Articolo di Gilberto Migliorini
La storia si ripete, segno che
non si è imparata la lezione, segno che le categorie mentali che hanno
improntato l’Italia fascista sono sopravvissute alla retorica, alla demagogia e
perfino a tutta quella prosopopea che ha fatto degli italiani un popolo di
teleutenti e di epigoni. Lo Stato è in (s)vendita nel supermarket delle
occasioni con annessi sudditi, portaborse e leccaculo, con accluse servette a
tutto tondo e la munificenza di vestali e veline. Mentre la nave affonda si
fanno indagini per misurare l’apprezzamento del leader, e per quanto tutti gli
indicatori sullo stato del benessere collettivo peggiorino, sembra che la
fiducia nel reggitore di governo e nella maggioranza che lo sostiene si mantengano
abbastanza stabili. È un paese che anche quando non sa bene quello che vuole,
preferisce la certezza di un futuro funesto e oscuro piuttosto dell’azzardo di
un vero cambiamento. La cosa strana è che si parla sempre di stato
dell’economia e mai del benessere collettivo, dove gli indicatori economici sarebbero
per formula concisa la misura di quella che un tempo veniva indicata come
felicità, appagamento, prosperità…
Il benessere (al di là degli artifici
contabili e delle finzioni statistiche) dovrebbe rappresentare la misura dello
stato del Paese. Gli economisti e i banchieri ormai traducono in moneta sonante
quei beni che dovrebbero procurare appagamento, anzi li trasformano in denaro
virtuale, in transazioni quantificate come beni di consumo, il PIL, lo spread, il rating e
quant’altro funga da misura astratta e convenzionale. Il benessere collettivo, insomma, non viene qualificato sotto forma di realizzazione personale
(pur se mediata socialmente), come consapevolezza e come soddisfacimento dei
bisogni fisici e mentali misurati in concreto, come il bene comune viene tradotto, sic
e simpliciter, in matematica dei consumi, in prodotto e reddito pro capite indipendentemente
dal loro impatto sulla salute, sull’ambiente di vita e sul patrimonio che
lasceremo in eredità ai nostri figli. L’economia monetaria diviene il parametro
per misurare tutto, nell’ottica di un affarismo per il quale il resto non esiste. La miopia dei
metodi quantitativi comprende una scienza che è ormai paladina del sistema
economico industriale. Si quantificano anche quei fattori al contorno a medio e
lungo termine dei processi economici, ma trascelti arbitrariamente e sempre
nell’ottica di uno sviluppo che si avvia sempre più velocemente verso l’effetto
catastrofe.
Più di tanto la trave non regge. La scienza tiene conto solo dei fatti
che ritiene rilevanti nell’ottica di quel sistema industriale che ne
sovvenziona le ricerche, che le offre spunti di sviluppo, che insomma ne
promuove l’attività sotto forma di posti di lavoro e prestigio, che ne
asseconda le ricadute sui profitti economici e sullo sviluppo di un’industria
senza freni. Una ricerca scientifica fuori controllo, o meglio sotto il
controllo di un sistema produttivo incentrato sul profitto e sulla espansione
del volume d’affari. La scienza al servizio del progresso e della felicità
dell’uomo ha fatto il suo tempo, si tratta, al di là della retorica della
conoscenza, di quella neutralità di facciata che dipinge la ricerca scientifica
in tutte le sue varianti come una sorta di panacea di tutti i mali, un paradiso
di delizie che andrà a sostituirsi a una natura matrigna. L’immagine dello
scienziato che nel chiuso del suo laboratorio cerca di scoprire i segreti della
natura è solo l’ipocrita e interessata retorica che cerca di nascondere
l’intreccio di interessi che sta portando il pianeta verso la catastrofe. Il
paradosso è che gli apparati che dovrebbero misurare l’impatto dell’economia di
mercato sugli equilibri ecologici, contribuiscono a promuovere quel sistema produttivo
fuori controllo che sta portando l’ambiente di vita sull’orlo del collasso. Questo
ovviamente non vale solo per l’Italia, anche se altri paesi cercano di
scaricare le conseguenze più eclatanti al di fuori dei loro confini, là dove
classi dirigenti corrotte sono disposte a tutto per arricchirsi a spese di
sudditi ignari o asserviti.
