Manlio Tummolo
Bertiolo
(Udine), Aprile -
Maggio 2014
DEDICA -
Il presente lavoro è dedicato alla cara Memoria dell’Amico, recentemente scomparso, Luigi Bisicchia, professore e preside negli Istituti Tecnici Agrari Statali di Cremona, e ai Suoi familiari ed Amici. Di origine siciliana, era figlio di Giuseppe, già legionario fiumano di quel gruppo di interventisti democratici e rivoluzionari, che ebbe un ruolo essenziale nel completamento dell’unità nazionale. Laico ed insieme credente in Dio, Luigi Bisicchia fu d’animo patriottico ed insieme federalista europeista e spirito umanitario, concezioni che egli seppe armonizzare in modo coerente ed esemplare. Combattente dell’ideale mazziniano, sempre in senso pacifico e democratico, ma anche energico, onestissimo scrittore ed editore, non molto fortunato a causa del regime vigente corrotto ed indifferente alle grandi problematiche della vita. Fin dalla prima giovinezza ha operato con la pubblicazione di scritti propri ed altrui, di saggi, di articoli, e con manifestazioni studentesche per il ritorno di Trieste all’Italia (1953 – 54). Fu tra gli anni ’70 ed ’80 direttore de “Il Pensiero Mazziniano”, durante la cui conduzione dimostrò ampiezza di vedute, spirito critico e coraggio, assoluta imparzialità, anche quando mal compreso da taluni. Fu pure fondatore della Rivista “Evoluzione Europea” in cui espresse sempre con vigore i Suoi ideali democratici, mazziniani ed europeisti, e di una piccola ma attivissima Casa Editrice .
Grande organizzatore di convegni di studio, di conferenze, di manifestazioni sobriamente celebrative, a pochi giorni dalla morte, con evidente sacrificio e sforzo personale, malgrado una recente operazione, organizzò una manifestazione per il 25 Aprile nella sua Cremona. Fu presente nel marzo 2007 alla mia seconda tesi di laurea, a cui assistette con viva attenzione insieme alla moglie prof.ssa Franca. Lo si può vedere infatti nel filmato inviato a “Volando Contro Vento”, proprio dietro di me.
In questo breve, ma commosso, ricordo, invìo un saluto affettuoso ai Suoi familiari, con la certezza che l’opera di Luigi non andrà perduta e sarà anzi fruttifera. - Manlio Tummolo
PREMESSA
NOTA
TECNICA: Viene usato, nelle citazioni o in singole
parole, il corsivo Times New Roman per le lingue straniere moderne e per il
latino; viceversa per il greco uso il corsivo “Arial”. Le note
vanno distinte in parentesi quadre e carattere tondo all’interno di una
citazione, per ragioni di immediatezza e
senza costringere il lettore a scendere e salire perdendo tempo, mentre invece
le note a fine saggio hanno carattere non immediato, quali commenti non sempre
riferiti al testo, o indicano le fonti
nelle loro moderne edizioni, eventualmente consultabili da chi ne fosse
interessato.
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Gran parte degli storici moderni di Roma antica, affiancandosi ad un
lunga teoria di storici antichi, ritengono il passaggio dalla Repubblica Romana all’Impero come un
fatto necessario, inevitabile, quasi obbligatorio, “irreversibile”. Dietro ad argomentazioni di natura
metafisico-giuridica, si nasconde, consciamente o inconsciamente poco
importa, il Culto dei Fatti e della
Forza. Aggrappandosi ad un
machiavellismo e hegelismo da strapazzo, ritengono che le cose avvenute sono necessariamente inevitabili, chi vince è
bravo ed intelligente, chi perde è un cretino o un incapace. Un atteggiamento, questo sì, inevitabile nei
pusillanimi e nei cultori del Fatto Compiuto.
Il loro ragionamento è il seguente:
se l’Impero ha vinto sulla Repubblica, ciò voleva dire che la Repubblica
era finita, e che l’Impero era l’unica risposta ammissibile alla crisi della
Repubblica. Questo giudizio viene
espresso quasi sempre senza analizzare le cause prossime o lontane di un certo
fatto, e dimenticando perlopiù che il passaggio tra la Repubblica e l’Impero
era tutt’altro che scontato, visto che
prima di ridurre le cariche e le funzioni dell’antica Repubblica a pura
forma, o ad annientarle del tutto, occorsero almeno due secoli. Se si pensa che l’elettività dei capi da
parte del popolo, oppure di una sua parte (Esercito, Senato) persistette ben
oltre il periodo detto dai giuristi Principato,
fino al Dominato ed alla caduta dell’Impero d’Occidente (almeno per
certi ruoli, compreso quello del Pontefice della Chiesa Cattolica), si capisce che la Repubblica, sebbene tradita
e trasformata, spezzettata e malmenata, nondimeno persiste addirittura fino al
Medioevo per risorgere con la nascita dei Comuni quali libere, se non del tutto
indipendenti, Istituzioni, un fenomeno europeo, ma particolarmente forte in
Italia (tanto che i nomi latini di “consul”, “dux”, ecc., riappaiono ben presto nel cosiddetto Basso Medioevo, dopo
il 1000 d. C.).
Il passaggio quindi ad un Impero a
struttura monarchica ed assolutista (del
resto mai completamente affermato in
Roma antica) avviene in forma tanto
graduale, da essere plurisecolare, e anche con vicende molto alterne. Nell’uso comune del termine Impero, poi passato all’uso
giuridico-politico, si intende una forma
di Monarchia molto potente con un vasto
territorio. Nel latino classico, il
termine significava molto meno, ovvero semplicemente detenzione del comando
supremo, quello ad esempio del dittatore semestrale o, al massimo,
annuale, nominato in caso di estremo pericolo. Roma, dalla cacciata dei Tarquini (VI secolo
a. C.), aveva preso completamente in odio il termine rex, tanto da limitarlo a funzioni strettamente religiose nel
compimento dei sacrifici di animali, e anche in tal caso scarsamente
usato. Quindi, per i Romani
il termine rex , perfino
durante l’Impero, ed ogni concezione monarchica
erano completamente rigettati.
Per esprimere un potere fortemente
concentrato, usarono prima il Primus o
Princeps inter pares”, poi molto più
tardi quello di Dominus (signore,
padrone), oppure, nella parte orientale
dell’Impero con uso prevalente della lingua greca, il termine Basileus. Il termine “re” tornò di moda solo con le invasioni
barbariche, oppure verso sovrani stranieri.
Tutto ciò tanto per spiegare come il passaggio a forme monarchiche, più
o meno assolutiste, fu in realtà molto
lento, difficile, contrastato, e per
nulla “irreversibile o inevitabile”, come
amano sostenere gli storici di cui sopra.
Per poter avere un potere di fatto simile a quello di un sovrano assoluto si dovettero sommare più cariche e
renderle durevoli a vita: anche il potere ereditario ebbe vita molto
difficile nell’Impero Romano, perché, fin dall’inizio, l’imperator durante la Repubblica generale vittorioso, meritevole del
trionfo, aveva bisogno, giuridicamente almeno, di essere confermato dal proprio
esercito, dalle legioni, dai pretoriani e
dal Senato, mentre il Popolo, nei propri Comizi (assemblee
elettorali), contava sempre meno o agiva
per acclamazione nel Foro, anche se non
sparì mai del tutto [1].
E qui appare d’obbligo un certo paragone
con i nostri tempi: la fine della
Repubblica Romana, dopo le guerre civili (tre principali e varie minori), col
fallimento dell’ultimo tentativo rivoluzionario (quello di Catilina, a cui
rinvìo), mirante ad una ricostruzione della Repubblica, ma su ben altre basi di
carattere sociale (qualcuno tende a vederle come pre-socialiste), è caratterizzata da progressivo
rincitrullimento del popolo comune (attraverso i ludi
circenses e le donazioni di grano e di carne porcina), allontanano dal
potere reale di controllo, malgrado la persistenza di alcuni poteri
elettivi. Gli organi supremi (comandi
delle legioni e Senato, poi solo i comandi delle legioni, e di quella pretoria
in particolari), col pretesto - tanto di
moda oggi col termine “governabilità”
- della stabilità dei governi e del potere
supremo con scopo pacificatore (oggi si usa quello delle “riforme, meglio deformazioni,
controriforme, ritorno al capitalismo
liberista sette-ottocentesco della Prima Rivoluzione industriale, ed avanti
elencando), puntano ad affermare il
proprio potere a vita e a carattere ereditario familiare (dinastia
giulio-claudia, fallita con
Nerone), poi con quella degli Antonini (da
Nerva a Marco Aurelio e Commodo), altrettanto miseramente fallita, per
travolgersi poi in guerre civili, invasioni di barbari, corruzione morale
elevatissima, nascita e diffusione di religioni orientali, il che dimostra quanta poca stabilità di
fatto si affermò con l’Impero, a prescindere da Ottaviano Augusto, dai Flavi e
dagli Imperatori adottivi (Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco
Aurelio). Il resto è la storia di un caos irreversibile (quello
sì), che regge la situazione
internazionale e la grande crisi delle migrazioni di popoli (alias, invasioni barbariche) solo grazie al fatto della innata e potente
organizzazione politico-amministrativa che, malgrado crisi interne enormi,
consente di reggere in Occidente fino al V secolo d. C e in Oriente fino almeno
al XIII secolo (IV Crociata).
Per avere un’idea precisa di quanto il
passaggio all’Impero non avesse segnato un periodo di stabilità, se non in via
eccezionale, basterebbe leggere due autori classici, ovvero Tacito e Svetonio
che più o meno affrontano il medesimo periodo storico (quello della dinastia
giulio-claudia, ovvero fino a Nerone).
Domanda finale quindi: sarebbe
stato evitabile il passaggio all’Impero ed al personalismo dell’imperatore? certamente sì, se il Senato romano, per pura e semplice
ambizione di predominio e di sopraffazione sugli Organi legislativi (Comizi Centuriati,
Tributi e concilia plebis), non
avesse boicottato con astuzia e con la violenza tutti quei tentativi di riforma
politica e sociale dai Gracchi in poi, che, confermando il potere politico e
civile dei cittadini, avrebbe dato o confermato ad essi piena
responsabilità dei propri atti ed una
rilevante coscienza giuridica pubblica.
Così non avvenne, anzi avvenne l’esatto contrario e l’instaurazione di dittature sempre meno
mascherate, tirannidi, assolutismi, e via discorrendo, rese irreversibile
quello che nel I secolo a. C. non lo era ancora. Forse
molti non se ne rendono conto, ma oggi stiamo
vivendo in una situazione, nel mondo occidentale e particolarmente
italiano, analoga a quella della fine
della Repubblica Romana. Non è neppure
un caso che l’avvento del fascismo si sia realizzato proprio grazie ad una
legge elettorale (Acerbo), non poi
granché dissimile da quella che si va proponendo oggi, con più abilità ed
ipocrisia (due partiti gemelli, al posto di uno, sul modello anglosassone). Il pretesto che, per dare stabilità o
“governabilità” politica, occorra avere maggioranze prestabilite non
corrispondenti alla decisione popolare,
porta inesorabilmente, nel giro di secoli quando non di decenni, a
dittature più o meno larvate che a loro volta conducono a guerre interne ed
esterne. Gian Battista Vico sostenne la
ciclicità delle situazioni storiche:
Karl Marx, in questo, affermò che i fatti si ripetono, ma prima come
tragedie, poi quali farse [2]. Sta di
fatto che le prospettive europee ed italiane, in modo particolare, sono assolutamente disastrose e nere nubi si
affacciano non solo all’orizzonte, ma pure allo zenit.
Passo
ora ad un ulteriore approfondimento della questione religiosa:
va detto che, malgrado la presenza di vizi e di corruzione d’ogni genere
ad alto livello e di rincretinimento
progressivo del comune cittadino in via di diventare suddito, vi era pure, nei primi secoli dell’Impero
Romano un livello di spiritualità, un’ansia del divino, dello Spirito, della
rinuncia ai beni materiali, che certo oggi è praticamente assente. Fu questa, se vogliamo, la base della riscossa (ancora ben
lontana) delle popolazioni dell’Impero, malgrado le crescenti valanghe barbariche, le
lotte dinastiche e civili. La cultura
romana, diventata greco-romana e mediterranea, è caratterizzata dalla presenza
crescente di nuove forme di religiosità,
di cui quella cristiana è solo
una tra le tante. Anche qui molti
storici (specie di orientamento cristiano o cattolico) tendono a sottolineare il fatto che già nel I
secolo d. C. il Cristianesimo fosse
ampiamente diffuso ad Oriente soprattutto, ma anche ad Occidente. E certo, se leggiamo il lamento dei “pagani”
[3] oppure il tono apologetico dei Cristiani, sembra che tutti i cittadini
dell’Impero fossero ormai cristiani. Ciò
non spiegherebbe affatto il lungo maturare del Cristianesimo, che si
affermò solo all’inizio del IV secolo a
livello politico con Costantino, ma non
va affatto ignorato che la storia del Cristianesimo è anche una durissima lotta
esegetica ed interpretativa dei Vangeli
e dell’Antico Testamento per poter determinare quello che sarà chiamato il “Credo” di Nicea, soprattutto il dogma
trinitario e la cristologia, in quanto credenza in un Cristo Dio.
La nascita del cristianesimo ortodosso (meglio sarebbe definirlo
dogmatico) e la nascita di eresie sono due fenomeni correlativamente
opposti. Per voler essere precisi,
almeno prima del IV secolo, si può parlare di “cristianesimi”, in forma ben più
complessa di quella attuale, sorta con la riforma protestante. Ma, accanto a questi cristianesimi, si
diffondono svariate dottrine, come il
Manicheismo (versione europea e mediterranea dello Zoroastrismo persiano), il
Mithraismo (anch’esso di origine
persiana), lo stesso Ebraismo, e, nelle classi colte forme eclettiche o sincretiche di filosofia
religiosa di tipo neoplatonico,
neo-stoico e neo-pitagorico, ossia forme di conciliazione tra la filosofia
tradizionale greca e certe nuove impostazioni religiose di tipo laico (nel
senso di non collegate a classi sacerdotali organizzate, come viceversa le
religiose cosiddette “rivelate” e gerarchicamente organizzate). Tra le svariate differenze tra una posizione
laica, sebbene religiosa, ed una posizione
religiosa organizzata, va rilevato che ad un “pagano” neo-platonico non
sarebbe mai venuto in mente di considerarsi “pastore” o “pecora”, ma si sarebbe definito uomo, nel
bene come nel male, mentre al credente in una religione organizzata appare
naturale definirsi “pastore” o “pecora
appartenente ad un gregge”.
Per concludere così questa Premessa, è
necessario sottolineare questa importante differenza tra l’antichità imperiale romana e i nostri
tempi, differenza non moralmente positiva.
In quei secoli, pur devastanti e devastati, sul tema spiritualistico vi erano forze attive che sentivano profondamente le tematiche religiose o spiritualistiche, talvolta
cadendo nel fanatismo se vogliamo, ma non per credenze abitudinarie. Proprio nel confronto e nella
contrapposizione tra religioni, occorreva
trovare la propria meditatamente, spesso con sacrificio della vita, in
modi estremamente crudeli. Oggi o
sussiste il fanatismo, religioso, politico, morale, o abbiamo, specie in
Occidente, forme di totale indifferenza
spesso mascherate da ipocrisia [4]. Questo rigetto dell’esigenza spiritualista nella vita in Occidente, sostituita da un
materialismo tecnomane, sarà causa fondamentale della sparizione della civiltà
occidentale, assai facilmente rovesciabile.
Capitolo Primo.
SULLA TOLLERANZA RELIGIOSA, FRA “PAGANESIMO” E
CRISTIANESIMO
Esattamente il 15 aprile 2014 durante una
pubblicità anticipatrice di “Fahrenheit”, trasmissione “culturale e
libresca” di Radio RAI 3, con molta pompa ho dovuto sentire una della maggiori falsità storiografiche che un giornalista o simile
poteva sparare. Si parlava di un libro,
da presentare in una successiva puntata (non ne ricordo né il titolo, né il nominativo dell’autore), in cui si
sostiene che il “paganesimo” fosse “maggiormente” tollerante in termini
religiosi del Cristianesimo, dimenticando
- con una noncuranza poco colta -
Protagora e Socrate nel mondo greco classico e -
terrificante - le persecuzioni
anticristiane nell’ Impero Romano. In misura minore, si ebbero misure
repressive anche nei confronti degli Ebrei, e forse di altre religioni, di cui non è rimasto alcun ricordo. Nessuna religione, che sia fornita di un
Libro Sacro (ovvero, di natura rivelativa pretesa divina) e di una casta sacerdotale di una certa importanza (come esistettero
nella Roma anche imperiale) potrebbe
essere “tollerante” verso altre
religioni. Chi è convinto di avere in
possesso una Verità assoluta non può
essere tollerante, per logica e di fatto, con chi oppone altri Libri sacri,
altre dottrine altrettanto estremiste,
oppure verso coloro che, individualmente, neghino tali rivelazioni. Si dice, di solito, che la religione romana non
era religione rivelata, e quindi cadrebbe un forte motivo di intolleranza. In realtà, anche se non ci sono pervenuti,
sappiamo che tale rivelazionismo avveniva tramite i Libri Sibillini e simili,
sia di origine etrusca, sia anche latina.
Sappiamo pure dell’esistenza di “profetesse”, come la Sibilla Cumana o
la ninfa Vegonia, alla base della religione romana. In tutti i casi persistette in forte misura
l’organizzazione gerarchica nelle classi sociali e l’esistenza di un Pontefice
Massimo che, al tempo dell’Impero, fu lo stesso imperatore. La cosa forse era minore in Grecia, ma pur sappiamo che, dai sacerdoti e
dai politici attivi, anche lì i filosofi non erano affatto ben visti.
In pratica, che cosa può far apparire il
politeismo come dottrina più tollerante ?
Il fatto che la credenza in Forze della Natura personalizzate [5] poteva
ben accettare l’arrivo di nuovi “dèi” o
addirittura di nuove religioni politeiste:
un dio in più o in meno non creava problemi. Il problema nasce viceversa, oltre che con le
dottrine monoteiste (ebraica, cristiana, forse anche zoroastriana pura [6]), che, negando la pluralità delle entità
divina, viene considerato una forma di
ateismo (un’accusa pressante, come vedremo,
contro i cristiani), da un fatto
politico. I Romani, più che spinti da
motivi di contrapposizione teologica e filosofico-religiosa, usano la religione nel suo complesso come “instrumentum
regni”, il che si ripeterà con ben
altri regimi anche dopo. L’Imperatore,
come detto, assume anche il ruolo di Pontifex
Maximus, ovvero il Gerarca Supremo di ogni forma religiosa, ma già con Ottaviano Augusto si assume il
ruolo di un Semidio (come un eroe omerico),
con la modesta qualifica di Divus. Da quello di semidio a quello di dio, senza
nessun “semi-“, si realizzerà sempre
di più. Già con Caligola e Nerone, due
squilibrati, questo passaggio avviene, poi sarà moderato e in parte annullato,
per essere riaffermato con maggior forza col Dominato (grosso modo, il periodo
dioclezianeo). L’Imperatore, diventato
dio, vuol avere culti religiosi, cerimonie, sacrifici alla sua persona, in modo alquanto contraddittorio con i fatti
(viste le molte rivolte e i vari regicidi o detronizzazioni, seguite dalla loro
morte), ma tale è l’intenzione. Ecco
quindi i due motivi fondamentali di
lotta contro religioni come l’Ebraismo e il Cristianesimo che, pur non
rifiutando l’obbedienza all’Imperatore Sovrano,
non accettano in generale l’adorazione dell’Imperatore-Dio.
Ecco perché è da sciocchi, e da gente impreparata alla
narrazione storica, come normalmente i giornalisti (i quali scrivono con
l’interesse al quotidiano, al provvisorio, a ciò che dà immediato successo), ritenere “tolleranti” i politeisti rispetto ai monoteisti, una delle sciocchezze più forti
che possano essere spacciate alla plebaglia. Aggiungo
che la prima affermazione di “tolleranza” verso altre religioni, apertamente espressa, si
trova proprio nello zoroastriano Zend Avesta, tendenzialmente monoteista
in un mondo politeista o panteista [7]. Per arrivare ad una concezione liberamente,
oltre che esplicitamente tollerante in religione, occorre giungere al secolo
XVII, alla conclusione delle Guerre di religione, alla formulazione filosofica
e razionalista di tali dottrine. Ma solo
con l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese, il Romanticismo e il Positivismo,
questa idea di “tolleranza” divenne un fatto politico e costituzionale [8],
almeno verbalmente dichiarato.
Capitolo
Secondo
PROCEDURE GIUDIZIARIE
DURANTE L’ IMPERO
Gli storici del Diritto Romano e gli stessi studiosi del
Diritto Romano, fin dal Basso medioevo
si sono limitati ad uno studio piuttosto teorico delle norme, quali
risultano nel Corpus Juris Civilis di
Giustiniano (VI secolo d. C.), che è una sorta di ricostruzione astratta, attraverso il lungo lavoro compiuto
nel Medioevo e poi
durante il Rinascimento per una
sua ricostruzione filologica e linguistica,
piuttosto che studiarlo nella sua pratica realtà. Per chi si limitasse, dunque, ad una lettura
di questo tipo, risulterebbero del tutto
inspiegabili le persecuzioni religiose, i procedimenti inquisitori, spesso abusivi e violenti contro il Cristianesimo in particolare, gli
accusati di pratiche magiche (va del tutto sfatata l’idea che solo col
Cristianesimo tali pratiche venissero represse, come dimostreremo trattando del
processo del poeta e studioso Lucio
Apuleio, di cui citeremo alcune parti), o di religioni considerate nemiche
dello Stato e dell’Imperatore (compreso l’Ebraismo). Non dobbiamo immaginarci che la Magistratura
romana funzionasse molto meglio di quella
moderna o di quella greca (come si è già visto nel saggio dedicato ad
Esiodo). Ce lo dimostrano vari autori e
documenti che vengono ridotti ad opere letterarie, piuttosto che ad opere
giuridiche, mentre - come spesso
avviene - le prime dipingevano la realtà processuale
assai più realisticamente delle seconde,
alquanto astratte e rielaborate da secoli di ricostruzione
contenutistica e filologica. Uno di
questi Autori, troppo disinvoltamente ridotto a “rètore” è, nel I secolo d.
C. Marco Fabio Quintiliano nella sua “Institutio Oratoria”, opera molto
complessa che pone a proprio oggetto di esposizione ed analisi la complessiva
formazione culturale e professionale, dall’infanzia fino alla pratica forense,
di quello allora chiamato “orator”,
ma non tanto nel senso politico, quanto appunto giudiziario; oggi lo potremmo chiamare genericamente
giurista oppure, più specificamente, avvocato, termine che però non è romano
classico, ma medioevale. Quintiliano parla appunto dell’oratore forense. Va ricordato che in antico, quando elementi
di studio scientifico nei processi erano necessariamente molto scarsi rispetto ad oggi, tutta la contrapposizione tra prove e
controprove si esercitava nel discorso,
discorso che doveva avere natura logica, etica e fattuale, fusa in
un’abilità oratoria di stile altamente estetico che, nelle più
varie forme (armonia e varietà della voce, gestualità, razionalità, ecc.),
doveva sedurre gli ascoltatori e, nel modo particolare, i giudici. Citando appunto Apuleio e Tertulliano come modello di apologisti (apologia è il discorso di difesa,
quello che oggi - dall’uso germanico
medioevale - si chiama arringa, mentre al lato opposto c’è la requisitoria, termine più legato alla tradizione classica
romana, quale discorso accusatorio),
vedremo la carica emotiva che
doveva essere suscitata dall’oratore forense a scopo più che di
convinzione, di “seduzione” dell’ascoltatore
(come pubblico e come giudice, o collegio di giudici). Di qui l’importanza della retorica o estetica del discorso, che
rappresentava non semplicemente un fatto letterario, ma anche psicologico,
perché orientarsi sulle convinzioni
manifestate dagli ascoltatori per aderirvi o rafforzarle, o viceversa per
rovesciarle, esigeva (ed esige) un’intuizione e conoscenza di psicologia
sociale per nulla indifferente. Ecco
perché ignorare un Quintiliano, che crea un’opera, quasi enciclopedica, allo scopo
formativo, educativo, in senso professionale dell’oratore forense, è il sintomo della scarsa capacità degli
studiosi del Diritto di superare certi confini astratti e certo formalismo che
li pone in un atteggiamento arcaico ed antiscientifico.
Ad esempio, proprio
partendo dalla definizione dell’oratore forense e della sua metodologia, così
osserva Quintiliano: “… E anche se l’oratore, per difendere una
causa, si accinge a trattare varie tesi, prima di tutto dovrebbe stabilire in
cuor suo: che cosa vuole in massimo grado imprimere nell’animo del
giudice. Primo aspetto su cui
riflettere, però; non sempre primo da trattare..” [9].
Segue poi l’esame di quella che è la natura
della causa, civile o penale, poi l’esame dello specifico caso, che egli esemplifica
:
“Per
cui: se l’accusato nega essersi
verificato un omicidio, lo stato [ovvero natura, oggetto
della causa] verrebbe dall’accusatore,
poiché è lui a voler dimostrare quanto asserisce; se invece l’accusato dice che
l’omicidio era legittimo, passata a lui la necessità di dimostrare, sarebbe lui a creare lo stato
e a sostenere una tesi d’accusa [10]…
14. Per quanto mi riguarda, io non concordo con questa
impostazione. E’ infatti più vicino al vero quanto ad essa
viene ribattuto, cioè che non v’è scontro se quello con cui si disputa non
replica nulla, e che perciò è chi replica a stabilire lo stato della
causa. 15. In ogni caso, secondo me il problema è
mutevole e dipende dalle condizioni della causa, poiché come può sembrare che
talvolta l’enunciato accusatorio decida dello stato, per esempio nelle cause
congetturali (si vale infatti della congettura maggiormente chi accusa…), così
pure nel sillogismo tutto il ragionamento lo fa chi attacca.
16. Siccome però che in questi casi sembra che
sia chi nega a porre la necessità di questi stati (infatti qualora dica ‘non
l’ho fatto’ costringerà l’avversario alla congettura, mentre qualora dica ‘non
disponi di una legge idonea’ lo costringerà al sillogismo), concediamo pure che
lo stato nasca sulla base della difesa.
Tanto si tornerà a questo: che lo
stato lo stabilisce ora chi accusa, ora chi è accusato. 17.
Poniamo infatti questa tesi accusatoria:
‘hai ucciso un uomo’; se
l’accusato nega, sia lui a decidere lo stato.
E se invece l’accusato riconosce il delitto, dicendo però di avere legittimamente ucciso un adultero…
? Se l’accusatore non avrà nulla da
replicare, non ci sarà scontro. Se
invece risponde ‘non era un adultero’, allora si comincia a formare una sua
tesi confutatoria…” [11].
Più avanti così spiega l’attività difensiva:
“ 83. … Imparino dunque anzitutto che ogni causa
prevede un metodo basato su quattro possibilità: chi si appresta a dibattere la
causa deve tenerli presenti per prime.
Partendo in particolare dal difensore, il modo di gran lunga più
efficace di svolgere il suo compito sta nel poter negare quanto viene
addebitato [pare che molti avvocati di grido attuali lo ignorino]; il secondo sta nell’affermare che non è il
fatto addebitato a essere stato commesso;
il terzo – e più onorevole - sta
nel difendere come giusto ciò che è stato fatto. Qualora facciamo difetto di questa
possibilità, resta un’ultima ma a quel punto unica salvezza, un’accusa che non si può negare e da cui non
ci si può difendere ricorrendo a qualche espediente giuridico, così che la
causa non appaia intentata regolarmente…” [12].
Dunque,
Quintiliano ci indica che non spetta agli avvocati difensori trovare un altro colpevole, indifferentemente
in quale maniera. Il compito allora
sarebbe spettato all’accusatore (non esistevano magistrati destinati all’accusa
nemmeno nella procedura penale), qualora il primo accusato fosse risultato
processualmente innocente. Molto più
avanti, aggiunge nel testo trattando nuovamente dell’onere della prova :
“
… 15. … Quando invece la questione riguarda l’accusato e l’atto, l’ordine
naturale prevede che prima l’accusatore dimostri che l’atto è stato compiuto,
poi che è stato compiuto dall’accusato.
Se però l’accusatore dispone di più prove relative alla persona dell’accusato,
deve invertire quest’ordine. 16. Il difensore invece inizierà sempre negando
il fatto, perché se sarà riuscito a prevalere su questo punto, non ha necessità
di aggiungere altro; se viene sconfitto,
gli resta la possibilità di difendersi [il neretto è mio, e serve a sottolineare come
il difensore dell’accusato non abbia necessità di accusare altri al posto del
suo patrocinato, bensì di mettere in
discussioni il fatto, le modalità dello stesso,
il dubbio sulle responsabilità nel reato]…” [12] .
E’ pure interessante
notare che allora le eccezioni dell’avvocato erano poste alla fine e non
all’inizio di un processo. Nei
processi, accusatore e difensore
miravano pure all’aperta denigrazione non solo della persona accusata o
accusatrice, ma pure del rispettivo avvocato (lo noteremo molto bene nel
processo per magia contro Apuleio) [13]:
questa denigrazione, oggi molto più sottile se vogliamo, ipocrita, aveva lo scopo di demolire, attraverso la persona
denigrata, la tesi che egli porta avanti,
dimostrandone così l’invalidità. Tuttavia,
Quintiliano consiglia pure di non apparire “… 10. … offensivi, maligni,
superbi, maldicenti contro qualcuno o qualche ceto, specie se vi appartengono
coloro che non si possono danneggiare se non contrariando i giudici. 11.
Del resto, il consiglio di non dir nulla contro il giudice… neppure attraverso allusioni…, sarebbe stupido se il
fatto non si verificasse…” [14].
Passerò ora al ruolo del giudice, come
viene descritto da Quintiliano, da cui si noterà come nella Roma del I secolo
d.C., non fossero esistiti (come al
tempo di Esiodo) figure professionali di
giudici, funzionari specifici dello Stato, come oggi li intendiamo, bensì
personaggi occasionalmente incaricati a tale scopo, possessori di pubbliche
cariche.
“
16. Ci concilieremo il giudice non
soltanto elogiandolo, atto che si deve compiere con misura e comunque è comune
a entrambe le parti, ma se congiungeremo l’elogio nei suoi confronti
all’utilità della nostra causa, in modo da riferirsi, per esempio, in difesa di
persone oneste, alla sua onestà, in difesa di persone umili alla sua giustizia,
per gli sventurati alla sua misericordia, per chi è stato danneggiato alla sua
severità, e così via. 17. Se possibile, vorrei che si conoscesse anche
il carattere del giudice. Infatti a
seconda che sia aspro, mite, allegro, serio, duro, indulgente, bisognerà o
accogliere nella causa le sue
inclinazioni dove si accorderanno con i nostri interessi, o mitigarle ove si opporranno. 18.
Talvolta accade anche che il giudice sia nostro nemico o amico dei
nostri avversari. L’evenienza deve essere considerata da
entrambe le parti… Si verifica infatti a volte questo perverso giro, per cui i giudici
emettono sentenze contro i loro amici o a favore dei loro nemici, e commettono
ingiustizie proprio per non dar l’impressione di averne commesse [il
neretto è mio]. 19. Ci sono stati anche giudici delle
proprie questioni… io stesso ho difeso la regina Berenice, con lei come giudice…
20. Se inoltre il giudice sembrerà essersi
portato da casa una qualche opinione particolare, questa andrà tolta di mezzo o
confermata…” [15].
Come ben si può constatare i giudici erano, allora, tutt’altro che
persone imparziali, nemmeno in via teorica o deontologica, come poi vennero dipinti dalla storia
del Diritto romano, sempre attraverso
l’idealizzazione del Codice di Giustiniano.
Per trovare dei giudici doverosamente imparziali (nella teoria, no nella
prassi), ancora una volta si dovette aspettare l’Illuminismo per descriverne la
figura professionale. Quintiliano, a
questo punto, consiglia due metodi: uno
morbido, con la solita “captatio
benevolentiae”, soprattutto in processi dove il giudice sia singolo
(“monocratico”, come oggi è definito), mentre il metodo con minaccia di denuncia per
corruzione è valido dove vi sia un collegio, in quanto gli onesti non si
sentiranno colpiti e i disonesti vengono ridotti in minoranza (infatti, è più
corruttibile un singolo che non un
collegio, sia perché la corruzione sarebbe
– se riuscita
- ben più costosa, sia
perché convincere uno è più facile che tre o più persone). Più avanti arriva a sostenere:
“…33. … l’animo del giudice va scosso attraverso speranza, timore,
ammonimenti, preghiere, e infine, se crederemo che gioverà, con la
menzogna. 34. Per indurre i giudici ad ascoltare, può
servire anche che ritengano che non ci dilungheremo e non divagheremo…
Questo riguardo rende senza dubbio ben
disposto il giudice, ma anche quest’altro:
indicare brevemente e con chiarezza i punti essenziali del fatto su cui deve esprimere la sentenza…” [16].
Allora come oggi, la verbosità, per i giudici, è una prerogativa
esclusivamente loro; tutti gli altri
devono essere sintetici, onde non affaticarne la gravida mente, quasi fosse il
cervello di Giove pronto a partorire Minerva.
Nihil sub sole novi. Più avanti ancora nota Quintiliano:
“…
55… Normalmente infatti il giudice
detesta chi durante il processo ostenta sicurezza, ed essendo consapevole della
propria autorità, pur senza dirlo, pretende deferenza… 57… i giudici stessi
pretendono orazioni attente e curate, si
sentono poco considerati se dai discorsi non traspare anche impegno oratorio e
vogliono non solo essere messi al corrente dei fatti, ma pure divertirsi…” [17].
Un quadretto
abbastanza divertente che non si
trova nei manuali di Diritto romano. La
figura del giudice in generale non ne risulta
brillante, ma una personcina vanitosa e
presuntuosa, che poi la burocratizzazione del ruolo da funzionario statale non ha modificato granché (tutto lo strano, artefatto vestiario ne è la manifestazione esteriore). Dopo aver dedicato un certo spazio alla
parte processuale di narrazione dei fatti delittuosi, abbastanza scontata e
piuttosto superficiale, data allora la quasi totale impossibilità di poter
discutere su prove oggettive scientificamente verificabili, Quintiliano passa all’analisi dei mezzi e dei
metodi di prova, soprattutto le
testimonianze, sia a livello di diceria, pettegolezzo (che, com’è noto, sono
tuttora utilizzati anche nei grandi
processi, sia estorte con la violenza). Si occupa anche delle sentenze precedenti, un
metodo che poi sarà pescato dai sistemi giudiziari anglosassoni (naturalmente come e finché fanno comodo,
visto che anche lì si ama rivoltare le frittate e passare da
condanne dure all’esaltazione dell’ex-reato).
Sulla tortura come metodo
sopraffattorio, per estorcere confessioni o testimonianze (allora solo con gli schiavi e per coloro che
erano privi di cittadinanza romana).
Ebbene, Quintiliano, pur dovendo accettare questo sadico metodo, lo critica anticipando così di circa 16
secoli l’Illuminismo giuridico:
“
IV. 1. Lo stesso vale anche per la
tortura, fonte d’argomentazione usata molto frequentemente: c’è infatti chi la definisce come costrizione a
confessare la verità, e chi spesso, anche come causa di false deposizioni, poiché ad alcuni la capacità di sopportare il dolore renderebbe facile
mentire, mentre ad altri la debolezza lo renderebbe necessario. Ma perché dilungarmi su tali questioni? I discorsi degli antichi e dei moderni [intesi
come suoi contemporanei. Il neretto in
questa citazione è mio] ne sono
pieni… conterà sapere chi vi abbia presieduto, chi l’abbia
subìta e secondo quali modalità, se abbia poi pronunciato rivelazioni credibili
e coerenti fra loro, se sia rimasto sulle posizioni di partenza o abbia mutato
qualcosa per effetto del dolore, e se quest’ultima evenienza si sia verificata
all’inizio del suo tormento o nel suo prosieguo…” [18] .
Potrebbe sembrare stupefacente che un
principio, per noi oggi ovvio sul piano della deontologia processuale, già dichiarato impreciso, oltre che violento e sopraffattore
da circa 2000 anni, abbia fatto tanta
fatica, finora, ad essere rigettato completamente e che, malgrado tutto ciò,
continui a perdurare, tra metodi di
polizie speciali o anche comuni e tra magistrati. Si arrivò fino alla “Santa” Inquisizione, spagnola o romana che fosse e
anche con organi similari nei Paesi protestanti, ad utilizzarla. Ciò si spiega da un lato con il sadismo di molte autorità, dall’altro
col fatto giuridico che la confessione sia
- tuttora ! -
considerata prova “principe” o “regina”.
Orbene, finché tale mentalità non sarà cancellata, la tortura, sia
fisica (il che è dire anche psichica, ovviamente, perché riduce l’uomo ad un
oggetto, all’animalesca condizione di
sofferente con danni irreversibili), sia
semplicemente psichica nelle più subdole
forme, verrà utilizzata anche se vietata dalla legge. La questione di fondo è questa. Nelle note si citano Aristotele e Cicerone
quali critici della tortura.
Quintiliano procede poi alla parte più moderna o
scientifica, che è quella costituita dall’analisi dei documenti, evidentemente
per quel tempo solo atti scritti, in cui
- poniamo - l’accusato descriva le proprie intenzioni
criminali (uccidere qualcuno, organizzare una congiura). Oggi avremmo ben altro da porre in
discussione (analisi scientifiche, biochimiche, telefonate, filmati, e così
via), ma allora, più che l’atto scritto, altro non c’era. E nondimeno così ne scrive il nostro Autore:
“V. 1.
