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sabato 16 febbraio 2013

L'utopia tecnologica tra fiducia nel futuro e catastrofismo...

Articolo di Gilberto M.

O'Neill cylinder
Ci sono studi e proiezioni che prevedono intorno al 2050 il collasso del sistema. Di quale sistema? Il sistema globale della produzione economica, dei processi di termoregolazione, delle risorse del pianeta di cui facciamo largo spreco. Fine della storia? Il solito catastrofismo? Può darsi. Sui cambiamenti climatici e i connessi sconvolgimenti che si farebbero strada nel tessuto socio-economico, ci sono molte ipotesi ma ancora poche certezze (almeno secondo i debunker). Di certo c’è il crescere incontrollato delle discariche e quello di prodotti creati per un ciclo di vita sempre più breve per essere rimpiazzato da altre merci ‘innovative’, per dare incentivo alla produzione, all’occupazione, al consumo in un vorticoso effetto domino e in una crescita esponenziale dello spreco delle risorse. L’innalzamento del PIL viene scambiato per incremento del benessere sociale. Una catastrofe naturale (terremoti, nubifragi, eruzioni vulcaniche devastanti) o artificiale (incidente nucleare, aereo, marittimo) determina un immediato aumento del prodotto interno lordo per tutte quelle opere di ricostruzione che fanno aumentare la circolazione di denaro e di merci. Sollecitare non il risparmio ma il consumo. Il flusso di denaro diviene un indicatore della qualità della vita e viene correlato al benessere di una nazione. Perfino criminalità, terrorismo e guerra, danno incentivo e lavoro nell’ottica del ripristino, della ricostruzione e di tutte quelle attività economiche correlate ai processi di bonifica. L’aumento del costo dei servizi sanitari (indicazione che la gente si ammala e muore) viene considerato un elemento positivo per l’economia, per tutte le attività economiche che comportano produzione di farmaci, strumentazione, ricerca e quant’altro.

Il crescendo di manipolazione sull’ambiente e il suo progressivo degrado, è ormai evidente in tutte le sue drammatiche conseguenze. Specie che scompaiono, impoverimento della biodiversità, pesci negli oceani che si restringono (diminuiscono di dimensioni) per far fronte alla pesca intensiva e al riscaldamento globale; cementificazione e inquinamento, ridotti spazi vitali, desertificazione, scioglimento dei ghiacci delle calotte polari. Il consumo del suolo procede a passo incalzante insieme a una massa umana che dal neolitico non ha mai smesso di moltiplicarsi, salve brevi intermezzi. Qualcuno azzarda scenari apocalittici verso la metà di questo secolo: grande depressione, collasso dei mercati azionari e immobiliari, fallimenti multipli delle imprese e pignoramenti, emigrazioni di massa, scarsità di acqua dolce, collasso del sistema agricolo, carestie, pandemie… insomma uno scenario biblico. Negli anni '60 del secolo scorso, fu fondato il Club di Roma, un gruppo di imprenditori, scienziati e premi Nobel. L’associazione non governativa aveva tenuto la prima riunione presso la sede dell'Accademia dei Lincei alla Villa Farnesina, a Roma, da lì il suo nome. I lavori portarono alla pubblicazione del Rapporto sui limiti dello sviluppo, noto come Rapporto Meadows, pubblicato nel 1972. Si prediceva che la crescita economica e demografica non avrebbe potuto continuare indefinitamente a causa della limitata disponibilità di risorse naturali e della impossibilità in prospettiva di assorbire gli inquinanti da parte del pianeta.

Si trattava di previsioni relative a momenti successivi al primo ventennio del XXI secolo (dunque in prospettiva), ma fin da subito ci fu una mobilitazione per dimostrare che le previsioni non si sarebbero avverate, che si trattava solo di catastrofismo che non teneva conto dei futuri sviluppi scientifici, delle immancabili invenzioni che avrebbero risolto tutte le problematiche relative allo sviluppo umano. Si parlò e si parla tuttora di neo-malthusianesimo in termini dispregiativi. In realtà l'andamento dei principali indicatori ha sostanzialmente confermato quanto previsto in quel Rapporto sui limiti dello sviluppo. In un’epoca che aveva superato la crisi petrolifera dei primi anni ’70, e che sembrava protesa verso una produzione industriale senza precedenti, la previsione che dopo l'anno 2000 l'umanità avrebbe cominciato ad averi problemi legati a uno sviluppo incontrollato fu in genere rifiutata dalla cultura economica (e dal fondamentalismo religioso). Si pensa tuttora che lo sviluppo tecnologico risolverà magicamente tutti i problemi relativi a inquinamento ambientale, aumento della popolazione e scarsità di materie prime.