Il caso italiano è un ibrido tra una morente
cultura della tutela del patrimonio collettivo e una nuova cultura di un
affarismo senza remore e senza morale: la svendita del paese in una sorta di
autoriciclaggio, una catena di sant’Antonio per la quale Bengodi è per chi alla
fine, spolpato tutto, può andare a svernare in qualche paradiso artificiale
approntato per le bisogna, quelli che possono spostarsi agevolmente là dove li porta il cuore e il portafoglio.
Altri sopravvivono ancora beatamente ma prima o poi anche loro scivoleranno tra
la massa degli incapienti.
Ormai è solo questione di
marketing. Gli italiani si cullano ancora nelle reiterate promesse confezionate
con il crisma dell’advertising e con
l’accortezza della promozione, più ancora con il semplice slogan accattivante e
ruffiano. È il mondo di carta dei (finti) aristotelici, la posa dell’attore
consumato, la televendita orchestrata con sponsor e figuranti che mentre
parlano di plus e benefit ti rifilano un colossale bidone.
Però il protagonista è bravo, bravo a distribuire patacche con nonchalance,
bravo a intonare la canzone, bravo a venderti qualcosa che per lui è soltanto
un’opzione come un’altra, ma comunque strumento di autopromozione e galleggiamento. Ma una domanda è d’obbligo. Quali sono le strutture profonde
che presiedono ai meccanismi culturali dell’italico homo mediaticus, quale il retroterra storico che ha fatto
dell’italiano un italiota con tanto di certificato di garanzia, quel perfetto
testimonial nel teatro della commedia dell’arte,
quella dove i personaggi recitano un copione allestito su misura per lo
spettatore dabbene?
Si potrebbe andare alla
discesa di Carlo VIII sulle soglie della storia moderna, alle divisioni della penisola
in tanti piccoli stati, al ruolo della chiesa come elemento disgregante e di
conformismo… fino all’unificazione e anche oltre, con quelle consorterie
d’affari supportate prima da oligarchie e poi da un sistema mediatico del
consenso capillare. Si dovrebbe doverosamente parlare del ventennio, del
dopoguerra, dei partiti politici trasformati in comitati d’affari, in una sorta
di storia a ritroso… cosa che gli storici hanno fatto e fanno per cercare di
rilevare le contraddizioni di un Paese con una classe dirigente espressione
coerente del suo popolo. Una cultura sempre
alla ricerca di una identità, un po’ fasulla e un po’ appiccicata, l’immagine
costruita con lo specchio deformante dei mediatori di massa, perfezionata con
qualche giullare che ci illude, con una vena satirica di facciata, che la democrazia
non è parola vuota da illusionista, che si può davvero esprimere il dissenso. Il
cinema ha provveduto a dare all’italiano un volto costruito più o meno
fedelmente, mostrando ipocrisie, meschinità e opportunismi di macchiette che
cercano di sbarcare il lunario in una quotidianità difficile e onerosa, in una
furbizia di profittatori e magnaccia istituzionali. Però perfino la letteratura
contemporanea non è mai andata a cercare le strutture profonde di un popolo
eternamente in lotta con se stesso, alla ricerca di un assetto stabile, di un
benessere consolidato, di un sistema ideologico che non fosse un ologramma
pennellato di retorica e demagogia.