Spesso bisogna parlare anche contro i documenti, poiché sappiamo che è
in uso non solo di confutarli, ma
addirittura di farli oggetto di accuse. Agendo in essi la malafede o
l’ignoranza dei firmatari, più facile e sicuro risulta trattare di questa
seconda, poiché così si restringe il numero degli accusati. 2.
Anche qui, comunque, il discorso trae argomentazioni dalla causa,
qualora non risulti credibile, o, evenienza più frequente, ne giunga smentita
da altre prove, ugualmente indipendenti dalla retorica: per esempio quando
colui contro il quale il documento venne redatto o uno dei firmatari siano
dichiarati assenti o già morti, quando le date non coincidono, quando c’è
contrasto fra i documenti e i fatti che li precedettero o li seguirono. Spesso,
la stessa analisi interna ne evidenzia l’inautenticità”
[19].
Quantunque la filologia, in quanto scienza,
fosse di là da venire (occorreva
aspettare il XV secolo con Valla e la confutazione della Donazione di
Costantino), Quintiliano spiega come i
documenti, in quanto atti scritti, allora fossero poco credibili, perché
falsificabili in modo relativamente facile, o la cui inautenticità potesse
essere dimostrabile attraverso incongruenze interne allo stesso documento, oppure per manifesta contraddizione con altri
fatti. Ricordo tuttavia che è proprio sulla base di atti simili, con tanto di
sigillo, che Cicerone potè accusare i
congiurati lentuliani, durante la rivolta
di Catilina, e farli rapidamente condannare mediante strangolamento nel carcere
Mamertino (cfr. mio relativo saggio). Segue l’analisi del giuramento a scopo
probatorio (in parte tuttora utilizzato in sede
civile). Come spiega il commentatore:
“…Naturalmente
, l’utilità, ma anche il rischio, del
giuramento consisteva nella sua non necessità di dimostrazione, sostituita e
garantita dall’appello al divino” [20].
Allora, la fede religiosa era molto forte e lo sarebbe stata per almeno 1700 anni, eppure anche allora
esistevano spergiuri. Il richiamo al
divino, con l’idea che, in caso di
spergiuro, sarebbe intervenuta la divinità stessa (che ha cose più urgenti in
generale da fare) fulminando il
colpevole, rendeva inattaccabile la testimonianza o la confessione
giurata. Non occorre molto per dire che,
più che pratica giuridica o religiosa, il giuramento è un atto di superstizione o di
grossolana ingenuità, ancora usati in
varie sedi (il mondo anglosassone ne è un esempio lampante con i giuramenti
sulla Bibbia fatti contro i contenuti
della Bibbia stessa), che pretende interventi divini immediati, quando
Dio, pur nella sua onnipotenza, deve
tenere sotto controllo uno sterminato
Universo senza fare differenze tra un punto e l’altro, tra un corpo celeste e
l’altro, tra un essere e l’altro. L’idea
di un Dio provvidente può anche essere logica,
ma pensare che debba fare condizioni
speciali per il nostro minuscolo pianeta
o per questo o quell’altro singolo
episodio, è un classico esempio
non solo di geocentrismo, ma pure di antropocentrismo, logicamente e
scientificamente inammissibili. Se
possiamo essere comprensivi con gli antichi Romani oppure con gli uomini del
Medioevo, non possiamo esserlo più dopo
la cosiddetta Rivoluzione scientifica (che non ha praticamente toccato il
Diritto), ed è stupefacente che una cultura che vanta di essere la più moderna,
pratica, tecnocratica e democratica del mondo,
utilizzi ancora metodologie così
arcaiche in sede politica, istituzionale, giudiziaria. E’, viceversa interessante come Quintiliano
analizzi con una certa capacità critica la problematica concernente il
giuramento e ne sconsigli l’utilizzazione [21].
Questa relativa
“contemporaneità” di Quintiliano,
come vedremo anche sulle testimonianze, ma soprattutto sull’esigenza
scientifica di razionalizzare il procedimento
giudiziario, lo renderà inviso a
tutti i gius-tradizionalisti ed anche agli storici del Diritto romano che lo ridurranno a
semplice “rètore”, mentre egli era giurista ed insieme docente di Diritto a tutti gli effetti. Ora cito ancora qualcosa sulle testimonianze
e il lavoro forense mirante a convalidarle oppure confutarle:
“VII. 1. La fatica maggiore per l’avvocato
concerne, comunque,le testimonianze: esse vengono rese o per iscritto o da
presenti. Più semplice è contrastare quelle del primo genere, poiché da una
parte si crede che in mezzo a poche persone chiamate a sottoscrivere meno abbia
potuto il freno del pudore, e dall’altra il fatto che il testimone sia assente,
spinge alla diffidenza. Se la persona per se stessa è al di sopra
delle critiche si possono screditare i firmatari. 2.
Inoltre, una tacita
considerazione è contraria a tutte queste testimonianze: che nessuno depone per iscritto se non
intenzionalmente, e con quel gesto stesso ammette di non essere in buoni
rapporti con colui contro il quale si pronuncia. Eppure
l’oratore [forense, ovvero l’accusatore o
difensore] non escluderà a priori che, in caso di
assoluta buona fede, possano dire il
vero un amico in favore di un amico, e un nemico contro un nemico. Ma
l’argomento prevede ampia trattazione in entrambi i sensi.
3. La battaglia grossa avviene invece coi
testimoni presenti in tribunale; perciò,
contro di loro e per loro si combatte come su due campi, quello dell’orazione
ininterrotta [lo vedremo esaminando l’apologia di
Lucio Apuleio] e quello
dell’interrogatorio. Nell’orazione si
suole cominciare parlando in generale a favore e contro i propri
testimoni. 4. Qui si ricorre al luogo comune, poiché una
parte sostiene non esservi prova più sicura di quella che poggia sulla conoscenza diretta degli uomini, mentre
l’altra, per toglier loro credibilità, enumera tutti gli espedienti attraverso
i quali solitamente si falsificano le testimonianze. 5. Un secondo sistema ha corso quando gli
avvocati usano attaccar sì specificamente dei testimoni, ma molti insieme. Sappiamo infatti che gli oratori hanno screditato le
testimonianze di interi popoli [oggi definiremmo una tale metodologia,
oltre che sofistica, per arbitraria generalizzazione di alcuni difetti
morali, anche “razzista”:
nella nota il commentatore ricorda che Cicerone considerava tutti i
Greci poco credibili come testimoni,
malgrado poi apprezzasse, com’è notissimo,
la filosofia e la cultura ellenica]
e interi generi di testimonianze, come quelle basate sulle dicerie (ove chi parla non è testimone,
ma riporta voci di gente che non ha
giurato), o come nelle cause per concussione (ove quelli che giurano di
aver sborsato denaro all’imputato, vanno ritenuti parti in causa, non
testimoni). 6. Talvolta il discorso è diretto a colpire
singoli testimoni; questo tipo di
attacco lo leggiamo in moltissime orazioni…
7. Sarebbero bastati i due libri scritti
sull’argomento da Domizio Afro… Egli ben a ragione insegnò che in questo punto
il primo compito dell’oratore è di avere una conoscenza approfondita di tutta
la causa… 8… Quella conoscenza fornirà materia all’interrogazione dei
testimoni, e porrà nelle nostre mani, per così dire, delle frecce; inoltre ci insegnerà in che senso vada
preparato l’animo del giudice col nostro intervento…” [22].
In
buona sostanza, oltre che al lavoro sugli atti scritti, l’avvocato non ha il
ruolo di affermare di verità, bensì di tutelare il proprio patrocinato anche
mentendo se necessario (la verità dei
fatti deve essere fatta emergere dai
giudici, quando e come possibile), deve
mirare a demolire i testimoni di parte avversa e consolidare la
testimonianza di coloro che affiancano
la tesi dell’avvocato. E’ curioso osservare come Quintiliano
critichi le testimonianze indirette o di
coloro che, come definiti modernamente, sono “a conoscenza dei fatti”, senza esserne testimoni oculari. Critica le dicerìe che, ben sappiamo, ancora
nel secolo XXI sono largamente adottate
per sostenere gravissime accuse. Se poi aggiungiamo a questo la credenza
ciceroniana che i Greci fossero poco
credibili e vi aggiungiamo che l’odierna
Taranto era allora città di cultura
greca, ne traiamo, scherzosamente ma non troppo, che non è una sede processuale credibile.
Dopo aver distinto fra vari tipi di testimoni, con i loro diversi scopi,
descrive la metodologia, ovviamente contrapposta, da utilizzare
nell’analisi della testimonianza e l’esigenza di far crollare il testimone
avverso e consolidare quello a favore.
Per giungere a questo obiettivo,
Quintiliano sostiene che occorre verificare i motivi che adducono per
danneggiare la parte avversa, controbattere la metodologia uguale e contraria
della controparte. Quintiliano, a
differenza di quanto dice oggi la deontologia in questo campo, non
sconsiglia il condizionamento del
testimone e la sua “suggestione” [23]: dobbiamo però in tal caso essere con lui
comprensivi, in tempi nei quali gli
strumenti di ricerca della prova erano tutto sommato praticamente solo
verbali, senza oggettività dei dati
disponibili, che non fossero atti scritti autentici o la flagranza del delitto. Era dunque praticamente d’obbligo tentare,
per il difensore o l’accusatore, di
esercitare una certa pressione
psicologica sui testimoni. Tralascio
poi le successive analisi dell’Autore riguardanti le prove di fatto e le prove
logiche, per non allungare troppo a
lungo un discorso che ha motivazioni più specifiche. Ma, nello
sfogliare il testo, mi cade l’occhio
- come suo dirsi - sulla grande
confusione terminologica nel linguaggio
giuridico, secondo il quale, distorcendo un senso dato al termine dal filosofo
Kant, credono che “apodittico”
voglia significare “indimostrato”, ovvero ciò che in filosofia si chiama “dogmatico”. Al contrario, in greco, anche moderno, il
termine ha il significato esattamente contrario, ovvero “dimostrativo”. Kant usò questo termine in un senso più
specifico, come la conclusione di una dimostrazione. Di qui l’equivoco di una tradizione ferma ai
tempi in cui si affermava “Graecum
est, non legitur” ossia “E’ scritto in greco, quindi non si riesce a leggere”. Ecco infatti quanto scrive Quintiliano che, invece come gran parte dei Romani
dell’epoca, leggeva e conosceva il greco
normalmente:
“X. … 7. L’apòdeixis è una dimostrazione evidente, e
perciò i maestri di geometria parlano di grammikaì
apodeìxeis (‘dimostrazioni
lineari’). Cecilio ritiene che essa
differisca dall’epichirema
soltanto per il genere
di conclusione, e che l’una sia la versione incompleta dell’altro per lo stesso
motivo per cui… l’entimema dista dal sillogismo; infatti, anche l’entimema è una parte del
sillogismo. Alcuni pensano [come molto più tardi Kant] che
l’apòdeixis faccia parte dell’epichirema, e ne
sia la sezione confermativa. 8. In ogni caso, autori pur di scuole diverse,
definiscono entrambi allo stesso modo, per cui sarebbero ‘un ragionamento che
dà credibilità a elementi dubbi grazie a elementi certi’…” [24].
E pensare,
ahinoi, che una discreta parte
dei giuristi, specie se anziani e
laureati fino agli anni ’70, avevano studiato il greco al Liceo Classico !
Infine, per concludere su quanto poco sia
stato “rètore”, ma appunto docente di
arte oratoria forense, ed oratore forense,
cito questa seguente descrizione
che mira a fare del discorso processuale non qualcosa di fittizia
bellezza, ma qualcosa di fortemente e
virilmente bello, ovvero energico, pronunciato non declamatoriamente, ma con
stile variato secondo le necessità del caso in esame e dei fatti in esso
affrontati. Ciò viene rafforzato anche
con un esempio della vita d’allora, anche sotto questo aspetto non molto
diversa dalla nostra (lo si ritrova detto in Seneca, come
dai Cristiani):
“
… 17. … le declamazioni, con le quali di solito ci esercitavamo ala battaglia
del foro come con fioretti da scherma,
già da tempo hanno perduto il loro autentico aspetto di orazioni; composte in vista del solo diletto, mancano
di nerbo, mentre, parola mia !, la colpa dei declamatori non differisce da
quella per cui i mercanti di schiavi –
castrandoli – danno maggior grazia alla
bellezza dei ragazzi. 18. Infatti, come quelli stimano poco eleganti
forza, muscoli e soprattutto barba, ma poi anche gli altri attributi che la
natura ha specificamente donato ai maschi, ed effeminano come rozzo quanto
lasciato stare, sarebbe segno di forza, così noi copriamo con una sorta di
tenero rivestimento stilistico la stessa, energica struttura dell’orazione,
nonché quella sua capacità espressiva fatta di sintesi e vigore, mentre
pensiamo che non importi nulla l’efficacia di ciò che diciamo: basta che sia elaborato e brillante. 19. Ma
per me, che guardo alla natura, non esisterà un uomo meno bello di un evirato,
né mai la Provvidenza mi parrà tanto ostile
alla sua opera da farci trovare fra le sue creazioni migliori la
menomazione; d’altronde, non riterrò che
grazie ad un intervento si possa rendere bello ciò che nascendo in quelle
condizioni sarebbe mostruoso. Il finto
sesso degli effeminati serva pure al desiderio sfrenato; mai, però, la
depravazione morale avrà un potere tale da rendere anche onesto ciò che ha
magari reso costoso.
20. Quindi, il pubblico apprezzi pure l’attuale
eloquenza vergognosa nella sua molle
sensualità… io non riterrò esservi eloquenza laddove non venga esibito il pur
minimo indizio di virilità e integrità, per non dire di serietà e di purezza… “[25].
La vera espressività oratoria deve essere
varia ed adatta a singole situazioni: la
monotonia della pronuncia, che sia ad alto o a basso livello, alla fine procura
esclusivamente noia. Anche il tono della
voce dell’oratore (forense come politico o come docente pubblico) non deve essere monocorde, ma variata secondo
il senso del discorso e le situazioni descritte. Per intenderci, non si può fare del
piagnisteo (a meno che non sia per
sarcasmo) su ciò che è divertente, non si può fare una barzelletta su ciò che è
serio. In sintesi, al funerale non si
parla come ad un battesimo o ad un matrimonio.
Invece, oggi sembra che tali prassi distorte siano molto diffuse. Oppure che, prescindendo dalle situazioni, si
parli sempre come se si fosse ad un funerale, oppure ad un matrimonio. Non parliamo di certe voci poi che, malgrado
si siano compiuti 37 o 38 anni o perfino 65 come il sottoscritto, sembrano
quelle di uno degli evirati di cui sopra, stridule oppure “chiocce”, come dice
Dante [26].
Quintiliano procede su parecchie
questioni tecniche che dimostrano le sue capacità di giurista, ad esempio sui reati evidenti ma
non scritti, che i Greci, più teoretici
dei Romani anche in questa sede, qualificavano àgrapha
adikémata , letteralmente “delitti,
reati non scritti”. Infatti un reato
va considerato tale quando è stato prima compiuto, poi previsto e segnalato in
forma di legge. Qualunque atto provochi
un danno evidente, ma non mai compiuto prima d’allora, quindi non previsto e
descritto dalla legge, appartiene a questo tipo. Potremmo pure chiamarlo “reato
naturale”. Mettiamo, per farci
capire, che fino ad oggi nessuno abbia
fatto lo sgambetto. La legge quindi non
prevede che fare lo sgambetto a qualcuno, facendolo cadere e procurandogli
danni fisici e psichici, sia un
reato. Quando avviene un reato simile, e
magari si ripete, la legge lo formula e lo inserisce nel Codice. Da allora in poi diviene reato a tutti gli
effetti. Attenendosi alla Bibbia, prima di Caino ed Abele l’omicidio era un delitto non scritto, ed è anche per questo che YHWH non lo punisce
e ne vieta la punizione, col celebre “Nessuno
tocchi Caino”, anche se lo fa allontanare dalla famiglia di Adamo ed
Eva. Ora i giuristi Romani, sulla scìa
del pensiero filosofico-giuridico greco, si pongono questo problema, o almeno lo fa Quintiliano,
sottolineando però che questo non avviene
nei processi reali, ma piuttosto nelle Scuole di Diritto. Più avanti ancora, tratta del famoso principio che i nostri
giuristi moderni riducono al detto
estremamente sincopato, “ne bis in idem”,
che è del tutto scorretto e barbarico rispetto al latino classico: letteralmente significherebbe “affinché non due volte nel medesimo”, ma “in + accusativo” in latino vale per
“contro qualcuno o qualcosa”, non “in qualcosa” (moto verso luogo, e non stato
in luogo). Sorvoliamo: la Facoltà
di Giurisprudenza si fonda più
sulla memoria che sulla cultura ed il ragionamento.
Quntiliano, ben diversamente, che scriveva
in greco e latino e (per dirla con Carducci)
aveva molte altre virtù, dice con
più precisione : “Bis de eadem re ne sit actio”,
il che tradotto in italiano si rende “Sulla medesima questione non vi sia due volte azione legale”, specificando altresì che sorge il problema se tale criterio si
riferisca all’ attore (nel senso del processo civile) o all’azione. A noi parrebbe ovvio intendersi come azione
legale, che non possa ugualmente ripetersi verso le medesime persone per il
medesimo fatto. Secondo
Quintiliano, tutti questi problemi
altamente tecnici fanno parte del dibattito sulla forma e sullo spirito delle
leggi [27].
Il resto dell’opera è destinato all’approfondimento di temi
retorici, prevalentemente di natura estetico-letteraria, validi non solo per l’oratoria forense. Nel mio esame del testo, ho mirato a riportare quanto può interessare
l’esclusiva parte processuale o giudiziaria, onde cercare di sottolineare per
quanto possibile come si svolgeva un regolare processo penale nel I secolo d. C. e, più ampiamente, dell’età imperiale. Ora, sarà da esaminare più precisamente la
questione dei processi per “reati” di natura
magica e religiosa, onde meglio
comprendere perché e come i Cristiani
fossero stati perseguitati, con procedure extra ordinem, ovvero straordinarie, non dovute tanto alla presenza
di leggi repressive di qualcosa, quanto alla volontà di singoli imperatori e
loro esecutori, rispetto a quello che poteva apparire un pericolo
“occulto”, “rivoluzionario” e demolitore
delle basi dello Stato imperiale. E’ da presumere che, se non fosse subentrata la
figura dell’Imperatore –Dio o Divus o Divino che fosse - se
fosse stato mantenuto un regime di tipo repubblicano con governanti a scadenza determinata, le persecuzioni contro i Cristiani ben più difficilmente
avrebbero avuto seguito, soprattutto nelle forme cosi odiose, violente e
crudeli come accaduto.
Capitolo
Terzo
LE MOTIVAZIONI DELL’ACCUSA DEI POTERI IMPERIALI CONTRO I CRISTIANI
Come sottolineato nella
Premessa, è profondamente erroneo immaginare nei primi secoli dell’Impero una
semplice contrapposizione tra Cristiani e Pagani: come i primi erano separati in gruppi
diversi, e spesso in contrasto fra loro con l’unico termine in comune il nome
di Gesù Cristo, così sarebbe erroneo e,
talvolta, ridicolo vedere un gruppo politeista o “pagano” in blocco contro la parte cristiana. In effetti la lotta contro i Cristiani non ha
carattere generalizzato, e dualistico, ma semmai è la lotta dell’imperatore in
nome della “laesa majestas” che,
periodicamente si scatena con motivi non sempre del tutto irrazionali contro coloro che non lo onorano e celebrano
come Dio, e non tanto perché gli
imperatori fossero così pazzi da ritenersi “dèi” sul serio, ma perché l’attribuirsi
una sorta di divinità da onorare e per la quale giurare era considerato
necessario “instrumentum regni”,
ovvero ancora “mezzo di governo” agente sulla mentalità comune, plebea,
rincretinita da giochi, divertimenti, donazioni granarie e di altri mezzi per
sfamarsi, talvolta anche carne di maiale.
I politeisti, o meglio i laici Romani ad alto livello, non erano tutti orientati nello stesso
modo, i Cristiani erano - come già detto - divisi
in sètte diverse e, con una certa frequenza, a Roma erano confusi con
gli stessi Ebrei, sia per il Testamento comune,
sia per il monoteismo, quantunque relativo nei Cristiani (ma si trattava
di differenze poco significative e pure
incomprensibili per i politeisti veri e propri), sicché quando si parla di Cristiani
e di persecuzioni, di fede manifestata
fino alle sevizie ed alla morte, andrebbe sempre esaminato (se ciò si potesse,
vista la parzialità delle fonti) chi era
Cristiano trinitario, chi Cristiano “eretico”, chi infine Ebreo. E’
pure interessante notare che la lotta dialettica, scritta od orale che
fosse, tra “pagani” e Cristiani coinvolgeva dirigenti dell’Impero
(anche nella veste di sacerdoti, ma innanzitutto politici) e filosofi, ma non è noto che le polemiche si
scatenassero tra sacerdoti di differenti
religioni su temi teologici, ovvero se
gli dèi fossero tanti oppure uno solo, oppure tre, maschili o
femminili, personificati o antropomorfi, ecc..
Salvo che scritti del genere non fossero scomparsi per distruzione
provocata o casuale, non risulta che il sommo sacerdote di qualche
ordine pagano polemizzasse con qualche
apostolo, presbitero delle Chiese
cristiane su tali argomenti, il che
potrebbe sembrare curioso. La
dialettica, quando c’era, era
soprattutto a livello filosofico.
La popolazione, cretina sì ma non troppo,
ogni tanto accorgendosi che l’imperatore
non era affatto un “dio”, si ribellava
violentemente, facendo a pezzi lui, o qualche suo ministro e coadiutore
(così finisce Seiano “premier” di Tiberio, così finisce Caligola, così rischia di finire Nerone, se alla fine
non si fosse fatto uccidere da uno schiavo).
Così nel corso della storia finiscono altri personaggi, tra cui
ricorderò un certo Cola di Rienzo,
chiamato alla latina Rienzi dal celebre Wagner in una sua opera
[28]. Un nome che ricorderà qualcuno
oggi famoso in Italia, e chissà che non vi sia un qualche lontano legame di
parentela tra i due. Certo, il popolo
può essere sistematicamente rincretinito, con la propaganda ed altri mezzi, ma
è anche vero che “rincretinito” non
significa necessariamente innocuo, anzi il rincretinimento del popolo,
costantemente esercitato, lo induce spesso alla violenza fino ad atti di
particolare barbarie.
Ora, finché l’Italia non si libererà da
questa negativa tradizione di rincitrullimento, dall’uso ed abuso della
menzogna, dalla stolida propaganda, da
un vuoto individualismo, dal disinteresse più o meno mascherato verso la Res Publica e le sue istituzioni, dal gusto per la sopraffazione, e avanti
cantando, andremo sempre più a fondo in
un pozzo, non artesiano o di petrolio,
ma di melma e di loto (sempre in richiamo a Dante) .
Torniamo a Roma e al suo Impero: vi furono vari Autori, non necessariamente
pagani o politeisti, che condannarono severamente (come Tacito) o sarcasticamente (come Seneca, Svetonio,
Giovenale, Marziale) il regime
instauratosi, tutt’altro che stabile come ingenui storici di tendenza
monarchica più o meno consapevole decantarono, ma fragilissimo, dove solo la
salda amministrazione ed organizzazione fissata dalla Repubblica, persistente
oltre se stessa, consentì a Roma,
malgrado il disfacimento imperiale, di reggere per quattro secoli all’urto
delle popolazioni barbariche nomadi o a forti imperi come quelli partico e
persiano sassanide. Organizzazione e
Legge che, come sottolineò Rutilio Namaziano ormai nel V secolo d. C., fecero “di
tante genti un popolo solo” [29].
Quindi non la graduale restaurazione monarchica, che anzi avviò Roma
alla rovina, ma la sua sottostruttura
ancora repubblicana le consentì di reggere
per tanto tempo.
§ 1. I CRISTIANI
SECONDO TACITO
Dei
Cristiani, Tacito parla soprattutto negli “Annali”, esclusivamente
nella parte finale dedicata al periodo neroniano. Sembra ne abbia scritto anche nelle “Storie”, ma in una parte per noi
perduta e riassunta da altri, per il periodo delle guerre civili seguite alla
morte di Nerone e poco prima dell’instaurazione dei Flavi. Citerò anche quel riassunto, perché chiarisce
come i governanti romani potevano allora vedere il rapporto tra Cristiani ed
Ebrei, ma di ciò dopo. A premessa, che
vale per Tacito, come per molti altri autori, laici o cristiani o ebrei (come
Giuseppe Flavio) che fossero, va sempre
tenuto conto che molte parti o molti aspetti concernenti questo problema furono rimaneggiati col tempo, da chi
trascriveva le opere originarie nei manoscritti, da cui poi a nostra volta conosciamo l’opera classica. Il caso di Qumran o di certi papiri egizi,
ovvero di testi originari arrivati fortunosamente a noi, è estremamente raro. Enormi quantità d’opere antiche sono andate
distrutte, o intenzionalmente, oppure per incuria colposa, o per sventura. Per tutte queste ragioni, oggi noi - specialmente su temi per lunghi secoli
scottanti - o non abbiamo nulla, oppure
abbiamo quello che si è voluto trasmettere, anche spesso falsificato. Detto ciò che vale per tutti gli autori o
documenti di riferimento, passo alle
citazioni: di Cristiani, Tacito non
parla se non arrivando al celebre incendio di Roma :
“38. In seguitò si verificò - per caso o per la perfida volontà del
principe , gli autori infatti hanno trasmesso l’una e l’altra versione – il più
grave e terribile disastro fra tutti quelli che colpirono questa città per la
violenza del fuoco. Ebbe inizio in
quella parte del circo vicina al Palatino e al Celio; qui attraverso le botteghe che contenevano
merci combustibili, il fuoco acceso e subito rafforzato e sospinto dal vento si
propagò rapidamente, per tutta la lunghezza del circo… Nessuno poi osava combattere il fuoco, per le
ripetute minacce di molti che proibivano di spegnerlo e perché vi erano altri
che apertamente lanciavano fiaccole e gridavano d’aver ricevuto ordine di
farlo, sia per rubare più facilmente sia effettivamente per aver ricevuto
ordini in tal senso.
39. In quei momenti Nerone si trovava ad Anzio e
non tornò nell’Urbe prima che il fuoco non si fosse avvicinato alla sua casa,
con la quale aveva messo in comunicazione il palazzo attraverso i giardini di
Mecenate. E tuttavia non riuscì a
impedire che il palazzo e la casa e tutto ciò che v’era attorno fosse distrutto
dalle fiamme…” [30].
Se questo fu l’incendio più grave
subìto da Roma, a parte le invasioni dei
Galli e, più tardi, dei Goti e Vandali, la città
ebbe a subire frequentissimi incendi anche dopo, come lo stesso Tacito
descrive. A tale scopo Ottaviano Augusto
aveva perfino costituito una coorte di pompieri e ricostruita la città da
mattoni a pietra e marmi. Lo stesso
Nerone la fece ricostruire ancora più ampia e ricca, e nondimeno gli incendi si
ripeterono. Nel caso specifico, la storiografia,
sulla base della narrazione tacitiana e svetoniana, che poi sarà ripresa da
storici cristiani, tende ad attribuire in parte al caso, in parte ad una decisa
volontà l’inizio e lo sviluppo, senza alcun contrasto vero e proprio, del
terribile incendio. Ma volontà di chi
? Si allude all’imperatore stesso che,
in una “vulgata”, viene rappresentato a voler recitare un poema
sull’incendio di Troia ispirandosi all’atroce realtà. Se è vero però che l’imperatore era ad Anzio e arrivò
tardivamente a Roma, è difficile immaginarlo suonare la cetra per cantare la fine di Troia. D’altro lato, era possibile che gruppi
fanatici di Cristiani avessero se non scatenato l’incendio, visto come una punizione divina per i peccati ed i vizi
dei pagani, e quindi avessero favorito
tale incendio addirittura disseminandolo ? Si può supporre che la cosa fosse stata tutt’altro che
impossibile. Il fuoco
era considerato purificatore dei vizi, fin dall’Antico Testamento
(pensiamo a Sodoma e Gomorra). Lo stesso
Tacito allude a gruppi non identificati
che impedivano l’intervento per spegnerlo,
o che addirittura lo disseminavano [31].
Ma era immaginabile che allora i Cristiani o qualche loro gruppuscolo
fanatico avessero tanta forza da spadroneggiare in questo modo ? Nessuno storico riesce a dire con una qualche approssimazione quanti potessero essere allora i Cristiani in
Roma, quasi tutti di origine esterna alla città, il più di provenienza ebrea. Personalmente non ritengo che allora, su un
milione di abitanti che aveva Roma, si potessero trovare più di un centinaio di
Cristiani di provenienza ebraica. E’ impensabile che allora, appena giunti e assai
malvisti, potessero aver convertito “RRomani
de RRoma”, ma al massimo qualche schiavo di
provenienza orientale. La tesi
stessa di Tacito sembra più ragionevole e siccome ben sappiamo che a lungo
termine fu proprio questo incendio a spingere i Romani colti del tempo ad
organizzare quella celebre congiura, che venne repressa con estrema durezza da Nerone, e
successivamente alla ribellione del popolo, stufo ormai delle follie e delle
sopraffazioni dell’imperatore, considerato pazzo e vizioso, la cosa più ragionevole è pensare che
dell’incendio, casuale all’inizio, se ne approfittassero gruppi di oppositori
per indebolire il prestigio imperiale, portando la folla prima alla fame ed
alla miseria, e quindi alla rivolta. Ma
in quel momento, Nerone, già circondato da sospetti ed odio, non seppe fare
altro che identificare nei Cristiani gli
“incendiari” da punire orribilmente, scatenando la prima delle grandi persecuzioni
che si seguiranno per circa tre secoli, periodicamente.
Tacito,
dopo aver spiegato il vario evolversi della situazione e le voci
correnti che attribuivano allo stesso Nerone l’incendio, e descritto l’opera di
ricostruzione, prosegue :
“
44…Ma
né l’aiuto degli uomini, né le largizioni del principe, né le cerimonie
espiatorie offerte ai numi valsero a dissipare l’opinione infamante che
l’incendio fosse stato comandato. Nerone
allora per far tacere queste voci fece passare per colpevoli e li sottomise a
tortura raffinate coloro che per i loro delitti [è
pur curioso che si parla di delitti, ma questi non vengono specificati: delitti contro chi e quali delitti ?] il popolo detestava e chiamava Cristiani. Erano chiamati così dal nome di Cristo, il
quale sotto l’impero di Tiberio era stato condannato al supplizio sotto Ponzio
Pilato [l’improvviso riferimento sembrerebbe un’interpolazione posteriore,
visto che per nulla si accenna ai Cristiani durante Tiberio e fino ad allora]
quella superstizione nefasta, repressa sulle prime [quando, ad opera
di chi ?], ora tornava a prorompere, non
solo in Giudea, luogo d’origine di quel malanno, ma anche a Roma, dove da ogni
parte affluiscono tutte le dottrine atroci e turpi e vi trovano seguaci [dunque: non solo Cristiani]; furono dunque arrestati prima
quelli che ammettevano la loro colpa, poi, dietro denuncia di questi, una
moltitudine immensa [ecco una delle fonti da cui deriva la credenza che
fossero tantissimi, ammesso che il testo sia effettivamente tacitiano: ma quanti ?
e come venivano qualificati tali ? E’
chiaro che, col sistema della tortura, si faceva dire tutto quanto si
volesse. Vedremo dopo il testo
svetoniano, dove Cristo - invece - è chiamato “Chrestos”], non tanto perché autori dell’incendio [qui
dunque la si considera un’accusa pretestuosa] ma per il loro odio del genere umano. Ai condannati alla morte in più
si infliggevano scherni; coperti di pelli ferine li si faceva dilaniare dai
cani, o venivano crocifissi o si bruciavano come fiaccole, affinché col calar
della notte, ardessero a guida di luci notturne. Nerone aveva offerto i suoi
giardini per questo spettacolo e celebrava giochi nel circo, mischiandosi alla
plebe in veste di auriga… Benché si trattasse di rei, meritevoli di pene d’una
atrocità senza precedenti, sorgeva nel popolo la pietà per quegli sventurati
poiché venivano uccisi non per il bene di tutti, ma per la crudeltà di uno solo
“[32].
Suscita stupore che uno storico quale
Tacito, che vanta di descrivere i fatti dell’Impero “senza ira e senza
pregiudizio”, arrivi poi a tante incongruenze.
Vediamo, e sempre che il testo inserito a questo punto sia veramente
suo: egli ha taciuto dei Cristiani fino
ad allora. Non ne accenna né nella parte
destinata a Tiberio, né in quelle successive a Caligola e Claudio. I Cristiani appaiono già come “moltitudine immensa”, mentre prima non si
parla neppure di uno o di due (Pietro e Paolo, tanto per citarne i nomi più
celebri). Del numero dei Cristiani non
si accenna, nemmeno in modo sommario, né negli “Atti degli Apostoli”, né nella “Lettera
ai Romani” di Paolo. Quanti erano
? Qualcosa se ne potrebbe calcolare
nelle catacombe più antiche, ma quanti
in realtà potevano essere sfuggiti alle persecuzioni ed essere sepolti in tombe normali, poi distrutte ? Vengono descritti come criminali e “nemici
del genere umano”, ma la misantropia era
caratteristica di altre fedi, soprattutto di teorie filosofiche, piuttosto che
religiose (essere nemici degli uomini ed insieme predicar loro è un’evidente
incongruità). I Cinici potevano essere
considerati tali: ricordo solo Diogene
di Sinope che cercava uomini con la lanterna,
visto che i circostanti non erano tali per lui. E nondimeno Tacito non critica altrettanto i
Cinici. Trova i Cristiani meritevoli di
pene orribili, senza affatto spiegarne la ragione concreta, poi però riconosce che il popolo, che sembrava odiarli
ferocemente, comincia a commuoversi, se
non a convertirsi, proprio quando li vede trattati con questa crudeltà da pazzo
sanguinario, piuttosto che da serio imperatore.
La loro persecuzione viene così ritenuta, anche dal popolo, iniqua in quanto applicata per il puro
spirito di vendetta e di sterminio, da parte di Nerone. Di Cristiani poi non si parla più, il che è
pure strano. Improvvisamente appaiono, improvvisamente scompaiono nella
narrazione tacitiana, e lo stesso dovrà dirsi per quella svetoniana. Ciò fa
supporre che si tratti di interpolazione oppure di modificazione del testo
originario per dare maggior peso a
qualche episodio singolo.
Sebbene non interessante direttamente la
questione cristiana, occorrerà fare
qualche riferimento alla congiura di Gneo Pisone, nella quale i metodi
repressivi di Nerone dovettero essere più moderati, necessariamente trattandosi
di cittadini romani e non di poveri e recenti immigrati ebrei, di fede mosaica oppure cristiana. La congiura fu ben più pericolosa per Nerone
che non la presunta azione incendiaria dei Cristiani,in quanto comprendeva
senatori, cavalieri, militari e donne.
Si tratta forse di un tentativo di
restaurazione repubblicana, organizzato da questi partecipanti, tutti
altolocati, vari ricchi, filosofi, artisti, poeti. Tra questi si troveranno uomini come Lucano e
Petronio, ma anche l’antico maestro di Nerone, il maggior filosofo neo-stoico
Lucio Anneo Seneca [33]. Dopo una
preparazione quasi casuale e molto incerta,
si programma un’azione non dissimile da quella avvenuta contro Gaio
Giulio Cesare: avvicinarlo con l’inganno
e poi aggredirlo improvvisamente. Ma
l’uomo propone e Dio dispone. Un tale
Milico, liberto, riceve l’incarico di
far affilare un pugnale, e questo Milico denuncia allo stesso Nerone il piano
della congiura. Da qui cominciano i
primi interrogatori:
“56. A questo punto si chiama Natale e vengono
interrogati separatamente… Allora sorsero sospetti, perché avevano dato
risposte contraddittorie, e furono messi in catene. Alla vista degli strumenti
della tortura [stavolta evidentemente minacciata a
cittadini romani, quantunque illegale ] e
delle minacce non ressero. Per primo
parlò Natale… Confessò per primo il nome di Pisone, poi aggiunse quello di
Anneo Seneca… Scevino rivelò altri nomi…
Lucano e Quinziano e Senecione negarono a lungo; poi, attratti dalla promessa
dell’impunità [vecchio trucco inquisitorio, utilizzato tuttora], per farsi perdonare il lungo ritardo della
confessione, accusarono Lucano la madre Acilia,
Quinziano e Senecione gli amici intimi, Glizio Gallo e Asinio Pollione”
[34] .
Va sottolineato che, nella serie di
tradimenti e di confessioni o di calunnie (evidentemente non potevano mancare
anche quelle) a far la figura migliore non sono gli uomini che finiscono per
confessare uno dopo l’altro, ma le donne. Altissimo esempio Epicari, liberta,
una delle congiurate più entusiaste, catturata e prigioniera, dopo aver subìto
atroci torture, si impicca con la fascia
reggiseno. Tra i pochi ad affrontare la
morte con dignità sono Seneca che si tagliò le vene delle braccia e delle
gambe, e lo stesso tentò di fare la moglie Paolina, ma faticò a morire, se non con l’applicazione di veleno
e di forti vapori caldi; e il sarcastico Gaio Petronio, l’autore del “Satyricon”
, in cui nella figura del liberto Trimalchione pare beffeggiare lo stesso Nerone, a cui manda - si presume – quello scritto, proprio in
prossimità della morte, si svena
nell’acqua calda con la sua schiava prediletta.