Molti anni fa ho letto il bel libro di uno scienziato americano, intitolato: Colonie umane nello spazio (titolo originale The High Frontier – Human Colonies in Space) dove si immaginava la colonizzazione dello spazio con il nome di alta frontiera. Il libro di Gerard K. O’Neill (1927-1992) infatti, immaginava città orbitanti con serre per la coltivazione e gravità artificiale. Gli enormi cilindri (O'Neill cylinder) lunghi anche oltre trenta chilometri e con un diametro variabile di tre o più chilometri, avrebbero potuto ospitare ciascuno fino a dieci milioni di persone. In alternativa l’autore immaginava enormi ciambelle (toroidi) di analoghe dimensioni ciclopiche. Si trattava di una fascinosa utopia tecnologica sulla quale è probabile qualcuno stia ancora lavorando, almeno sulla carta. L’autore del libro, uno scienziato visionario, informava i lettori che già allora esistevano le tecnologie per approssimarsi gradualmente a quel progetto di vita al di fuori della nostra culla terrestre. O’Neill immaginava di reperire il materiale dagli asteroidi dai quali sarebbe stato molto più agevole, per la ridotta gravità, trasportarlo fin nell’orbita terrestre con motori a bassa spinta. L’impulso evolutivo e il tasso di sviluppo industriale avrebbero allora potuto continuare per tempi lunghissimi combinando l’illimitata energia solare con le risorse virtualmente illimitate della luna e della fascia degli asteroidi. L’autore ipotizzava che lungo l’asse del cilindro a gravità zero si potessero fare nuove esperienze di volo libero, con alianti dal vago sapore leonardesco, a propulsione umana, e via via, allontanandosi dal suo asse, inventare qualche nuovo sport con gravità intermedie fino ad arrivare sulla superficie del cilindro o del toroide con case, strade, fiumi e laghi a gravità terrestre prodotta artificialmente grazie alla forza centrifuga impressa dalla rotazione della gigantesca tecno-struttura. Si immaginavano tuffi al rallentatore (a gravità intermedia tra 0 e 1).

Non mancavano le immagini pastorali di un ambiente ‘naturalizzato’: il canto degli uccelli che avrebbero popolato i giardini dei cilindri, le farfalle, la verdura fresca e la frutta tropicale, zone coperte da foreste per dare riparo a specie animali in pericolo. Insomma, un’utopia con il fascino di una tecnologia agreste, una contaminazione di sofisticati apparati spaziali e di modelli di vita da comunità cistercense. Quando lessi il libro per la prima volta ne rimasi affascinato. Non era soltanto un’utopia tecnologica, si trattava anche di un modello di città a misura d’uomo, un contenitore così grande (centinaia di chilometri cubi) in cui si sarebbero formate perfino le nuvole al suo interno, con connesse precipitazioni atmosferiche. Un mondo autosufficiente come quello di certe comunità monastiche ma non senza l’aggiunta di trasgressioni edonistiche di un tempo libero molto più abbondante (una settimana di soli quattro giorni lavorativi). Guardando in alto dalla superficie di quel mondo orbitante, i suoi abitanti avrebbero visto lo stesso mondo capovolto, altre case, altre strade e il fiume, tutti posti agli antipodi del cilindro. Sulle superfici interne delle calotte terminali si sarebbero innalzate montagne alte fino a tremila metri. Non una prigione, ma una ciclopica bottiglia, un giardino ricco di vegetazione, senza inquinanti (le scorie del settore industriale posto all’esterno dell’habitat sarebbero state trasportate via dal vento solare senza mai contaminare la zona residenziale). Era previsto un sistema di riciclo quasi integrale e con sistemi di locomozione completamente ecologici. Da enormi finestre con una superficie di svariati chilometri quadrati sarebbe filtrata la luce del sole regolata da specchi in rotazione: si sarebbe creata artificialmente l’alternanza del dì e della notte, il tempo atmosferico, il ciclo delle stagioni, insomma il bilancio termico della colonia spaziale.