Per trovare una descrizione del popolo
italiano costruita su categorie non convenzionali, bisogna andare alla grande
letteratura prima dell’unificazione, quando l’Italia era soltanto una identità
geografica, ma che per qualche misteriosa alchimia già manifestava il suo
carattere unitario sia antropologicamente e sia culturalmente (nonostante le
molteplici dominazioni e divisioni territoriali). Dante non ha bisogno di
paludarsi con quel diplomatico e reticente parlare per tropi e traslati di
tanta nostra diplomazia dell’inciucio e del compromesso, non le manda a dire al
potere. Petrarca non formula parole d’amore sull’onda olografica di tanta
letteratura e filosofia della retorica ruffiana. Il Boccaccio non fa della
letteratura quell’impegno lezioso e inamidato di tanti intellettuali in leasing
a qualche consorteria alla quale offrire climax e invettive. Perfino Ariosto
con il suo esordio scoppiettante dell’Orlando pare troppo poco politicamente
corretto per poter fare da sponsor a qualche potentato. Del Machiavelli si
potrebbe dire che sia in perfetta sintonia con l’attualità, se non fosse che il
segretario fiorentino - per quanto qualcuno gli abbia affibbiato il celebre
aforisma che il fine giustifica i mezzi -
pensava a uno stato in cui il principe di sicuro non fosse un fellone come
purtroppo talvolta ci capita di constatare per il moderno reggitore.
Una prima obiezione risentita è
quella che rileva il carattere eterogeneo degli italiani, da nord a sud e da
est a ovest, dando dunque per acquisito che esiste quella piccola patria manzoniana
che certuni qualificano come l’aspetto peculiare dell’italico sentire,
espressione di una specifica territorialità e di una mentalità autoctona, al di
là di un’economia più o meno sviluppata e di un retroterra di esperienze
psico-sociali maturate un po’ nelle mura domestiche e un po’ in quel suolo
natio che certuni considerano come luogo d’elezione e di vissuti agiografici.
Sembra di ascoltare quell’analisi storica che da un versante antropologico
declina l’italiota secondo una disparità di valori, di mentalità e financo di
attitudini che costituiscono una sorta di imprinting culturale irriducibile a
qualsivoglia omogeneità nazionale.
La canzone ce l’hanno tradotta in più
versioni, naturalmente in quel dialetto (che peraltro ormai va scomparendo) che
sarebbe l’elemento probante di quella variegata scacchiera rappresentata da un
territorio leopardato dove le genti italiche sarebbero soltanto un pot-pourri
male assortito e amalgamato, un risotto mari e monti con l’aggiunta di una
eterogenea miscellanea di ingredienti tra il nostrano e l’esotico. Per carità
non si parla di ottentotti, si parla
di quella vasta platea di connazionali cresciuti alla scuola mediatica dei
telegiornali di regime, dei giochi a quiz, delle tribune politiche ammaestrate,
dei moderatori imbalsamati, degli stereotipi culturali ammansiti con le
retoriche dei bacchettoni. Gli storici
di tale grimaldello interpretativo ne hanno fatto una sorta di romanzo tematico,
fedeli a categorie interpretative un po’ datate, ma comunque con una loro
dignità caratteriale hanno puntato il dito contro una storia patria di
divisioni, isolamenti, antagonismi tra città e signorie, di principati retti da
una ragion di stato territoriale e di feudi ben protetti...
La realtà, nonostante
l’immagine evocativa di leghe, consorterie, regioni e provincie così amate per
il divide et impera, è affatto
diversa, è esattamente il suo opposto, al di là dell’olografia divisionista di
un paese che a detta di detrattori e imbalsamatori sarebbe un collage costruito con il taglia e
incolla. La commedia dantesca sembra davvero emblematica ancora in epoca
medioevale: si trattava davvero di un grande affresco e non già di un insieme
di tessere giustapposte, una cultura già ben amalgamata sia pure nella
disparità dei dannati e dei beati. Perfino il romanzo manzoniano, secoli dopo, avrebbe fatto della piccola patria, nell’addio dei monti di Lucia, soltanto l’occasione
di un intermezzo. Poeticamente raffinato, sì, ma in realtà solo una pausa prima di calarsi
nel romanzo immemore alla fine dei vezzi e delle civetterie localistiche, ben
più interessato alle categorie dell’umano sentire e di quell’italico
opportunismo alla Don Abbondio, di quell’arroganza di signorotti cosmopoliti,
di quella servizievole e premurosa collaborazione dei bravi al soldo del potente di turno.