L’inquisizione e le morti si susseguirono, con forse minore ferocia
rispetto alle cose orripilanti contro i Cristiani, ma certo con più sistematica
e persistente azione, che ha natura
essenzialmente inquisitoria. . Ma
anche la fine di Nerone era prossima (Libro XVI).
I
giuristi, legati allo studio del Corpus Juris Civilis di Giustiniano, e delle leggi ad esso
collegate, anche penali, hanno la beata
ingenuità di ritenere che i processi civili e penali funzionassero come
descritti, ma non si sono mai dedicati ad uno studio delle narrazioni storiche
e dei fatti che avvenivano realmente, dove si vede che il rito accusatorio era
sì quello legale nei tempi repubblicani
e di inizio Impero, ma già con la prima congiura il processo veniva svolto con metodi
inquisitori fin dall’inizio della storia
giudiziaria romana, e infatti Cicerone nelle Catilinarie ne fa un’entusiasta esaltazione per giustificare poi i
suoi stessi abusi. E’ chiaro che all’abuso segue l’abuso in
crescendo, per cui la fine della Repubblica
è dovuta ad azioni e reazioni di questo tipo che fanno della legge una pura predicazione verbale, e non
struttura viva delle Istituzioni.
Direttamente dei Cristiani non parla più,
nemmeno nelle “Storie”, opera che ci
è giunta frammentaria. Di questa è interessante che nel Libro finale si diffonde sulla celebre
guerra in Giudea, narrata anche da Giuseppe Flavio. E’
però curioso che, mentre in quest’ ultima, l’autore si esalta come
condottiero e poi come consigliere di Vespasiano e Tito, in Tacito di Giuseppe non si parla
affatto. Eppure vi si dà una descrizione
abbastanza precisa della religione e dei costumi ebraici (Libro V, capitoli 1 - 13).
Per trovare un nuovo riferimento ai Cristiani e ai Giudei stessi occorre
rifarsi alla “Chronica” di Sulpicio
Severo, dove si riassumerebbero le parti perdute delle “Storie” di Tacito. Al
nostro fine risulta interessante un riferimento al rapporto Cristiani-Ebrei che
dimostra quanto le due confessioni religiose venissero considerate molto
vicine:
“…
Si racconta che Tito, tenuto consiglio, abbia , in un primo tempo, dibattuto se
un tempio, che tanto lavoro aveva richiesto per la sua costruzione [doveva
trattarsi del celebre di Salomone],
dovesse essere distrutto Qualcuno
riteneva che non fosse opportuno demolire un santuario… salvarlo voleva dire
lasciare un documento della moderazione dei Romani… Altri invece (e lo stesso
Tito era di questo avviso) ritenevano
che distruggere il tempio fosse un obbligo primario al fine di sopprimere più
radicalmente le religioni di Giudei e Cristiani: si trattava di due religioni, a dire il vero,
ostili l’una all’altra, ma comunque
partite dagli stessi fondatori. I
Cristiani erano in fondo una setta dei Giudei:
tagliata la radice, anche il tronco si sarebbe facilmente seccato”
[35].
Strana ingenuità, perché non avvenne né per
gli uni, né per gli altri; avvenne semmai l’esatto contrario, con la
dispersione di Ebrei e di Cristiani nell’Impero. Pare che allora non si fosse capita la
differenza fondamentale tra i due gruppi, ancorché allora fossero ambedue
limitati alla Palestina, che i Cristiani avevano una carica di convertibilità
di altri popoli, che invece al Mosaismo mancava.
§ 2.
I CRISTIANI, SECONDO
SVETONIO.
Svetonio
dedica ai Cristiani ancor meno spazio di quanto avesse fatto Tacito, ma
forse presenta minor rischio dell’interpolazione successiva. Più che storico, Svetonio è una sorta di
cronista e un biografo amante del pettegolezzo e dedito, più che ai grandi problemi
politici dello Stato avviatosi a lento disfacimento, ai vizi personali, specialmente sessuali,
degli imperatori: per questo è
presumibile che quanto dice dei Cristiani non sia stato modificato. Un primo cenno, alquanto dubbio, si ha nella
descrizione della vita di Claudio:
“…
Espulse da Roma i Giudei, che provocavano continui tumulti per istigazione di
Cresto…” [36].
Il fatto dovette
avvenire nel 49 d. C: il “Cresto” di cui si parla, in latino “Chrestus”, venne poi – su indicazioni di comodo di
Giustino, Tertulliano e Lattanzio - identificato
in Cristo, il che però è dubitabile se si pensa che poi Svetono nomina i “Cristiani” con la “i”,
non con la “e”. Faccende di
pronuncia o di trascrizione da una lingua straniera al latino ? D’altronde, il fatto stesso che si parli di
tumulti e di un personaggio dato per vivo e non per morto (e risorto),
dimostrerebbe che non c’è alcun legame tra le due cose, o perlomeno che è
impossibile dimostrarlo.
Svetonio parla ancora di Cristiani in
occasione delle persecuzioni, ma senza collegarle - come Tacito
- agli incendi, che vengono viceversa da lui attribuiti a Nerone stesso,
voglioso di pessime ispirazioni materiali per il suo poema sull’incendio di
Troia :
“
XVI. 2… si condannarono al supplizio i Cristiani, genere di persone dedite a
una nuova e malefica superstizione… “ [37].
Tutto qui: nulla è spiegato in che cosa consistessero le
manifestazioni di questa “malefica
superstizione”. Svetonio, che pure
accusa Nerone di ogni turpitudine, sembra quasi dargli ragione. Ordini ufficiali ? Timori di passare altrimenti per cristiano
? Chi lo sa, certamente
tra questi signori
pre-giudicavano i Cristiani in questi termini, il che è abbastanza
impressionante, se si pensa che in religione i Romani passavano per
“tolleranti”. Dopo questo, non un
cenno, pur arrivando fino ai Flavi e, in particolare, fino a Domiziano.
§ 3.
I CRISTIANI SECONDO
PLINIO E TRAIANO
Traiano
è certamente considerato tra i più importanti imperatori, colui che
estese l’Impero alla Dacia (attuale Romania) e
all’intera Mesopotamia. Un
imperatore proprio nel senso romano del termine, ossia degno di trionfi e
formidabile comandante. Quindi
tutt’altro che un Nerone. Imperatore
adottivo ed eletto, viene inserito nella dinastia degli Antonini a partire da
Nerva. Siamo ormai nel II secolo d.
C. Malgrado le ottime qualità dell’uomo,
nondimeno considerò i Cristiani con non minore asprezza dei suoi
precedessori. Resta a proposito uno
scambio di lettere tra lui e Plinio il Giovane sulla procedura da utilizzare
nei confronti dei Cristiani: tale carteggio esiste ancora ed è stato anche
pubblicato e tradotto, ma è di difficile reperimento, e devo limitarmi a brevi
citazioni. Plinio, allora procuratore
imperiale in Bitinia (nell’attuale
Turchia), chiede disposizioni a Traiano,
di cui era ammiratore, tanto da dedicargli un “Panegirico”, discorso di esaltazione anche quello rimastoci, sul sistema di indagine e di repressione, da
eseguire con i Cristiani, a suo dire ormai molto diffusi (già, ma mai che si
dica una qualche cifra sia pure approssimativa):
“…
questa contagiosa superstizione non si limita soltanto alle città, ma è diffusa
anche nei villaggi e nei distretti rurali;
sembra possibile, tuttavia, frenarla
e curarla…” [39] .
Traiano risponde, elogiandone
l’attenzione :
“
Hai seguito il giusto corso, mio caro Plinio, nell’investigare i casi di quelli
che ti erano stati denunciati come cristiani.
Non è possibile stabilire una
regola universale… in tutti i casi di questa natura. Non si deve ricercare questa gente, ma se
vengono denunciati e trovati colpevoli [mai si capisce di che
cosa esattamente: di quale reato potevano
essere accusati, non veniva mai spiegato.
Non pare che il solo essere o dichiararsi cristiano potesse essere definito un reato, neppure
come abuso legislativo], debbono essere
puniti, con questa avvertenza, che quando la persona nega di essere cristiana ,
e riesce a provare di non esserlo, adorando gli dèi, sarà perdonata per il
pentimento dimostrato, anche se in precedenza
abbia destato qualche sospetto. Però accuse fatte sotto forma di lettere
anonime non debbono essere ammesse come prove contro nessuno, perché
rappresentano un pessimo precedente e non sono consone con lo spirito del
tempo” [39].
Pur nella brevità dei riferimenti, si capisce
che la procedura utilizzata contro i Cristiani
è nettamente inquisitoria,
anche sotto Traiano, di cui Tertulliano
più tardi sottolineò la contraddittorietà.
Pretende che non siano preventivamente perseguitati, ma poi ne accetta le
denunce, sia pure sotto la garanzia del divieto dell’anonimato, L’indagato/imputato deve riuscire a provare
di non essere cristiano, oltre che a parole,
anche sacrificando agli dèi.
E’ probabile che non tutti
avessero vocazione al martirio, e perciò facessero apostasia o dicessero di non
esserlo mai stati. Né
Plinio, né Traiano sembrano rendersi conto che quel sistema di
repressione, non giustificato da colpe precise, non faceva che spingere altri alla
conversione. Sienkiewicz, nel suo “Quo Vadis”, spiega magistralmente il
passaggio psicologico alla conversione proprio nel mezzo filosofo e mezzo
sofista, e spia, greco, Chilone
Chilonide, quando dopo aver denunciato i Cristiani come autori dell’incendio, viene ospitato alla corte di Nerone e deve
assistere agli strazi dei Cristiani. Il
coraggio indomabile di questi, la loro gioia nell’affrontare la morte pur nella
sofferenza, lo fa pentire ed egli stesso accusa Nerone di orrore criminale e di
essere il vero incendiario. L’imperatore
quindi lo fa prima bastonare, poi trascinare alla croce. L’uomo che non è un eroe, piange, ma non
rinuncia alla sua nuova fede, che
proclama come può fino alla morte. Come
dirà non meno magistralmente Tertulliano (lo citerò nell’ultimo capitolo), il
sangue dei Cristiani era seme di nuove conversioni al Cristianesimo, come
del resto lo stesso Tacito aveva
intuìto. E nondimeno gli
imperatori seguirono la loro cattiva indole
fino a tutto il III secolo.
§ 4.
I CRISTIANI SECONDO CELSO .
Sui motivi di opposizione al Cristianesimo
scrisse un’opera “Contro i Cristiani” il filosofo neoplatonico, di
cui pure sono rimasti altri lavori, Porfirio, ma è andata distrutta per ordine
degli imperatori nel V secolo d. C. Lo
stesso dicasi per la correlativa opera di
Giuliano l’Apostata che, nato da Cristiani, si convertì al laicismo neoplatonico e tentò
vanamente di ripristinare la fede
politeista (non perché convinto di questa, ma per limitare l’espandersi
del Cristianesimo, non dimentichiamo allora diviso in varie tendenze, quasi tutte poi definite
eretiche e a loro volta perseguitate e represse). L’unico lavoro che ci resta è, grazie alla
confutazione del filosofo Origene nel III secolo d. C. contro il libro “Della Verità” di questo non ben
identificato Celso, che ho citato nel precedente saggio sui due Jehoshua. I riferimenti riportati da Origene
costituiscono ora una sorta di riassunto delle tesi laiche e politeiste contro i Cristiani. Finalmente, con Celso si ha almeno una descrizione di
tutto ciò che per i Romani laici o religiosi suscitava scandalo, ma va
sottolineato che la sua è una critica di natura razionalista e solo
genericamente religiosa :
“(IV,
69) Il mondo sensibile non è un dono dato all’uomo, ma ciascuna cosa
nasce e perisce secondo quella vicenda… di trasformazione dell’una nell’altra,
in vista della conservazione dell’universo [dottrina
neostoica, presente anche in Seneca, che prelude al celebre “nulla si crea, nulla si distrugge, ma
tutto si trasforma”, di Lavoisier]…
(IV,
71) Gli Ebrei e i Cristiani attribuiscono a Dio collera e minacce, (IV, 72),
cioè le umane passioni…
(IV,
74) Affermano dunque che Dio ha creato ogni cosa per l’uomo. Ma in realtà ogni cosa è nata non più per gli
uomini che per gli animali…
(IV,
99) Dunque, non per l’uomo sono state
create tutte le cose…, ma perché questo universo, quale opera di Dio,
riceva da tutte quante le parti
completezza e perfezione. A questo fine
tutti gli enti sono commisurati… ognuno all’universo. E’ di
questo che Dio si prende cura, non abbandonandolo con la sua provvidenza. Né Dio si adira a causa degli uomini come non
si adira nemmeno per le scimmie e per i topi [Celso è su posizioni eclettiche, per certi
versi vicine al neoplatonismo, per altre al neostoicismo. Per lui, Dio
è Entità impassibile, non antropomorfa, Provvidente, ma per tutti gli
enti da lui creati, in modo uguale, e
non sceglie l’uomo, neppure in quanto essere razionale, come prevalente
rispetto agli altri]…
(V,
14) Altra loro stolta credenza è che, quando Dio, quasi fosse un cuoco, avrà
acceso il fuoco, tutto il resto dell’umana stirpe sarà abbrustolita, e loro
soli resteranno, e non solo i vivi,, ma
anche, risorti con quelle stesse carni dalla terra, quelli che… morirono. Solo i vermi potrebbero nutrire tale speranza
. Infatti quale anima umana potrebbe
desiderare ancora un corpo putrefatto ? [Celso fa qui una
satira della dottrina, farisaica e cristiana,
della resurrezione dei corpi, cosa che sappiamo non condivisa dai
Sadducei, e che ha quasi certamente origini egizie: la mummificazione doveva servire a preservare
il corpo dalla putrefazione appunto per consentirgli di risorgere]…
(V,
25)….. ogni popolo ha ritenuto di
seguire una consuetudine propria ed è necessario conservare i princìpi vigenti
nella comunità… Sarebbe un’empietà sovvertire le istituzioni originarie dei
vari luoghi [questa la motivazione della cosiddetta
“tolleranza” pagana]…
(V,
41)… Se dunque gli Ebrei difendessero la loro particolare tradizione
nell’ambito di tale atteggiamento, non sarebbero da biasimarsi, ma piuttosto…
coloro che hanno abbandonato le proprie tradizioni ed hanno assunto quelle
degli Ebrei…
(VI,
7a) Ora, i Cristiani non solo hanno frainteso Platone ma pretendono pure una
fede immediata , mentre invece Platone dice che ‘quando si usi il metodo delle
domande e delle risposte’, a quelli che seguendo i suoi princìpi si impegnano
nella filosofia, ‘si illumina la mente’…
(VI,
8)… Platone non va predicando prodigi e neppure chiude la bocca a chi vuole un
ragguaglio sulla natura di quanto egli professa, e neppure pretende una
immediata e preventiva fede…
(VI,
10 c) I Cristiani invece, a tutti quelli che loro si accostano, dicono: ‘Prima
di tutto devi credere che colui che ti presento è il figlio di Dio…
(VI,
12) I Cristiani sostengono che la sapienza umana è stoltezza
davanti a Dio… essi vogliono trar dalla loro solo gli incolti e gli stolti…
(VI,
38 b) Fanno inoltre di una certa magica
stregoneria e questo per loro è il culmine della sapienza… (VI, 41)
A tal proposito dirò che un certo Dionisio,musico egiziano… a proposito
delle arti della magia, mi disse che essa esplica il suo potere sugli incolti e
sui corrotti, mentre non è in grado di far nulla di fronte a chi si è dato alla
filosofia… ad adottare una sana regola di vita…” [40].
Intanto,
qui è interessante notare come la magia venisse criticata da Celso e anche
considerata, in certe sue forme nocive,
come un reato già dall’antica Roma non cristiana; che uno dei capi d’accusa fosse dunque quello
di dedicarsi a forme nocive di magia;
che Celso è su un fronte opposto
al pur “pagano” Lucio Apuleio, anch’egli accusato di magia, e che per questo
accosterò in un singolare confronto processuale con Tertulliano. Va detto qui però che Apuleio ebbe un
processo di tipo accusatorio, e non inquisitorio, come avveniva per i
Cristiani. Il riferimento alla
magia è fondato su certi metodi
taumaturgici o miracolosi, sia da parte di Gesù Cristo, sia di molti Cristiani
(come Pietro e Paolo). Le guarigioni,
che Celso sottolineava come avvenute con gente ignorante e non certo con i
filosofi, avevano una natura di
suggestione psicologica, non
appartenente alla medicina allora (ed oggi) codificata, se non in misura limitata (l’uso
dei cosiddetti “placebo”, prodotti
innocui, ma che il malato crede terapeutici e ne ha effetti positivi).
“(VI,
60 a) Ma ancor più sciocco è l’avere assegnato alla creazione del mondo anche
un determinato numero di giorni prima che esistessero i giorni: e infatti come potevano esistere i giorni
quando il cielo non c’era ancora e la terra non era stata fondata e il sole non
faceva qui il suo giro ? [l’obiezione di Celso, in questo
caso, è logica solo in apparenza, a meno
di non ritenere la creazione dell’Universo in tutti i casi istantanea,
immediata, e non una successione di eventi.
Qualora egli, come tanti altri, ritenesse che la creazione è una
successione, nulla vieta di calcolare in “giorni” le varie tappe di questa
creazione. Il tempo, infatti, come atto
mentale e non reale, ovvero non connesso a fenomeni astronomici stellari e
planetari, essendo una dimensione
interiore logica della mente umana, esula da questi stessi fenomeni, e quindi
ogni fase creativa può essere chiamata “giorno”, non necessariamente dipendente dall’apparente
moto del Sole intorno alla Terra, non necessariamente dura 24 ore o quante ne
dura da ciascuna alba a ciascun tramonto (massime al solstizio d’estate, minime
al solstizio d’inverno). Viceversa, se
la creazione fosse stata ritenuta da Celso un atto istantaneo e completo (ma
questo non sembra, per quanto appare nella sua concezione della divinità),
allora qualsiasi “tempo” sarebbe fuori luogo.
L’idea del tempo sorge nella mente umana come misuratore dei fenomeni naturali regolari e ripetitivi.]…
(VI,
53)… Degno certo di grande venerazione
questo Dio che aspira ad essere padre di peccatori da un altro condannati, di
diseredati e, come essi stessi dicono, di ‘rifiuti’; questo Dio che non è in grado di riscattare,
una volta arrestato, colui che egli inviò per portarlo via di nascosto [riferimento
a Gesù stesso, proclamato dai Cristiani, in tutte le loro varianti, come Figlio
di Dio e da Lui inviato a redimere il peccato originale]…
(VI,
60 b)… consideriamo quanto sia assurdo un Dio… che in un giorno crei solo un
tanto, nel secondo un altro tanto ancora…; (VI, 61 a) e, dopo questo, proprio
come un pessimo artigiano, si senta stanco e provi il bisogno di starsene a far
nulla per riposare. (b) Ora al primo Dio non s’addice stancarsi, né operare
manualmente, né comandare… (VI, 63) Dio non fece l’uomo a sua immagine, perché
egli non è così fatto, né è simile ad alcuna altra forma; (VI, 64)… Neppure
dell’essere è partecipe Dio. (VI, 65) Da
Dio provengono tutte le cose, ma Dio non proviene da nessuna e nemmeno è
raggiungibile alla ragione [qui nella foga della polemica,
Celso si contraddice: se Dio fosse
inaccessibile in ogni forma alla mente umana come potremmo sapere che esiste, e
come sapremmo distinguere Dio da ogni sua creatura?] e nemmeno è nominabile [l’argomento dell’Innominabilità di Dio,
del resto prevista già dagli Ebrei e in parte definita all’inizio dei
Comandamenti, verrà ripresa poi dai Cristiani stessi e, in particolare, come si
vedrà da Giustino, pressoché contemporaneo di Celso. Ma se Dio è Innominabile, come mai lo
chiamiamo così, e non ne taciamo del tutto il Nome? Ma di che parleremmo allora ? ], perché Dio non patisce nulla che sia
compreso in un nome, essendo egli al di fuori di ogni passione [e sia pure in senso assoluto, infatti Dio è
chiamato diversamente secondo le varie lingue umane, ma l’idea di un Ente
Creatore, Intelligente e Volente, superiore ad ogni altro (come lo definì
Anselmo d’Aosta, il Maggiore Pensabile e quindi, per ciò stesso, Assolutamente
Esistente), è concetto comune a
qualunque popolo, fede o lingua in cui si esprima. Altra cosa, ovviamente, è questa o quella
idea umana determinata di Dio]…
(VII,
27) Essi parlano di Dio come se fosse
un corpo e un corpo di forma umana [ciò è interessante
rilevare perché non può essere accusato
di “politeismo e paganesimo” chi abbia
una concezione del tutto opposta all’antropomorfismo. Celso esprime una concezione filosofica
assolutamente monoteista della Divinità, Individuo (ovvero Indiviso) ma non Persona, ne
fa una Entità Pensante ed Agente priva
d’ogni materia e quindi di ogni forma fisica, eterna, qualcosa che può
avvicinarsi al Deismo moderno, sorto in Europa nella fase pre-illuministica,
soprattutto in Gran Bretagna con Herbert of Cherbury e con immediati precursori
da Giordano Bruno a Campanella, Miguel Serveto, i fratelli Socini, ecc. In effetti, tanto il neoplatonismo, quanto
il neostoicismo, con scambi reciproci, arrivano ad una filosofia religiosa e
teologica assolutamente più avanzata di
quella idea di Divinità a cui era giunto
il Cristianesimo, e che poi questo
superò appena nel Medioevo, anche attraverso la reinterpretazione della
filosofia araba ed ebraica, ambedue
fondate su un rigorosissimo monoteismo]. Se poi si chiede loro: ‘In quale sede voi
andrete e con quale speranza?’, essi risponderanno che andranno in un’altra
Terra, migliore di questa…
(VII,
32) Circa la resurrezione dicono che la
‘tenda’ dell’anima, della quale non vogliono essere svestiti, ma sulla quale vogliono
porre un altro vestito, è in rapporto col seme.
Ma essi parlano di resurrezione perché hanno frainteso la reincarnazione
[la
tesi della resurrezione dei corpi era già presente su fonti assai antiche negli antichi Egizi, e
tra i Farisei, diversamente dai
Sadducei. In effetti, l’interpretazione
da dare a questa “resurrezione” è
piuttosto difficoltosa ed assolutamente discutibile. Diverse sono la
resurrezione di Lazzaro (o anche della figlia del centurione), che si alza sano
con un corpo già in putrefazione, e
quella di Gesù, il cui corpo è simile a
quello precedente la sua crocifissione, tanto che ne porta ancora le piaghe
aperte, eppure non appare immediatamente
riconoscibile a nessuno dei personaggi
che lo incontra. Il corpo di Gesù
è, se così si può dire, di una sostanza immortale, non più fatto di materia fisica decomponibile, come la
conosciamo. Ora, come sarebbero i corpi
umani dopo la loro resurrezione ? Simili
a quello di Lazzaro (della cui fine poi nulla si sa) o simili a quello di Gesù
? La fede cristiana, espressa anche nel “Credo” di Nicea, fa supporre che la
loro natura ricorderà il fisico da vivo,
ma sarà della stessa sostanza immortale del corpo di Gesù risorto. E’
banale notare che, per qualunque razionalista, questa sia una fiaba non dissimile dalle
leggende greco-romane con dèi immortali, ma dotati di uno speciale corpo
fisico, con cui mangiano e bevono, ed hanno perfino rapporti sessuali e
procreativi. Partendo da simili
antropomorfismi sulla divinità, non era
impensabile trasferire tale natura super-umana all’idea di resurrezione, che
finisce per coincidere con una forma di metempsicosi o di reincarnazione]…
(VI, 36) Ma essi chiederanno ancora come
potranno conoscere Dio se non possono percepirlo coi sensi; prescindendo
dai sensi - essi dicono - non è possibile conoscere nulla. Ma questa
non è la voce di un uomo o dell’anima, bensì quella della carne. Ascoltino, tuttavia, se pure, razza vile e
legata al corpo come sono, sono in grado di capire qualcosa; se, chiusi gli occhi dei sensi, guarderete in
alto con la mente… desterete gli occhi dell’anima, solo allora vedrete Dio…
[queste obiezioni faranno il loro effetto, sia con Giustino, considerato il
primo filosofo cristiano, sia con i
successori di questo, i quali, del resto con una pregressa cultura
neoplatonica, capiranno la validità
delle critiche che i Neoplatonici e i Neostoici rivolgevano ai Cristiani
comuni o non intellettuali, viceversa molto legati alla pregressa cultura
politeista. Ed ecco come si passa ora,
dalle pesanti critiche di natura razionale alle motivazioni giuridiche
giudiziarie]…
(VII,
40) E per un siffatto inganno e per quei mirabili consiglieri, e per le magiche
formule che rivolgete al leone, all’anfibio e al mostro con testa d’asino [si
tratta di voluti fraintendimenti di certi simbolismi, non propriamente
cristiani, ma gnostici, che forse
trovano ispirazione in certi punti del Vangelo:
l’asino, la cui testa sarebbe stata adorata dai Cristiani, non è che
l’asinello della grotta che, col bue,
scalda Gesù, oppure l’asinello con cui Gesù entra trionfante in Gerusalemme] e a tutti gli altri divini custodi delle
porte, i cui nomi voi miserabili penosamente
apprendete in preda ad un cattivo demone, venite trascinati al supplizio
e crocefissi. (VII, 41 Ma se volete che
non vi manchino le antiche guide e gli uomini santi, seguite i poeti ispirati
da Dio, i sapienti e i filosofi, dai quali apprenderete molte divine
verità. (VII, 42) e a quell’illuminante
maestro che è Platone [che sia sua o che gli venga attribuita da Origene o
da successivi copisti, accostare la
filosofia platonica a quella di antichi poeti (evidentemente Omero ed Esiodo) è una patente contraddizione, visto che alla
mitologia poetica spetta proprio la raffigurazione fisica e psichica degli dèi,
nel senso antropomorfico, che Celso stesso rinfacciava ai Cristiani]…
(VII,
62)… essi non possono soffrire la vista dei templi, degli altari e delle statue
[come
gli Ebrei, i primi Cristiani sono ferocemente anti-idolatri. Non è dunque improbabile che a loro venissero
attribuiti danneggiamenti di templi o di statue, né è impossibile immaginare
che alcuni gruppi effettivamente lo facessero.
Oggi la cosa può stupire, visto l’uso di immagini sacre, ma nel Medioevo
nell’Impero di Bisanzio, su imitazione delle analoghe posizioni islamiche, vi fu la corrente degli iconoclasti, i quali appunto distruggevano le immagini sante, anche
su ordine di una serie di imperatori, attorno
all’VIII secolo, soprattutto con Leone III Isaurico]. Nemmeno gli Sciti tollerano
ciò, né i Nomadi della Libia, né i Seri [si riferirebbe ai Cinesi o a
qualche loro specifico gruppo, probabilmente zoroastriano] che non hanno dèi e nemmeno altre popolazioni completamente prive di
leggi e di religione. Anche i Persiani
hanno queste usanze…
I
Cristiani invece hanno in assoluto dispregio le statue. Sapienza davvero ridicola… Nessuno, se non
uno sciocco completo, stima Dèi questi oggetti e non invece offerte votive e
immagini degli Dèi… essi non s’accorgono di confutare se stessi nel momento in
cui dicono che ‘Dio fece l’uomo come sua propria immagine’…
(VII,
68) …
Tutto ciò che esiste nell’universo, sia esso opera di Dio o di angeli o
di altri demoni o di eroi, ha pur sempre la sua legge dal massimo Dio… Questo
essere dunque, che ha ottenuto da Dio la potestà, non otterrà giustamente un
culto da parte di chi venera Dio ? Ma
‘non è possibile’ dice Gesù ‘che la stessa persona sia serva di più
padroni’. (VIII, 2) Questo è parlare di rivoltosi [il neretto è
mio, per sottolineare il punto di grave frizione politica, tra Cristiani del II
secolo e “pagani”: per Celso che pure fa
proclamazione di impersonalismo assoluto di Dio, occorre aprire al politeismo,
ammettendo “divinità” e semidivinità, creature spirituali superiori all’uomo e
al “servizio” di Dio, in evidente autocontraddizione, che necessitano di culto. Il non
compierlo è addirittura considerato reato di rivoltosi o facinorosi]… poiché a Dio non può giungere né danno, né
dolore, è assurdo farsi lo scrupolo di render culto a più Dèi, come invece
avviene nel caso di uomini, di eroi e di dèmoni analoghi…
(VIII,
12) … ora essi rendono un culto esagerato a costui
[Gesù], comparso pur ora, e ciò nonostante
reputano di non commettere mancanza alcuna verso Dio se anche il suo ministro verrà
onorato…
(VIII,
17) Essi rifuggono dall’innalzare
altari, statue e templi. Questa loro
fede è la parola d’ordine di una segreta e misteriosa società. (VIII, 21) Dio è in realtà comune a tutti,
buono, esente da necessità ed estraneo ad ogni invidia. Pertanto nulla vieta che coloro che gli sono
particolarmente devoti partecipino anche alle pubbliche festività [qui dunque
Celso li accusa di separarsi da pubbliche cerimonie e festività religiose
tradizionali, di rendersi clandestini, misteriosi “settari”, come diremmo noi
oggi: in effetti non si rende conto che
le cerimonie religiose tradizionali e politeiste erano anche cerimonie spinte,
portate ai sacrifici di animali che, ormai, i Cristiani avevano rigettato, ritenendo che il Sacrificio dell’Agnello
avesse eliminato la necessità di ogni sacrificio cruento con animali, ancora
usato dagli Ebrei oltre che dai politeisti.
Simili cose, accompagnate anche da riti di tipo sessuale, dovevano
essere considerate peccaminose e blasfeme dai Cristiani. Di qui la separazione, che non è per nulla
assoluta, tanto è vero che le apologie della religione cristiana cominciano
largamente a diffondersi. Celso,
altresì, mescola, forse anche per ignoranza delle differenze, le procedure gnostiche con quelle più
rigorosamente cristiane. Ma l’uso di
misteri e di riti segreti era diffuso
anche fra i politeisti (pensiamo soprattutto alla dea Vesta e alle Vestali, ai
riti orfici e neo-pitagorici). Dunque,
come motivo di così atroci persecuzioni
era assai fragile]…
(VIII,
38) Ma i Cristiani dico: ‘Ecco qua! Mi metto davanti alla statua di Zeus o a quella
di Apollo… e la ingiurio e la percuoto:
eppure non si vendica contro di me (VIII, 39). Non vedi, dunque, caro mio, che anche al tuo
dèmone non solo si può… bestemmiarlo, ma si può persino bandirlo da ogni terra…
E si può mettere in catene te, a lui consacrato come una statua, e condurti al
supplizio e crocifiggerti. E quel…
figlio di Dio non prende le tue vendette! [assai magro
argomento, infatti, in quanto fondato solo sul predominio del più forte: quando i Cristiani avranno il sopravvento,
toccherà ai “pagani” a dover fare una triste fine, con metodi non
dissimili: pensiamo ad esempio alla
tristissima fine di Ipazia ad Alessandria, massacrata in quanto neoplatonica e
studiosa dell’universo !]
(VIII,
40) Ma - dice il sacerdote di Apollo e
quello di Zeus - ‘i mulini degli Dèi
macinano lentamente, e per i figli dei figli che un giorno nasceranno’ [altra idea comune a tutte le religioni: la divinità raramente o mai esegue con
immediatezza la propria volontà punitiva.
Il suo calendario non è quello umano, legato ad una breve vita del
singolo. Celso però applica questo corretto principio
solo ai Cristiani e non a tutte le religioni.
Quello che segue è ancora peggiore]…
(VIII,
41) … Invece, per aver torturato e giustiziato il tuo Dio quando era al mondo,
i suoi giustizieri non solo non ne hanno avuto danno alcuno allora, ma neppure
in seguito… E quale novità è accaduta allora per cui si possa credere che egli
non era un uomo impostore, ma il figlio di Dio ?... questi nostri Dèi si
vendicano e severamente di colui che li oltraggia, sia che per ciò egli fugga o
si nasconda, sia che venga preso e fatto perire [l’argomento
di Celso, tipico dei giuristi, è quello
della forza prevalente, una tesi che si ritorcerà inevitabilmente sia contro i
“pagani”, sia contro le minoranze
qualificate “eretiche”]…
(VIII,
54 a) Ma, mentre dovrebbero obbedire loro, (b) i Cristiani oltraggiano i dèmoni
di quaggiù (c) e sconsideratamente offrono il loro corpo alle torture e ad una morte crudele. (d) Ma se non amano la vita è perché sono come i
malfattori che affrontano, facendosene una ragione, le pene che patiscono in
punizione delle loro azioni brigantesche [qui, il
discorso di Celso è puramente sofistico:
il fatto di non adorare dèi, idoli o dèmoni, perché non si crede ad
essi, viene parificato al delitto e alle relative punizioni. A Celso sembra che i Cristiani affrontino
orribili sofferenze, non per manifestazione della loro fede, ma in quanto si
ritengano colpevoli di qualche delitto]…
(VIII,
55) Logica vuole che si accolga una delle due alternative; se si rifiutano di prestare i giusti atti di
culto e di onorare gli esseri che sovraintendono a queste umane attività, in
tal caso non debbono assumere la condizione dell’uomo adulto, né prender
moglie, né aver figli, né fare nient’altro nella vita, ma andarsene tutti
quanti, senza lasciare il minimo seme, perché sulla terra una tal razza possa
essere completamente cancellata [in effetti molti
Cristiani ritenevano cosa santa evitare
i rapporti sessuali, sposarsi o che altro, anche se Paolo aveva asserito che “è meglio sposarsi che bruciare” (di passione e all’inferno dopo morti). Origene arrivò all’autoevirazione pur di non
soggiacere agli istinti, sebbene l’evirazione serve a non generare, ma non ad evitare rapporti sessuali,
se è compiuta la maturazione sessuale;
infatti non solo i testicoli contribuiscono alla produzione di ormoni,
ma anche la prostata, per cui solo eliminando anche questa si dovrebbe
raggiungere anticipatamente la “pace dei sensi”]. Se invece prenderanno moglie,
avranno figli, gusteranno i frutti, parteciperanno alle attività della vita e
sopporteranno i mali ad essa imposti - è
legge di natura questa… - in tal caso
debbono rendere i convenienti onori agli esseri che a quelle attività
sovraintendono… Altrimenti appariranno anche ingrati verso quegli esseri… [poi
però aggiunge che a questi esseri superiori all’uomo, ma inferiori a Dio, il
culto è dovuto solo per gratitudine ed utilità materiale]. (VIII,
63 a)…Anzi, con questi dèmoni o senza dèmoni, l’anima sia sempre tesa a Dio [insomma, con aria un tantino sorniona, Celso sembra fare l’occhietto ai Cristiani,
dicendo loro: “Ma che male c’è ad
adorare questi esseri, questi dèmoni. Di
certo Dio non se ne scandalizza”]…
(VIII,
65 a) I Cristiani invece sono folli e
sfrenatamente si dànno a suscitare contro se stessi la collera di un imperatore
o di un potente, collera che li porta ai maltrattamenti, alle torture ed anche
alla morte.
(b)
Perché non vuoi giurare sulla fortuna dell’imperatore ? (VIII, 66)
Se tu fossi un adoratore di Dio e ti si ordinasse di commettere
un’empietà o di pronunziare una parola turpe, mai e in nessun modo dovresti
lasciarti convincere, ma piuttosto che commettere un’empietà contro Dio, non
dico con la parola, ma nemmeno col pensiero, dovresti esser pronto a resistere
ad ogni tortura ed affrontare ogni tipo di morte [Celso, dunque, ammette il martirio qualora si
ordinasse al Cristiano di bestemmiare il proprio Dio, ma non certo per
celebrare la Fortuna o il Genio o la Divinità, che sia, dell’imperatore. Il punto di contrasto è proprio qui: per Celso, filosofo neoplatonico
eclettico, si può ben conciliare il
culto dell’Unico Dio con il culto minore
per varie entità spirituali; viceversa,
per il Cristiano di quel tempo, esaltare qualcosa che non sia Dio stesso è già una bestemmia verso Dio, che è Geloso,
come si qualifica all’inizio della Bibbia.
Il dialogo dunque non poteva che essere tra sordi]…
(VIII,
68) …
Sappi che, se cercherai di vanificare questo principio, giustamente
l’imperatore ti punirà, perché, se tutti facessero come te, nulla potrebbe
impedire che l’imperatore sia lasciato solo, che tutti i beni della terra
cadano nelle mani dei barbari più empi e selvaggi e che tra gli uomini non
sopravviva alcuna né della tua religione, né della tua veritiera sapienza.
(VIII,
69) E nemmeno mi verrai a dire che se i
Romani, dando retta a te…, invocassero il tuo Altissimo…, egli scendendo dal
cielo verrà a combattere in loro favore…
(VIII,
73) Vi esorto dunque a sostenere con
tutte le forze l’imperatore e ad impegnarvi insieme con lui nelle giuste
imprese, a combattere per lui, a
partecipare alle sue spedizioni, quando
egli lo richieda, a porvi al comando degli eserciti con lui, (VIII, 75) a
governare con lui la patria, se si rende necessario, e a fare questo per la
salvezza delle leggi e della religione…” [41].