Un eden sospeso nel vuoto del sistema solare, in orbita attorno alla terra o a qualche altro corpo celeste, un asteroide artificiale, una piccola luna di cristallo con riserve illimitate di energia solare e di cibo ottenuto dall’anello agricolo esterno, con tanto di fattorie con animali, sia pure con una maggiore propensione a una dieta vegetale. Da lassù la terra forse un giorno sarebbe apparsa come il pascoliano atomo opaco del male, un globo sconvolto da incendi, da uragani e da un’aria ormai diventata irrespirabile? O’Neill osservava che l’umanità stava crescendo così rapidamente di numero che la Terra non avrebbe potuto sopportarlo a lungo. L’uso di macchinari sempre più grandi, denunciava O’Neill, implicava concentrazioni sempre maggiori di potere economico e una crescente violazione dell’ambiente. Per questo suggeriva che i progressi in ogni campo fossero rivolti a tutti gli uomini e non solo a una frazione della popolazione, che lo sviluppo tecnico riducesse, piuttosto che aumentare, la concentrazione di potenza e potere decisionale, che i miglioramenti tecnologici andassero nella direzione di ridurre gli apparati (auspicando che le città, le industrie e i sistemi economici, fossero a piccole dimensioni, a misura del benessere della collettività e della sua crescita culturale). Insomma, O’Neill immaginava un aumento della vita utile, una scienza e una tecnologia al servizio dell’uomo. La proposta ,di grande fascino, veniva promossa attorno alla metà degli anni settanta da questo scienziato professore di fisica alla Princeton University, specialista delle tecnologie di accelerazione delle particelle e massimo esperto dei problemi aerospaziali. Era un’immagine del nostro futuro fortemente utopistica, anche in ragione di quanto poi è accaduto dalla fine degli anni settanta fino ad oggi, era una visione ricca di proposte ingegneristiche, supportata da una indubbia competenza in campo spaziale, ma anche caratterizzata da una carica visionaria.

I primi articoli di O’Neill, all’inizio degli anni ’70 vennero infatti rifiutati dalle riviste scientifiche, nonostante le sue qualifiche di uomo di scienza. Da allora abbiamo assistito ad una progressiva interconnessione e concentrazione del potere economico e delle opzioni decisionali, al progressivo formarsi di enormi agglomerati urbani e di un sistema economico globalizzato. L’utopia di O’Neill, bella e affascinante, è rimasta lettera morta mentre le imprese spaziali oggi sembrano racchiudere due significati prevalenti: la produzione di nuove armi (scudi spaziali e quant’altro) e il controllo dello spazio come elemento strategico per un controllo delle risorse (che si vanno assottigliando) da parte delle superpotenze.

Lassù in quelle città sospese nello spazio, simili a certe città stato di antica memoria, una frazione dell’umanità (gli eletti?) sarebbe sopravvissuta a un pianeta ormai esausto e sovrappopolato. Quei primi audaci abitatori dello spazio esterno, sarebbero diventati i pionieri di una nuova frontiera. C’era in quella visione qualcosa delle comunità cenobitiche, la struttura in pianta delle tecno-strutture ricorda la croce latina, assonometria della resurrezione e della redenzione. Le linee dei cilindri O’Neill richiamano l’arco spezzato, la crociera d’ogiva e il transetto, echeggiano il sogno di perfezione morale di San Bernardo e dell’arte cistercense. Gigantesche bottiglie luminescenti vestite di luce che si aprono come il chiostro su un cielo sfavillante di stelle. Le città spaziali avrebbero poi potuto moltiplicarsi ricavando materiale dalla fascia degli asteroidi. Insomma, l’umanità in bilico per via di un modello di sviluppo irresponsabile e suicida, sarebbe risorta dalle sue ceneri come l’Araba fenice, incapsulata in ampolle, i fantasmagorici cilindri O’Neill, dove lo spirito dell’uomo avrebbe potuto continuare a sopravvivere e prosperare. Alla fine degli anni ‘70 il mondo sembrava davvero pieno di allettanti opportunità, e negli anni ottanta ancora certe utopie tecnologiche avevano il fascino dell’utopia di Thomas More, il mondo pareva dispiegarsi in prospettive aperte e con un senso di scoperta piena di pathos, ricco di gioiose e allettanti promesse.

L’autore del bel libro: Colonie umane nello spazio, non è riuscito a vedere quello che aveva immaginato e disegnato con innumerevoli e bellissimi esempi grafici a corredo di un libro nel quale si respirava davvero l’entusiasmo e l’ottimismo di un uomo lungimirante. Qualcuno sta lavorando sulla sua utopia, mentre l’astronave terra appare sempre più in affanno? Farà in tempo a coronare il sogno di uno scienziato visionario? Una base lunare dovrebbe offrire maggior agio per un balzo che comporti vettori meno potenti e analogamente una base su Marte potrebbe offrire le premesse per ulteriori immaginari scenari di vita fuori dal nostro pianeta. La High Frontier andrà a sostituire il mito americano della frontiera del far west? Ma forse non si tratta propriamente dell’utopia immaginata da O’Neill, con tutta la sua carica di ingenuo e onesto ottimismo, forse si tratta più banalmente della solita e inossidabile logica del potere.