Se c’è una evidenza
incontrovertibile dell’Italia odierna, è infatti quella cultura monolitica e omogenea
di un paese dove in senso ortogonale e trasversale il conformismo
ideologico-culturale viene espresso (al di là di differenze di mero
abbellimento e di intonazione) dall’identica attitudine al malaffare, dalla
eguale e ragguardevole inclinazione a fare degli interessi collettivi i propri
interessi particolari, a concepire la cosa pubblica come faccenda di
consorterie, di camarille, di circoli amicali, di interessi di parte… di
compagni con la stessa propensione all’intrallazzo. Una tv di regime (quella
pubblica e quella privata) ha provveduto nel dopoguerra - dopo l’intermezzo
fascista che è servito a creare l’humus adatto a quella consonanza emotiva
fatta di proclami altisonanti e di retoriche ampollose (usando all’uopo anche
il bastone per meglio intenerire) – a creare quel comune sentire di un popolo
di replicanti che ripete pedissequamente quello che va ascoltando dalla viva
voce di mezzibusti, moderatori, affabulatori, ugole canterine, cicisbei,
legulei, psiconani, giornalai, prestanome, criminalisti, equilibristi,
leccapiedi…. Un paese davvero unitario, veramente omogeneo e embricato per
quella mancanza di voci che cantano fuori dal coro.
E il reprobo che cerca di uscire dal coro, non
solo per via etere ma anche col supporto cartaceo e financo provando a
strillare in qualche angolo sperduto del Bel Paese, viene cortesemente invitato
a soprassedere, nella migliore delle ipotesi, oppure additato come voce
stonata, elemento trasgressivo in odore di eresia. Nemmeno Monsignor della Casa
avrebbe potuto nel suo Galateo indicare un bon
ton più giudizioso e rispettoso di un conformismo ligio ai dettami della
moda del momento. Perfino la trasgressione fa parte dell’etichetta, ne è
codificata, riceve l’imprimatur di una società che ha previsto anche il gesto
irriverente, l’omissione, l’eccezione, la devianza con tanto di timbro di
certificazione e l’omologazione da parte del potere. La struttura profonda
della società italiana è un conformismo così pervasivo e onnicomprensivo che
perfino l’anticonformismo è stato previsto in ogni dettaglio, tradotto in
algoritmo e diagramma di flusso. Quello che esce dal sistema operativo, o non
esiste proprio o è guardato con sospetto: potrebbe trattarsi di cosa eversiva,
violazione di quel galateo interiorizzato mediante un sistema mediatico che
opera una censura preventiva su tutto quello che non è stato approvato con
certificato di conformità. La struttura profonda del sistema Italia è un
conformismo e un appiattimento così radicato da risultare invisibile anche
all’occhio smaliziato, ormai talmente abituato al timbro monocorde da non avvedersi
che dietro alle maschere si cela sempre lo stesso volto della menzogna.