Qui praticamente si conclude l’opera, così
come riportata da Origene. Ammesso che
Celso non sia un personaggio semi-inventato
(molte le sue contraddizioni), se ne deduce che egli è un funzionario, diremmo
quasi un burocrate, imperiale abbastanza servile. Certo, conosce bene tanto la filosofia, quanto
le tesi di Ebrei e Cristiani, di cui critica molti punti teologici e
mitologici, ma il suo obiettivo intrinseco non è quello di dimostrare l’intrinseca falsità o erroneità del
Cristianesimo, bensì la pericolosità politica che esso costituisce, sostenendo
la non adorabilità dell’imperatore, l’inimicizia verso tutte le altre religioni
di tendenza politeista, la considerazione dell’Ebraismo come “deicida”, a cui allora associa pure il governo romano, anche se questo non è reso
esplicito da Origene, governo che doveva
essere boicottato secondo le antiche profezie
- Daniele – e secondo l’Apocalisse
di Giovanni ed altre molte, apocrife.
Ma tale dottrina antigovernativa sparirà con l’affermarsi dell’Impero
Cristiano, più che con Costantino, con Teodosio e successori, mentre resterà
l’ostilità verso gli Ebrei per quasi duemila
anni. Celso crede di pretendere poco dai Cristiani,
rinunciando all’ostilità verso il Potere dominante, e non capisce che il
Cristianesimo ritiene (nel II e III
secolo, intendiamoci) tutto opera del Demonio
l’Impero Romano ed ogni altro Regno umano, che deve essere abbattuto da Dio stesso, tramite la Persona
di Cristo. Quanto questa dottrina sia
diventata, in quei primi secoli, azione effettivamente violenta è difficile
dire, mancandone ogni documentazione.
Sarebbe impensabile credere che non vi fossero moti fanatici e materialmente
violenti, come ve ne sarebbero stati di lì al IV – V secolo, ma dalla parte
opposta, tutta tesa alla glorificazione di coloro che assumevano il Potere con
la forza o l’inganno, o questo e quella insieme, si generalizzava a tutti i Cristiani,
pacifici e innocui cittadini per forza
di cose (anche il loro numero, essendo stato esagerato e senza contare le molte
divisioni interne, sembrava crescente fonte di pericolo), scatenando le periodiche e terribili
inquisizioni e persecuzioni. Come pur
vediamo anche in Celso, accuse precise e
meritevoli di punizione, non sembrano
risultare (mai dimenticare che si tratta di opera molto “ridotta”
rispetto all’originale, mentre
dell’opera originaria non abbiamo nulla,
così come quella di Porfirio o di Giuliano l’Apostata).
Ma il vero, e quasi incontrollabile timore
degli imperatori, cosiddetti “pagani” e
dei loro funzionari e sostenitori, consisteva (il che quasi certamente non
sarebbe avvenuto se a Roma fosse persistita la Repubblica [42]) nel fatto che i
loro traballanti troni potevano reggere solo finché le masse
continuavano a crederli dèi o semidei, esseri veramente divini, e che
senza questa povera disgraziata convinzione
l’Impero avrebbe perso ogni disciplina. In caso contrario, se il
Cristianesimo si fosse affermato come
religione prevalente o unica, l’Impero
stesso si sarebbe sfaldato. Insomma, per
dirla con linguaggio non propriamente storico,
tutta la forza dell’Impero e degli imperatori doveva fondarsi su una
“balla colossale”. Non era così, ma
proprio questo pregiudizio di fondo contribuì allora e anche più tardi, quando
ormai il Cristianesimo, sia pure ancora diviso,
si era affermato come Dottrina di Stato,
a non far reggere l’Impero specialmente in Occidente.
Capitolo Quarto
LA RISPOSTA CRISTIANA. LE APOLOGIE DI GIUSTINO
Ci si può chiedere perché, ad Impero Romano
ormai affermato, tanto i Vangeli quanto
le varie Apologie cristiane siano scritti in greco e non in latino. L’Impero Romano, in effetti era bilingue e
anche culturalmente si presentava sotto questo duplice aspetto. Tutti i grandi letterati romani, tra I secolo
a. C. e I secolo d. C., conoscevano il
greco altrettanto bene del latino (l’ho accennato parlando di Quintiliano). Tra le popolazioni, ad occidente prevaleva
il latino (sia pure con le varianti delle lingue d’origine), in oriente il
greco. La divisione dell’Impero, tra
occidente ed oriente, prima solo amministrativa ed organizzativa con
Diocleziano, poi sempre più politica ed istituzionale con la morte di Teodosio,
non era il capriccio di un qualche
imperatore, ma la raffigurazione di una realtà.
Questo in generale. La domanda
posta all’inizio riguardava specificamente le polemiche tra Cristiani e
cosiddetti “pagani”, espressa nel II
secolo essenzialmente in greco.
Questo avveniva per una ragione obiettiva, che confuta certe teorie su una rapidissima diffusione
del Cristianesimo in tutto l’Impero e che, ad esempio, vi fossero chissà quanti Cristiani da perseguitare.
Proprio dall’uso del greco in queste polemiche, si deduce che il Cristianesimo,
nelle sue varie interpretazioni, sètte ed eresie, era inizialmente diffuso
soprattutto in Oriente. Si è visto che
Plinio procuratore imperiale in Bitinia
parla di un crescente numero di Cristiani, ma non specifica quanti
nemmeno in modo sommario, ma la Bitinia era una regione, già regno ellenistico,
presente nell’attuale Turchia. Di una
certa diffusione del Cristianesimo in occidente si può parlare solo dal II
secolo avanzato, ed anche lì in modo
assai vago e, spesso, a scopi propagandistici (sia da parte “pagana”, sia da parte cristiana: la prima per segnalare un pericolo crescente
da reprimere, la seconda per farsene un vanto).
Di qui la ragione dell’uso del greco, molto diffuso nella metà
orientale dell’Impero. La stessa parola Vangelo o Evangelo, che
significa appunto “Buona Notizia, Buon
Messaggio”, è parola ricalcata dal
corrispondente termine greco. Detto ciò,
passiamo a spiegare in che cosa
consistette la Risposta Cristiana alle
aggressioni verbali e giudiziarie dei “pagani”.
Nel I secolo d. C,, a parte i vari testi del Vangelo (Atti degli Apostoli, Lettere ecc.), nulla fu prodotto dai Cristiani in propria
difesa. Lo stesso testo che abbiamo di
Paolo in propria difesa, contro l’azione
giudiziaria subìta in varie tappe, null’altro dimostra se non che egli era
cittadino romano e che aveva determinati diritti. Questo poteva affermarlo solo con imperatori
rispettosi della legge, ma immaginiamo che con un Caligola e con un Nerone farsi vanto di questo non serviva a nulla. Ad ogni modo non c’è un confronto
approfondito, che semmai riguarda gli antagonismi con gli Ebrei tradizionalisti
piuttosto che con la tradizione greco-romana.
L’azione di propaganda e conversione cristiana, per vari decenni, si
limitò alle classi inferiori del popolo, convincendoli a rinnegare il loro
politeismo, accettando ed insieme
ridimensionando tutte quelle immaginarie
entità, spesso trasformandole, a seconda
dei casi, in angeli e demòni, oppure in
santi protettori. La Madre degli Dèi venne facilmente trasformata in Madre di
Dio, con un lavoro che potremmo dire di sincresi religiosa. Gradualmente, anche l’anti-idolatria, di stretta
osservanza ebraica, finì per essere smorzata e trasformata, per cui le
raffigurazioni di profeti, di santi e di martiri, o l’uso di simboli (la
croce, Gesù Buon Pastore, ecc.) cominciarono a diffondersi e le ritroviamo soprattutto nelle
catacombe. E’ difficile ritenere che un politeista
diventasse cristiano, senza in certo modo utilizzare canoni e idee
precedenti. Il Cristianesimo
progressivamente riuscì, è vero, ad operare con l’esempio ammirevole del
martirio, ma pure con quest’opera di mescolanza ideologica, che alla fine
consentiva, ad un povero schiavo o a un semplice artigiano, di diventare
cristiano senza sforzare troppo la propria mente non esercitata al ragionamento
metafisico. Come testimoniano gli Atti degli Apostoli, l’opera degli Apostoli si svolse inizialmente
e prevalentemente nelle sinagoghe e nei luoghi dove si trovavano Ebrei (già largamente diffusi nell’Impero ben prima
della diaspora avvenuta dopo la
distruzione del 70 d.C. ad opera di Tito).
Con gli Ebrei c’era di che parlare e di che confrontarsi. Con altre popolazioni questo dialogo era
quasi a livello individuale e con gruppi estremamente ristretti. Sappiamo pure dai viaggi di Paolo [43] che egli
si recò in Grecia: ammesso che ciò fosse vero, dobbiamo immaginare che le sue frequentazioni
fossero rivolte soprattutto agli Ebrei ivi presenti, anche se non mancarono
incontri e scontri con gente di fede
diversa, soprattutto politeista. E’ pure curioso che Paolo arrivi in Italia, non
tanto intenzionalmente (doveva arrivare in Italia per esservi processato),
quanto a seguito di un naufragio e in condizioni non dissimili degli attuali
“viaggi della speranza” (Atti, 27 -
28). E, quantunque prigioniero dei Romani,
incontri e discuta con gli Ebrei sulle cause del suo arresto. Ivi nulla si dice sulla sua morte a Roma,
tanto è vero che nella Lettera ai Romani
(Ebrei o fedeli cristiani residenti in Roma [44]) dimostra che poi si era
allontanato dalla città. Tra l’altro di
tutto questo vago periodo compreso tra Atti ed Apocalisse, si parla spesso di contrasti con gli Ebrei,
praticamente mai con i Romani “pagani”, salvo l’allusione assai vaga, e
variamente interpretata, alla “nuova
Babilonia” e alle varie figure simboliche, la Bestia selvaggia, la Prostituta,
ecc., che forse rappresentavano per Giovanni evangelista e apocalittico la
città di Roma e il suo potere imperiale.
Il discorso
comincia a modificarsi appena nel II secolo d. C, in fase avanzata,
quando a convertirsi al Cristianesimo non è più
soltanto la povera gente di modesto livello culturale, ma veri e propri pensatori di livello filosofico. Il primo che ci è noto è Giustino, nato in Palestina nel 100 d. C., da coloni greco-latini immigrati dopo la distruzione di Gerusalemme. L’uomo si forma innanzitutto sulla base di
una filosofia neoplatonica e sarà proprio con questa che affinerà le proprie armi intellettuali contro il politeismo e contro la filosofia
classica greco-romana. A lui si devono
due Apologie e varie altre opere
scritte in greco [45], tra cui il “Dialogo
con Trifone”, in relazione però -
quest’ultimo - con la religione ebraica
tradizionale. Giustino poi, a 65 anni
d’età verrà condannato alla decapitazione.
Anche questo è strano in quanto di solito ci si raffigura la condanna ad beluas o ad leones, oppure alla crocifissione, per i Cristiani, oppure, quando si trattava di ergastolo, “ad metalla” (lavori forzati nelle miniere, come si osserva - in
chi l’ha visto - nel film “Barabba”,
da non prendere troppo sul serio, come
generalmente i films storici americani,
dove si vede Anthony Quinn, nelle vesti del vecchio ribelle salvato
dagli Ebrei, convertirsi progressivamente al Cristianesimo, senza che si sappia
la benché minima fonte storica di questa trama). Comunque sia
dalle varie agiografie cristiane non si ricava granché sulle esatte
ragioni della sua morte. Egli rivolse le
due Apologie all’imperatore Antonino
Pio, predecessore di Marco Aurelio ed imperatore per adozione (come da Nerva a
Marco Aurelio appunto, e con conferma del Senato), e allo stesso Senato. Cerca quindi un dialogo di tipo colto,
filosofico, cerca di porre la questione in termini comprensibili ai Romani di
una certa levatura intellettuale.
E’ pure un primo tentativo di
“compromesso” tra le due culture e i due atteggiamenti, tentativo del tutto
fallimentare, ma che prelude a quello avvenuto all’inizio del IV secolo ed
affermatosi pienamente con Teodosio.
Sembra anche un’implicita risposta alle critiche di Celso, che è grosso modo
suo contemporaneo, ma che non cita mai, probabilmente in quanto le
puntualizzazioni critiche che abbiamo visto in Celso dovevano essere presenti in altre opere o
atti giudiziari, successivamente distrutti
o perduti.
Ecco dunque l’inizio
della Prima Apologia :
“1. Presentazione e indirizzo.
All’Imperatore
Tito Elio Adriano Antonino il Pio, Augusto Cesare, e a Verissimo suo figlio
filosofo [si tratta di Marco Aurelio], e a Lucio filosofo, figlio naturale di Cesare e figlio adottivo di
Antonino il Pio, amante della cultura, al Sacro Senato, e a tutto il popolo
romano, per gli uomini di ogni genere ingiustamente odiati e perseguitati [ovviamente
intende i suoi correligionari, cristiani],
io, Giustino, figlio di Prisco e nipote di Baccherio, di Flavia Neapolis, città
della Siria in Palestina [i Romani avevano sottoposto amministrativamente
la Giudea ormai domata da Tito e poi da Adriano, denominata Siria
Palestina], io, che sono uno di loro,
ho composto … questa supplica.
2.
La retta ragione, la verità e la giustizia.
(1) A coloro che sono veramente pii e filosofi la
ragione impone di onorare ed amare solamente la verità, e di rifiutare le
opinioni degli antichi nel caso che siano erronee. La retta ragione, infatti, non solo impone di
non seguire chi predica o pratica contro giustizia, ma obbliga anche chi ama la
verità, in ogni modo, in ogni modo e a costo della vita, persino sotto minaccia
di morte, alla scelta delle cose giuste sia nelle parole sia
nelle azioni.
(2) Voi, pertanto, sentite dire ovunque che siete
considerati pii, filosofi, custodi della
giustizia e amanti della cultura: si
dimostrerà se veramente lo siete.
(3) Infatti ci rivolgiamo a voi, non per
adularvi… o per captare la vostra benevolenza, ma per chiedervi di formulare un
giudizio con l’acribia [per chi non lo sapesse: esattezza, estrema precisione] di un attento esame, senza pregiudizi e
senza voler compiacere gente superstiziosa, senza lasciarvi trascinare da un
comportamento irrazionale e da perfide
calunnie…
(4) Noi pensiamo, infatti, che nessuno possa
farci del male, a meno che non si dimostri che noi stessi ci comportiamo
male…: voi potete ucciderci, ma non
potete farci del male…” [46].
Giustino affronta dunque la questione, dopo
i soliti saluti formali apparentemente ossequiosi, in modo abbastanza
diretto: egli non parte da questioni di
fede religiosa che sapeva essere del tutto inefficaci con gli anti-cristiani,
laici o politeisti che fossero. Affronta
la questione sulla comune base della Ragione, così come intesa dalla filosofia,
ed invita i dirigenti dello Stato a fare
altrettanto, rifiutando pregiudizi e calunnie.
Un richiamo alla filosofia socratica, che poi si ripeterà, è la
concezione del “fare il male”, che non è un fatto fisico (si può anche essere
uccisi, ma non subire il male), bensì morale, spirituale, col peccato o con
l’illecito uso della forza. Giustino
anche oltre sottolineerà questa comune base di ragionamento fondata
sull’accettazione del principio socratico.
Subisce il male chi lo compie, non chi ne è materialmente vittima.
“
3. Accuse infondate ai cristiani.
(1)…
riteniamo giusto esaminare le loro accuse e poi, se si dimostrano fondate,
punire… i colpevoli; ma, se non si può
provare nulla, la retta ragione non permette di trattare in modo giusto uomini
innocenti… di trattare in modo ingiusto voi stessi che ritenete giusto
risolvere questi problemi, non … con passionalità.
(2)
… un’accusa è… giusta solo quando i sudditi sono chiamati a rendere conto della
loro irreprensibilità della propria vita e delle proprie parole, e, da parte
loro, quando i governanti emettono la loro sentenza mossi non da violenza e
sopraffazione, ma da pietà e sapienza…
(4) Il nostro compito, quindi, consiste
nell’offrire a tutti una presentazione della nostra vita e dei nostri
insegnamenti, per evitare che noi stessi paghiamo la colpa di errori commessi
da altri ciecamente…; il vostro compito, invece, consiste, come richiede la
ragione, nel dimostrarvi buoni giudici, dopo averci ascoltato.
(5) Senza giustificazioni, infatti, sarete di
fronte a Dio, se, dopo aver appreso come stanno le cose, non vi comporterete
secondo giustizia.
4. Il nome ‘cristiano’ non è una colpa.
[qui Giustino,
dimostrando la propria tecnica dialettica, respinge l’accusa che già nel nome
(ovvero, seguaci di Cristo) si rappresenti un primo delitto: infatti
associa il “cristiano” a quel “Chrestus, Chrestos”, già citato da
Svetonio, e sostiene che in greco tale termine significa “ottimo”] (1)… per quanto riguarda il nome, noi siamo ottimi
(chrestotatoi).
(2)
Ma, dato che non riteniamo giusta la pretesa di essere assolti a causa del
nome, quando… siamo cattivi, allo stesso modo, se non si trovano motivi di
ingiustizia a causa del nostro nome…, è vostro dovere battervi per non subire
una giusta condanna [da Dio] per aver condannato ingiustamente degli innocenti…
(4) E, infatti, voi non condannate tutti gli
accusati che vi compaiono dinanzi, se prima non è provata la loro colpa; invece, … voi accettate il nome come prova,
sebbene stando al nome, dovreste piuttosto condannare i nostri accusatori [Giustino
ha buona conoscenza della procedura penale ufficiale: penalmente, il reato ha validità
individuale, non si collega ad un nome che, anzi, in greco significherebbe “buono, ottimo” (chreston),
si condanna non sulla base del nome dichiarato o per una certa fede religiosa,
ma sulla base di obiettivi fatti penalmente rilevanti]…
(6) Al contrario, se qualcuno degli accusati
rinnega a parole, affermando di non essere cristiano, voi lo rimettete in
libertà, in quanto non c’è più nulla che provi la sua colpevolezza, mentre se
qualcuno confessa di esserlo, voi lo condannate per questa confessione: invece bisognerebbe esaminare la condotta sia
di colui che confessa sia di colui che rinnega, perché sia chiaro dai fatti che
genere di uomo è ciascuno…” [47].
Giustino
continua, con indiscutibile abilità di filosofo, rinfacciando agli accusatori di non tener conto delle dissolutezze narrate
sugli dèi dai poeti pagani (a partire da Omero ed Esiodo), e perfino su forme atee di taluni filosofi che invece vengono
apprezzati. Sostiene altresì che quelle
entità, a cui si attribuivano atti viziosi e violenze sessuali, erano non dèi, ma solo cattivi demòni,
smascherati da Socrate (!!!) e da Cristo.
Giustino, come farà poi una certa tradizione, vede in Socrate e in
Platone dei precursori della fede cristiana,
una cosa ben curiosa. Segue poi
la confutazione dell’accusa di essere “atei”, in quanto non politeisti, ma
monoteisti (invece, erano accusati di politeismo dagli Ebrei e da quei gruppi
cristiani che negavano la divinità di Gesù (ariani) o l’umanità di Gesù (monofisiti, precursori
degli attuali Copti).
“
6. L’accusa di ateismo e la vera
religione.
(1) Ecco l’origine del fatto che siamo
accusati di essere atei: ammettiamo di
essere atei rispetto a queste sedicenti divinità, ma non certamente rispetto al
Dio della somma verità, Padre della giustizia, della sapienza e delle altre
virtù [48]…
7. E’
giusto condannare i colpevoli e assolvere gli innocenti.
(1) Ma, si dirà, già alcuni arrestati si sono
dimostrati colpevoli.
(2) E, infatti, spesso voi condannate molti degli
accusati, quando ne esaminate la vita, ma non a motivo di coloro che erano
stati accusati in precedenza…
(4)
… riteniamo giusto che siano giudicate le azioni di tutti coloro che vi vengono
denunciati, in modo che sia condannato chi è giudicato ingiusto, ma non in
quanto Cristiano; e chi viene giudicato
innocente, sia liberato in quanto Cristiano che non ha commesso alcuna ingiustizia
[qui
Giustino cade in una posizione di comodo:
il cristiano, ammesso che abbia commesso un reato, non sia giudicato
quale cristiano; il cristiano innocente
sia assolto chiarendo che è un cristiano]…
9. Condanna dell’idolatria.
(1) Noi non onoriamo, né con sacrifici molteplici
né con corone di fiori, le effigi che gli uomini hanno plasmato, posto nei
templi e che hanno chiamato dèi, poiché sappiamo che sono oggetti inanimati,
privi di vita e che non hanno la forma di Dio (non crediamo infatti che Dio
abbia una forma sensibile [questo nel Cristianesimo più
antico, vicino ancora alle posizioni ebraiche nel merito; se Giustino avesse saputo che i futuri
Cristiani cattolici avrebbero creduto nelle varie Madonne di singole località, o nelle immagini di Gesù, pur qualificato
Dio, ma anche vero Uomo, sarebbe inorridito,
Una sorta di rivincita
dell’idolatria “pagana” proprio all’interno di coloro che avevano
preteso di schiacciarla !]…
10. La fede autentica in Dio.
(1) Ci è stato, invece, insegnato che Dio non ha
bisogno delle offerte materiali degli uomini, essendo evidente che è Lui che
dona ogni cosa [che curioso, è la medesima osservazione
di Seneca e di Celso: però, mentre
Seneca esclude qualunque forma di donazione,
Celso e, più tardi, la Chiesa
cattolica saranno favorevoli alle donazioni, se non a Dio, entità spirituali
minori, ai santi o alla Madonna, o altre
a favore dei “poveri” e per la
costruzione di chiese];… lui accoglie
soltanto coloro che imitano le perfezioni che sono in Lui, cioè la sapienza, la
giustizia, l’amore per gli uomini e tutto ciò che è proprio di Dio, a cui in
realtà non è appropriato nessuno dei nomi con cui lo si indica [49]…
(2) Abbiamo appreso, inoltre, che Lui, essendo
buono, in principio ha creato, per gli uomini, l’universo a partire dalla materia
amorfa [espressione interessante che parrebbe collegata piuttosto
alla concezione platonica del Timeo, che non alla concezione biblica, che prevede
la creazione dal nulla, e non da un qualche elemento di partenza, che è
concetto tipico della filosofia greca];
se questi si mostreranno, nelle loro opere, degni della Sua volontà, ci è stato detto che saranno elevati
a partecipare della Sua vita e della Sua regalità, resi incorruttibili e
impassibili…
11. I Cristiani attendono il Regno di Dio.
(1) E voi, avendo sentito che noi attendiamo un
regno, avete pensato… che noi parliamo di un regno umano, quando invece
parliamo del regno di Dio, come è confermato dal fatto che, quando veniamo
interrogati da voi, confessiamo di essere Cristiani, consapevoli che chi
confessa incorre nella pena di morte [Giustino, dopo aver
spiegato la fede basilare dei Cristiani, ora entra nel merito delle
persecuzioni di natura politica e
giudiziaria, ma segue cercando di spiegare che il cristiano cittadino fedele all’Impero, sebbene non
adori autorità umane o pretesamente
divine]. (2)… poiché le nostre speranze non sono rivolte al
presente, non ci preoccupa il fatto di essere uccisi, dato che in ogni caso si
deve morire [Giustino così sottolinea anche l’assurdità della pena di
morte, quale pena giudiziaria, in quanto
tutti i viventi sono, per ciò stesso, “condannati a morte”. E nondimeno anche il Cristianesimo, una volta
diventato religione di Stato, finirà per
applicare questa pena assurda].
12. La dottrina cristiana è utile allo Stato,
perché obbliga a vivere onestamente.
(1) Siamo vostri alleati e collaboratori in
vista della pace più di tutti gli uomini, noi che professiamo le seguenti
dottrine: che è impossibile che a Dio
sfugga il malvagio… ad ognuno è assegnata o la dannazione eterna o la salvezza…
(4) Sembra che abbiate paura del fatto che tutti
si comportino secondo giustizia, e che non abbiate più nessuno da punire; ma
questo sarebbe l’atteggiamento dei boia [i quali resterebbero
disoccupati e dovrebbero cambiare mestiere]…
(5) Noi che anche questa sia opera dei cattivi
demoni, che pretendono sacrifici e servigi [qualifica gli
dèi del politeismo come “demòni”, il che non era proprio diplomatico] dagli uomini che vivono irrazionalmente…;
ma non voi, che aspirate alla pietà e alla filosofia…
(6) E se, invece, anche voi, come gli insensati,
onoraste le usanze più della verità, fate pure quello che potete: del resto,
anche i sovrani che stimano l’opinione più della verità hanno un potere simile
a quello dei predoni nel deserto [qui Giustino, che
sembrava andare incontro a quegli imperatori che si atteggiavano a “pii” e a
“filosofi”, rinfaccia loro che certi metodi, fondati sulla sopraffazione,
appartengono piuttosto ai predoni che a capi di Stato. Anche qui non è proprio “diplomatico”]…”[50] .
Il filosofo cristiano procede poi con l’esposizione
di tutti quei princìpi e comportamenti, sollecitati nei Vangeli che fanno, in
realtà, del cristiano un vero buon cittadino, per nulla ateo, ma credente in un
Dio Padre e Creatore, nelle Tre Persone della Trinità, nella necessità di amare tutti, compresi i nemici,
di non abbandonarsi ai vizi ed alle lussurie sessuali, di non prestare ad
usura, di essere miti (qui le cose non
dovevano essere proprio tali per tutti i Cristiani così qualificatisi). Punto delicato, il divieto di giurare che
Giustino cita secondo l’indicazione evangelica, ma che poi - com’è ben noto - venne dimenticato dai Cristiani, che fanno
giurare con la destra sulla Bibbia (tra l’altro anche per cose nettamente
opposte alla Bibbia !!!):
“16. …
(5) Sul dovere di evitare ogni
tipo di giuramento, e di dire sempre la verità,
ha comandato questo: ‘ Non
giurate mai: sia il vostro dire sì, sì,
e no no; tutto il resto viene dal maligno’…” [51].
Più avanti richiama l’altra asserzione di
Gesù, ovvero di “dare a Cesare quello che
è di Cesare”, per cui, salvi i fatti religiosi, Giustino asserisce che i
Cristiani sono cittadini o sudditi fedeli, e riconoscono l’autorità imperiale
[52].
Suscita molto interesse, sul piano
storico, la lotta allora presente tra le varie interpretazioni della fede
cristiana, lotta che prelude alle future persecuzioni da parte degli
“ortodossi” (ovvero, di “retta fede”) contro quelle che vennero considerate
“eresie”. Ecco quanto scrive contro
Marcione che rigettava in blocco l’Antico Testamento e, del Nuovo, accettava
solo Luca e poco altro:
“
26. … (5) Ancora, in questi giorni, un
certo Marcione, originario del Ponto, insegna ai suoi seguaci che esista un Dio
superiore al Creatore: costui è
riuscito, presso ogni genere di uomini e con l’aiuto dei demoni, a far dire
bestemmie molti, a negare che Dio sia il
Creatore di questo universo, e a ritenere che ce ne sia un altro superiore, che
avrebbe creato le realtà superiori” [53].
Più avanti Giustino, col pretesto di giudicare dubbie le accuse, attribuisce a
questi cristiani marcioniti anche pratiche viziose, quali accoppiamenti
promiscui e pasti antropofagi, ovvero scaricando su questi “eretici” quelle pratiche malvagie, di cui i “pagani” accusavano i Cristiani.
Ovviamente, di eventuali scritti di questi Cristiani nulla ci resta,
essendo stati sistematicamente distrutti, come molte altre opere giudicate
eretiche. Si può supporre che la tesi di
Marcione avesse motivazioni diverse,
ritenendo che il Dio dell’Antico Testamento era ben diverso da quello
descritto nei Vangeli, era un Dio vendicativo e sterminatore; Marcione vuole spezzare ogni legame con la
religione ebraica, e quindi ne nega la validità. Inoltre seleziona Luca come unico vero evangelista,
forse perché a suo parere rappresenta meglio l’idea di un Dio Buono che
perdona. Naturalmente si tratta di
ipotesi su questa diversa interpretazione, più
“rivoluzionaria” del
Cristianesimo, che però non teneva conto
di quanto i Cristiani volessero trovare già nell’Antico Testamento gli annunci
della venuta del Messia, che fosse Dio stesso in quanto seconda Persona.
Togliere questo legame voleva distruggere ogni solidità della fede cristiana sulla base della fede
mosaica, l’impossibilità di controbattere gli Ebrei sulla base dello stesso
Testamento. Di qui la severa condanna
della Chiesa del tempo e di quella che avrebbe trionfato con Nicea, tanto in occidente che ad oriente
dell’Impero.
Ancora, Giustino attacca i costumi del
tempo di estrema dissolutezza, similmente a quanto fatto dai “pagani” Quintiliano e Seneca: “
27. I Cristiani sono lontani da ogni
prostituzione.
(1)
Quanto a noi… abbiamo appreso che è veramente da criminali esporre i neonati; in primo luogo, perché vediamo che vengono
avviati alla prostituzione, tutti, non solo le ragazze, ma anche i
ragazzi… ora allevano fanciulli,
unicamente in vista di questo turpe impiego;;
e, in questo modo, ci sono schiere di donne, di androgini e di
pervertiti che in ogni popolo praticano questo mestiere; (2) e voi intascate le
loro tasse, imposte e tributi, mentre sarebbe necessario estirpare questo
commercio…
(3)
E, tra quelli che praticano queste cose…, a volte c’è qualcuno che si accoppia
persino con il proprio figlio, o con un parente, o con un fratello.
(4) Altri fanno prostituire i loro figli e le loro mogli…” [54].
Un allegro ambientino l’Impero Romano,
com’era largamente confermato dalle varie parti, già nel II secolo della sua
esistenza ! E la cosa più dolente è che ci stiamo avviando anche
noi, come società occidentale, a questi larghi e “moderni” costumi. In effetti, nulla vi è da meravigliarsi che
un simile Stato crollasse davanti alle invasioni: ciò che può meravigliare è che, dai
tempi di Giustino, la parte occidentale reggesse per altri tre
secoli e quella orientale, bizantina, fino al 1473
(in realtà già da due secoli, con la IV Crociata, era stato disgregato e nettamente ridotto). Altra notizia interessante, per chi ritiene
che i Cristiani venissero perseguitati solo dai “pagani”, è quanto scrive Giustino a proposito della rivolta di Bar Kocheba (il Figlio della Stella,
l’ultimo grande ribelle ebreo anti-romano), avvenuta nel II secolo sotto
l’Impero di Adriano, il quale la soffocò, disperdendo gli Ebrei in modo
definitivo dalla Palestina:
“
31. … (6) Infatti, anche Bar Kocheba, il capo della rivolta dei giudei nella
recente guerra…, ordinava che venissero
condotti ad orribili supplizi solo i cristiani, a meno che non rinnegassero e
bestemmiassero Gesù Cristo… “ [55].
Dal che si deduce, per
l’infinitesima volta, come le religioni positive, soprattutto se fondate su una
classe sacerdotale, non sono mai state
di per sé tolleranti. Lo diventano solo
quando vi sono state costrette. Si
spiega altresì come, già nei primi
secoli dell’Impero, anche l’antagonismo tra Ebrei e Cristiani fosse molto elevato, e non solo a parole.
Tutto il resto di questa Prima Apologia risulta un sintetico, ma
insieme sistematico confronto con le
tesi e le profezie ebraiche, ed in parte con la filosofia greca (vista come una
distorsione della fede mosaica). Ciò farebbe
pensare, sebbene per nulla esplicitamente,
ad un confronto con l’opera di Celso, che fa - dal punto di vista “pagano” -
analoghe analisi .
La Seconda Apologia è specificamente
rivolta al Senato Romano, evidentemente per nuove norme o atti persecutori nei
confronti dei Cristiani, ma qui cita casi specifici:
“
1. Indirizzo e motivi della
richiesta.
(1) Gli avvenimenti accaduti nella vostra
città sia recentemente sia prima [tre casi più avanti
elencati], sotto Urbico [allora prefetto di Roma], o Romani, come anche le decisioni
irrazionali che, analogamente, vengono prese ovunque dai magistrati [l’irrazionalità
è uno dei fondamenti della prassi giudiziaria, allora come oggi], mi hanno costretto a scrivere questo
discorso per voi… e che siete nostri fratelli, anche se lo ignorate e non lo
volete, a motivo della grande stima delle vostre presunte nobiltà [ci si accorge
subito che la Seconda Apologia è ancor meno diplomatica della Prima]…
(2) … tutti gli altri, a causa della loro
ostinazione, dell’attaccamento al piacere,
e della difficoltà a rivolgersi al bene, e con essi i cattivi demoni,
che ci odiano e tengono soggiogati al loro servizio questi giudici, questi
magistrati diabolici [che succederebbe oggi se qualche
imputato scrivesse oggi tali cose ?],
sono pronti a ucciderci…
2. Tre casi di ingiusta persecuzione di
cristiani.
(1) Una donna conviveva con un uomo molto
lascivo, e lei stessa prima era dissoluta.
(2) Quando conobbe gli insegnamenti di Cristo, si
sforzò di vivere la temperanza, e tentò analogamente di convincere il marito ad
essere casto, proponendogli quel messaggio, e avvertendolo della dannazione del
fuoco eterno…
(3) Questi, però, perseverando nelle sue
depravazioni… finì per alienarsi la moglie.
(4) La donna, infatti, convinta che fosse empio
continuare a condividere il letto di un uomo che cercava con ogni mezzo il
piacere contro la legge di natura… decise di separarsi… [seguono,
da parte di familiari, tentativi di riconciliazione, ma il maritino, non potendo fare certe cose
con la moglie, andava a farle con altre]…
(6)…
si separò effettivamente da lui inviandogli quello che voi chiamate ‘atto di
ripudio’ [estremamente
interessante questa donna, cristiana sì, ma anche molto moderna che applica la legge sul divorzio o sul
ripudio, senza la tradizionale differenza tra il marito (che può farlo) e la moglie (a cui era più difficle farlo); probabilmente
il marito amava quelle azioni che si
vedono rappresentate in quadretti nel Lupanare di Pompei, e che la signora
aveva gradito finché la nuova fede non
la convinse della peccaminosità di quelle azioni. Oggi, la Chiesa Cattolica ed altre inviterebbero
la signora a pazientare su queste
abitudini, pur considerandole
peccaminose. Vediamo che, invece,
Giustino giustifica il divorzio per queste azioni].
(7) E quest’uomo, bello e buono, anziché
rallegrarsi del fatto che sua moglie, che prima si comportava con leggerezza,
abbandonandosi ad orge e ad ogni turpitudine [una coppia
veramente libera, e poi ci si lamenta dei nostri tempi scostumati !!!] in compagnia di servi e mercenari, avesse
smesso di praticare tutto questo…, dato che si era separata senza il suo
consenso, [invece di denunciarla per abbandono del tetto coniugale] ha sporto denuncia nei suoi confronti accusandola di essere Cristiana [il
neretto è mio: dunque, in questo, come
in tanti altri casi, l’accusa di cristianesimo veniva presentata per ragioni strumentali, ovvero per vendetta]…” [56] .
La storia ovviamente non finisce qui: la donna (di circa 2000 anni fa !) si
comporta con molta energia, così come faceva da scostumata, ora lo fa da libera
donna credente in Gesù: chiede all’imperatore
di poter concludere alcuni suoi affari (doveva essere - lo
si capisce - molto ricca), per poi potersi difendere senza
problemi. Questo rinvìo viene
concesso. Intanto, il marito se la
prende col presunto convertitore della donna, tale Tolemeo (evidentemente dal
nome, non romano) e lo fa condannare dal prefetto Urbico. Inoltre convince il centurione ad
interrogarlo solo su un punto, ovvero se fosse cristiano, cosa che Tolemeo
riconosce, e così viene messo in catene.
La cosa venne confermata nel nuovo interrogatorio, davanti ad Urbico che
condanna a morte Tolemeo solo per il
fatto di confessarsi cristiano, e non piuttosto adultero o omicida o
rapinatore. Un tale Lucio si permette di
criticare il prefetto per questo abuso,
che vìola le disposizioni di Antonino Pio e dei suoi vicari. Urbico gli chiede se fosse anche lui
cristiano, ed avendo Lucio ammesso questo, fa condannare a morte anche il secondo. Lo stesso avviene per un terzo che difende i
due precedenti. Peccato che di questa storia, partita in modo così piccante,
poi non si sappia che cosa succede alla donna che ha scatenato,
involontariamente, questo putiferio
[57]. Giustino si dichiara, egli stesso, in pericolo ad
opera di uno pseudo-filosofo (che egli qualifica filopsofo, con gioco di parole “amante
di chiacchiere, di pettegolezzi e di calunnie”), di nome Crescente che, con
la stessa denuncia, vuol mandarlo a morte (e infatti venne decapitato nel 165
d. C.). Tra l’altro, Giustino accusa Crescente di assoluta
ignoranza nel merito della fede in Cristo [58].
Il resto dell’Apologia
costituisce una ricapitolazione di parecchi punti della precedente, per cui
tralascio ulteriori citazioni. In
sostanza, il senso delle due opere di Giustino mira a sostenere l’assoluta
falsità delle accuse contro i Cristiani, il fatto che la loro fede e i loro
comportamenti siano assolutamente legali e non perseguibili, l’esigenza di far
conoscere ai potenti la vera natura della nuova religione, anche nella speranza
di convertirli alla nuova fede o, perlomeno, di rispettarla come molte
altre. Dialogo tra sordi, evidentemente,
che potrà poi diventare efficace solo quando sarà proclamata la piena libertà
di fede con Costantino. Ma,
successivamente ancora, la situazione si rovescerà completamente.