Si immagina che anche la fisiologia e l’anatomia umane cambieranno sotto la pressione di adattamento a un nuovo ambiente come quello dello spazio esterno. La fantascienza con E.T. (il film di Spielberg) ci ha già dato un’immagine di quel che saremo, esseri sgraziati e senza sex appeal, ma ben dotati di capoccia. Voleremo su gigantesche astronavi come in Guerre Stellari e forse abiteremo addirittura pianeti artificiali, concentrati di una tecnologia inimmaginabile. Il casco da due milioni di dollari (solo il casco) del nuovo aereo da guerra F35 di cui vogliamo acquistare 90 esemplari (con costi tra acquisto e manutenzione che sfiorerà il miliardo di dollari per ciascun aeromobile, e che a detta di molti esperti americani è un flop colossale) impallidirà di fronte a tecnologie da teletrasporto o addirittura da viaggi super-luminari, forse perfino viaggi nel tempo, chissà...

Eppure anche la fantascienza negli ultimi film sembra contaminata dal virus del pessimismo, le scoperte in ambito biologico sembrano alludere a scenari eugenetici di tipo nazista o addirittura a trasformarci in contenitori per qualche razza parassita in grado di utilizzarci come uteri per DNA alieni (vedi l’ultima fatica del regista Ridley Scott con il film Prometheus). L’uomo bionico ormai in fase avanzata di progettazione, con organi artificiali e viso antropomorfo, è lì ad attestare che si tratta solo di mettere a punto gli ultimi dettagli: un cervello computazionale di memorie adeguate fornito di algoritmi sufficientemente complessi per simulare un mister Smith nella media del visitatore da centro commerciale, intelligente quanto basta per dar sfogo a tutto il suo estro consumistico. Simulatori che assottigliano il confine tra il mondo reale e quello virtuale (come nel film di James Cameron), corpi surrogati, avatar, robot fisici, embodiment. Non si tratta solo di ingegneria meccanica incorporata in un oggetto, ma dell’incarnarsi dell’anima nel silicio. Gli ultimi film del genere science fiction, non brillano per originalità; bellissimi effetti speciali, ma una sceneggiatura da fumetto e con una retorica per un pubblico adolescenziale. Il cinema ultimamente sembra privo di idee, sforna prodotti dalla durata effimera per un pubblico ipnotizzato dalla visione in 3D... con effetti speciali da videogioco. Povertà narrativa, intrecci cerebrali e ripetitivi, mancanza di una visione del nostro futuro per via di un presente ipertrofico che ingloba qualunque prospettiva.

Se la fantascienza in qualche modo anticipa gli scenari sociologici che ci aspettano, c’è da star freschi. Il futuro che ci attende è davvero zeppo di incognite, anzi è lo stesso presente portato all’esasperazione e allo sfinimento, il medioevo prossimo venturo. C’è da chiedersi cos’è che non funziona a fronte di invenzioni scientifiche sempre più mirabolanti, perché la nostra specie alla ricerca del paradiso sta creando un inferno facendo terra bruciata di un ambiente un tempo lussureggiante, trasformandoci in robot assassini (del nostro spazio vitale). Cos’è che sta guastando la nostra schiatta privilegiata da homo sapiens, il prediletto degli dei, trasformandoci in zombi che si aggirano come automi nei centri commerciali alla ricerca dell’ultimo gadget? Sono gli ogm nei cibi? Le scie chimiche? L’inquinamento? La tv spazzatura? Una scuola basata sui test a risposte chiuse? Il condizionamento operante dei mass media? Perché la filmografia ci offre sempre più spesso scenari da incubo? Per tirare un sospiro di sollievo quando il film finisce e ritroviamo una realtà tutto sommato meno allucinante? Ma fino a quando? Perfino gli immaginari più catastrofici dei film cominciano a non fare più effetto (conseguenze da saturazione, come ha spiegato così bene Iacopina Mariolo in un articolo pubblicato su questo blog). Ma non riescono a scuoterci solo per uno stimolo ripetuto... o perché la realtà quotidiana sta diventando un incubo perfino peggiore dell’ultimo film in proiezione? La normalità che stiamo vivendo ha già da un pezzo superato gli scenari più terrificanti? Film e romanzi non riescono più a tener dietro a un quotidiano di gran lunga più normalmente apocalittico e da incubo? L’assuefazione non riguarda solo i media, riguarda direttamente la routine, i normali rapporti interpersonali, la vita di tutti i giorni nella quale siamo immersi, la crescente incapacità vuoi di distanziarci criticamente da una informazione da minculpop, vuoi di empatizzare con il nostro prossimo, il nostro vicino di casa, il nostro collega di lavoro, perfino nostra moglie e i nostri figli...