Il
Galateo, non quella bellissima opera di Monsignor della Casa, è una cultura che
dietro all’apparenza dell’estro fantasioso, della moda e del design, impone un
sistema lugubre e cristallizzato, i dettami invisibili di un sistema ideologico
opprimente e totalizzante. Il male dell’Italia è un pensiero unico declinato
secondo stereotipi ingessati e retoriche inossidabili. Più che ricordare il
clima della controriforma, l’Italia di oggi ricorda il 1984 orwelliano. Il
conformismo e l’appiattimento costituiscono la struttura profonda di un paese sempre
più agonizzante. Le genti italiche sono molto più unitarie e omogenee di quanto
si immaginano. Una cultura nazional-popolare pervade ogni aspetto di vita con
retoriche ben affiatate, luoghi comuni ripetuti alla nausea, stereotipi
replicati quotidianamente, idee cadute dal cielo, verità proverbiali che
l’italica gente conserva nel libro inscritto in un cuore artificiale e che i
mass-media ogni giorno provvedono a ricordare a tamburo battente.
Opinionisti e
politicanti, le moderne sirene che attraggono i naviganti dell’etere, ce la
suonano e ce la cantano. Per quanto le parole appaiano sempre un po’ diverse, la
musica non cambia… per quanto nuovi attori calchino la scena, si tratta pur
sempre del solito spartito...
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Lo sfacelo de L’Italia e iniziato negli anni 50 Con lo scandalo di Fiumicino Che è stato costruito su un terreno paludoso di appartenenza del Demanio che era stato venduto a privati diciamo per Lire 1000 al metro quadro. Lo stato lo ricompro poco dopo diciamo a Lire 10.000 al metro quadro in più si accollo le spese di bonifica del terreno.
RispondiEliminaNegli anni 60 le sale cinematografiche erano stracolme Ricordo che se arrivavamo in ritardo il film lo vedevamo nelle file laterali in piedi Molti film erano come se soleva dire polpettoni
Ma le persone attente potevano intuire e vedere nel film polpettone le prime denuncie dei misfatti
Come Il libero mercato Esca gettata dal capitalismo che da 50 anni sta dando vita hai mostri che guidano L’ECONOMIA ITALIANA .
Ci hanno costretto ad’ accettare interscambi importando merce che produciamo
Creando crisi NELL’ INDUSTRIA e L’AGRICOLTURA ITALIANA .
L’AMERICA Padre del libero mercato ci impone regole che loro non rispettano .
Provate a invadere il mercato AMERICANO e mettere in crisi le loro INDUSTRIE e la loro AGRICOLTURA automaticamente scatterebbe sulle merci importate ( dazio ed embargo)
Questa prepotenza è imposta dai Manager spocchiosi di oggi.
I Manager da prendere ad esempio sono i vecchi imprenditori Della piccola e media Industria (Padri del Boom Economico) i più nati dalla gavetta Iniziando dal basso sono arrivati al vertice ricchi di esperienza (e umanità) vera LAUREA indispensabile ad un MANAGER.
Nel dopo guerra (ricordo che) in vari settori compreso il settore ARTIGIANO
Lavoravamo 10 mesi l’anno allora la cassa integrazione non esisteva nei due mesi di fermo lavoravamo al rinnovo del campionario per conquistare nuove fette di mercato il tutto a spese del titolare.
La cassa integrazione Figlia dei Bocconiani è nata dopo il boom economico per difendere ( solo ) le grandi Industrie e i loro capitali Dando vita ad un nuovo mercato (da sfruttare ) L’ITALIA
Premiando l’egoismo e là cupidigia ci hanno riportato al punto di partenza.
Purtroppo se non avviene un MIRACOLO con l’egoismo dei potenti e la stupidità dei sudditi
Il BOOM della catastrofe sarà definitivo. VITTORIO
da un premier spocchioso che fa solo proclami, che dice in europa ci faremo sentire e aspetta con trepidazione i soldi promessi da junker,i 300 miliardi (ma non dite che andrebbero distribuiti a tutti i paesi ue) è simbolo dell'Italia fallita.
RispondiEliminaVedremo quando lo costrigeranno a (s)vendere Eni, Finmeccanica.....
il commento 1 ha ragione sull'agricoltura. Il nostro paese sull'agricoltura decenni fa aveva ministri che in ue si facevano valere. Oggi... si oggi basta guardare le loro facce....
luca