Capitolo Quinto
UN CONFRONTO PROCESSUALE: IL DISCORSO SULLA MAGIA DI APULEIO E L’APOLOGIA PER I CRISTIANI DI TERTULLIANO
Per taluni questo confronto potrebbe
apparire quasi “blasfemo”, e per certi versi lo è, ma siccome vi sono dei termini comuni
(abbiamo visto che una delle accuse ai
Cristiani era anche quella della magia e
del plagio sulle persone), anche Lucio Apuleio, scrittore di romanzi come “L’Asino
d’oro” “Le Metamorfosi” e di testi
di natura filosofica su Platone e
Socrate, faceva anche ricerche che oggi
qualificheremmo di tipo biologico, ma che allora erano considerate
magiche, venne accusato appunto di aver
sposato una donna convincendola con tali pratiche. Da un punto di vista puramente tecnico, c’è
una grande differenza, perché, mentre l’apologia di Apuleio ha fini di difesa
individuale, quella di Tertulliano ha,
diremmo oggi, lo scopo di una “class
action”, una difesa di gruppo, anzi
di una religione che allora appariva nuova, misteriosa e pericolosa. Il periodo storico è il medesimo (II secolo
d. C.) e vicina la zona geografica,
trattandosi del nord Africa occidentale (grosso modo, dall’attuale Algeria alla
Tripolitania, il territorio dell’antica Cartagine); completamente diverso lo stile: Apuleio
usa largamente toni tra l’ironico e il sarcastico, ed è derisorio nel
confronto delle parti avverse; qualche
punta d’orgoglio e di fierezza dimostra
in difesa della filosofia soprattutto per gli studi naturali di cui egli
rivendica la validità sul modello della
filosofia naturale di Platone e di Aristotele.
Il discorso di Tertulliano è,
viceversa, quasi mai ironico, ma tragico, di forte rivendicazione della validità del
Cristianesimo e dell’esigenza di convertire anche i giudici alla nuova
fede. Ambedue i discorsi
sono letterari, nel senso che né l’uno né l’altro, così come si
presentano, furono mai pronunciati in un Tribunale, ma quello di Apuleio è prossimo allo stile
giudiziario, ha carattere di difesa in un processo di modello accusatorio: oggi potremmo considerarlo, più che
un’arringa, una “Memoria” da allegare a questa; mentre quello di
Tertulliano ha piuttosto carattere di pubblicità, scritto per i Cristiani
stessi e per tutti coloro che fossero interessati a conoscerne i dogmi di fede
e l’esempio di vita, ma inserito in un quadro inquisitorio. La differenza enorme è questa; che, sebbene Apuleio dimostri di conoscere
anche la fede ebraica (cita ad esempio Mosè,
in un quadro di sincretismo mistico religioso), non si proclama per nulla cristiano (non cita
nemmeno questa religione), quindi non subisce quel trattamento preventivamente
violento che subivano i Cristiani.
C’è nel suo tono un’aria beffarda
e sicura che viceversa è assolutamente
assente nell’Apologia di
Tertulliano, certa semmai del pericolo di sofferenze e di torture, e
dell’esigenza di martirio come manifestazione inderogabile di questa fede. Dunque diversissime opere, e nondimeno
interessante il confronto anche proprio per questa diversità di trattamento tra
l’uno e gli altri .
§ 1. IL “PRO
SE, DE MAGIA LIBER”, OVVERO “LIBRO
SULLA MAGIA, IN PROPRIA DIFESA”, DI
LUCIO APULEIO
Vediamo intanto l’antefatto: Lucio Apuleio aveva sposato una vedova di
nome Pudentilla, rimasta tale in ancora
giovane età (al momento delle seconde nozze aveva quarant’anni, sebbene con giochetti vari i
denunciatori di Apuleio, parenti di lei,
volevano farla passare addirittura per sessantenne): a spingerli al matrimonio era stato il primo
dei figli di lei. I parenti, timorosi di
perdere l’eredità in tutto o in parte, sollecitando lo stesso figlio, accusando Apuleio di aver operato con
pratiche magiche (vietate già dai tempi di Silla, nel I secolo a. C, con la
legge Cornelia sulla magia e gli avvelenamenti), soprattutto oggi diremo “magia
nera”, cioè a scopi criminosi. Lo scopo
criminoso, nel caso specifico, era un
altro reato che il nostro Codice Penale ha abrogato solo da pochi decenni,
ovvero il “pagio” (non nel senso di imitazione, ma di profonda suggestione
delle persone, tanto da orientarne lo stesso
comportamento personale: gli
stessi Cristiani - lo abbiamo visto
nella narrazione di Giustino - ne
venivano accusati, quando riuscivano a convertire qualcuno). Un tale reato poteva essere punito con la
morte sotto i Romani). Si approfitta del fatto che Apuleio faceva le
sue ricerche di natura biologica, in nome della filosofia, per accusarlo di tali pratiche che, del
resto, egli racconta anche nelle sue opere letterarie, come “L’Asino d’Oro” e “Le Metamorfosi”. Apuleio, sembra, si difende da sé senza un proprio avvocato, ma ha la fortuna di conoscere il giudice. Interessante è pure notare come ambedue le
parti cerchino di acquisirne il favore con frasi di”captatio benevolentiae”, ossia di elogio del giudice stesso, una
procedura che oggi non sarebbe ammessa, almeno apertamente (i nostri modi di acquisizione di tale favore
del giudice sono ben più sottili con
notevole lavoro di anticamera e di corridoio, o anche grazie ad un’opera
preventiva dei vari mezzi d’informazione, in parte esistenti anche allora [59]
ma indubbiamente di effetto assai limitato per ovvie ragioni). Il processo si svolge nella città di
Sabrata nella provincia d’Africa (l’antico territorio di Cartagine). Apuleio svolgeva anche attività di
conferenziere, amava viaggiare e questo
l’avrebbe trattenuto da legami matrimoniali, poi l’insistenza di Ponziano
figlio di lei e il buon carattere della donna lo spingono a sposarsi. Ciò susciterà
l’ira del padre del primo marito, tale Erennio Rufino, e di suo fratello
Sicinio Emiliano, zio dei due ragazzi.
Fra l’altro muore Ponziano, uno dei figli, quello stesso che aveva
consigliato il matrimonio, e arrivano ad accusare Apuleio anche di questa
morte, a nome dell’altro giovane Pudente.
Come si vede, gli argomenti della calunnia contro Apuleio sono vari
e, se il giudice non fosse stato, o
amico di Apuleio, o persona veramente
imparziale, i rischi di condanna a morte
c’erano tutti.
Una sola nota ancora, prima di passare ai fatti processuali, sia nel caso di Apuleio, sia in
quello di Tertulliano: qui siamo davvero di fronte a due grandi
oratori, non certo quegli imbonitori, scorretti e semianalfabeti, che la
pubblica opinione dei nostri tempi, servile e rozza, fa passare per “grandi
comunicatori”, e sono soltanto dei
gracchianti stonati, blateratori di slogans, talvolta immersi nel turpiloquio. Leggendo Apuleio, come Tertulliano, come tanti altri, sentiamo
veramente ancora le loro voci rimbombare nel Foro e nelle sedi processuali, tra l’altro senza
alcun bisogno di altoparlanti e di mezzi tecnici, salvo l’acustica stessa dei luoghi, né
tutt’oggi persone, che non abbiano cuore
di legno tarlato e cervello di
gelatina, possono non vibrare e fremere
tutt’ora immaginandosi quelle voci
potenti esprimere concetti elevatissimi.
“
I. Ero certo, Massimo Claudio
[il giudice, diremmo oggi monocratico, coadiuvato da una giuria], assolutamente sicuro, signori del
consiglio, che Sicinio Emiliano, vecchio ben noto per la sua
sconsideratezza [non si può dire che
l’apertura sia molto cortese di fronte alla controparte], avrebbe addotto, in mancanza
di prove su miei pretesi reati, un’infinità di vane maldicenze a sostegno
dell’accusa che, prima ancora di avervi riflettuto, ha presentato contro di me…
Chiunque, anche se innocente, può essere accusato; dimostrato colpevole, però, soltanto se
realmente lo è… ringrazio il cielo che davanti a un giudice come te mi siano
toccate l’occasione e la facoltà di difendere la filosofia da persone ignoranti
e insieme di provare la mia innocenza.
In effetti quelle calunnie a prima vista
erano risultate gravi; inoltre,
essendo presentate all’improvviso, complicavano la difesa… gli avvocati di
Emiliano, di comune accordo, inaspettatamente, mi accusarono con ingiurie
accusandomi di malefìci magici e, alla fine, della morte del mio figliastro
Ponziano. Poiché mi resi conto che non
si trattava di imputazioni finalizzate a istruire un processo, ma di offese
escogitate per scatenare una lite, fui io a insistere provocatoriamente perché
presentassero regolare denuncia.
Soltanto a quel punto Emiliano, accorgendosi che anche tu [lo stesso
giudice] eri molto indignato…, persa ogni
sicurezza ha cominciato a cercare un riparo alla sua audacia…” [60] .
“
II. Intanto non appena viene messo alle
strette per firmare si scorda immediatamente di Ponziano, il figlio di suo
fratello [il primo marito di Pudentilla, di cui lei era ormai
vedova] del quale fino a poco prima andava strepitando che io
fossi l’assassino; tutt’a un tratto sulla morte del giovane neanche più una
parola… si aggrappa… al solo reato di magia, più facile da addebitare che da
smentire. Neppure questa responsabilità
si assume apertamente e… sporge una denuncia a nome del mio figliastro Sicinio
Pudente [fratello minore di Ponziano, ambedue figli della moglie di
Apuleio, utilizzato come firmatario della denuncia contro lo scrittore] - un
ragazzo ! – nella quale dichiara di
limitarsi ad assisterlo e inaugura così la strana procedura di citare in
giudizio per interposta persona: lo
scopo (evitare una querela per diffamazione…) resta comunque palese… [il
giudice ordina all’accusatore di esporsi direttamente, ma questo si defila. Ritroviamo poi quel prefetto Urbico ricordato
come iniquo da Giustino, e che qui invece fa una bella figura]… Soprattutto trattandosi di un tipo come
Sicinio Emiliano: se appena avesse scoperto
qualcosa di vero sul mio conto, non avrebbe avuto esitazioni a incolpare
un uomo a lui estraneo di numerosi e gravi delitti; non dimentichiamo infatti che ha dichiarato
falso, ben sapendo che era autentico, il testamento dello zio con
un’ostinazione tale che, quando l’illustre Lollio Urbico ne ebbe sentenziato
l’autenticità…, quel pazzo ancora giurò la falsità del documento… A fatica
Lollio Urbico… si trattenne dal rovinarlo.
III. [Seguono assai poco
cortesi e diplomatiche considerazioni sugli avvocati della parte avversa]… Difendo non soltanto la mia
causa, ma anche quella della filosofia…
gli avvocati di Emiliano con la loro loquacità mercenaria hanno
recentemente tirato fuori contro di me una serie di notizie inventate… e più in
generale contro i filosofi [qui possiamo notare quanto antico sia lo
scontro tra la razionalista mentalità filosofica e quella mnemonica e
nozionista dei giuristi] altri luoghi
comuni diffusi tra gli ignoranti.
E’ abbastanza evidente che tutto
quel loro blaterare, essendo finalizzato a procurar da vivere, è interessato, e
che è compensato con la paga che anche la sfrontatezza raccatta (d’altronde è
ormai accettato l’uso che urlatori di quella razza mettano il veleno della loro
lingua a disposizione della collera altrui)…” [61].
Non si può certo dire che Apuleio vada leggero
nei suoi discorsi contro gli avversari !
Così poi ricorda alcune frasi contro di lui, che avevano lo scopo di
denigrarlo:
“
IV. All’inizio dell’accusa… si dice:
‘Accusiamo davanti a te un filosofo bello e
- orrore ! - dotato di straordinaria eloquenza in greco e
in latino’. Esattamente con queste parole
… ha cominciato la sua requisitoria Tannonio Pudente
[un avvocato che doveva essere anche parente, visto il cognomen, degli accusatori], che davvero grandi doti di eloquenza non
ne possiede… [fatta una certa ironia sulla bellezza dei filosofi e propria,
vista come una colpa da parte dell’avvocato Pudente, Apuleio parla della propria eloquenza,
raggiunta con lo studio, fino ad arrivare all’uso dei dentifrici, sul quale, parlando
di un certo Calpurniano aveva scritto qualche epigramma: dell’epigramma, gli avvocati di parte civile
avevano fatto motivo d’accusa, come se lavarsi i denti e non aver un alito puzzolente fosse una colpa. Lavarsi i piedi non è una colpa - dice
ad Emiliano - perché lo sarebbe lavarsi i denti ? Poi dopo varie battute di spirito, tendenti
a ridicolizzare gli avversari e a divertire gli ascoltatori, Apuleio comincia ad entrare nel merito
effettivo delle accuse]
IX… Che relazione si può immaginare tra i
malefici magici e il fatto che io abbia lodato… i figli del mio amico Scribonio
Leto ? Dovrei essere mago, perché sono
poeta ? Si è mai sentito parlare di un
sospetto così verosimile, di una congettura tanto ben avanzata, di una prova
così evidente ? ‘Apuleio ha composto dei
versi’. Se sono brutti, in effetti
esiste una colpa: è del poeta, però, non
del filosofo. Se sono belli, perché mi
accusi ? ‘Ma i suoi sono versi leggeri,
versi d’amore’ Sono questi dunque i miei
delitti ! [cita
alcuni poeti famosi; poi tra i suoi cita
alcuni che celebrano un amore di tipo omosessuale,
interessante per far vedere quanto questo
sia moderno. Ne riporto i versi
finali, chiaramente allusivi]
…
…
Concedimi
in cambio delle corone intrecciate
Di
intrecciare il mio corpo al tuo
E
in cambio delle rose i baci della bocca
di rosa.
Se
soffierai nella canna, subito tacerà il mio canto
Vinto
dal tuo dolce flauto.
[poi spiega]
X. Ora sai tutto del mio delitto, Massimo [sempre
il giudice]: lo si direbbe quello di un
vizioso. Mentre è fatto soltanto di ghirlande e di canzoni. Ti sarai accorto che, a proposito dei versi,
mi si rimprovera anche l’aver continuato a chiamare Carino e Crizia, essendo
invece altri i loro nomi [esemplifica poi altri grandi poeti e personaggi
che celebrano amici in questo modo, poi di nuovo rinfaccia all’avversario la
sua ignoranza letteraria]… Allora, Emiliano, però, più rozzo dei pecorai
e dei bovari di Virgilio, zotico anche lui e selvaggio… viene a sostenere che
siffatto genere di versi non si addica ad un filosofo platonico [mentre invece Apuleio li aveva modellati
proprio su certi versi platonici. Ne
riporto solo uno dedicato a Dione, uno dei tiranni di Siracusa, che pare
abbastanza esplicito, pur avendo lo stesso Platone, nelle “Leggi”, condannato l’omosessualità, così come Aristotele, più tardi, nell’Etica Nicomachea: strane contraddizioni nel costume sessuale
degli antichi Greci]:
‘Dione,
tu che di folle passione hai acceso il mio cuore’.
XI. Ma che sciocchezza, da parte mia, dilungarmi
in simili argomenti anche durante il processo !
Anzi, forse no: siete voi i
calunniatori, voi che includete argomenti simili nell’accusa come se uno
scherzo poetico potesse in qualche modo rispecchiare il valore morale di una
persona. Non avete letto come Catullo
risponde alle malignità ?
‘Casto
dev’essere il pio poeta, / non i suoi versi, non è necessario’.
Il
divo Adriano [l’imperatore, ormai deceduto], rendendo un omaggio di versi alla tomba
dell’amico poeta Voconio, scrisse : ‘Lascivo
nel verso, puro eri nell’animo’. Non
avrebbe mai parlato così se i componimenti un po’ voluttuosi dovessero essere considerati prova
di immoralità… [62] .
Dopo alcune disquisizioni sull’uso dello
specchio (gli accusatori lo rimproveravano di farne uso frequente,
probabilmente per criticarne la vanità),
Apuleio osserva che quell’uso, oltre a non avere alcuna sussistenza
processuale, poteva avere anche una funzione di studio scientifico (noi diremmo di studio prospettico) :
“XVI. Non credete che la filosofia debba
investigare tutte le suddette questioni… osservare tutte le superfici
riflettenti, liquide e solide ? Gli
studiosi devono ragionare… anche sul perché negli specchi piatti gli oggetti
contemplati appaiono tutti piatti, mentre in quelli convessi o sferici tutto
risulta ridotto e, al contrario, ingrandito
in quelli concavi [noi oggi diremmo per la differente
rifrazione dei raggi di luce che arrivano sulla superficie e la differente riflessione verso i nostri
occhi]… Da dove nasce l’impressione di
scorgere un arco multicolore fra le due nubi e due soli che fanno a gara per
essere uguali ? Sono moltissimi i fenomeni di questo genere che
tratta in una voluminosa opera Archimede di Siracusa [importantissima
informazione di storia scientifica che ci giunge dall’antichità, e che dimostra
quanto avanzati fossero stati i Greci in ogni ambito culturale: queste ricerche furono poi riprese e
continuate da Newton più di mille anni dopo Apuleio e circa duemila da
Archimede]… Se tu avessi conosciuto quel
libro, Emiliano, e ti fossi dedicato non soltanto a zappare la terra, ma anche
all’abaco e a disegnare figure geometriche sulla sabbia, benché il tuo sinistro
ceffo non differisca affatto dalla maschera tragica di Tieste, tuttavia sta’
certo che almeno per il desiderio
di imparare saresti andato a guardarti
nello specchio… [non si può dire che
Apuleio scegliesse criteri di cortesia nei confronti del suo accusatore]… Ciò è avvenuto perché tu lavori in
campagna ignorato da tutti, io mi occupo dei miei studi…
XVII. Non so né mi affanno per sapere [qui
Apuleio cambia tema e rintuzza l’accusa di aver affrancato alcuni schiavi] se tu abbia schiavi che ti coltivino il
campo o se scambi la manodopera con i tuoi vicini. Tu invece di me sai che in un solo giorno a
Oea [pressoché l’attuale Tripoli di Libia, dove si svolse il processo] ho affrancato tre schiavi e il tuo avvocato
mi ha rinfacciato questo fatto…, malgrado poco prima avesse asserito che ero
giunto a Oea accompagnato da un solo schiavo.
Mi piacerebbe proprio che rispondessi riguardo a come sia riuscito ad
affrancare tre schiavi da uno che ne avevo…
perché tre schiavi dovrebbero apparirti sintomo di povertà [come
avviene tuttora, spesso gli avvocati compiono certe strane meschinità,
pretendendo di attaccare l’avversario con motivazioni ridicole e
contraddittorie, pur di parlarne male]
più che tre resi liberti segno di ricchezza ?
Evidentemente ti scordi… che stai accusando un filosofo… non soltanto i filosofi, ma anche i
condottieri del popolo romano si sono gloriati di avere poca servitù. E così i tuoi avvocati non avrebbero neppure
letto che Marco Antonio, terminato l’incarico di console, aveva in casa sua
soltanto otto schiavi… ; due ne aveva Manio Curio… Marco Catone… come console per la Spagna, aveva condotto con sé soltanto tre
servitori da Roma…
XVIII. [Pudente, il figlio minore della moglie, lo aveva
rimproverato per la ricchezza del numero di schiavi - tre !
- ma anche per la povertà, sempre
a causa dello stesso numero: Apuleio non
fa che sottolineare le sciocchezze che escono dalle bocche degli avvocati, a
nome di uno o dell’altro dei loro patrocinati] Lui però mi ha rinfacciato anche la povertà, una colpa accettabile per
un filosofo… Infatti la povertà da sempre è ancella della filosofia [“povera e nuda vai, filosofia…”, scrisse un certo Dante Alighieri, forse ispirandosi proprio a quanto disse Apuleio] è onesta, sobria, paga di poco, gelosa del suo buon nome… [il sottolineare la povertà di Apuleio era
precondizione, per gli accusatori, di
sostenere che egli mirasse ad impadronirsi delle ricchezze di Pudentilla, ma Apuleio, ottimo polemista, irride la
meschinità degli avversari e trae
occasione per citare molti esempi storici di onorevole povertà dei grandi
dirigenti romani della Repubblica dei primi secoli - 63]…”.
Dopo averli sbeffeggiati sulla povertà, e
sul fatto di essere un nordafricano, mezzo numida e mezzo getulo come egli stesso si era presentato (grosso modo
tra le attuali Tunisia ed Algeria), il
terribile Apuleio comincia a trattare di magia:
“XXV.
… Vengo ora all’accusa di magia che,
sollevata con grande chiasso…, si è estinta fra non so che storielle da vecchie comari [anche
oggi i pettegolezzi di vecchie comari è
di largo ascolto nei Tribunali: ben
l’abbiamo visto a Taranto, a Trieste ed altrove], deludendo le attese di tutti.
Hai visto qualche volta, Massimo [il giudice], la fiamma prodotta dalla paglia?
Crepita rumorosamente, diffonde un forte bagliore…, si esaurisce in un
momento…. Eccoti quell’accusa: mossa
sulla base di semplici maldicenze,
gonfiata con le parole, carente di concreti argomenti…
Dal
momento che tutta l’accusa di Emiliano si è incentrata sul solo punto che io sono
mago, avrei una voglia di domandare ai suoi dottissimi avvocati che cos’è un
mago… ‘mago’ nella lingua dei persiani equivale al termine
latino ‘sacerdote’, che colpa c’è
nell’essere sacerdote e nell’apprendere… le norme dei riti sacri… ? Che colpa
c’è nella magia se essa è quello che Platone spiega ricordando con quali insegnamenti i persiani
nutrano l’animo del successore al trono… ? [citando Platone Apuleio ricorda come il
futuro “re dei re” venisse educato da
quattro uomini: il più saggio, il più
giusto, il più temperante e il più coraggioso, onde proporzionarne gli
influssi; e ricorda pure la religione di
Zoroastro, come lotta escatologica tra
il Bene e il Male, il che è segno importante sulla circolazione delle idee
religiose nell’Impero romano - non solo del Mosaismo e del Cristianesimo -
anche in territori relativamente
periferici. Molto diffusi furono,
infatti, anche il Mithraismo, sempre persiano, lo Gnosticismo e il
Manicheismo, sincresi tra forme
gnostico-cristiane e lo zoroastrismo]…
XXVI. …. Se
invece i miei avversari, come del resto i più, intendono per mago chi, grazie
alla sua capacità di comunicare con gli dèi può arrivare, mediante il
misterioso potere di certi incantesimi, a tutto ciò che vuole, mi stupisco davvero che non abbiano avuto paura di
accusare una persona secondo loro così potente.
Da forze misteriose e divine non ci si può difendere come si fa con tutto
il resto. Se si cita in giudizio un
assassino, ci si fa scortare; se si
muove un’accusa di veneficio, si usano maggiori precauzioni mangiando [
sarebbe stato meglio tradurre “col cibo”
oppure più letteralmente “ci si nutre
con maggiore attenzione”]; chi denuncia un ladro vigila sui suoi
beni; ma chi chiede una sentenza
capitale per un mago… a quale scorta,… a quali custodi può ricorrere per
scongiurare una rovina invisibile e inevitabile ? A nessuno, lo capite bene; e perciò chi crede a siffatto genere di
delitti non li denuncia” [63].
L’osservazione di Apuleio è interessante
perché anche i Cristiani venivano accusati di magia, per la taumaturgia e le
guarigioni miracolose, e di appartenere
a religioni strane e misteriose.
Ciò che dice Apuleio, riguardo al
timore che suscita chi crede ad
operazioni magiche, avrebbe dovuto salvare i Cristiani dalle denunce,
riguardando poteri extra-umani. Il fatto
è che, per gli imperatori e i loro subordinati, il pericolo rappresentato dai
Cristiani non era tanto l’atto magico o miracoloso, quanto il minare il loro potere e il loro prestigio non
giurando e non sacrificando agli dèi e all’imperatore stesso. L’accusa di magia, sebbene usata, era
aleatoria e non determinante dal loro punto di vista.
Contro Apuleio, viceversa, l’accusa era sì
quella di magia, ma a fini di plagio, di
suggestione sulla volontà di una donna, considerata ormai “vecchia”, da parte
di un giovane, non ricco e ambizioso, bramoso di acquisire così ricchezze
altrui. Apuleio mette in evidenza la fragilità delle
tesi: lo accusano di essere filosofo, e
quindi di essere “ateo”; lo accusano di
essere “mago”, e quindi in contatto con la divinità. Sono accuse contraddittorie. Lo accusano addirittura di aver provocato la
caduta di un giovane, mentre poi Apuleio dimostrerà essere un epilettico,
soggetto a questi attacchi. Nel
procedere della difesa, si comprende l’enorme differenza tra la procedura
accusatoria (in cui ci si può opporre a singole accuse, pur gravi, confutandole
una per una) e la procedura
inquisitoria, dove non si ha altra scelta che rinnegare il Cristianesimo,
piuttosto che ribattere alle contestazioni avversarie. E per chi non lo facesse immediatamente,
c’era la tortura a far pressione sull’interrogato ( e questo sarà sottolineato
da Tertulliano, di cui al prossimo paragrafo).
Apuleio alla fine ne esce assolto, malgrado il rischio corso, e grazie anche all’amicizia col giudice, come
riconosce più avanti lo stesso Apuleio.
I Cristiani, fermi nella fede, non potevano far altro che subire atroci
condanne .
Tra i poco seri argomenti dei suoi
avversari, oltre alle cose sopra ricordate,
c’era pure quello di aver comprato del pesce da sezionare, sempre a
scopi magici di seduzione di Pudentilla,
la moglie vedova e madre, di cui si dibatte.
Ancora, lo si accusava di aver fatto fare un testamento dalla moglie a suo vantaggio, ma
anche qui il nostro Autore ha agio di dimostrare, dissigillando il documento, che questo atto restava a favore dei figli:
“XXIX. … si tratta
del fatto che ho chiesto a pescatori alcune specie di pesci pagandoli. Che cosa lo induce a sospettare di magia
? Che siano stati dei pescatori a
procurarmi il pesce ? Evidentemente
avrei dovuto affidare l’incarico a ricamatori o a fabbri… Oppure avete dedotto che cercavo quei
pesciolini per qualche maleficio dal fatto che ero disposto a pagarli ? Già, è vero, se invece li avessi voluti per
un pranzo, li avrei avuti senza pagare !
Perché non incolparmi anche per numerosi altri acquisti ?... A questa
stregua condanni alla fame tutti i venditori di generi alimentari; chi oserà fare la spesa da loro, se si
stabilisce che tutti i cibi procurati dietro pagamento vengono ricercati non
per la cena, ma per la magia ?...
XXX. ‘Cerchi dei pesci’ dice lui [l’accusatore
Emiliano]. Non intendo negarlo. Ma dimmi, te ne prego, chi cerca pesci è forse mago ? non mi pare che lo sia più che se acquistasse
lepri, cinghiali o polli; oppure forse
soltanto i pesci hanno qualche proprietà, segreta per gli altri, nota però ai maghi… Siete così ignoranti… che non riuscite
neppure a inventare le vostre menzogne in modo un po’ credibile… [dopo aver fatto sfoggio della
sua cultura letteraria, umiliando i suoi avversari, Apuleio prosegue]…
XXXII. ... ‘Perché allora li cerchi?’ Non
voglio né sono obbligato a dirtelo.
Dimostra tu, se ci riesci, che li ho cercati per la ragione che tu
sostieni [ecco qui il punto chiave che contrappone il rito
genuinamente accusatorio da quello inquisitorio o misto: è l’accusatore che deve dimostrare il reato,
non l’accusato; è all’avvocato di parte
civile o al magistrato che spetta il compito di provare l’autore di un reato,
certo o probabile; alla difesa spetta di
mettere in crisi la prova presunta. Per
un omicidio, all’avvocato non spetta di trovare un colpevole, ma solo di
confutare le presunte prove sostenute dall’accusa. Nel rito inquisitorio, ovviamente, è il difensore
che deve provare di non aver commesso quel reato. Questo
in linea di principio, ma sappiamo bene che, allora e oggi, le cose non sono così lineari].
Quando anche io avessi comperato
elleboro, cicuta, estratto di papavero [tutte piante a cui si attribuivano
poteri magici o venefici]… che sono salutari assunte in giusta quantità
ma dannose se mescolate o usate in dosi eccessive, nessuno sopporterebbe senza
protestare che tu mi trascinassi in giudizio con l’accusa di veneficio soltanto
perché un uomo può essere ucciso da quelle sostanze [dice l’abilissimo
dialettico Apuleio: non basta che si
compri del veleno che abbia anche funzioni terapeutiche, perché si possa
condannare qualcuno per veneficio, occorre provare che quel veleno in dose
sufficiente sia stato usato contro
qualcuno. Oggi, la cosa non sarebbe
molto difficile, data l’analisi chimica;
viceversa, allora, oltre ad esaminare alcuni sintomi esteriori, il fatto era ben più difficile da
provare. Pensate ai monaci de “il Nome della Rosa” di Umberto Eco e il
relativo film]…
XXXIII. … per completare la calunnia hanno inventato
che ho cercato due frutti di mare dal nome osceno. Il buon Tannonio [avvocato
degli accusatori, un tipo molto
timido e pudìco], volendo lasciar capire che si trattava degli organi genitali dell’uno
e dell’altro sesso, non riuscendo tuttavia ad esprimerlo - il perfetto avvocato ! – a causa della sua
totale inettitudine nel parlare, dopo
molto e lungo balbettare, ha finalmente designato il pesce che porta il nome
dei genitali maschili con non so quale circonlocuzione, in modo scorretto e
squallido; trovando soltanto parole
indecenti per indicare l’organo femminile, è ricorso ai miei scritti e ha
letto… ‘Copra l’interfeminio con la protezione di una coscia avanzata e con il
riparo delle mani’ [nemmeno la commentatrice sa spiegare esattamente che
cosa intendesse Apuleio con questa frase, anche se ci si riferisce ad un atto
sessuale, e quale parte volesse dire “interfeminium”, probabilmente
il monte di Venere o la vulva.
Non si capisce il contesto, probabilmente qualche poesia dell’amore
sessuale (di cui sopra), per cui è difficile anche entrare nello
specifico: certamente non vi si parlava
né di magia né di religione].
XXXIV. Costui, sbandierando la sua buona
educazione, mi censurava perché non mi vergogno di parlare in termini decorosi
di argomenti piuttosto indecenti: Io sì
che avrei ben più legittime ragioni di rinfacciargli che, dopo essersi
dichiarato patrocinatore dell’eloquenza, con le sue ciance trasforma in
volgarità anche argomenti onesti…
farfuglia o ammutolisce…
… Chissà che ingegnosa scoperta deve esservi
sembrata inventare che io abbia cercato questi due frutti di mare (la veretilla
e il virginal) per le mie operazioni di magia. Impara i nomi latini delle cose: ho utilizzato di proposito termini vari
perché tu possa tornare ad accusarmi più preparato… addurre… il fatto che creature del mare con
nomi osceni sono state ricercate per pratiche d’amore è ridicolo; altrettanto lo sarebbe affermare che il
pettine di mare si cerca per pettinare i capelli e il pesce falco per catturare
gli uccelli…
XXXV. … Voi
asserite l’efficacia nelle pratiche amorose di certi frutti di mare che hanno
il nome degli organi sessuali maschili e femminili…
[sgretolati gli argomenti avversari sull’acquisto
di prodotti marini, Apuleio si diverte a triturare gli avversari,
spiegando perché aveva acquistato quei
molluschi e pesci, rivolgendosi al
giudice]…
XXXVI. Del resto è giusto che Emiliano, così
sollecito dei miei affari, sappia per quale motivo conosco moltissime specie di
pesci… E’ una fortuna che il processo si svolga davanti
a te, Massimo, che, per tua cultura personale, senza dubbio di Aristotele hai letto La generazione degli animali, L’Anatomia degli animali e
La storia degli animali…
Concedetemi che si legga qualche brano dei miei libri magici, perché Emiliano si renda conto che svolgo molte più
ricerche… scegli quello in cui più
diffusamente si tratta delle specie
ittiche…
XXXVII. Hai trovato il libro ? Perfetto… Leggi qualche riga dell’inizio e
poi qualche brano sui pesci. Tu ferma la
clessidra durante la lettura [un interessante
riferimento storico a come si svolgevano questi processi: il discorso doveva rientrare in limiti di
tempo misurati da una clessidra ad
acqua; ma i documenti venivano
verificati interrompendo il passaggio dell’acqua, presumibilmente mettendo la
clessidra in posizione orizzontale, in modo che l’acqua non scorresse. Apuleio dimostra largamente di avere
conoscenze notevoli per l’epoca sulla biologia marina, sia con testi greci che
latini, sempre da lui scritti. Prosegue
ancora a confutare l’accusa]…
XL. … ‘Ma
il pesce a te portato dal servo Temisone [possiamo ben
immaginarci le risate suscitate nel pubblico a sentire le battute di Apuleio,
non privo di cultura né di umorismo: lo
si accusa di aver sezionato un pesce, atto che si fa sempre quando lo si prepara per cucinare]’
dice ‘a quale scopo, se non malvagio, l’hai sezionato ?’. Come se non avessi appena finito di dire
riguardo agli organi di tutti gli animali… cerco di completare i volumi di anatomia
di Aristotele… nulla faccio di nascosto…
XLI. ‘Ma il pesce tu l’hai sezionato !’ lui
dice. Si può considerare un reato ciò
che non sarebbe tale nel caso di un pescivendolo o di un cuoco ? ‘Hai sezionato il pesce’.
Crudo, è di questo che mi accusi ?
Se frugassi nella pancia di un pesce cotto e ne estraessi il fegato,
come impara a fare da te il giovane Sicinio Pudente [il
secondo figlio di Pudentilla] con quelli
comprati a sue spese, l’operazione non ti sembrerebbe meritare una
denuncia. Eppure per un filosofo mangiare il pesce è un
delitto peggiore che studiarlo. O forse
è consentito agli astrologi scrutare fegati e non sarà permesso al filosofo
osservarli, nonostante sappia di essere aruspice di tutti gli animali, sacerdote
di tutti gli dèi ? [una concezione sacrale della filosofia, vista come una
religione della natura]…
XLII. [smontata la storia dei
pesci Apuleio passa ad un’accusa ben più grave]
… Perciò, adeguandosi alle credenze più
diffuse, hanno inventato che un ragazzo sia stato vittima di un mio
incantesimo: lontano da spettatori, in
luogo segreto, con un piccolo altare, una lucerna e di fronte a pochi testimoni
complici, non appena compiuto il sortilegio egli sarebbe caduto a terra; poi si sarebbe risvegliato senza conservare
coscienza di nulla. Non hanno osato
spingersi oltre… avrebbero dovuto aggiungere che lo stesso ragazzo aveva
pronunciato molte profezie [si tratta probabilmente di una specie
di seduta spiritica, in cui il
ragazzo - sofferente di epilessia
- aveva la funzione di “medium” oppure di pronunciatore di oracoli], giacché
i veri vantaggi che traiamo dagli incantesimi sono i presagi e la
divinazione [in sostanza, prassi largamente caratteristiche del mondo
politeista o pagano]…
XLIII. … Se tutto questo è vero, fatemi il nome del
ragazzo sano, puro, intelligente, bello che avrei giudicato degno di essere
iniziato attraverso i miei incantesimi.
Il Tallo che avete nominato ha bisogno di un medico più che di un mago; quel povero ragazzo è affetto da un’epilessia
così grave [ne soffrivano anche Alessandro il
Grande e Gaio Giulio Cesare: gli antichi
lo considerava un male sacro, di qui anche il collegamento a rituali religiosi
o divinatori] che ha -
proprio senza alcun incantesimo – tre o quattro crisi in una giornata,
le convulsioni gli squassano la persona…, il viso è ferito, la fronte e la nuca
contuse, lo sguardo ebete, le narici dilatate ed è malfermo sulle gambe [se
fossero stati in Palestina, il giovane sarebbe stato qualificato non come
epilettico, ma come indemoniato]. Mago potentissimo sarebbe quello che…
riuscisse a far stare Tallo in piedi a lungo, tante sono le volte che si
accascia per la malattia… [Emiliano
aveva anche fatto convocare i quindici schiavi
di Apuleio come testimoni contro di lui; vennero in quattordici, appunto perché questo
Tallo per le sue condizioni di salute era impossibilitato a presentarsi].
XLIV. …
Accidenti [vorrei proprio capire perché la
traduttrice trasforma in “accidenti”
l’esclamazione latina “hercle”,
ovvero “per Ercole !”], vorrei proprio
che fosse qui; te l’avrei affidato,
Emiliano, e l’avrei sorretto mentre tu lo avessi interrogato… avrebbe rovesciato gli occhi truci verso di
te, avrebbe cominciato tutto schiumante a coprire di sputi la tua faccia,
avrebbe contratto le mani, agitato la testa… [una ben impietosa
descrizione, non dissimile da quella di “indiavolati” descritti nel Vangelo,
che però ha la funzione di confutare
l’accusa di aver provocato simili
fenomeni con azioni magiche]…
XLV. Ti porto quattordici schiavi che hai
reclamato [non dimentichiamo, l’abbiamo visto anche in
Quintiliano, che gli schiavi erano
sottoponibili a tortura: immaginiamoci
allora quali effetti avrebbe potuto subire l’infelice Tallo, in quelle
condizioni fisiche. Apuleio, che sembra
crudele nella descrizione, voleva probabilmente evitare al poveretto un simile
supplizio], perché non ne approfitti per
interrogarli ? No, un solo ragazzo tu vuoi, quello epilettico,
il quale, lo sai quanto me, è lontano da tempo.