L’illusione che la scienza possa tradurre la nostra vita in un’esistenza felice e sollevata dal bisogno, è l’utopia più potente dell’ultimo secolo. La tecnologia sta alterando tutti gli equilibri sia fuori e sia dentro di noi. Abbiamo perso il senso del limite e della misura, quel senso del limite che solo il buon senso ci può dare e che nessun metodo quantitativo è in grado di definire. Occorre però dire che la tecnologia è solo un effetto e non è la causa vera di quella hybris che sta portando al collasso i nostri sistemi vitali di sopravvivenza. La tecnologia presuppone infatti, che a monte vi siano delle teorizzazioni, dei sistemi di pensiero e una forma mentis che predisponga pensieri ed emozioni plasmando l’immagine di noi stessi e del mondo. Per usare il linguaggio informatico il problema non è nell’hardware, la ferramenta di macchine e utensili che amplificano il nostro corpo e ne potenziano le capacità, l’insieme tecnologico che abbiamo costruito dominando la natura, il prolungamento di noi stessi che ci consente di spadroneggiare nell’orbe terracqueo. Non si allude a qualche forma di luddismo che vede nella macchina l’antagonista, nel robot l’oscuro nemico che finirà per prendere il sopravvento e trasformarci in materiale di riciclo. Si tratta del software, quella parte evanescente della macchina, quell’insieme di memorie e programmi che danno una forma ai circuiti dell’elaboratore e una struttura alla nostra mente. In realtà la metafora dell’elaboratore elettronico è fuorviante. Chi oggi studia il cervello (e crede di ravanare nell’anima dell’uomo) ne fa largo uso credendo di poterne assimilare l’immagine per averne una comprensione nel dettaglio, per comprendere cos’è la coscienza e l’autocoscienza, cosa siamo noi umani. La mente viene ridotta alla funzione di una architettura neuronale. Vengono impiantati elettrodi nel cervello di animali (ma anche in quello dell’uomo) per carpire il funzionamento di quello che consideriamo il nostro hardware.

Gli animali vengono ridotti a cose in nome del progresso, della medicina, della conoscenza. Mammiferi legati su una navicella spaziale e lanciati nello spazio fino a morire di terrore, di angoscia, di disperazione. Animali torturati nei laboratori in nome del progresso e della conoscenza, per testare farmaci che molto spesso non sono immuni per l’uomo (vedi il talidomide) o per sperimentare cosmetici. Noi stessi ridotti a oggetti in nome di qualcosa che non riusciamo a definire con certezza, soggetti sperimentali ai quali vengono espiantati e impiantati organi, costretti a vivere per anni con farmaci anti rigetto in uno stato di sofferenza cronica. Neonati malformati sottoposti a molteplici interventi per sperimentare una sopravvivenza talvolta di pochi giorni, di pochi mesi o di pochi anni. Proposte di legge per tenere vivi i cosiddetti “morti cerebrali” per esercitazioni chirurgiche, chimiche e radiologiche. Persone definite cadaveri in base a protocolli… Non abbiamo più rispetto né per la vita né per la morte, come invece accade in certe culture dove il senso del sacro consente un rispetto dell’uomo e del mondo animale e più in generale della terra, della nostra casa comune, di noi stessi. In certi popoli si conserva il rispetto per la preda, per l’animale che viene ucciso non già per divertimento o per farne un oggetto da esperimento, ma per quel bisogno e per quella legge di sopravvivenza regolata comunque da un codice di comportamento e dal riconoscimento di un’eguale e pari dignità, dando al nostro compagno (l’animale) una morte rapida e il più possibile indolore. Riduzionismo della nostra anima… che nella versione più blanda ci parla di orchestra della mente, di architettura diffusa, tirando in ballo non solo la chimica, ma anche la fisica delle particelle. Tutta la filosofia moderna da Cartesio fino ad oggi, considera i corpi come cose da smembrare (l’anatomia della res extensa), oggetti da fare a pezzi in un programma meccanicista: la visione cartesiana è quella del mondo e dei corpi viventi come macchine.

