convincere anche i più refrattari. Mescolare verità è menzogna è l’arte sublime di una informazione per la quale la retorica diviene verosimiglianza.

Il software informativo, per trovare completa consonanza in quello che comunemente viene definito sistema democratico dell’informazione, ha bisogno di un ingrediente del tutto speciale, sicuramente il più importante: dell’autorevolezza. L’autorità della conoscenza è in genere espressa dagli specialisti, persone ferrate nella disciplina della quale hanno competenze, il campo o l’orticello (a seconda che si tratti di are o centiare) che conoscono bene. Ci sono, è vero, anche i tuttologi, i cibernetici e, immancabilmente, i ‘cosmologi’. Il fatto è che quando si parla del mondo reale, quel mondo della quotidianità, il mondo concreto della vita delle persone con tutta la sua complessità e le sue contaminazioni - e qui come lupus in fabula faranno la loro apparizione il sociologo e l’economista - allora perfino lo specialista ci fa la figura dell’apprendista stregone, farfuglia qualche teoria "del tutto", traccia alcune equazioni a più incognite e alla fine se ne esce con una conclusione apodittica dal sapore esoterico. 

L’italiano medio è stato persuaso che qualcuno davvero possieda le chiavi della macchina mondo e che tutto sia sotto controllo, che gli economisti sappiano quello che fanno e che il pianeta (e il nostro bel Paese) non rischi il collasso. Tanti programmi scientifici divulgativi illudono che tutto trovi consonanza, e spiegazione, e che il sano buon senso sia ormai obsoleto. La razionalità viene sostituita dalla nuova fede acritica in una scienza asservita agli interessi economici e regolata da una informazione che le fa da supporto. È l’illusione di una società aperta, del controllo del nostro futuro attraverso i metodi quantitativi, la statistica, le procedure controllabili e misurabili declinate col supporto di strumenti di precisione. La realtà è che in questa epoca nessuno è in grado di controllare il sistema complessivo delle cose, a differenza di molte culture tradizionali che conoscevano perfettamente i limiti e le opportunità del loro sviluppo e che si fondavano sui bisogni reali e su scelte autonome. La realtà è quella di una cultura globalizzata dove nessuno controlla più la macchina mondo con tutte le incognite di un futuro oscuro e incerto. 

L’informazione invita ad affidarsi ciecamente all’esperto, a delegare chi possiede la ricetta del nostro benessere. I cittadini sono considerati ingranaggi passivi del sistema produttivo. La macchina informativa autoreferenziale, un algoritmo automatico, sta lentamente soffocando un Paese sotto l’egida di una classe dirigente trasformista che agisce in funzione esclusiva dei propri interessi, di quelli dei suoi referenti e della propria sopravvivenza.





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5 commenti:

  1. Gilberto, a quale “scuola” ti riferisci? A quella, ormai superata, del nozionismo?
    La scuola che ricordo io (che ormai sono in pensione!) è quella in cui sia l’alunno/a sia l’insegnante sono attivi e pronti a imparare insieme; il/la docente segue costantemente corsi di formazione in presenza e on-line (rapportandosi con colleghi di ogni ordine e grado, dalla scuola materna all’università, nell’ottica della continuità educativa e didattica in ambienti virtuali creati dall’istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa); Tali ambienti virtuali vengono utilizzati sia per la formazione continua sia per i rapporti collaborativi in rete (orizzontali e verticali) per docenti e per classi diverse, che condividono interessi e progetti di studio e di lavoro e l’insegnante, nella sua ricerca-azione, ha imparato a utilizzare sempre di più lo scambio di idee, cerca di allargare i domini conoscitivi di ogni partecipante grazie alla valorizzazione della poliprospetticità dei diversi punti di vista implicati. Si ridesta nell’intimo di ogni insegnante l’archetipo del/della comunicatore/comunicatrice e dell’avventuiero/a.
    Internet ha offerto la possibilità di non rispettare i turni conversazionali, ma di rispettare i tempi personali di ciascuno/a e si è acquistato il potere dell’ubiquità; si è passati dalla logica “gutemberghiana” a quella della “reticolarità del pensiero”, navigando all’interno di universi plurimi, densi di informazione e di conoscenze…
    Si valorizza l’intelligenza specifica di ogni alunno/a focalizzando l’insegnamento-apprendimento sulla “produzione” e non sulla “riproduzione”, tenendo in considerazione che l’essere umano crea significati attraverso il dialogo… La costruzione del significato è attiva, polisemica e non predeterminabile.
    Cordialmente
    Ivana Niccolai

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  2. Cara Ivana
    Non posso risponderti nel riquadro. L'argomento è troppo complesso per una risposta telegrafica e merita senz'altro un approfondimento che per il momento non è nelle mie corde. Il tuo ottimismo ti fa onore, però forse la realtà è un po' diversa da come la descrivi...

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  3. Caro Gilberto,
    sei un docente?
    Io ho descritto sinteticamente il mio vissuto professionale, vissuto grazie al quale ho tratto innumerevoli stimoli alla mia sete di conoscenza; gli ambienti virtuali (di studio e di lavoro!) messi a disposizione dall’Indire, e da me costantemente frequentati, mi hanno dato l’opportunità di continuare a imparare confrontandomi con colleghi/e di ogni ordine e grado; ho conosciuto punti di vista differenti, non sono mancati gli scontri dialettici utili per una riflessione critica sulle proprie convinzioni e ho stretto amicizie virtuali (per collaborazioni continue) con insegnanti (di ogni ordine e grado!) sparsi in diverse località italiane con cui condivido specifici interessi culturali. Grazie alla valorizzazione delle varie competenze, messe a disposizione della comunità scolastica virtuale, mi sono arricchita professionalmente e credo di aver offerto altrettanti stimoli agli/alle alunne per conoscere diverse realtà scolastiche, cambiando modalità lavorative alla luce delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie:
    exempla trahunt
    Il mio obiettivo è stato quello di essere allestitrice e animatrice di ambienti di apprendimento, méntore, guida e sostegno alla partecipazione consapevole e responsabile degli alunni, in modo che la scuola avesse la specificità di essere prioritariamente luogo di pensiero.

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  4. Ivana
    Sono certo che dal tuo lavoro hai avuto stimoli e arricchimento portando il tuo contributo con passione e professionalità. Il discorso a cui accennavo è però relativo alla scuola italiana in generale, alle sue strutture fisiche e 'metafisiche', e soprattutto alla sua organizzazione, ai suoi metodi e alla concezione politica che la informa. Come ho già detto, è un discorso che per ora non ho voglia di affrontare, soprattutto come commento. Mi piacerebbe scrivere sull'argomento, ma attualmente ho altre priorità e sono impegnato con altri interessi.
    Con stima e simpatia.
    Gilberto

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  5. Grazie, Gilberto, per la fiducia...
    Con altrettanta stima e simpatia
    Ivana

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