Solo cavilli… neppure tu oserai
negare che il ragazzo sia epilettico,
Perché attribuire le sue cadute a
incantesimi e non a malattia ?...
…
esigo che nomini coloro che sarebbero stati i testimoni di quell’empia cerimonia…
Mi fai un nome in tutto: quello di
Sicinio Pudente, lo sbarbatello [il solito figlio di primo
letto di Pudentilla]…; lui in effetti sostiene di aver
partecipato; anche ammettendo però che
la sua giovanissima età nulla tolga alla testimonianza, nondimeno la condizione di accusatore destituisce di valore la sua deposizione [il neretto è mio: è assai interessante notare anche le
argomentazioni giuridiche che Apuleio
presenta, e che dimostrano come il
processo penale romano fosse tutt’altro che privo di garanzie e di regole per
la difesa. Le richiamerà, in forma
generica, anche Tertulliano, che era giurista ancor più del suo contemporaneo
Apuleio. Ma qui siamo di fronte ad un
processo regolare, con un giudice imparziale o quasi (il richiamo all’amicizia ed alla conoscenza
da parte di Apuleio potrebbe essere solo la classica captatio benevolentiae, non
abbiamo elementi obiettivi per saperlo).
Apuleio intanto mette in dubbio
la validità della testimonianza di Pudente a causa della troppo giovane età e,
quindi, influenzabilità; ma soprattutto
oppone alle controparti: o Pudente
accusa, oppure testimonia; le due
funzioni si contrappongono una
all’altra. Siccome a suo nome è stata
presentata l’accusa, è antigiuridico che
testimoni su un determinato fatto.
L’obiezione di Apuleio è ineccepibile.
Se la prende poi con l’avvocato Tannonio, già debitamente deriso, il
quale vuole presentare altri schiavi a prova degli incantesimi compiuti dallo
scrittore. Ma questi testimoni poi non
appaiono, tra l’imbarazzo generale]…
XLVII. Perché, altrimenti, chiedevi che così
numerosa parte della servitù comparisse qui ?
Formulando l’accusa di magia hai fatto venire come testimoni quindici
schiavi: quanti ne avresti voluti se mi
avessi accusato di violenza ? Dunque i
quindici schiavi sanno qualcosa che è segreto;
o forse non è segreto ma è ugualmente connesso alla magia ? Una delle due alternative seguenti sei
costretto a riconoscerla: o non era
illecita la pratica a cui senza timore ho ammesso tanti testimoni o, se era
illecita, non sarebbero dovuti essere tanti i testimoni [Apuleio
dice: se la cosa era segreta perché
illecita, quindici schiavi erano troppi per un simile fatto].
Questa magia… è una materia disciplinata dalla legge… proibita dalle
Dodici Tavole [il noto fondamento del Diritto romano, civile e penale] a causa dell’incredibile influenza
esercitata sulle messi; perciò essa è occulta non meno che spaventosa e
terrificante, praticata generalmente di
notte, protetta dalle tenebre, lontano da spettatori… [anche i Cristiani,
riunendosi di notte in quanto altrimenti a rischio di arresto e sevizie, erano
accusati di pratiche innominabili. Come
dire: prima li costringi alla
clandestinità con gli arresti e le torture, poi ti lamenti che sono clandestini
e si riuniscano di notte ! Apuleio, che
non nomina i Cristiani, si limita a dire che simile clandestinità notturna a
scopo di magia si svolge tra poche
persone: quindici schiavi o liberi sono
troppi per cerimonie del genere. Questo
ci fa capire che egli aveva assistito a simili riunioni. Ma non basta.
Continua a deridere gli avversari:
le uniche vittime sarebbero state delle galline sacrificate per il rito]…
XLVIII. Avete inoltre detto che anche una donna
libera, ammalata dello stesso male di
Tallo [anch’essa epilettica, ma in misura meno grave], fu portata a casa mia; io promisi di curarla e anche lei, vittima
del mio incantesimo [secondo gli avversari], cadde a terra. A quanto vedo siete
venuti per accusare un lottatore, non un mago, se… tutti quelli… sono stati
atterrati. Tuttavia, Massimo [il giudice], Temisone, il medico che mi condusse la donna…, ha spiegato che mi limitai a domandarle se sentiva un ronzìo alle orecchie e da quale
parte più forte; ella, dopo aver
risposto che il disturbo era assai fastidioso a destra, se ne andò subito… [è
estremamente piacevole seguire Apuleio riga per riga, per la vivacità del
discorso, tanto che se ne potrebbe fare una commedia; ma lo spazio e le regole sui diritti d’autore
lo vietano. Lo scrittore elogia il giudice il quale, dopo aver ascoltate le cialtronate
dell’accusa con estrema pazienza, chiede
pure che vantaggio ne avrebbe avuto
Apuleio dalle cadute di questa donna o di chi altro; inoltre chiede se questa è poi morta. Ovviamente
gli accusatori devono negarlo.
Così Apuleio ha buon gioco nel riaffermare alcuni essenziali princìpi
processuali che, ahinoi !!!, sono spesso tuttora disattesi nelle aule
giudiziarie]
…
negare un fatto è facile e non richiede l’intervento di nessun avvocato; mostrare invece se il fatto è avvenuto
secondo giustizia oppure no, questo è molto più arduo e difficile. E’ inutile
indagare se un fatto sussista quando è stato compiuto senza dolo. Così chi è imputato di fronte a un buon
giudice viene liberato dalla preoccupazione del processo se in lui è mancata
l’intenzione di nuocere [qui ciò che sostiene Apuleio
rispetta certi canoni giuridici: tuttavia, siccome l’intenzione è qualcosa di impalpabile e non
verificabile, non può anche essere
valutata: posso aver bene l’intenzione di uccidere qualcuno, ma se mi limito a
tale stato d’animo e la persona vive, non posso essere punito; se la persona
muore in mia presenza, ed io lo avevo minacciato, magari con un’arma, è ben vero che non è del tutto dimostrato il
rapporto di causalità tra la mia intenzione e la morte, perché poi varie cose
sono da verificare, ma legittimamente
posso essere messo sotto processo per
vedere se dalla parola e dal gesto minaccioso sono realmente passato ai fatti. L’intenzione è valutabile solo dove e quando sia stata resa
pubblica; se rimane interiore ed
inespressa, nessuno potrebbe accusarmi di nulla, salvo prove d’altra
natura. E’ pure interessante notare che Apuleio parla di
un “buon giudice”, ma se questo non è tale,
allora tutto può succedere, anche la manifesta violazione dei princìpi
giuridici basilari]. Poiché nella fattispecie non hanno dimostrato
che la donna sia stata incantata né che sia stata fatta cadere e io non nego di
averla… visitata, dirò a te, Massimo, perché le ho domandato del ronzìo… [Apuleio entra in questioni di teorie fisiologiche
e patologiche sulla base di dottrine mediche del tempo, citando soprattutto
Platone ed Aristotele. Lo scrittore non
solo fa di sé il proprio avvocato, ma pure l’esperto nelle più varie scienze
naturali]
LI. … o i miei avversari decidono che curare le
malattie è attività da mago e da persona dedita al maleficio, oppure, se manca loro il coraggio di dir questo,
ammettono, riguardo al ragazzo e alla donna affetti di mal caduco [il
nome che gli antichi davano all’epilessia per i suoi sintomi, oltre a quello di
“male sacro”], di aver indirizzato contro
di me calunnie vane e - queste sì - ‘caduche’ “ [65] .
Apuleio ora passa ad altra storia: lo si accusa di aver tenuto in mano, in una
stoffa, qualcosa che non si vede esteriormente,
ma si dice che è lo strumento, il talismano del maleficio. Anche qui il terribile Apuleio polverizza le
accuse, mettendole in totale ridicolo:
“LIII. …
Affermi infatti che tenevo certi oggetti avvolti in un fazzoletto presso
i Lari di Ponziano [i Lari sono gli spiriti, rappresentati
in statue o figure, degli antenati: Ponziano è il figlio maggiore della vedova
Pudentilla, morto prima del processo a causa
- secondo il parentado e i suoi
avvocati - di qualche altro maleficio
compiuto da Apuleio che, con quel misterioso pacchetto in mano, avrebbe
compiuto riti maledetti presso le statue degli antenati del giovane, per farlo
morire e impadronirsi - il problema era
tutto lì - dell’eredità].
Quali e di che tipo gli oggetti avvolti dichiari di non sapere, confessi
d’altra parte che nessuno li ha visti; pretendi
tuttavia che si sia trattato di strumenti magici [il neretto è mio]. Non aspettare complimenti da nessuno, Emiliano:
come accusatore non dimostri né astuzia né sfacciataggine… Il tuo è
soltanto lo sterile furore di un animo inasprito… Hai sostenuto… ‘… Ignoro di
che si trattasse, quindi sostengo che
era del materiale magico. Fidati
perciò di quanto dico perché dico ciò che non so’. Un ragionamento formidabile ! Come provare meglio un crimine ? ‘Si trattava
della tal cosa perché non so di che si
trattasse’. Ci sei soltanto tu,
Emiliano, che sai anche ciò che non sai: così tanto superi tutti per stupidità [ahinoi, non era solo quell’antico Emiliano che faceva
tali deduzioni curiose, ma anche nel corso del tempo, come ben sappiamo. Tornando all’attualità, abbiamo dovuto
constatare che, in un recente
procedimento, si considerano colpevoli
persone di un delitto, di cui non c’è
che una testimonianza in otto versioni, un’altra riferita ad un sogno, assurdo
come può essere un sogno, e nessun’altra testimonianza accertabile, nessuna
prova verificabile, nessun’altra
confessione. E, anche in quel caso, non siamo lungi da un processo per stregoneria,
sebbene non qualificato come tale, non essendo oggi la stregoneria un reato
formalizzato come tale. Passano i millenni, ma l’ottusità in materia
giudiziaria persiste]! I filosofi più attenti e profondi avvisano
che non bisogna credere neppure alle cose che vediamo, e tu ? tu dài per sicure anche quelle che mai hai
visto…
… bene, povero sciocco, se oggi ti fossi impossessato di quel fazzoletto, qualsiasi cosa ne cavassi io negherei che sia
magica.
LIV. …
Tutti gli uomini potrebbero essere messi in stato di accusa se, per chi denuncia la prima persona
che capita, non esistesse l’obbligo della prova e al contrario ci fosse piena
libertà di interrogare. Con tale sistema
tutti, solo che si sia mossa un’accusa per magia, verranno incolpati per
qualsiasi cosa abbiano fatto [il neretto è mio: la
necessità di prove, oggettivamente verificabili da chiunque segua un processo,
era un fatto giuridico e giudiziario
scontato già 1900 anni fa. Nondimeno
troppo spesso violato allora, così come
lo è oggi. Lancia in resta, Apuleio
prosegue] Hai appeso un voto con il tuo
nome sulla gamba di una statua? Sei un
mago; perché l’avresti appeso altrimenti? Hai innalzato preghiere
silenziose agli dèi in un tempio? Sei un
mago; che desiderio hai espresso
altrimenti? Ma è vero anche tutto il contrario:
in quel tempio non hai pregato affatto [infatti, confrontare le
accuse ai Cristiani, i cui processi sono
esattamente l’immagine in negativo di
questo dibattito. Apuleio dimostra che, sulla base dei pregiudizi,
qualunque accusa è ammissibile]? Sei un
mago; quale altra spiegazione al non
aver rivolto suppliche agli dèi ?...
LV. Mi domandi, Emiliano, che cosa tenevo nel
fazzoletto. Potrei negare completamente
che mai alcun fazzoletto di mia proprietà sia rimasto nella biblioteca di
Ponziano [qui, Apuleio, sicuro di sé e della non
ostilità del giudice, si diverte a
giocare come con i molluschi dai nomi
erotici];
potrei tutt’al più ammettere che c’è stato, escludendo però che qualcosa
fosse avvolto in essa (… non esiste testimonianza o prova che mi
sconfessi…); ciononostante, come dicevo,
non ho difficoltà a dire che il fazzoletto era pieno zeppo…
Sono stato iniziato in Grecia a molti culti
[abbiamo
qui uno squarcio della vita religiosa nel II secolo d.C. nell’Impero Romano: non si accenna mai al Cristianesimo, il che
è ben curioso: forse perché sarebbe
stato argomento avversario per passare dall’accusa di mago a quella di
Cristiano, il che avrebbe comportato ben
più rapidamente la condanna ? Ben
verificando l’abilità di Apuleio, possiamo immaginarci che poteva essere una ragione
molto plausibile]. Ne conservo con cura alcuni segni e simboli
che mi sono stati affidati dai sacerdoti.
Non dico nulla di straordinario…
già tre anni fa all’incirca, nei primi tempi del mio soggiorno qui ad Oea nel corso di una
conferenza sulla maestà di
Esculapio [dio della salute, della
medicina e delle guarigioni] feci le stesse dichiarazioni ed elencai i
culti misterici da me conosciuti. Quel
mio discorso è molto noto…
LVI. Può meravigliarsi, chiunque conservi una
qualche nozione di religione, del fatto che un uomo iniziato a tanti misteri
divini custodisca in casa sua simboli di cerimonie sacre e li avvolga nel
lino…?...
Io so che alcuni - e il
nostro Emiliano in testa - trovano divertente deridere le cose divine
[qui si diverte a dargli pure dell’irreligioso o dell’ateo]. Infatti, come vengo a sapere
da cittadini di Oea… non ha mai pregato nessuna divinità n frequentato nessun
tempio… Non è quindi una fatica per me
credere che queste rassegne di tanti culti misterici a lui sembrino
sciocchezze… [interessante poi l’affermazione finale di questo capitolo,
sempre in relazione al confronto col Cristianesimo, su ciò che il fazzoletto avesse contenuto]. Per
gli altri, invece, proclamo a gran voce:
se per caso è qui presente
qualcuno iniziato agli stessi miei culti, si faccia riconoscere mediante
un segnale; sono pronto a rivelargli che
oggetti io conservo. Nessun pericolo mai
potrà indurmi a rivelare a profani i segreti che ho appreso con l’obbligo del
silenzio [il neretto è mio;
questa dichiarazione è di estremo interesse, perché dimostra che non solo i
Cristiani erano pronti a morire, magari tra atroci sofferenze, per motivi
religiosi, ma pure altri gruppi legati al segreto. Resta però la notevole differenza per cui i
Cristiani morivano per dichiararsi tali;
questi invece per tacere sui loro
riti segreti. Segue poi l’attacco ad un
preteso testimone, tale Giunio Crasso,
forse discendente dall’amico di Cesare
e morto a Carre ad opera dei Parti che, per la sua bramosia di oro, glielo
colarono fuso in gola. Questo Giunio,
più che bramoso di oro, è un ghiottone e
un avvinazzato, secondo Apuleio, quindi poco credibile come testimone, anche perché,
invece di presentarsi di persona, manda un suo scritto, essendo ancora
completamente ubriaco nell’ora del processo.
Infine, questa testimonianza sarebbe stata venduta per tremila sesterzi: di che si trattava ? Di piume che Giunio Crasso, o un suo schiavo,
avrebbe trovato ad Alessandria d’Egitto]…
LXI. Un’altra accusa i miei avversari mi hanno
mosso ricavandola dalle lettere di Pudentilla:
riguarda la fabbricazione di una statuetta che mi sarei fatto scolpire
per le mie stregonerie in gran segreto in un legno pregiatissimo e che, pur
avendo l’aspetto ripugnante e spaventoso di uno scheletro, venererei e
invocherei con il nome greco basileus
[re,
sovrano; qui Apuleio smonta un’altra
volta l’accusa, sempre mirante a vederlo come operatore di magia nociva]…
Ebbene, la lavorazione della statuetta è
stata segreta, dite voi. Come è
possibile se voi stessi ne conoscete l’artefice e così bene da
ingiungergli di comparire in
giudizio? Eccolo, è Cornelio Saturnino, un uomo che dai
conoscenti riscuote ammirazione per la sua arte…
… Il mio figliastro Sicinio Ponziano
[colui che aveva consigliato la madre ed Apuleio di sposarsi, poi per un
periodo si era messo contro il patrigno, quindi di nuovo d’accordo con lui, ma
poi deceduto: su questa morte gli
avversari avevano sostenuto trattarsi di un altro dei vari malefici dello
scrittore], mosso dal desiderio di farmi
cosa gradita e avendo avuto da Capitolina, nobile signora, uno scrigno di
ebano, lo portò a Saturnino e lo pregò di ricavare la statua da quel materiale
più prezioso… Saturnino si regolò
quindi secondo quelle istruzioni… fu in grado di cavar fuori un piccolo
Mercurio [il lavoro della statuetta era stato anche confermato dalla
testimonianza del figlio di tale Capitolina, così Apuleio confuta nettamente
anche la pretesa segretezza di tale lavoro]…
LXIII. La vostra terza menzogna consiste
nell’aver descritto questa scultura come l’agghiacciante figura macilenta o
addirittura scarnificata di un cadavere [un mio piccolo dubbio
del tutto personale, a cui credo nessuno storico accenni: e se si fosse trattato di uno dei primi
crocefissi, poi largamente usati dal
Cristianesimo? Dato che nessuno poteva
smentirlo, ciò che avevano visto di
sfuggita testimoni della parte
avversa poteva non c’entrare per nulla
con la statuetta di Mercurio che qui fa vedere, come l’oggetto in
questione. Ovviamente, non c’è nessun altro elemento che possa
confermare questa mia vaga ipotesi. Che
i Cristiani lo abbiano rappresentato poi come un oppositore, ha poca importanza:
Apuleio infatti dichiara di aver fatto raccolta di idoli e di figure
di molti culti. Che non faccia
riferimenti al Cristianesimo, considerati i rischi che ciò comportava, appare
del tutto evidente, in quanto non di un Cristiano si trattava, ma di un
eclettico interessato a molti nuovi fenomeni religiosi], una specie di spettro
spaventoso… Ecco l’oggetto che lo
scellerato chiamava ‘scheletro’. … E’
magica, questa statuetta, e non piuttosto una comune immagine sacra ?... Guarda che bel corpo ben sviluppato e
atletico, e com’è sereno il volto del dio…
[dopo ulteriori osservazioni sul senso della bellezza nei filosofi
platonici, quale Apuleio si considera,
egli entra in un’altra delicata questione, ovvero le lettere di
Pudentilla, che le controparti
considerano documento di un preteso
sortilegio sulla donna per costringerla a sposarsi con lui, e quindi impadronirsi delle sue
ricchezze, perché poi
tutta questa storia della magia, riguardava essenzialmente la questione
ereditaria]…
LXVI. E’
arrivato il momento di passare alle lettere di Pudentilla… quel matrimonio, svantaggioso sotto ogni
altro profilo se mia moglie [svantaggioso nel senso
che la donna era più anziana di lui di 10 anni circa e, a dire stesso del
parentado, addirittura di 30 anni; poi la presenza di due figli ormai grandi
(uno adulto, l’altro adolescente): erano
ambedue motivi di scarsa attrazione,
indipendentemente dalle ricchezze della donna.
Implicitamente Apuleio sostiene che avrebbe potuto sposarsi, vista la
sua celebrità, con donna più giovane,
bella e anche ricca] non avesse
compensato tanti disagi con le sue qualità,
è stato per me rovinoso.
Nessun’altra ragione, eccetto una sciocca
invidia, può spiegare questo processo voluto contro di me e le molte minacce…
LXVII. … ella
non aveva mai voluto riprendere marito dopo il primo ma - dissero -
vi fu costretta dalle mie stregonerie;
secondo: ritengono di
rintracciare nelle lettere di lei un’ammissione di magia; terzo:
avendo sessant’anni [secondo il parentado, ma Apuleio
dimostrerà, con un ricalcolo dei consolati
- allora gli anni si calcolavano
in vario modo, e il più diffuso era quello
della successione di consoli, che
duravano un anno e la cui funzione non era stata per nulla abrogata
dall’Impero, almeno fino al Dominato di Diocleziano, ma ridotti
a carica amministrativa, esecutiva, e non più rappresentativa del sommo del
potere politico e militare, gestito dall’imperatore e dai suoi immediati
subordinati - che ne aveva 40 al momento
delle nozze [66], quindi ancora lontana dalla menopausa], si è sposata obbedendo a un impulso libidinoso [altro
interessante riferimento storico alla mentalità del tempo: una donna, che abbia superato la menopausa e
quindi sterile, non doveva avere più desideri e rapporti sessuali, se non per
vizio [67]. Oggi nessuno crederebbe a simili cose. Tra gli Ebrei questa tradizione non sussisteva, se pensiamo a Sara moglie di Abramo e alle madri di Maria e di
Giovanni il Battista, in quanto
il miracoloso avverarsi della fecondazione
aveva per presupposto in tutti i casi la continuità dei rapporti sessuali
tra coniugi. Solo per Maria,
quindicenne, perciò appena adolescente, la tradizione attribuisce un intervento
puramente spirituale nel concepimento di Gesù, ma questo è un altro discorso],
quarto: l’atto di matrimonio è
stato sottoscritto in campagna…. ;
l’ultima accusa, la più carica d’odio, è quella riguardante la
dote. Su questo hanno concentrato le
loro forze e riversato il loro fiele…
dimostrerò che tutto questo è falso…; lo confuterò senza difficoltà… [a tale scopo Apuleio ricapitola i fatti che
hanno condotto a quel matrimonio, mentre il suocero avrebbe preferito darla in
moglie all’altro figlio Sicinio Claro,
evidentemente per mantenere in famiglia le ricchezze, ma la donna, un po’ come Penelope in attesa di Ulisse, riuscì a
sviare il matrimonio fino alla morte del suocero. Intanto, la donna, quantunque si chiamasse Pudentilla (ovvero, piccola
Pudìca), soffriva di problemi che oggi
diremmo neuro-sessuali dovuti alla lunga astinenza, quindi fu consigliata dai
medici di sposarsi]…
LXXI. Ritengo che da questi dati emerga abbastanza
chiaramente che Pudentilla non fu distolta dalla sua irriducibile vedovanza
dalla forza delle mie magie, ma che, spontaneamente e da tempo propensa al
matrimonio, forse mi ha preferito agli altri…
Ponziano… temendo che… lei si fosse imbattuta in una persona avida…
tutte le speranze per lui e per il fratello risiedevano nelle sostanze della
madre. Il nonno aveva lasciato
un’eredità modesta, la madre invece
possedeva quattro milioni di sesterzi [una cifra consistente, sebbene il
sesterzio non fosse l’unità monetaria
più elevata - tale era il denario fino al III secolo d. C, in argento.
Questa la vera ragione su tutta la manfrina contro i poteri magici di
Apuleio, il che egli dimostrerà
ampiamente]… si mostra sollecito della mia salute… gli sembrava di aver trovato per sua madre il
marito ideale… Con molte insistenze
riesce anche… a farmi trasferire suo ospite in casa della madre…
LXXIII. Fa molta pressione, mi convinco e mi affida
la madre e suo fratello, il ragazzo che è qui…
Ponziano… mi comunica il progetto
di matrimonio per me… e sua madre… Se
io, visto che mi veniva proposta non una fresca ragazza ma una donna non bella
e con due figli a carico, avessi rifiutato questo impegno… in cerca di bellezza
e denaro avessi aspettato condizioni diverse, lui non mi avrebbe considerato né
amico né filosofo. Sarebbe lungo
riferire tutte le lunghe e numerose mie obiezioni… avevo osservato bene Pudentilla e ne avevo
riconosciuto le virtù, tuttavia, consapevole della mia passione per i viaggi
[Apuleio, oltre che scrittore e studioso
di scienze naturali ed umane, era
anche conferenziere viaggiante, e proprio in una di queste conferenze Ponziano
gli aveva proposto il matrimonio con la madre.
Ponziano però, su spinta del suocero Erennio Rufino, altro nemico di
Apuleio, inizia ad ostacolare le nozze]…
LXXIV]…la colpa… non deve ricadere su di lui, ma
sul suocero di lui, Erennio Rufino:
eccolo lì, un essere che al mondo non ha rivali in bassezza,
perversità e corruzione…
Istigare il ragazzino, promuovere l’accusa,
raccogliere gli avvocati e comprare i testimoni: tutto opera sua. Lui è stato il focolaio di tutta la calunnia,
lui ha fomentato e aizzato Emiliano… germoglio
di tutti i mali, e lui stesso ricettacolo di gola e lussuria, bordello,
lupanare; noto a tutti fin dai suoi
primi anni per le sue vergognose sconcezze [Apuleio va con
la mano pesante, assai più che con i precedenti personaggi protagonisti della
calunnia: difficile sarebbe dire se sono
nello scritto, o furono anche nel
discorso orale; segue la linea di
Cicerone nel descrivere Marco Antonio, nelle “Filippiche”. Non
accontentandosi di demolire ogni credibilità
di Erennio, ne attacca pure la
famiglia]: ancora ragazzo… era pronto a
soddisfare tutte le voglie immonde dei suoi corruttori [vediamo quindi un
Apuleio anti-pedofilo ed anti-omosessuale]; più tardi, rammollito e cascante, danzava nei
pantomimi… con una mollezza priva di arte…
LXXV. … la
sua casa è posto per ruffiani… la moglie una prostituta e i figli assomigliano
ai genitori… la camera da letto un
andirivieni di adulteri [una descrizione che abbiamo già
visto in Giustino: e noi che ci
riteniamo moderni per il gay pride!!!]… la vergogna del suo letto è la sua
rendita. Un tempo gli incassi erano
procurati dal suo corpo, ora da quello della moglie [non basta: Apuleio sostiene che la coppietta, se è pagata
profumatamente, lascia andare i visitatori, ma se questi pagano poco, vengono
assaliti, e ricattati con l’idea
dell’adulterio in flagrante che, a quel tempo, consentiva l’uccisione dell’adultero]…
LXXVI. … la
figlia, per iniziativa della madre, venne senza successo portata in giro fra i
giovani più ricchi e alcuni pretendenti ebbero anche la libertà di ‘provarla’ [questa
brava ragazza poi divenne pure la moglie, ora vedova, di Ponziano]… di fanciulla portava il nome e non il
candore…
[dai contrasti tra
Pudentilla, il figlio Ponziano e quel simpaticone di suo suocero, nascono quelle lettere che dovrebbero
dimostrare il sortilegio nel matrimonio tra Apuleio e Pudentilla:
LXVIII. …
Pudentilla, quando si accorge che… il figlio si è lasciato corrompere…
parte per la campagna e gli scrive la famosa lettera di rimprovero, quella in cui - a
loro dire – confessa di aver perso la ragione dacché con la magia l’ho fatta innamorare. Ora, però,io possiedo una copia autentica di
tale lettera, trascritta l’altro ieri per tuo ordine, Massimo, alla presenza
del segretario di Ponziano… Contiene
solo smentite…
LXXIX. … Il
peso di una dichiarazione sottoscritta in tribunale deve pur superare quello
delle parole di una lettera [risultata essere
falsa. Come altre volte Apuleio si
diverte a seguire gli altri argomenti, per poi sgonfiarli]… ‘Pudentilla ha scritto che sei un mago, quindi lo sei’. E se, supponiamo, avesse scritto che sono
console, sarei console ? Pittore, ad
esempio, o medico ? Oppure che sono
innocente ?.... ‘Ma era sconvolta,
t’amava alla follìa’. D’accordo,
tuttavia non sono maghi tutti coloro che sono amati, se chi ama lo scrive [è
chiaro che gli avversari pretendono di prendere alla lettera certe frasi
enfatiche che due innamorati si
scrivono, frasi comunissime anche oggi “amare alla follìa, mi hai stregato/a”,
ecc.]…
LXXX. Deciditi una buona volta: era o non era in sé [Apuleio, da abilissimo
dialettico, ora usa una variante del sofisma del mentitore: chi dice di mentire sempre, in quel momento è
sincero o mente ? Così, se uno si
proclama folle d’amore, quando lo dice è lucido
o è folle? Se fosse folle, non
sarebbe credibile; se è lucido vuol dire
che esagera il suo stato d’animo] mentre scriveva? Era in sé?
Quindi non era sotto l’effetto della magia ? Non lo era ? Allora non si rendeva conto di
ciò che scriveva, pertanto non è il caso di crederle: anzi,
se fosse stata fuori di sé, non avrebbe saputo di esserlo [il neretto è
mio: logica ineccepibile. Un pazzo crede di essere savio; chi dice di essere pazzo, avrà certo problemi
nervosi, ma sicuramente non è pazzo]…
Pudentilla era nel pieno delle sue facoltà mentali se credeva di non
esserlo… lascio stare la
dialettica. Leggerò invece la lettera
che già da sola proclama tutt’altro…[la fa leggere al giudice Massimo]…
Ora fermati un momento… siamo giunti ad una svolta… Pudentilla non fa
nessun cenno alla magia… racconta il lungo periodo da vedova, la cura consigliata… il desiderio di
sposarsi…
LXXXI. … Resta quella parte della lettera che,
scritta in mio favore… ora si ritorce contro di me: inviata con il preciso scopo di stornare
l’accusa di magia, per somma gloria di Rufino ha cambiato destino… [vediamo
di che si tratta: il suocero di
Ponziano mostra solo una frase isolata,
vecchio ma sempre attuale trucchetto [68],
in cui un’espressione ironica diviene espressione reale]
LXXXII. … ‘Apuleio è un mago, io sono stata stregata
da lui e lo amo. Perciò vieni da me
finché sono ancora in grado di ragionare’. Rufino mostrava a tutti quest’unica
frase, da me citata in greco, isolandola dal contesto, e la portava in giro
come se si trattasse della confessione di lei… nascondeva quanto veniva prima e
dopo con il pretesto che si trattasse di oscenità…
LXXXIII. [Apuleio cita ora il
testo esatto, riportato dallo stesso Emiliano in tribunale] ‘Fosti tu a convincermi - ero ormai decisa a sposarmi per le ragioni
che ti ho detto - a scegliere lui fra tutti: lo ammiravi
[Pudentilla si rivolge in realtà al figlio Ponziano] e desideravi che attraverso di me stringesse con noi vincoli di
parentela. Ma da quando quegli
imbroglioni dei nostri accusatori ti hanno corrotto, improvvisamente ecco che Apuleio è un mago, io sono stata stregata da lui e lo amo. Perciò
vieni da me finché sono ancora in grado di ragionare [il neretto è mio: trucco semplice e sarebbe stato efficace se
la stessa parte avversa, ovvero Emiliano, non avesse portato copia autenticata dell’intera lettera]’…
…
Pudentilla non accusa Apuleio di magia, anzi lo proscioglie dall’accusa di
Rufino…
LXXXIV. Vi siete appellati alla lettera e, grazie alla lettera, io ottengo il
trionfo. Se desiderate ascoltarne anche
la parte finale… ‘ Non sono né stregata,
né innamorata. Il destino…’… Attribuisce
tanto al destino tanto il progetto quanto la necessità di sposarsi, e il
destino è molto distante dalla magia, addirittura la esclude… Pudentilla ha negato non solo che io sia
mago, ma l’esistenza della magia.
E’ una fortuna che Ponziano
avesse l’abitudine di conservare intere le lettere della madre… [smontata ogni accusa fondata sulle lettere,
di cui una anche di Apuleio stesso, ma falsificata, il nostro scrittore si
avvìa alla conclusione, sia sul fatto
che il matrimonio sia stato firmato in campagna e non in città, per la sola
ragione di risparmiare l’inutile spesa di 50.000 sesterzi (tanto costava farlo), così
confuta l’età della donna, che non era di sessanta, ma di
quarant’anni, come già si è detto. Sfida quindi gli avversari a trovare un
movente illegittimo a quel matrimonio.
Qui appare quel riferimento a Mosè, di cui già avevo accennato]…
XC…. Domando a Emiliano e a Rufino per quale
interesse, fossi io pure un mago
potentissimo, avrei indotto Pudentilla al matrimonio seducendola con
incantesimi e veleni… se si troverà la
benché minima ragione per cui avrei dovuto ambire al matrimonio con Pudentilla
per qualche mio interesse, se proverete anche un piccolo vantaggio per me,
allora consideratemi pure Carmenda, Damigerone,
Mosè giudeo, Iannes,
Apollobex, Dardano o qualunque altro mago si ricordi dopo Zoroastro e Ostane.
XCI. … Hanno criticato l’aspetto e l’età di lei e
mi hanno rimproverato il fatto che soltanto per avidità si desidera una donna
così, tanto che, non appena sposati, le ho sottratto [questa l’accusa; la traduzione sarebbe stata più corretta al
condizionale “le avrei sottratto”] una cospicua e ricca dote… non occorrono parole, poiché parla già, e
assai chiaramente, il contratto di matrimonio…
la dote resterebbe integralmente ai suoi figli Ponziano e Pudente; se
invece un nostro figlio o figlia [ovvero, di secondo letto, eventualmente nati
da nuovo matrimonio, con il che si dimostra che, al momento delle nozze,
Pudentilla era ancora fertile] fossero
viventi alla sua morte, allora metà della dote passerebbe al figlio di secondo
letto…
XCII: [confrontando poi altre
eventuali ragioni, Apuleio sostiene]…
Al contrario una vedova invece arriva alle nozze nella stessa condizione in cui
se ne va se poi si separa dal marito [anche questo, interessante aspetto
del Diritto di famiglia in quell’epoca] e senza recare nulla che non possa riprendersi; ha già donato ad un altro il suo fiore
[non solo la verginità fisica, ma anche la purezza e il candore di una donna o
ragazza assai giovane, come allora d’uso],
è sicuramente meno arrendevole ai desideri del marito, sospettosa nei confronti
della nuova casa… se c’è stato un
ripudio, la donna ha una delle due seguenti colpe: o si è resa così insopportabile da essere
ripudiata oppure è stata così insolente
da ripudiare lei il marito [il neretto è mio. Ricordate il caso citato dal cristiano Giustino,
della moglie convertitasi al cristianesimo che ripudia, dopo una vita di
stravizi, il marito vizioso ? Qui Apuleio, pur considerandolo un atto
insolente, dimostra che quello della cristiana ex-viziosa non era del tutto unico]. Per queste e altre ragioni le
vedove attirano i pretendenti aumentando la dote. Anche Pudentilla sarebbe dovuta ricorrere a
un simile espediente se non si fosse imbattuta in un filosofo…
XCIII. … se
avessi desiderato quella donna per avidità, la linea migliore… sarebbe stata
seminare discordia tra madre e figli…
Fui io a consigliare a mia
moglie, alla quale, come sostengono, avevo [avrei] divorato tutti i beni… la persuasi a
restituire ai figli i soldi… che chiedevano indietro… in forma di poderi valutati poco, secondo
stime giuste per loro; inoltre donasse
loro dei campi molto produttivi del suo patrimonio, una casa spaziosa [e
vari beni alimentari]… riconciliai la madre con i figli…
XCIV. Questi
fatti sono risaputi in tutta la città… [seguono ulteriori
considerazioni sui figliastri e la nuora di Pudentilla, che qui poco interessano,
ed arriviamo al colpo di grazia dell’orazione difensiva di Apuleio, che
comprova l’assoluto disinteresse personale finanziario o economico dello
scrittore nei confronti della donna. Chiede al giudice Massimo di aprire i sigilli
e leggere il testamento della donna]…
C. Dammi il testamento redatto dalla madre per
il figlio quando già le si era ribellato, mentre io, predone, …
ne suggerivo [ne avrei suggerito] ogni parola…
Fai rompere i sigilli,
Massimo: potrai constatare che
erede è il figlio; in mio favore,
invece, per rispetto c’è un qualche lascito irrisorio… In realtà, poi, neppure il figlio è
erede [essendo morto nel frattempo]:
veri beneficiari sono Emiliano e le sue speranze, Rufino e le sue nozze, insomma tutta quell’avvinazzata
schiera dei suoi figli… ‘Sia erede mio
figlio Sicinio Pudente’ [ovvero, il secondo non ancora maggiorenne]…
CII. [malgrado
il discorso sia proceduto sempre con il vento in poppa, almeno nel testo
ricostruito poi, Apuleio sa di averla
scampata bella: ha vinto, ma ha
rischiato grosso, perché l’accusa di magia non avrebbe comportato solo l’accusa
di aver compiuto certi riti, ma di aver plagiato una donna e di aver fatto morire
il suo figlio maggiore. Apuleio ha approfittato di tutta la sua arte oratoria e dialettica - pensate che oggi troveremmo un avvocato così
abile ? - nonché dei pochi dati
obiettivi messi in esame, per schiantare e ridicolizzare le accuse
avversarie, ma sa anche che deve all’amicizia o all’imparzialità del giudice
Claudio Massimo l’aver azzerato le accuse. Se il giudice fosse stato un altro, forse le cose si sarebbero concluse con la sua condanna]…
Provate a pensare che
la causa si dibattesse non al cospetto di Claudio Massimo, uomo equo e
determinato a far trionfare la giustizia, ma fosse presieduta da un giudice
perverso e implacabile, fanatico partigiano delle accuse e assetato di
condanne. Mettetegli a disposizione una
traccia, fornitegli un motivo anche solo vagamente verosimile per emettere una sentenza conforme alle vostre
richieste… [Apuleio vuol sostenere che, nemmeno di
fronte ad un giudice feroce, le accuse
sarebbero potute reggere. Bello pure il
finale, dove si sente l’orgoglio del filosofo che, con la ragione e non con
rituali formalistici, ha battuto un’accusa che poteva essere mortale]…
CIII. … se non ho sminuito la dignità della
filosofia, per me più preziosa della mia stessa vita, e al contrario l’ho
tenuta ovunque ben alta e vittoriosa, se tutto questo ho fatto, posso con
serenità e riverenza sperare nella tua stima senza temere la tua autorità. Reputo la condanna del proconsole Claudio
Massimo meno grave e temibile della disapprovazione dell’uomo Claudio Massimo,
tanto onesto e irreprensibile” [69].