Ma se abbiamo capito così bene come funziona la macchina della fisiologia e dell’anatomia, perché non possiamo stanare i pensieri, le emozioni e i sentimenti, localizzandoli nelle circonvoluzioni cerebrali dove si occulta il mistero di noi stessi? Perché non fare a pezzi anche la nostra anima? La realtà è forse più complessa. In genere il medico cura i sintomi, concentra la sua attenzione su un organo malato in una prospettiva riduzionista senza tener conto che le patologie hanno una causa a monte, che il nostro corpo è una unità organica. Allo stesso modo vogliamo curare le cicatrici di un pianeta, senza tener conto che l’orbe terracqueo è esso stesso un organismo in cui ogni parte intrattiene complesse relazioni con il tutto, di cui è un costituente e di cui noi stessi siamo una parte (vedi l’ipotesi Gaia, ma più in generale tutte le teorie di tipo olistico). La scienza moderna sta portando a compimento un programma di progressivo smembramento (macellazione) dei corpi. Il punto massimo di questa frantumazione della materia in parti sempre più piccole è rappresentato dagli acceleratori di particelle che dovrebbero stanare la particella di Dio, i mattoni elementari che costituiscono l’elemento base del tessuto di cui è fatto tutto l’universo. Acceleratori sempre più grandi e costosi nel tentativo di catturare l’elemento cardine, il costituente primordiale, la particella esotica che custodisce il segreto del cosmo. L’imperativo è la fissione, la divisione, lo smembramento. Fare a pezzi il giocattolo mondo per vedere come è fatto dentro. Il programma parte da lontano, dalla nascita della scienza, in Grecia, che ha posto le basi dell’indagine sul mondo naturale e sull’uomo. A parte la 'follia' di Parmenide e i paradossi di Zenone, che vanno controcorrente segnando le aporie gnoseologiche legate ai limiti della conoscenza umana, il solco ha segnato lo sviluppo della cultura occidentale fino alla concezione della scienza galileiano-newtoniana. Parmenide invece vola controvento, per dirla così, nega il tempo e la storia, nega il divenire di Eraclito relegandolo alla pura illusione sensoriale.

Già l’iniziatore dell’eleatismo, Senofane, aveva criticato la presunta centralità dell’antropomorfismo religioso nel celebre aforisma: "gli Etiopi fanno i loro Dei camusi e neri, i Traci dicono che hanno capelli rossi e occhi azzurri… i buoi, i cavalli, i leoni, se potessero immaginerebbero i loro Dei a loro somiglianza". In Senofane, la divinità si identifica con l’universo, non nasce, non muore ed è sempre la stessa. E’ il tema che dal nulla non può nascere nulla e deve sempre esistere qualcosa da cui procedono gli enti. Ma in Parmenide il discorso appare più radicale, l’essere diviene ingenerato e incorruttibile, è presente, eterno, immobile, unico e immutabile. Per dirla in sintesi, il tempo non esiste, è una mera illusione. L’immagine evoluzionistica (Darwin) che trova consonanza fin dall’antichità con Anassimandro, nel linguaggio filosofico di Parmenide sarebbe soltanto relegata a una teoria dell’apparenza, dei sensi ingannevoli e fuorvianti. L’essere parmenideo non ha passato né futuro (negazione della storia). Curioso è che esistono davvero culture senza storia dove il succedersi del vivere e del morire segue un andamento senza l’illusione di dover in qualche modo introdurre correttivi (il progresso). Culture consapevoli che il tempo è solo l’illusione con la quale inseguire quella che Platone ha chiamato l’immagine mobile dell’eternità.

L’ossessione del divenire, insieme al faustiano fermare il tempo (non invecchiare e non morire), sembra quella di una cultura occidentale che da un lato coltiva il mito del progresso e dall’alto teme il trascorrere del tempo (la morte viene nascosta, il cadavere camuffato e imbellettato; oppure, morto per convenzione, trasformato in un asettico magazzino di organi) e insegue il fantasma dell’immortalità. Nel Faust il tema tiene banco addirittura nella forma del patto infernale: "E se mai all’attimo fuggente dirò: 'Fermati dunque! Sei così bello!' allor, stringermi in ceppi tu potrai, volentieri dannato allor sarò".

Fermare il tempo è un problema solo per le culture che come la nostra vive nella dimensione dell’angoscia del futuro. Ci sono culture senza storia, atemporali, culture che considerano il tempo come l’evento ciclico della storia, del mito dell’eterno ritorno, della periodica dissoluzione dell’universo e della sua rigenerazione. E c’è poi la nostra idea di progresso, delle magnifiche sorti e progressive, di un’immagine del futuro come elemento trainante di tutte le nostre azioni, del domani che ci sollecita a un progetto teleonomico risalendo la corrente dell’entropia… fino al regno dopo l’Apocalisse.

Scomporre il mondo in parti sempre più piccole, alla ricerca del segreto che vi si nasconde, potrebbe illuderci di smontarne davvero il 'meccanismo', potrebbe soltanto lasciarci in un mondo buio, freddo e inospitale. La cultura che domina il pianeta da duemila anni e che pensa di comprendere il mondo facendolo a pezzi, potrebbe soccombere alla sua tracotanza. (Gilberto M.)