§ 2.
IL DISCORSO “APOLOGETICUM” DI TERTULLIANO .
Tertulliano, dopo Giustino, può essere
considerato uno dei primi grandi apologisti del Cristianesimo, nato a Cartagine
nella seconda metà del II scolo d.C.,
autore di varie opere tra le prime effettivamente teologiche, vissuto anche nei primi decenni del secolo, quando divenne seguace di Montano che
sosteneva la prossima fine del mondo e la necessità di raccogliersi a Pepuza,
una località dell’Asia Minore (Anatolia).
A parte questo, Montano - precedendo di un millennio circa Gioacchino
da Fiore, sosteneva che fosse venuto il momento dell’avvento dello Spirito
Santo, che avrebbe istituito una nuova era,
quasi un superamento del Cristianesimo.
Difficile è però sapere quanto
questa versione fosse stata vera, perché le opere di coloro che furono
considerati eretici vennero
distrutte. Certo è che delle tre Persone
o Ipostasi della Trinità la meno determinata e personale è proprio lo
Spirito Santo, che non sembra avere nelle
attuali fedi cristiane un ruolo preciso e chiaro. Tertulliano, malgrado questa presunta
deviazione dalla fede, assurge al ruolo non solo di semplice apologista, ma di
teologo della prima Patristica, che
svolse con forza e grande spessore
culturale. Il suo discorso, scritto a
seguito delle persecuzioni di fine II secolo e più o meno contemporaneo di
quello di Apuleio, è molto diverso, sia per la costante severità della parola, mai portata all’ironia e alle
frasi sprezzanti, sempre elevatissima, sempre tesa a dimostrare l’assoluta
iniquità e barbara crudeltà delle persecuzioni imperiali contro i
Cristiani. Inoltre, essa non costituisce
l’orazione difensiva di un processo reale, quindi in nessun caso personale, ma
l’orazione di difesa di una categoria di persone, illegalmente e genericamente
accusate di ogni delitto, senza il benché minimo riscontro oggettivo. Non va ignorato che Tertulliano era anche,
professionalmente parlando, un giurista, spesso anticamente confuso con un suo
omonimo, frammenti delle cui opere vennero inseriti nel Digesto del Corpus Juris
Civilis giustinianeo. Infatti,
il suo discorso dimostra coerente logica giuridica e procedurale
giudiziaria, ma è più debole sul piano
della discussione religiosa, dove prevale l’uomo di fede assoluta, quello che
non ammette dubbi sui dogmi (è questa
anche l’enorme differenza da Apuleio che procede razionalisticamente
sempre, in qualunque settore culturale
entri).
Un’altra domanda dobbiamo porci su un piano
storico: Tertulliano non scriveva e
pubblicava le sue opere in forma anonima, a quel che sappiamo e, come vedremo,
fu estremamente pesante nel giudizio contro il politeismo, i suoi riti, come
contro le iniquità procedurali. Non usa
formule di cortesia, va dritto al sodo, non elogia i destinatari del suo
discorso. Si scontrò pure con la Chiesa
cristiana ufficiale del tempo, prima come “montanista”, poi
come fondatore di un nuovo gruppo di Cristiani che venne definito
“tertullianista”, a Roma, e che durò un certo tempo. Nondimeno, sempre per quel che risulta, non
fu mai condannato a morte, o martirizzato.
Come mai ? Se le leggi del
tempo, più o meno applicate,
condannavano a morte la proclamazione della fede cristiana, perché non
venne processato, condannato ed ucciso ? Anche questo dovrebbe farci riflettere sulle
persecuzioni anti-cristiane, certamente esistenti, ma forse meno diffuse ed
ampie, così come resta nella tradizione agiografica cristiana e cattolica .
Ora
riporto progressivamente i brani del suo “Apologeticum”, sempre relativamente all’aspetto giuridico penale, riducendo al minimo gli aspetti teologici, che qui sono già stati genericamente esaminati.
“
I. 1.
Se a voi, magistrati dell’Impero romano, che presiedete
all’amministrazione della giustizia e pronunciate pubblicamente i vostri
verdetti in luogo elevato, quasi al vertice stesso della città, non è consentito
inquisire apertamente e sottoporre a scrupoloso esame che cosa vi sia di certo
nelle accuse mosse ai cristiani; se soltanto in tale genere di processi la
vostra autorità ha timore e vergogna di svolgere pubbliche indagini secondo la
regolare procedura giuridica [il neretto è mio: oltre
che in Quintiliano, l’abbiamo vista nel processo di Apuleio. Quella era la regolare procedura tra il I e
il II secolo. Man mano che l’Impero
aumentava il suo grado di assolutismo e si allontanava dalla cultura giuridica
e politica repubblicana, ciò che era prima irregolare, poi divenne
normale, prevalente]; se infine… chiude la bocca alla difesa l’odio
verso la nostra setta, troppo sollecito ad accogliere domestiche
delazioni, sia allora consentito alla
verità di giungere alle vostre orecchie, almeno per la via segreta di una
arringa [ termine non latino: per
l’esattezza il testo latino accenna a “tacitarum
litterarum”, ovvero lettere scritte, non lette in pubblico, ma si sa che i
nostri bravi traduttori pensano di essere più chiari con traduzioni libere] non pronunciata.
2. La
verità non chiede grazia per se stessa, poiché neppure si meraviglia della sua
condizione. Sa bene di vivere come
straniera sulla terra e quindi di trovare facilmente nemici tra estranei; del resto, in cielo ha la sua origine, la sua
vera dimora, la sua speranza, la sua autorità e il suo splendore. Una sola cosa frattanto essa chiede: non essere condannata, senza essere
conosciuta [il neretto è mio. Tertulliano sa di battersi per una causa che
non può avere vittoria immediata, anche se dopo assumerà pure toni
trionfalistici, contraddittori però con altri dati. Egli sostiene che il mondo presente non è un
modo retto da leggi divine, ma piuttosto diabolico. Il male prevale e domina, quindi la
Verità, che solo in Dio ha l’origine e
il fine, è del tutto misconosciuta in questi procedimenti
persecutori. Ma ricorda altresì: per condannare è necessario conoscere ciò che
si vuole condannare, non si deve condannare sulla base di illazioni, dicerie,
calunnie. Il Diritto romano del
tempo lo poneva a principio metodico]. 3. …
se la condanneranno senza ascoltarla, oltre l’odiosa taccia d’ingiustizia,
desteranno anche il sospetto di aver agito per partito preso…
4. Questa prima accusa [dunque,
quella di Tertulliano non vuol essere un discorso difensivo, ma un’accusa
severa contro un sistema giudiziario eccezionale ed iniquo] noi solleviamo pertanto contro di voi;
l’ingiustizia dell’odio che nutrite contro il nome dei cristiani [infatti,
bastava confessarsi Cristiani per essere condannati, anche se la ragione di tale persecuzione fin contro il loro nome
non era così semplice e superficiale,
come esporrò poi nella conclusione generale]. E tale iniquità è aggravata…
dal motivo stesso che dovrebbe attenuarla:
la vostra ignoranza. E che cosa
vi può essere di più ingiusto che odiare ciò che non si conosce…? 5… Quando
dunque si odia perché non si conosce l’oggetto dell’odio, si può supporre che
l’oggetto sia tale da non meritare l’odio degli uomini. Noi perciò condanniamo questi due fatti… restare cioè nell’ignoranza mentre si odia, e
l’odiare ingiustamente quando si ignora.
6. … tutti quelli che prima odiavano perché
ignoravano, non appena cessano di ignorare, cessano anche di odiare [Tertulliano
sostiene, e quasi sempre a ragione, che l’odio contro i Cristiani era dovuto alle
calunnie ed alle diffamazioni, a confessioni estorte con la tortura. Sicuramente queste false informazioni producevano una distorsione completa nella
comprensione dei dogmi e della fede dei Cristiani. Chi poi li avesse conosciuti, non li avrebbe
odiati se, addirittura, non vi si fosse convertito]… 7… Persone di ogni sesso, di ogni età, di ogni condizione e ceto
sociale si convertono a questo nome… [il che risulta contraddittorio
però col fatto di dire che la
popolazione romana, i suoi strati più bassi, erano quelli che volevano
divertirsi con lo sterminio dei Cristiani negli anfiteatri. Si legge un certo orgoglio sulla facoltà
espansionista del Cristianesimo in tutto l’Impero, anche se evita di dire che
molti dei Cristiani erano già ritenuti
eretici, e quindi perseguibili dalla Chiesa]…
8. Quando infatti si è certi che l’odio non ha
alcuna giustificazione, è bene cessare di odiare senza ragione…
11. I malfattori cercano sempre di nascondersi ed
evitano di mettersi in mostra: trepidano
se colti in fallo, negano se accusati…
12. Agisce forse in tal modo il
cristiano ? Di nulla il cristiano si
vergogna o si pente, se non del fatto di non esserlo stato prima: denunciato, se ne gloria, accusato, non si difende; interrogato, confessa…; condannato, ringrazia. 13.
Che crimine è dunque questo che
non rivela nessuno dei caratteri propri del male…? Che reato è mai questo, se la colpa è motivo
di allegrezza… ?” [70].
Tertulliano sottolinea le varie stranezze di
questo presunto “reato” di Cristianesimo, del quale i
“colpevoli” sembrano ben lieti di esserlo, confessano, talvolta affrontano
crudeli torture e confermano ugualmente
la loro fede; se condannati in modo pesante reagiscono con
benedizioni. Così è altrettanto strano che, di fronte ad un
simile “reato”, si usino procedure opposte
a quelle previste dalla procedura penale del tempo e che, ricordo sempre, è stata descritta in termini generali da
Quintiliano, personali da Apuleio.
“II. 1. Se
poi è certo che noi siamo capaci di compiere i più atroci misfatti, perché mai
siamo da voi giudicati in modo diverso dagli altri delinquenti… 2. Gli
altri, quando sono imputati di delitti affini a quelli che voi ci attribuite,
possono valersi a propria difesa e della loro parola e di avvocati…: è ad essi concessa libera facoltà di
replicare e di discutere, perché non è consentito condannare accusati senza che
possano difendersi e siano ascoltati.
3. Soltanto ai cristiani non è
concesso dir nulla che valga a perorare la loro causa e a difendere la verità,
nulla che impedisca al giudice di commettere ingiustizie… 4. …
quando processate un colpevole di qualche reato, non vi accontentate… che egli confessi la sua colpa… , ma volete conoscere anche le circostanze, la
natura del fatto, la recidività, il luogo, il modo, il tempo, i testimoni e i
complici [il neretto è mio: e che più, ancora oggi, dopo circa 1800
anni vi è qualche magistrato che piglia
per buona una confessione in otto versioni, senza avere alcuna precisa idea sulle
circostanze del fatto, che già Tertulliano, ed altri precedenti, sottolineavano. Ciò dimostra che si tratta di evidenti
princìpi metodici di procedura penale che oggi dovremmo applicare ancora con
maggiore rigore, ed invece vediamo che -
more solitissimo - li si ignora, condannando all’ergastolo senza
un benché minimo riscontro materiale due
donne. E ci stupiamo allora che
succedesse 1800 o 800 o 300 anni fa ? A
quando si faranno smettere certe vergogne in Stati considerati civili e
democratici?]. 5. Nel
caso nostro nulla di tutto ciò: eppure
sarebbe giusto ed utile farci confessare con la tortura le colpe di cui siamo
falsamente accusati, per sapere quante volte uno abbia gustato carni di
bambini, quanti incesti abbia commesso nelle tenebre, quali cuochi e quali cani
siano stati presenti a tali infamie [le calunnie e diffamazioni contro i
Cristiani, talvolta ma non sempre, consistevano nell’associare, a tutti loro,
reati di particolare gravità, quali l’antropofagia (probabilmente una
descrizione distorta della comunione che è, non dimentichiamo, assunzione del corpo di Cristo nella forma del
pane), orge durante cene collettive, in
cui si aspettava che i cani
rovesciassero le lucerne (roba da
romanzo nero) per congiungersi sessualmente
con le donne più vicine, fossero pure madri o sorelle. E
anche qui è ben strano che una società viziosa, come quella
dell’Impero, vedesse vizi dove non
c’erano, visto che il Cristianesimo di quei secoli era più
sessuofobo che orgiastico. In realtà, l’ho già detto, il male è sempre
proiettato sull’altro. Va anche
considerato tuttavia che certi gruppi ristretti, come avverrà nella Russia di
fine ‘800, ricordiamo Rasputin, ritenevano di liberarsi dal peccato
esattamente compiendolo in queste orge più o meno estese]…
6. A nostro carico troviamo… che anche
l’inchiesta è vietata [è qui che Tertulliano cita le
lettere tra Plinio il Giovane e l’imperatore Traiano sulle procedure da
utilizzarsi contro i Cristiani, da me
già citato in precedente capitolo]…
8. O sentenza volutamente ambigua ! vieta che siano ricercati in quanto innocenti,
e ordina di punirli in quanto colpevoli.
Risparmia e in pari tempo infierisce:
finge di ignorarli e li punisce.
Perché mai, o giustizia [anche qui uso di termine non corretto,
perché l’apologista parla di “censura”, non di “giustizia”, di cui
aveva già negato l’esistenza nel mondo materiale. Egli vuol intendere l’amministrazione
giudiziaria, che al tempo dei Romani e fino al XVIII secolo, almeno, era anche
politica], inganni te stessa ? Se condanni, perché non inquisisci ? Se non inquisisci, perché allora non assolvi?
[Tertulliano ribadisce così la
negazione, che è antigiuridica, presente
nella procedura anti-cristiana, anche di un imperatore considerato
“giusto” come Traiano. Si considera il cristiano
ipso facto et ipso nomine colpevole
di una caterva di reati e non si ritiene necessario perdere tempo ad
investigarli, come si farebbe in ogni altro caso. Capriccio degli imperatori, ed obbedienza
cieca degli esecutori (sia pure stato un Plinio il Giovane, che si faceva
orgoglio dello zio, morto appunto per indagare su un grave fenomeno tellurico
come la distruzione di Pompei !). Anche
la coerenza, come la giustizia, pare non essere di questo mondo !]…
10. Anche in questo voi non agite con noi
secondo le norme con cui si giudicano i criminali. Con gli altri, quando negano, usate la
tortura perché confessino; ai cristiani
invece infliggete la tortura perché
neghino [Tertulliano non si rende conto della speciale natura, o sembra non
rendersene conto, del processo penale per “reati” religiosi. Non sapeva (avrebbe dovuto aspettare un
millennio e più) che poi anche i Cristiani avrebbero fatto lo stesso con gli
eretici, affinché neghino la loro
eresia. Così avverrà nel XVII secolo con
Giordano Bruno, con Galilei e molti altri]… 11.
V’è forse procedura più ingiusta di questa? Presumendo i nostri crimini dalla sola
confessione del nome, voi volete costringerci
a ritrattare, così che negando il nome [qui preso dalla foga
polemica dimentica che non sarebbe bastato negare di essere cristiani: occorreva sacrificare agli dèi, giurare fedeltà all’imperatore e tutta una
serie di altri atti per dimostrare di non esserlo], noi neghiamo anche i delitti…
13. Un uomo grida: ‘Sono cristiano’. Confessa
quello che è. E tu invece
vorresti sentirgli dire quello che non è.
Preposti ad estorcere la verità, soltanto da noi vi affaticate ad
estorcere la menzogna ! ‘Tu vuoi
sapere - dice quell’uomo - se sono cristiano. Lo sono.
Perché mi tormenti ingiustamente?
Io confesso, e tu mi torturi: che
faresti allora se negassi?’- Agli altri [imputati
di qualche reato], quando negano, è certo
che non prestate fede facilmente: a noi,
invece, se neghiamo, credete subito.
14. Tale perversione dovrebbe destare il sospetto
che una qualche forza recondita si serva di voi quali strumenti contro le norme
e il procedimento giuridico [Tertulliano ragiona
come se la questione fosse trattata in un regolare processo dell’età
repubblicana (anche allora del resto -
lo abbiamo visto col processo a Catilina, ma anche in parte con quello a Gesù
Cristo, solo apparentemente accusatorio -
c’erano evidentissime violazioni col pretesto della pericolosità dei
soggetti e della situazione da essi creata, in quanto venivano qualificati come
“nemici pubblici” e pertanto immediatamente punibili; ma ormai nel II secolo il principio primo del
Diritto penale era la volontà e il capriccio dell’imperatore, non certo leggi
votate regolarmente, e i giuristi, a cui si è sempre insegnato che la Forza è
base del Diritto, degni servi di ogni Regime politico, null’altro hanno fatto
che applicare tale concezione ai processi religiosi], contro le leggi stesse. Le
leggi infatti, se non m’inganno, vogliono che i colpevoli siano scoperti, non
nascosti, e prescrivono che i rei confessi siano condannati, non assolti. Questo stabiliscono le deliberazioni del
senato, questo i decreti imperiali… 15.
Sotto i tiranni infatti la tortura era usata come pena, presso di voi è
limitata soltanto all’inquisizione.
Osservate dunque, nei confronti della tortura, le vostre norme: essa è necessaria fin a tanto che il delitto
sia confessato [malgrado l’apparente
logica giudiziaria di Tertulliano, si noti la regressione della cultura
giuridica del suo tempo rispetto a quella di Quintiliano, quando se ne dichiarava
l’inutilità, a parte il fatto che allora
il cittadino romano (cfr. Paolo di Tarso) non era sottoponibile a tortura. Ancora sotto Nerone, solo agli schiavi era applicabile la tortura. In nemmeno un secolo, si sfalda
completamente quella serie di garanzie
giudiziarie specialmente di fronte ad un fenomeno considerato pericolosissimo, anche se concretamente del
tutto esagerato, dagli uni come dagli altri], inutile se prevenuta dalla confessione…
16. Nessun giudice si propone di assolvere un
criminale… Nessuno è perciò costretto a
negare [l’obbligo di ritrattazione non doveva limitarsi
alle parole, doveva dimostrarlo con atti che, in tutti i casi, dovevano allontanarlo dalla comunità
religiosa. Poteva pure giungere anche
alla denuncia di altri Cristiani, allora clandestini o ignoti]. Ma
per assolvere un cristiano, che pur giudichi colpevole di ogni genere di
crimini…, tu lo costringi a negare, non potendo assolverlo, se non nel caso che
abbia negato [Tertulliano qui allude anche a certe forme di nicodemismo
[71] che, in pratica, ebbero un’importanza non secondaria nella persistenza del
Cristianesimo, nelle sue forme più blande e compromissorie, come del resto il
martirio fu esemplare nella conversione
di nuovi adepti, tendenti al martirio
come alla via più diretta per giungere a Dio e a un mondo più giusto]… vi fa dimenticare che al reo confesso si
deve maggior credito che non all’accusato che sia costretto a negare ? E che, appunto, perché costretto a negare con
la forza, non rinnega sinceramente [qui, implicitamente, Tertulliano riconosce
che non tutti i Cristiani erano eroi pronti al martirio per la fede], ma anzi, una volta assolto…, ride del vostro odio e non meno che per il
passato persiste nella sua fede di cristiano ?
18. … è
evidente che non è in causa un qualche delitto,
ma un nome, perseguitato da una
corrente di odio [il neretto è mio], che mira soprattutto ad impedire con certezza ciò che con certezza sa
di ignorare. 19. Sul conto nostro si presta fede ad accuse non
provate… Per questo, quando confessiamo,
siamo torturati; quando perseveriamo,
siamo puniti; quando rinneghiamo, siamo
assolti. In verità, è soltanto contro un
nome che voi fate guerra. 20. Infine, quando sulla tavoletta voi leggete
questo capo d’accusa ‘cristiano’ perché
mai non l’imputate anche d’omicidio, se un cristiano è per voi un omicida? E perché
non l’accusate anche di incesto o di altro crimine, se tale colpe
secondo voi commette un cristiano ?
[Qui, sempre implicitamente, Tertulliano richiama un fondamento del Diritto penale: il reato è sempre individuale. Anche l’appartenente
ad un’associazione per delinquere o mafiosa, come singolo individuo, dev’essere
accusato di reati personali da lui compiuti, tra cui l’appartenenza a tale
gruppo criminale, mentre viceversa non si può accusare di crimini, se tale appartenenza non si è estrinsecata in
qualcosa, sia pur minima (es., finanziamenti, complicità, ecc.), di azione personale. Il cristiano viene considerato in blocco
infanticida, antropofago e incestuoso oppure orgiastico, indipendente dal fatto
che tali azioni siano state concretamente commesse (ammesso che vi
sussistessero gruppi devianti di questo genere:
basta il nome di cristiano e, automaticamente, si è considerati tutto
questo). L’assurdo è che, quando si
rinnega l’appartenenza al Cristianesimo, celebrando un qualche rito pagano,
altrettanto automaticamente si è assolti da accuse specifiche. Poniamo che
qualche ristretto gruppo celebrasse orge, poniamo che l’intero gruppo venga
arrestato; di questo, qualcuno rinnega
di essere cristiano: allora su questo
non si indaga se abbia effettivamente compiuto orge incestuose o
infanticide, o che altro.
L’irrazionalità della cosa è ben segnalata da Tertulliano]…” [72].
“III. 1.
Gran parte degli uomini nutre contro il nome ‘cristiano’ un odio così
cieco e tenace che diventato impossibile riconoscere un qualche merito in un
cristiano, senza deplorare il fatto che porti questo nome [qui
è interessante rilevare due cose: il il
vanto della diffusione amplissima del Cristianesimo già nel II secolo d. C., che invece dovette appartenere
ad una minoranza, sia pure in crescita ma comunque divisa al suo interno, era pura propaganda, né più né meno come si
fa oggi, quando partiti od organizzazioni si vantano di avere miliardi di
adepti fedelissimi ed eterni come tali;
il secondo aspetto è che si riconoscono meriti al singolo cristiano, ma
si depreca che, nonstante tali meriti, sia un cristiano]… Nessuno si chiede se Gaio non sia buono e Lucio prudente, appunto
perché cristiani, o se non sono divenuti cristiani, perché prudente l’uno, buono l’altro. 2. In
essi lodano ciò che conoscono, biasimano ciò che ignorano, e si scagliano
contro ciò che conoscono a cagione di
ciò che ignorano, mentre sarebbe più ragionevole dubitare su quello che si
ignora a causa di quello che si sa [praticamente, dice Tertulliano, sarebbe
opportuno dedurre dal comportamento quotidiano dei Cristiani la bontà
della loro fede religiosa, e non
ignorarlo in nome di preconcetti. Tertulliano
procede poi dicendo che perfino persone già prima molto peccaminose e disoneste
(ne abbiamo avuto un esempio dato da
Giustino), una volta convertite al
Cristianesimo cambiano completamente il comportamento di prima: anche qui sentiamo un tantinello di
propaganda, visto che oggi, quando il politeismo è completamente superato,
nondimeno tanti “Cristiani” non si
comportano per nulla bene]…
5. Dunque, se l’odio è per il nome, qual è mai
la colpa che voi rinfacciate ad un nome?
Quale accusa può essere rivolta ad un vocabolo, se non che possa avere
un suono barbarico o di cattivo augurio, oltraggioso o impudico? Il nome di ‘cristiano’
[e qui ritroviamo certe considerazioni di Giustino sulla dizione indicata da Svetonio, “Chrestus”, che però non è riferibile con sicurezza al Cristo dei
Vangeli], per quanto riguarda
l’etimologia della parola, deriva da
‘unzione’. E quand’anche voi pronunciate
‘crestiano’ - poiché neppure del nome avete una conoscenza
esatta -
questo termine nella sua composizione significa ‘dolcezza e bontà’. E dunque, in uomini innocenti, voi odiate
anche un appellativo innocente [Tertulliano, come molti altri, trascura un
fatto non indifferente: per il politico
romano, un uomo condannato alla croce è uno schiavo ribelle (cfr. Spartaco), un nemico di Roma. Se un
gruppo politico antischiavista si fosse –
allora - modellato su
Spartaco e simili, facendosi
chiamare “spartachisti o spartachiani”, sarebbe stato altrettanto deprecato e
condannato. Ora, farsi chiamare col nome di un
ribelle (o tale considerato: qui conta relativamente. Giuliano l’Apostata, che pure fu cristiano in
origine, li chiamava “Galilei”), non era certo un biglietto da visita
accettabile per i dirigenti romani. Ai
Romani, politeisti o laici che fossero,
la questione dell’”Unto” e dell’”unzione” (concezione di derivazione ebraica) non diceva nulla e non li confortava in nulla. Tertulliano sostiene pure che a nessun seguace di filosofo celebre o meno celebre
era vietato rifarsi al nome del fondatore della Scuola filosofica: come
argomentazione è piuttosto magra per le motivazioni sopra esposte. Sembra però dimenticare o ignorare che anche
verso i filosofi i Romani non furono molto teneri. Quanto in un’ambasceria di città greche giunse
a Roma il filosofo neoplatonico Carneade, che si diverti il primo giorno ad elogiare Roma come Potenza
Immortale, e il giorno successivo, per le medesime ragioni a prevederne il
crollo, Catone il Censore li fece
cacciare dalla città; alcuni gruppi filosofici,
pur senza gravi persecuzioni, vennero anche cacciati durante l’Impero. Alcuni di loro (Seneca in testa) furono costretti da Nerone al suicidio. Anche sotto questo aspetto i governanti
romani non furono sempre tolleranti, come qualcuno vorrebbe far credere]…
IV.
1. …mi accingerò a sostenere la causa
della nostra innocenza. Né mi limiterò
soltanto a confutare le accuse rivolteci, ma le ritorcerò su quegli stessi che
ci accusano. Da ciò i nostri avversari
sapranno che non sono imputabili ai cristiani quelle colpe di cui essi [riferito agli
anti-cristiani] non ignorano di
macchiarsi…
3. … anche se la nostra verità si oppone
intrepida alle vostre accuse, c’è sempre all’ultimo contro di essa l’autorità
delle leggi, alle quali si dice non sia lecito in alcun modo contrastare, e la
cui osservanza, anche per chi non voglia, deve necessariamente anteporsi alla
verità [siamo qui al principio “dura lex, sed lex”. Ne
riparlerò più ampiamente nella
Conclusione. Tertulliano osserva che non tutte le leggi possono essere
considerate meritevoli di applicazione, molte di esse o sono decadute, o non
sono applicate, altre sono abrogate e rinnovate, e cita alcuni esempi, tra cui
quello celebre delle XII Tavole, secondo cui i creditori potevano fare a pezzi il loro debitore]. Perciò, proprio con voi, che
siete i custodi delle leggi, io discuterò per prima cosa sul valore e sul significato delle leggi. 4. … quando voi sentenziate, a norma di
diritto, ‘non vi è permesso di
esistere’ e tale principio affermate soffocando
ogni esigenza di umanità, voi fate
ricorso ad una violenza e ad una tirannide iniqua… ci negate il diritto di
esistere unicamente perché non volete concederlo…
10. Quante delle vostre leggi, senza che voi lo
sappiate, devono essere emendate? Non il
numero degli anni, né l’autorità del legislatore dànno infatti valore alle
leggi, ma soltanto l’equità [che problema solleva
il nostro Tertulliano ! Quando una legge
è equa o giusta ? Chi deve affermarlo? Quali le condizioni per dirla equa o
giusta una certa legge? Ne tratterò, come detto, nella Conclusione. Qui, l’apologista sostiene che la legge che
vieta ai Cristiani di professare apertamente la propria fede è iniqua in
partenza, poi ritorna sul tema degli
specifici reati che i Cristiani, a detta dei loro nemici, compirebbero tutti]…
11. Ma perché le ho chiamate
inique? In verità, se condannano
soltanto un nome, dovrei chiamarle stolte,
se invece vogliono punire atti colposi, perché mai puniscono sulla base
del nome…? Sono incestuoso; perché non
indagano ? Sono infanticida: perché non mi sottopongono a tortura ? Commetto crimini contro gli dèi, contro i
Cesari: e perché non sono ascoltato, se posso difendermi? 12.
Nessuna legge vieta di indagare
su ciò che essa ritenga illecito. Non
c’è giudice che possa rivendicare giustamente il diritto di punire, se non ha
accertato come realmente perpetrato ciò che è lecito fare [il neretto è
mio: Tertulliano nulla si chiede sulla
legittimità della tortura in sé, segno che anch’egli l’accettava come metodo di
estorsione di informazioni, anche se del tutto
modernamente ritiene necessaria l’indagine per poter arrivare alla formulazione precisa
di accuse. Segue poi, novità
significativa, l’asserzione che
la legittimità della legge derivi dalla volontà di coloro che devono
adempierla, un principio di un’attualità
addirittura impressionante, detta circa 1800 anni fa] 13. Nessuna legge può trovare soltanto in se
stessa la consapevolezza della propria giustizia, ma deve attingerla da coloro
da cui vuole essere rispettata.
Peraltro, se non accetta controlli, è sospetta; se vuole imporsi con la forza, è iniqua [il neretto è mio: quando sentiamo dire che la democrazia è
stata “inventata” dagli Inglesi, si dice una balla colossale: gli Inglesi crearono un sistema aristocratico
che si evolse progressivamente in una forma oligarchica con parvenze
democratiche. La democrazia è concetto nato in Grecia, poi in parte assorbito
da Roma, ma solo la Rivoluzione
Francese ne diede una quasi completa
impostazione politico-istituzionale formale, esclusa la parte
economico-sociale, che ha teorizzazioni successive]…” [73].
Successivamente, Tertulliano vuol fare un
po’ la storia della legislazione sul tema:
qui si verifica una certa
fragilità delle sue conoscenze. Crea stupore venir a sapere che Tiberio, il
successore di Ottaviano Augusto, avrebbe chiesto al Senato il riconoscimento
legale del Cristianesimo (probabilmente sulla base di Vangeli apocrifi), ma proprio sotto
Tiberio Gesù fu crocifisso. Tiberio, addirittura, avrebbe stabilito la
pena di morte (!!!), per chi avesse calunniato i Cristiani (alla faccia della
tolleranza !!!) [74]. Segue poi una
serie di leggi, soprattutto quelle a scopo di moralizzazione, del tutto inapplicate. Ancora sfida a dimostrare la corruzione e i
delitti dei Cristiani [75]. Più avanti
se la prende con gli Ebrei, in cui vede una fonte di tali calunnie. Fa alcuni confronti con i riti misterici di varie religioni
politeiste, e sostiene che, se i Cristiani ne avessero di simili, non confesserebbero per nulla tali ritualità (ciò conferma quanto detto da Apuleio). Solo la fama (ovvero, la diffamazione) è alla
base della disinformazione e delle calunnie sulle riunioni
cristiane. Dopo aver confutato che i Cristiani,
nella loro estrema maggioranza, compiano un qualche reato (a parte il fatto di
dichiararsi Cristiani), Tertulliano
rinfaccia proprio ai loro critici pagani o politeisti questi vizi orrendi,
attribuiti perfino agli dèi [76].
Proprio per questo Tertulliano spiega che essi non celebrano gli dèi in
nessuna forma:
“
X. 1.
Voi dite: ‘ Voi non adorate gli
dei e non offrite sacrifici per gli imperatori’. E’
naturale. Noi non sacrifichiamo
per gli altri per la stessa ragione per cui non sacrifichiamo per noi stessi,
dal momento che non prestiamo culto agli dei. Ed ecco che voi ci perseguitate
come colpevoli di sacrilegio e di lesa maestà.
E’ questa l’accusa più grave…
2. Noi abbiamo cessato di prestare culto ai
vostri dei da quando abbiamo riconosciuto che essi non esistono… vi dimostriamo
che essi non sono dei… 3… questi vostri dei furono in origine degli uomini [a
parte il fatto che sofisticamente Tertulliano confonde la mitologia popolare
con le teorie teologiche degli antichi, in parte l’accusa di deificazione degli
uomini è vera, ma sarebbe facile
controbattere che la stessa cosa avvenne
di Gesù Cristo, ma su questo Tertulliano svicola; evidentemente l’offendere la religione politeista
prevalente allora nell’Impero non poteva certo passare inosservata, perché non
era una semplice disquisizione
teologica, come potevano fare quasi liberamente i filosofi del tempo, ma un attacco, forse anche materiale, alle
istituzioni religiose politeiste]... 14. La vostra giustizia è un insulto al
cielo. Divinizzate piuttosto i vostri
delinquenti [Tertulliano sostiene che, mentre i giudici condannano
certi vizi soprattutto sessuali e certi
crimini, nondimeno attribuiscono agli
dèi quegli stessi crimini. Anche qui
confonde mitologia popolare (specie Omero, Esiodo e successori) con le
condizioni religiose dell’età allora moderna, che interpretava come favole
o come allegorie tali miti.
Proprio sulla base di questa ricerca esegetica sui miti antichi, era
nata ad Alessandria d’Egitto l’esegesi
biblica di un Filone, che coglierà appunto come simboli ed allegorie
certe vicende bibliche. Se al Dio
biblico non vengono attribuiti i vizi sessuali, sicuramente gli vengono
attribuiti caratteri psicoantropomorfi, che Filone, e poi altri, si sforzeranno di interpretare come
allegorici. Un Dio che passeggia
nell’Eden o stermina primogeniti e distrugge intere città, non è certo più
credibile di un Dio che si trasforma in toro o in pioggia per sedurre
ragazzine. Ma naturalmente ognuno vede
travi e pagliuzze sempre negli occhi altrui]…
XII. 1.
… I vostri dei ! non odo altro
che nomi di antichi defunti…
6 Ma non siete voi che ammirate
un Seneca, quando con parole ben più amare discute a lungo sulla vostra
superstizione [in realtà, come già si è detto, Seneca critica ogni forma di adorazione alla
divinità, qualunque essa sia, non avendo
essa bisogno o desiderio di simili onori]…
XIII. 1. …
proprio voi peccate manifestamente di empietà, di sacrilegio… Li trascurate,
mentre ne affermate l’esistenza; li distruggete, mentre ne avete timore; li mettete in pericolo, mentre vi atteggiate
a loro vindici ! 2. Dite voi se non è così. Prima di tutto, dal momento che onorate
ciascuno divinità proprie, recate offesa a quelle che ignorate [non
è privo di abile furbizia,
Tertulliano: dice che essi
credono in tutti gli dèi, ma ne adorano solo alcuni preferiti trascurando gli
altri, un po’ come tra i Cristiani vi sarebbero devoti di questa o quella
Madonna, di questo o quel Santo, ma dimenticherebbero magari Dio. Sentite poi questa, pensando a quanto è accaduto nei secoli
successivi]… 6. … La
maestà degli dei è fatta oggetto di lucro, e la religione va mendicando in giro per le bettole: si accampano diritti per sostare in un
tempio [cfr. quanto dice Gesù sui mercanti del tempio - ebraico, non pagano - e
vedremo quanto sono credibili i pulpiti
provenienti da religione organizzate in classi sacerdotali !].
Non è lecito conoscere gratuitamente
gli dei: si pongono
all’incanto…”.
Segue ancora tutta un’irrisione degli dèi,
nella loro versione letteraria e popolare [77].
Si diffonde quindi nell’esposizione delle dottrine cristiane, teologiche
ed etiche, ben conosciute ai credenti
che, a suo e loro parere, sono
rivelazioni dirette di Dio, tramite i profeti. Dichiara, il che sarà tipico dei Cristiani
nel tempo, che tutti gli altri popoli si ispirarono in modo confuso ed erroneo
alla rivelazione, ovviamente fatto del tutto antistorico; considera le leggi vigenti solo una
deformazione dell’antica legge divina;
considera infallibili le profezie, e non si rende conto che le profezie
“riuscite” null’altro sono che
ricostruite a posteriori. Riguardo al
Cristo in quanto Logos, confonde
il concetto filosofico con quanto detto dalla Bibbia e, soprattutto, nel
Vangelo di Giovanni (prologo). Riguardo alla Trinità, si esprime in un modo
un tantino ambiguo, per cui, se si prescinde da eventuali successive e
correttive interpolazioni (per nulla improbabili), il suo concetto trinitario ricorda certe
concezioni neoplatoniche emanatiste, piuttosto che la coesistenza di tre Persone o Ipostasi nell’unica Divinità:
“
XXI. … 13. Per
cui, anche ciò che promana da Dio è Dio [qui
il trinitarismo sembrerebbe perfetto] e
figlio di Dio, ed unico Dio entrambi.