P.S. La convinzione che la scienza e i suoi derivati tecnologici creino più problemi di quanti ne risolvano, si fa strada in alcuni settori dell’opinione pubblica. Gli scientisti parlano di dissennata campagna antiscientifica del movimento ambientalista e degli organi d’informazione. Di fatto esistono pochi studi scientifici sull’impatto della ricerca (scientifica) sul benessere sociale. La fede scientifica, che non ha niente a che vedere col metodo scientifico, si traduce in una sorta di tautologia ricerca=benessere sociale, senza ulteriori distinzioni e approfondimenti. Questo non significa demonizzare la scienza, ma al contrario applicare i suoi stessi metodi nella valutazione dell’impatto (caso per caso) della ricerca scientifica sull’uomo e sul suo ambiente, tenendo conto che essa (la ricerca scientifica che non è ancora scienza) è parte di interessi industriali e commerciali e che lo scienziato stesso fa parte di un sistema economico-produttivo. (Vedi articolo di Le scienze – edizione italiana di Scientific American - di questo mese di febbraio 2013 relativo alla ricerca farmaceutica e il relativo editoriale). Un esempio e una domanda: è più nell’interesse collettivo trovare nuove cure per il cancro, o predisporre un ambiente nel quale la probabilità di ammalarsi di neoplasie a causa degli inquinanti sia ridotta al minimo o addirittura assente? Naturalmente la risposta può essere modulata caso per caso, ma tenendo conto che gli apparati industriali comportano sempre un impatto ambientale, comprese le stesse strumentazioni prodotte e utilizzate per valutare quell’impatto.
 

Qualcuno potrebbe proporre di costruire i cilindri O’Neill direttamente sulla terra, in fondo si tratterebbe del classico uovo di colombo. Invece di aprire le finestre per far entrare una boccata di aria fresca, si tratterebbe di chiuderle emermeticamente perché nell’oasi protetta non entrino gli inquinanti che ammorbano il pianeta... Elementare Watson.

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7 commenti:

  1. Caro Massimo
    Ho riflettuto sul commento di Manlio Tummolo nel quale comunica di cessare la sua collaborazione con il blog. Indipendentemente da un suo ripensamento che mi auguro, per motivi opposti ma in qualche modo simmetrici ho deciso che con questo ultimo articolo e codesto commento cessa anche la mia di collaborazione. Il motivo è presto detto. Ho notato un palese disinteresse per molti miei articoli, segno che gli argomenti che ho scelto non rientrano nelle priorità degli utenti del blog. Per altri argomenti i lettori hanno dimostrato di saper prendere posizione in modo propositivo e diretto, esprimendo con forza le loro posizioni e le loro convinzioni. Prendo atto che i miei interessi sono un po’ diversi, non c’è niente di male a riconoscerlo. Ringrazio quelli che mi hanno seguito con stima pur nella distinzione delle proprie idee, dimostrando di apprezzare il contenuto dei miei articoli. Ti sono riconoscente per lo spazio che mi hai concesso e per avermi dato l’opportunità di esprimere le mie idee. E’ stata per me un’esperienza interessante e stimolante. Ma la ritengo ormai esaurita. Tra i lettori altri son certo sapranno proporre riflessioni organiche sotto forma di articoli, molti ne hanno la capacità. In fondo è il normale avvicendamento con il quale si sviluppano e maturano nuove opzioni per crescere. A tutti l’augurio di un lavoro proficuo. Gilberto M.

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  2. Caro GILBERTO M.

    Pur non avendo quasi mai commentato i suoi ottimi articoli, ne ho sempre apprezzato il valore letterario e di contenuto, tant'è che, in calce al suo scritto sull'opera del Manzoni, e relativamente alle giuste lamentele di Tummolo, così commentavo:
    ="@ TUMMOLO
    Impagabile il suo ultimo periodo. Pochi sarebbero disposti (per insufficienza informativa?) ad affrontare discorsi su argomenti che esorbitino dalla "ricerca...dell'assassino", e similari.
    Pino"=
    Come vede, c'è chi, pur non intervenendo, con commenti a volte superflui sui suoi scritti, non ne valutasse, invece, profondamente i concetti, pur se non sempre semplici.
    Rispetto la sua decisione, ma non l'approvo.
    Saluti cordiali, Pino

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  3. mi unisco a Pino nel dirle che l'interesse dell'uditorio non dev'essere valutato necessariamente col metro dei commenti: sia perchè non è detto che ve ne siano e magari ad alcuni appare superfluo limitarli ad un "sono d'accordo, complimenti ecc..", sia perchè non è detto che si ritenga di avere le competenze per accodarsi alla discussione, sia infine perchè chi avrebbe l'avventatezza di provare a interloquire, dopo la prima reprimenda se ne astiene.
    E poi, mica detto che bisogna sempre centrare il bersaglio eh? lo scritto comunque permane nella disponibilità di un'infinita platea e quindi anche di chi, magari in futuro, vi incappa e l'apprezza.
    Perciò, se tale davvero è il motivo del ritiro (...), anche io le chiederei di proseguire nella collaborazione, come peraltro avrei fatto con l'altro sol che non avessi la certezza, nel farlo, di peggiorare la situazione.

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  4. buongiorno a tutti che sta succedendo?.....è un contaggio?....quà tutti che si dimettono,tranne i politici....
    cari signori Gilberto e Manlio,spero che ci ripensate,anche se il vostro intervento ,può sembrare di difficile comprensione per cui difficile discuterli,con questo non vuol dire meno importante,magari non comprensibile oggi ,ma potrebbe essere comprensbile l'indomani,purtroppo e forse è bene,che non viviamo tutti su stesso piano.......
    è giusto il termine che avete usato "collaborazione"=aiuto contributo......ma si ha che scontrare che di aiuto lo vuole e chi non lo vuole....e per chi non lo vuole, direi di non curarsene,ma portare avanti il proprio credo,quello no,non può essere anietato,perchè esistete e esistiamo......
    mi rendo conto che anche il mio linguaggio è difficile con tutti suoi diffetti,perchè umanamente sono fragile come tutti pellegrini su questa terra e può capitare anche se non si dovrebbe dire cose spiacevoli e chiedo scusa per questo.......mi allego tanto al concetto del vangelo,perchè in esso ho dei riscontri nella vita reale,ma questo è il mio credo....penso che la fede in noi non deve mancare ,perchè ritengo che sia la"linfa " della nostra vita......
    se si pensa al nostro corpo....esiste questa ghiandola linfatica per cui ben "ramificato" in tutto il corpo e per merito ad essa siamo vivi......ora a quello che vorrei arrivare ,è se parlo di fede o di credo non intendo di dire credere solo il "cattolico".....ognuno si esprime con i mezzi che la vita le si concede e con questo non significa che ci sia il migliore o inferiore e ci dovrebbe essere una"condivisione",per cui c'è chi accetta e chi no è quì che sta la "libertà".....certo dando del mio meglio da" cattolica",invito che dà il "VANGELO" di parlare con "prudenza",il che non è una cosa facile...."si guadagna il pane con sudore della fronte" e nella fronte ci sta' la nostra mente.......
    non so' se arriverete a leggere questo mio commento,comunque come vada per me è un piacere di conoscervi, con un abbraccio di affetto vi saluto cordialmente....Carla

    e affermo mi trovo molto per come si esprime signor Massimo che la saluto cordialmente.....

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  5. giusto, carla. c'è anche la necessità di leggere fino in fondo, magari più volte e metabolizzare...con una immagine: chi dipinge ha ben chiaro in testa il disegno, chi guarda il quadro abbisogna generalmente di un po' di tempo in più per coglierne ogni aspetto, anche inizialmente distandosene per poter vedere l'insieme e non solo isolati particolari...insomma, è chiaro che se si parla di cose largamente "commestibili" la riposta è maggiore e tempestiva, ma non per questo bisognerebbe rinunciare a fornire materiale di riflessione interessante "meno edibile" ma pur sempre apprezzato.

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  6. ch.,
    grazie di aver capito il messaggio,come vedi non siamo incomprensibile a tutti....è proprio dando che si riceve,pur diffendendoci da cose che non ci appartiene o che non si è in condizione di ricevere,che nel tempo può diventare utile....un caro saluto...Carla

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  7. Carissimo Gilberto mi dispiace tantissimo che voglia smettere di collaborare in questo blog,ho sempre apprezzato i suoi articoli,anche se a volte di non facile comprensione,io non ho una grande cultura ,per cui se a volte non faccio nessun commento non vuol dire che non legga i suoi articoli,anzi,il saggio sulla storia della colonna infame è fenomenale,e allora perché non continuare a collaborare? quanti commenti ho fatto sul caso Scazzi,e che anche se abbiamo pareri diversi abbiamo avuto modo di discutere in modo pacifico alla ricerca dell'assassino della piccola Sarah,per dare giustizia alla ragazzina.Mi dispiace ma non accetto le sue dimissioni,anzi le respingo fortemente,delle persone come Lei c'è sempre di bisogno,e quindi spero in un suo ripensamento,e grazie di tutto.Cordialmente la saluto.

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