Così spirito da spirito, Dio da Dio [luce da luce, aggiungerà il
Credo di Nicea], diverso in misura [se
è diverso in misura, il secondo non ha la stessa misura del primo, quindi il trinitarismo non sarebbe
perfetto, ma posto in una scala gerarchica],
costituì un numero per rango, non già per condizione [chissà che differenza
tra rango e condizione…], non distaccato
ma emanato dalla sostanza primordiale [il buon Tertulliano, naturalmente, evita di
dire che, senza la filosofia greca e
senza la mediazione di Filone di Alessandria, un tale concetto di Dio, uno e
trino, non reggerebbe neppure a parole, come dovettero poi ammettere teologi
del calibro di Agostino d’Ippona o di Tommaso d’Aquino, che videro nella
Trinità un mistero teologico, un dogma
di fede, non certo un elemento dimostrabile razionalmente. Prosegue ancora contro gli Ebrei che si
rifiutano di riconoscere la messianicità
del Gesù crocifisso. Si parla
poi di esseri spirituali ultraumani, e di Satana a cui, come da antico tempo, gli uomini, in cerca di alibi ai loro vizi e
delitti, attribuirono la fonte di ogni male, dimenticando che l’unico vero
Satana (oppositore) a Dio è proprio
l’Uomo stesso, quando confonde la giustizia con i propri comodi personali
corporei; sulla potenza di Roma, dichiarata
forte con l’aiuto degli dèi, mentre essa è dovuta all’uno e trino Dio]…” [78].
Dopo varie disquisizioni sul rifiuto
all’adorazione e ai sacrifici in nome degli imperatori, Tertulliano, sulla base del principio paolino che “omnis potestas a Deo”, ovvero che ogni
potere, ogni autorità dominante sulla
Terra, ha questo potere per concessione di Dio, il quale altrimenti li farebbe
crollare in ogni momento, sostiene che i
Cristiani non rifiutano la preghiera verso Dio a favore della salute e del benessere
dell’imperatore, malgrado le persecuzioni passate o, eventualmente, future:
“XXX. 1.
Noi infatti invochiamo per la salvezza degli imperatori il Dio eterno,
il Dio vero, il Dio vivo, Colui che gli imperatori stessi desiderano avere
propizio più di tutti gli altri. Essi
sanno chi abbia loro conferito l’impero, poiché, in quanto uomini, sanno chi
loro ha dato la vita. Sentono che quello
solo è il Dio, dalla cui autorità essi dipendono… 2.
Considerando i limiti della loro potenza, essi sono indotti a credere
alla esistenza di Dio, comprendono che nulla possono contro di Lui, riconoscono
che per grazia divina essi sono potenti…
4. Levando in alto lo sguardo verso questo Iddio
con le braccia stese perché innocenti, a capo scoperto, perché di nulla dobbiamo
arrossire…, noi cristiani innalziamo preghiere per tutti gli imperatori [anche
per i persecutori, anche per i Nerone ?]
e per essi invochiamo una vita lunga ed un regno tranquillo…
7. Mentre così la nostra anima si protende a
Dio, ci lacerino pure le vostre unghie di ferro, ci sospendano in alto le
croci, ci lambiscano le fiamme, ci trafiggano le vostre spade, ci assalgano le
belve… Su dunque, ottimi governatori, uccidete chi prega Dio per l’imperatore…
XXXII. … 2…
Negli imperatori noi rispettiamo i decreti di Dio, che li volle alla testa
dei popoli….
XXXVII. [Tertulliano intende
ribadire che la preghiera per l’imperatore non vuol essere un atto falso di
ossequio formale, dietro il quale si nasconde l’irrisione o il tradimento. Prosegue col sostenere che i Cristiani non
odiano neppure i loro nemici (peccato che poi venga smentito dalle lotte
interne allo stesso Cristianesimo, ancora egli in vita). Essere cristiano vuol dire essere buono,
onesto, puro, senza alcuna grave pecca.
Si sente qui, più che l’apologista, il propagandista, come quando arriva a far vedere,
contraddicendosi con note precedenti, un
Impero ormai traboccante di Cristiani:
bellissimo e forte il suo discorso, ma un po’ lontano dalla realtà].
Allora
quando una Legge può dirsi umanamente “giusta” in senso sia pur relativo e
progressivo ? Quando risponde a criteri di Razionalità,
logica (non deve essere contraddittoria con altre), morale (deve
mirare al bene generale, e non agli affari sporchi di pochi), chiara
(interpretabile e comprensibile a tutti), semplice per
quanto si possa secondo le situazioni, non puramente teorica ma
pratica, ovvero attuabile. Una Legge non attuabile, perché
rispondente solo a criteri di “giustizia” teorica o astratta, non è
comunque una legge valida. Questi, pertanto, i criteri da
porre quando si emana una legge, se si vuole che tale
legge venga rispettata non solo a parole o con declamazioni, ma adempiuta nei
fatti quotidianamente, e verso la quale la grande maggioranza o la quasi unanimità (ovviamente, eccezioni criminali vi saranno
sempre: l’umanità è ente collettivo perfettibile, non perfetto) si
sentiranno impegnate ad adempierla rigorosamente.
1. Se la nostra legge… ci impone di amare anche i nostri
nemici, chi mai potremmo noi odiare [i Cristiani erano
accusati di odiare l’intera umanità] ?... 2… la folla non
risparmia neppure i cristiani defunti, ma dalla pace dei sepolcri…, ne trae
fuori le salme, già decomposte e sfigurate, per farle a pezzi… 3… Quali offese
volete vendicare su uomini così intrepidi di fronte alla morte, quando
una sola notte e poche fiaccole [qui Tertulliano insieme
minaccia e rabbonisce, vantando la forza numerica dei Cristiani, questo in
contraddizione con la “folla” degli anti-cristiani[, se a noi fosse
consentito contraccambiare il male per male, basterebbero a scatenare la più
atroce delle vendette ?...
4. Se noi volessimo agire, non dico da vendicatori occulti, ma da
nemici dichiarati ci mancherebbero forse battaglioni e truppe?... Siamo
di ieri [qui il tono è molto declamatorio, ma un
po’ da spaccone: siamo da “ieri”, ma il Cristianesimo ormai contava oltre
150 anni, a dire il vero]: eppure, abbiamo già
invaso tutta la terra e i vostri domini; le città, le isole, le rocche, i
municipi, le borgate, gli accampamenti stessi, le tribù, le decurie, la corte,
il senato, il foro. A voi soltanto i templi abbiamo lasciato
! 5. Possiamo contare i vostri soldati [l’Esercito
romano, in età imperiale, aveva un massimo di 500.000 uomini in
tutto l’Impero. Difficile è il calcolo complessivo delle
popolazioni ivi stanziate. In Italia non superò mai in quei secoli i 10
milioni. Possiamo dunque calcolare orientativamente che i Cristiani
del tempo di Tertulliano non superavano in tutto l’Impero le
600.000 unità, quindi una minoranza sostanziosa, ma ben lontana dal vanto
che egli fa di questa forza, senza contarne le divisioni ideologiche, e
teologiche: ciò che, piuttosto, poteva apparire temibile era la loro
continua crescita malgrado le stragi]: ebbene, in una sola provincia
noi cristiani siamo più numerosi…
6. Senza armi e senza rivolte, ma soltanto allontanandoci
da voi [dove ? qui egli si rifà all’antica
secessione dei plebei agli inizi della Repubblica, ma allora Roma
occupava solo un piccola parte del Lazio], avremmo potuto combattervi vittoriosamente con un atto di sdegnosa
secessione. Se tutti noi, moltitudine immensa quale siamo, ci ritraessimo
in qualche remoto lembo della terra [dove ? nella
Sarmazia, l’attuale Russia ? Nel Sahara ? Qui l’enfasi
è alquanto eccessiva], certamente dalla perdita di tanti cittadini…,
resterebbe umiliato… il vostro orgoglio di dominatori… 8. … voi li
chiamate nemici del genere umano, piuttosto che nemici dell’umano errore…
XXXVIII. 1… Non doveva neppure considerarsi tra le sette
illecite questa nostra comunità, dal momento che in essa nulla si commette di
quanto si teme da parte delle sette illecite [dal che si può capire che non soltanto i gruppi cristiani venivano
perseguitati o soffocati]. 2. La tutela dell’ordine pubblico…
costituisce il motivo principale per cui si condanna ogni genere di
associazione. Si vuole evitare che la città si scinda in fazioni, e
che rancori e passioni di parte gettino facilmente il disordine nei comizi [anche qui constatiamo la sopravvivenza delle antiche riunioni a scopo di
dibattito e di voto, anche se soltanto formali, già vigenti nell’età
repubblicana]…, nelle adunanze popolari e perfino negli spettacoli…
4. In quanto poi ai vostri spettacoli [ovviamente, non solo i giochi del circo tra gladiatori, ma anche le corse
di cavalli, con bighe o quadrighe, che infervorarono il popolo fino
all’età di Giustiniano che, su suggerimento dell’imperatrice Teodora,
fece soffocare nel sangue la rivolta all’Ippodromo di
Costantinopoli, tra i sostenitori dei Verdi e degli Azzurri, due partiti
storici di tifosi, ma anche di religiosi e politici, che imperversarono a
quei tempi. Molte analogie con l’odierno gioco del calcio, e segno degli
effetti negativi e violenti che questi spettacoli hanno nella cultura popolare],
noi vi rinunciamo senza sforzo, poiché non solo ci sentiamo estranei alle loro
origini, che sappiamo derivare da superstizione, ma siamo anche insensibili a
ciò che in essi si rappresenta. La nostra lingua, i nostri occhi, le
nostre orecchie nulla hanno in comune con la follia dei vostri circhi, con
l’oscenità dei vostri teatri, con la crudeltà delle vostre arene, con la
frivola ostentazione dei vostri portici…” [79].
Tertulliano si diffonde poi ampiamente a spiegare
le caratteristiche, spiritualmente religiose dei Cristiani, il loro modo sobrio
e puro di vita, individuale e comunitaria, la loro prima forma organizzativa,
la loro solidarietà, del tutto opposte a come vengono dipinti da accusatori e
calunniatori. Non nemici del genere umano, ma persone che hanno una vita
sociale e di lavoro del tutto normale, ancorché non si partecipi a certi
vizi collettivi, vigenti tra i pagani. Una cosa curiosa, da notare non
solo perché detta da Tertulliano, la descrizione dell’evasione fiscale,
già allora presente, senza che però mai se ne capisca la ragione profonda,
ovvero l’invasività quantitativa, qualitativa e procedurale del sistema fiscale
in Italia (o nell’Impero di allora).
“XLII. … 9. Ma anche le altre imposte si assottigliano !
Sarà sufficiente che le altre imposte riconoscano ai cristiani il merito
di versare scrupolosamente il loro tributo, senza commettere frodi in danno di
altri [chissà di che religione sono gli attuali
evasori fiscali ?]: ché se si facesse il calcolo di quanto ci
rimette il fisco a causa delle frodi e delle menzogne delle vostre denunce [anche allora i modelli 730 oggi vigenti ?], si potrebbe vedere che il
conto torna…” [80].
L’apologista nega altresì che il
cristiano sia mai un piccolo o grande delinquente e, se lo diventasse, non
sarebbe più cristiano. Ottimo, ma resta sempre da chiederci: i
delinquenti dal secolo V d. C. in poi a quale religione appartenevano
? Procedendo, Tertulliano rileva ai giudici:
“ XLIX. … 5. Io sono cristiano, solo che lo voglia, e tu
potrai condannarmi, solo che io voglia essere condannato [basterebbe ritrattare tale fede e si sarebbe salvi, questo
intende l’apologista]. Dal momento dunque che ciò che tu puoi
contro di me, non lo potresti, se io non volessi… 6. Vano è perciò il
godimento del popolo per la persecuzione cui siamo soggetti: in verità
quel gaudio che il popolo rivendica per sé, è nostro. Perché noi
preferiamo essere condannati, piuttosto che rinnegare Dio… noi infatti
otteniamo ciò che abbiamo voluto.
L. 1. ‘Perché dunque vi lamentate, se vi perseguitiamo’,
direte voi,’ quando la sofferenza vi è grata…?’. E’ vero. Noi
accettiamo la sofferenza: ma al modo stesso della guerra, che nessuno
accetta volentieri… 2. … La nostra guerra è nell’essere trascinati
davanti ai tribunali, per combattere in difesa della verità a rischio della
nostra vita. E la nostra vittoria consiste nell’ottenere ciò per cui si
combatte: la gloria di piacere a Dio e il possesso della vita eterna…
3. … Chiamateci pure gente da sarmenti e gente da patibolo, perché ci
legate a croci di legno e ci bruciate alla fiamma di fascine…, questo il
nostro carro trionfale !
4. … questa stessa disperazione, questa follia… sono simbolo di virtù… [dopo aver citato anche alcuni eroici esempi di martirio pur tra i
pagani, Tertulliano arriva a quella splendida conclusione che è
come la profezia di un immenso avvenire, espressa col vigore della lingua e
dell’oratoria classica]… 12. Fate pure, valorosi governatori: sarete
molto più stimati presso il popolo, se gli sacrificherete dei cristiani. Tormentate, torturate, condannate, calpestate: la vostra iniquità è
la prova della nostra innocenza! E’ questo il motivo per cui
Dio tollera che noi soffriamo tali patimenti. Anche di recente,
condannando una fanciulla cristiana al lenone [alcune giovani donne, e specialmente se vergini, venivano punite non con
la morte, ma con multiple violenze carnali o alla prostituzione forzata],
anziché al leone, avete riconosciuto che per noi l’offesa al pudore è più
atroce di ogni altro castigo…
13. E tuttavia, per quanto raffinata, a nulla serve la vostra
crudeltà: anzi… essa è un allettamento. A ogni vostro colpo di
falce diveniamo più numerosi: è seme il sangue dei cristiani!…
16. Non c’è colpa che non sia riscattata dal martirio. Ecco perché
davanti ai vostri tribunali noi rendiamo grazie alle vostre sentenze: per
il contrasto che vi è tra le cose divine ed umane, quando voi ci
condannate, Dio ci assolve !” [81 - il neretto è mio per sottolineare la potenza
espressiva della conclusione].
Il martirio quindi è
fonte di ulteriori conversioni. L’esempio eroico dei Cristiani, morenti in modo
orribile, spinge altri uomini alla conversione e al pentimento. Non è
dunque tanto il numero allora esistente dei Cristiani a sollevare la passione e
l’entusiasmo di Tertulliano, quanto l’immagine profetica ed
escatologica di un futuro di totale trionfo del Cristianesimo in
tutto il mondo allora conosciuto.
CONCLUSIONE: IL PRINCIPIO DI ANTIGONE
E LA LEGGE DI CREONTE
Una domanda secca ai lettori: incontrate
oggi avvocati col vigore oratorio e dialettico di persone come
Quintiliano, Apuleio, Tertulliano? Personalmente non
ne ho incontrato nessuno: oggi gli avvocati sono tutti stanchi e vecchi
epigoni, tremolanti all’idea di affrontare grandi princìpi, di
indirizzare quella che viene chiamata “giurisprudenza” in senso
tecnico, ovvero la serie di assiomi e di postulati (massime) che
costituiscono l’ossatura delle sentenze, specialmente di Cassazione, verso mete
alte, e non verso le solite mediocri bassure. Deboli epigoni, gli
avvocati d’oggi seguono mollemente le sentenze, se le studiano a memoria, come
certi articoli di legge, ma non sanno minimamente porsi la domanda quando e
come si debba andare oltre certe tradizioni acquisite. Capaci
sì di battere cassa prontamente, ma quanto a capacità di difesa
reale, ne vediamo scarsetta. Questo è dovuto alla
fragilità e mnemonicità dello studio universitario, che premia la
buona memoria piuttosto che i buoni intelletti, soprattutto se critici e
perfezionatori del sistema. D’altronde, questa incapacità di
perfezionare arti e scienze, ma piuttosto capacità di imbruttirle, è
una caratteristica tipica del secolo XX e XXI ai suoi inizi, secolo
di grande tecnologia, ma di scarse conquiste del pensiero
e dell’osservazione. Nel futuro si vedrà .
Detto ciò, ritorniamo al nostro centrale
argomento. Inutile che io riassuma qui la storia tragica di
Antigone e dello zio tiranno e “golpista” Creonte, che
sicuramente gran parte dei lettori conosceranno anche meglio di me dalla
letture di tragedie classiche e moderne. Cerchiamo veramente
di determinare che cosa sia quello che qui viene chiamato principio di
Antigone (etimologicamente: “nata contro”) e
quale sia la legge di Creonte.
Solo la filosofia greca poteva
porsi l’interrogativo fondamentale: è giusta ogni legge
? Quando la legge va eseguita sempre ? Quando
la legge dev’essere disobbedita ? Ora, Antigone, figlia di
Edipo, sfida l’ira del tiranno Creonte che vuol lasciare insepolti i
corpi dei fratelli di Antigone, uccisisi in battaglia. Ora,
un Romano invece, poco portato alla filosofia, sosteneva “dura
lex, sed lex”: la legge, in quanto legge, deve essere
adempiuta, fosse anche ingiusta o non giusta per questo o quell’altro singolo
caso. I concetti di Giustizia e di Legge non vanno sempre a
braccetto. Si tratta di determinare se prevalga l’una
(principio di Antigone) o se prevalga l’altra (legge di
Creonte). Ma a sua volta si tratta di definire che
cosa sia la Giustizia e quando una Legge sia veramente tale (ovvero,
le condizioni che fanno di una Legge un atto formale e valido
affinché debba essere eseguito senza eccezioni). Anche
qui i Romani dimostrarono la loro debolezza teoretica nel definire
la Giustizia: l’espressione o brocardo, che i loro grandi giuristi
seppero elaborare, afferma “A ciascuno il suo”, una
frase che sembra logica, ma non lo è per nulla trattandosi appunto
di determinare: 1) se la proprietà, in quanto principio
economico e sociale sia giusto in generale (i comunisti delle origini lo
negavano); 2) in che senso una cosa appartenga a qualcuno
e se gli appartenga legittimamente: quindi, nella definizione
tradizionale, più che la Giustizia entra in gioco la legittimità
della proprietà o appartenenza, naturalmente tutta da dimostrare; non
Principio, quindi, ma effetto di una norma convenzionale, la cui
“giustizia” va appunto dimostrata. Giustizia è
ben altro, ovvero un principio super-umano per cui l’Essere delle cose coincida
perfettamente col Dover Essere: quando l’Essere, o un ente
specifico, non può e non deve essere diversamente da quello che è. Super-umano
sicuramente, in quanto le cose umane spesso, se non sempre, sono diversamente
da quello che potrebbero o dovrebbero essere. Nel mondo materiale e
nel mondo umano, la Giustizia (già relativizzata) è
piuttosto corrispondenza progressiva tra l’essere, o l’ente
specifico, e il Dover Essere quale modello da imitare o raggiungere
di valore universale. Nel senso assoluto, abbiamo il frainteso
principio hegeliano “Tutto ciò che è razionale, è reale; tutto
ciò che è reale è razionale”, espresso nella sua “Filosofia del
Diritto”, frainteso in quanto lo si concepì come un’esaltazione
dello Stato vigente [82], mentre è vero che, se Hegel non aveva lo
spirito libero e ribelle di un Fichte, che perdette anche la
cattedra universitaria pur di mantener fede alle proprie convinzioni, tuttavia
non aveva neppure uno spirito di servo. Ciò che Hegel vuol
dire è che la Realtà, nel suo senso assoluto, non può, non deve essere diversa
da ciò che è, e che in questa impossibilità ha la sua ragione, ma
essa è pure legata ad un’evoluzione dello Spirito per cui, sempre in base a
tale coincidenza tra Essere e Dover Essere, perfeziona continuamente se
stesso. La corrispondenza tra essere e Dover Essere è
piuttosto kantiana, corrisponde ad un’esigenza non tanto ontologica, quanto
morale, per cui appare anche la scelta tra il dover agire in senso
migliorativo della realtà oppure in senso conservatore o
reazionario. La libertà, in Hegel, ha l’aspetto di
negazione di ogni ostacolo al processo spirituale; in Kant, quello
di capacità di scelta (soprattutto nell’ambito dell’azione umana), e dunque di
responsabilità. I nomi fatti mi servono dunque per far capire
(spero, almeno) di come debba essere intesa la Giustizia in
senso assoluto, e in senso relativo (umano, biologico, materiale). Ha
carattere statico in senso assoluto (non possiamo concepire una
Giustizia che si modifichi nella sua essenza), ha carattere dinamico,
progressivo, evolutivo in sede umana, biologica,
materiale. Potremmo dire: solo in Dio Essere
e Dover Essere coincidono; nell’Umanità, nel mondo biologico, nel
mondo inorganico, c’è un processo di lenta
corrispondenza tra singoli stati, condizioni e il
Dover Essere, che costituisce fine, modello dei primi (si torna
quindi al Motore Immobile aristotelico, ma non più inteso come Ente
indifferente alle cose, bensì Ente che sollecita le cose ad adeguarsi sempre di
più a Se stesso).
Questa è dunque la Giustizia nella sua
caratteristica ontologica, di essenza universale, che nulla ha a che
vedere con quella serie di procedure, più o meno regolari, più o
meno apprezzabili che avvengono in quei tristi Palazzi che qualcuno - molto
ingenuamente - ha chiamato di Giustizia, mentre tutt’al più, e solo
nei casi migliori, avrebbe dovuto chiamarli Palazzi della Legge.
Già, ma che cos’è la Legge
? Segnalo brevemente il suo significato nelle scienze
naturali, ovvero il principio che regola determinati
fenomeni materiali, e che potrebbe definirsi semplicemente sulla base del
principio di conseguenza: A uguali condizioni interagenti, uguali
conseguenze. La sperimentazione, in senso fisico, non fa
che applicare tale principio: un fenomeno è ripetibile se ne
conosciamo tutte le condizioni che interagiscono fra di loro. Il che è
relativamente facile in sede inorganica, con materia non vivente; non
altrettanto nel mondo organico. E tanto più difficile è la
sperimentazione quanto più complesso, e non interamente conosciuto, è
l’ente organico oggetto di sperimentazione.
La legge in senso umano è null’altro che una
formulazione verbale che esprime l’obbligo di fare o il divieto di
fare; oppure, più in dettaglio, di dover fare in un certo modo anche
cose che non sono obbligatoriamente da fare o non fare. Cito, il
matrimonio a titolo d’esempio. Oggi nessuno è forzato a sposarsi, ma se vuole
farlo, deve seguire determinate procedure, onde il suo matrimonio sia
riconosciuto come tale da tutti, il che implica doveri e diritti, libertà e
responsabilità. Lo stesso dicasi per il suo opposto, ovvero il
divorzio. Non si è obbligati a divorziare, ma se si decide in tale
senso, occorre una serie di atti formali, ufficiali, riconoscibili dalla società
in cui si vive.
Ora segue il problema: quando tale
legge, tale formulazione merita adempimento ? a quali condizioni lo merita
? chi è che ha il potere di formulare la legge ? a
quali condizioni ? Non tutte le leggi meritano
adempimento, se queste non corrispondono a condizioni minime di
esecuzione. Come già Tertulliano, e prima di lui, molti filosofi
greci, la Legge è tale quando viene
deliberata col consenso di tutti coloro che la devono eseguire. Già,
si obietterà, questo va bene, ma c’è pure un certo numero di persone a cui fa
comodo non adempiere ad alcuna legge, e fare quello che gli fa piacere o comodo
fare, per cui non daranno mai consenso alla Legge in generale,
oppure a questa o a quell’altra singola disposizione, pur se decisa quasi
all’unanimità. Questo è vero, ma saranno le stesse
persone a lagnarsi quando, a loro volta, saranno colpiti da azioni capricciose,
arbitrarie, egoistiche di qualcuno. Perché l’uomo è un essere
curioso: non si lamenta quando egli stesso
compie azioni malvagie o contrarie alla legge, ma è il primo a piagnucolare e
protestare, quando egli stesso è oggetto di queste violazioni. Contrariamente
a quanto sostenuto da Feuerbach e Marx, l’uomo tende a proiettare all’esterno
non il proprio Bene, ipostatizzandolo in un Dio, bensì il
proprio Male, ipostatizzandolo in qualche Satana di turno, che diventa la
“testa di turco” di ogni sua cattiva intenzione. Molte
religioni, non certo per stupidità, hanno favorito questo processo
di alienazione del male interiore dell’uomo, piuttosto che del bene.
Trovatemi uno che dica: io sono malvagio, io sono cattivo, io ho
agito male (forse nel segreto de confessionale, ma quello è un discorso diverso,
perché compiuto nell’illusione di esserne perdonato). Tutti
si dicono buoni, se non santi e, se agiscono male, sostengono: “La
colpa non è mia, è di quell’Essere spregevole che mi tenta, è
di Satana, di Lucifero, di Ahriman, dell’Angelo del male, ecc.
ecc.”. Se l’uomo non sapesse distinguere tra bene e male,
tollererebbe il male che fa, ma anche il male che subisce [83],
invece questa possibilità è assai rara, o puramente
verbale. Questo atteggiamento di gran parte delle religioni
positive ha lo scopo politico di attrarre le plebi, assolvendole
almeno in parte da qualunque aberrazione, così si alimentano
l’egoismo, l’interesse, il calcolo. La stessa azione è buona se la
facciamo noi; è cattiva se, verso di noi, la fanno gli altri. Questa
miserevole furbizia dimostra che l’uomo (ovviamente, consapevole, adulto,
maturo: tralasciamo i bambini e le persone con problemi gravi di
carattere psichico e intellettivo) sa ben distinguere il bene e il male, ma
li misura secondo il suo comodo, non secondo la Giustizia, che è imparziale e
pone una distinzione assoluta, senza relativismi, tra il bene e il male,
indipendentemente dagli interessi e i comodi di ciascuno.
Nel dibattito tra il principio di Antigone e la
Legge di Creonte, ci si deve successivamente chiedere: quando la
Legge è veramente tale, quando la Legge è doverosamente
eseguibile, quando la Legge è puramente convenzionale o neutra,
quando infine la legge va rigettata perché iniqua? Il consenso
generale ad una legge, unanime, di grande maggioranza (oltre il 50 % + 1), di
maggioranza semplice (il 50% + 1), relativa (sotto il 50%, ma superiore a tutti
gli altri) è una condizione necessaria, ma tutt’altro che
sufficiente, in quanto necessitano nei votanti una conoscenza ed una
consapevolezza civica, politica, sociale ed economica ieri ed oggi
assolutamente rare. Molta gente vota solo per propaganda o minaccia
o paura, non in modo ragionevole. Non basta quindi la
quantità dei voti, ma è essenziale la sua qualità. Tanto più elevata
è la cultura media dei cittadini, tanto maggiore è la consapevolezza
civica degli stessi, tanto più probabile che la legge approvata dal
popolo sia migliore d’ogni altra, se non giusta al
massimo grado possibile.
Vi è altresì da considerare che il popolo delega il
proprio potere legislativo a determinate persone
stabilite da una Costituzione: ora è essenziale che l’Organo
legislativo rappresenti proporzionalmente e qualitativamente la volontà
popolare. Un’assemblea eletta con trucchi e regolette volute non
negli interessi e per le esigenze del popolo, ma di qualche oligarchia
truffaldina, non può certo vantarsi di quel consenso anche relativo di cui
sopra si è detto. Le leggi emanate da Organi siffatti dunque non
sono mai “buone od oneste leggi”, ma solo atti di volontà o di arbitrio di chi
li emette per gli interessi dell’oligarchia che esercita il potere. Possono
anche casualmente essere prossime al giusto, ma non sono mai “giuste” nel
corretto senso del termine.
Ora torniamo ai nostri Antigone e
Creonte. Spesso le leggi, nel passato come nel presente, non
manifestano affatto le condizioni sopra esposte: alcune,
quindi, sono neutre (ovvero, vi si adegua secondo la volontà dei
singoli o dei gruppi), altre sono del tutto inique, e non vanno
adempiute; tutte quelle fondate solo sulla Forza, sull’arbitrio di
pochi, a danno delle maggioranze in primo luogo (talvolta anche di determinate
minoranze, solo per ragioni etniche o linguistiche o di tradizione
religiosa), sono inique e non vanno obbedite, con
gli strumenti legittimi di opposizione, se vi sono; con la forza
materiale se questi strumenti vengono vietati, ma obbedendo sempre a
criteri di proporzionalità e di giustizia. Non si combatte
l’ingiustizia con un’ingiustizia uguale e contraria, o perfino
peggiore. Non basta imporre cambiamenti, come oggi è di moda
dire: occorre che questi cambiamenti tendano il più possibile al
miglioramento costante, perché altrimenti o si cambia puramente l’apparenza
delle cose, o - peggio ancora - si finisce per
aggravare il male già esistente (la storia d’Italia e d’Europa, in questi
ultimi vent’anni specialmente, lo dimostrano con
larghezza) .
Applicazione della Legge, giusta o ingiusta che sia,
è la sentenza, la quale - secondo i giuristi -
va sempre rispettata: in realtà, chi si dedica allo studio della
storia giudiziaria, vede quanto sangue e quanta iniqua barbarie o
stoltezza si rovescino dalle sentenze. Anche qui appare
l’immagine ontologico-giuridica di Creonte, che è Re, Legislatore ed anche
Giudice: come tale, egli decreta la Legge e insieme la
sentenza. Creonte null’altro è che la personificazione dello Stato
autoritario, assolutista e violento. Ma anche dove i Creonti siano
più organi con diverse funzioni, ciò non toglie che la sentenza va
rispettata solo quando applichi una Legge, per quanto possibile
all’uomo, giusta ovvero razionale e morale, con rigorosa coerenza ed
assoluta imparzialità (aspetti questi veramente rari nella storia
giudiziaria).
Torniamo ora al tema di partenza,
avviandoci alla conclusione di questo saggio: che
senso avevano le terribili persecuzioni dei Cristiani ? Veramente i
Romani, in questo caso e solo in questo caso, dimostravano ancor prima della
violenza, una totale stupidità perseguendo il puro nome
di un gruppo religioso? A che cosa era dovuto l’odio
verso i Cristiani da parte delle alte classi dirigenti ?
Un lavoro di ricerca non deve prescindere da
un dato di fatto che si può ricavare studiando il fenomeno cristiano: vanno
distinti i Cristiani privi di cittadinanza romana (la maggioranza, almeno fino
all’Editto di Caracalla del 212 d. C.) dai Cristiani già
godenti di cittadinanza romana. I primi non avevano alcuna ragione
di solidarietà né con l’Impero né tantomeno con i suoi
dirigenti. Essi, molto probabilmente (lo si ricava da varie opere
rimasteci, anche se modificate successivamente, nelle quali si trovano
residui in alcuni discorsi di vari apologisti, fino ad
arrivare ad Agostino d’Ippona e alla sua “La Città di Dio”,
dove si ribadisce l’esigenza biblica del tempo limitato ai governi umani, prima
di fondare il regno di Dio sulla Terra), consideravano parimenti deicidi tanto
i Romani, quanto gli Ebrei, per cui l’odio per la crocifissione di Dio
accomunava ambedue i popoli e i loro dirigenti. I secondi,
invece - divenuti con l’Editto di Caracalla del III secolo la
maggioranza dei Cristiani, ovvero 101 anni prima dell’Editto costantiniano di
Milano - escludevano Roma e i suoi dirigenti dalla colpa del
deicidio, mantenevano una parziale o totale solidarietà con la
tradizione istituzionale e politica di Roma, rovesciando l’intera colpa del
deicidio sugli Ebrei. Perlomeno fino alla
liberalizzazione delle religioni da parte di Costantino (Editto di
Milano del 313 d.C.), molti gruppi cristiani non dovevano
essere alieni dalla violenza, da lotte intestine di gruppo, dalla lotta contro
l’Impero e contro gli Ebrei. Quindi, non immaginiamoci i
Cristiani tutti come martiri innocenti ed angioletti. Sicuramente,
molti documenti che provavano il contrario vennero distrutti con
l’Editto di Teodosio II e Valentiniano III (rispettivamente
imperatori d’Oriente e d’Occidente) del 448 d. C., e quasi solo per
caso ci resta un’opera come quella di Celso nei frammenti
citati da Origene. Però i fatti successivi lo dimostrano, quali le
persecuzioni tra Cristiani “ufficiali” e i vari gruppi eretici o
considerati tali, così come quelle contro i gruppi residui di politeisti o le
Scuole filosofiche. Non si diventa, da santi pacifici, dei violenti
in modo improvviso, se non vi è già una radice ideologica orientata in tale
senso, e che prima dell’ufficializzazione del Cristianesimo come religione di
Stato, non si poteva manifestare apertamente.
Quindi, la dirigenza romana, con
sistemi indubbiamente iniqui, sproporzionati, controproducenti, anche
criminali, non era del tutto priva di ragione nel considerare i
Cristiani nemici dell’Impero e delle istituzioni (tali restarono
almeno fino agli inizi del III secolo), né capirono almeno
fino a Costantino la disponibilità cristiana (ben
dimostrata in un Giustino e nello stesso Tertulliano) a quel grande compromesso
veramente storico tra Cristianesimo e politeismo nella
forma di un Cattolicesimo, diventato con Teodosio religione di Stato ed
istituzione tanto religiosa quanto politica. Certo, non capirono per
nulla lo spirito generale di questa nuova
religione, mentre viceversa le molte altre correnti religiose, misteriche,
filosofiche, per quanto anch’esse perseguitate, ebbero ciò
nonostante trattamenti più corrispondenti alla legge penale ordinaria, in
quanto meno contrastanti con la comune mentalità classica. Il confronto tra
Apuleio e Tertulliano trova così il suo pieno significato: il
processo contro Apuleio è un processo civile/penale regolare, dove
la difesa ha totale diritto; il processo contro
i Cristiani è una procedura straordinaria ed abusiva, dove
vige - tornando al parallelo - piuttosto l’iniqua,
irrazionale ed arbitraria, “legge di Creonte”, che non il “principio di
Antigone”.
NOTE
[1] L’elettività delle cariche locali o in sede religiosa durò
fino alla fine dell’Impero d’Occidente. Pensiamo al Pontefice
Massimo che divenne poi nella Chiesa Cristiana il papa di Roma: oltre
ad essere eletto dai vescovi, come oggi, doveva essere
confermato con acclamazione dal popolo. Di questo rito di
nomina, resta viva ancora oggi la presentazione del nuovo Papa
eletto, che viene acclamato però, ma non confermato giuridicamente da
esso. In antico, e fino all’Alto Medioevo, il popolo romano aveva
diritto di interferire ed anche di detronizzare un pontefice, anche con la
rivolta.
[2] Marx si riferiva col suo noto sarcasmo
all’Impero di Napoleone III; in effetti per la Francia vi
furono due tragedie, ma quella di Napoleone III, finita con una
disfatta totale da parte del regno di Prussia, fu certamente più tragica
ancora. Poi sappiamo delle altre tragedie del secolo XX, che non
serve neppure ricordare. La nostra attuale è una tragicommedia che
sarebbe stata inimmaginabile anche per il sarcasticissimo Marx.
[3] Notoriamente il termine “pagano” deriva
dal termine “pagus” (villaggio o borgo di campagna,
culturalmente isolato, e conservante forme religiose di tipo assai
antico, generalmente politeista, panteista, credente
in forze della natura più o meno personificate). Il
Cristianesimo si diffuse più ampiamente nelle città, e, quando assunse il
predominio nell’Impero qualificò sprezzantemente come “pagani” non
solo gli abitanti del villaggio, bensì anche tutti coloro
che non si consideravano cristiani, anche se di elevato costume e
cultura. Quello che viene chiamato “paganesimo” una
forma variabile di politeismo o di naturalismo pluralistico,
soprattutto fra il popolo. Le persone di alta cultura erano,
viceversa, monoteiste o panteiste, in forma razionalista o armonizzando
fede religiosa e ragione. Quando si convertirono per amore o per
forza, cercarono di conciliare la razionalità col
Cristianesimo, facendo sorgere (soprattutto con gli
Apologisti) interpretazioni che fondevano le due
posizioni, modificando di gran lunga la fede originaria: questo
anche sul modello di certo Ebraismo neoplatonico, come in Filone di
Alessandria, alla cui influenza quasi sicuramente si deve l’accettazione del
termine Logos per indicare la Seconda Persona della Trinità. La filosofia
dell’Impero, come le stesse religioni, sono caratterizzate da due
impostazioni: quella del sincretismo, che accetta
princìpi diversi senza un minimo di discernimento critico (quindi con tendenza
alla contraddizione), e quella dell’ eclettismo, che
viceversa mira ad una selezione critica dei princìpi da fondere o, almeno,
accostare. Tale atteggiamento più filosofico e
razionale nasce con la fase alessandrina o ellenistica, nel mondo greco e
mediterraneo orientale, e poi viene assorbito dai Romani (pensiamo ad un
Cicerone, già tale, o ad un Seneca).
[4] Abbiamo il colmo di questo fenomeno quando vediamo un
presidente USA giurare sulla Bibbia di favorire ciò che nella Bibbia viene
considerato “abominio”, ovvero l’omosessualità, e non
solo nell’Antico Testamento, ma pure nel Nuovo, ed esattamente nella Lettera ai
Romani di Paolo (1, vv. 35 – 38) e Lettera di Giuda (vv. 5 –
9). Ci vuole un’enorme dose di ipocrisia e di sfacciataggine giurare
sulla Bibbia ciò che la Bibbia condanna, tra l’altro senza che né in USA, né in
gran parte del mondo cristiano, ed ebraico, si sia levata ferma voce di
protesta contro questa blasfema prassi tipicamente anglosassone. Questo è
oggi il grado di fede religiosa in Occidente. Proprio
in questa apatia religiosa la civiltà occidentale rischia di essere travolta ed
affogata dal contrapposto integralismo o fondamentalismo di altre religioni
che, al contrario, nuotano in un fanatismo crescente ed
estremo.
[5] Il politeismo è una sorta di forma popolare di
basso livello del panteismo, dove ogni manifestazione naturale viene
considerata come manifestazione del Divino, inteso come Legge misteriosa o come
Entità impersonale che agisce su questo. Il popolo, poco
portato alla meditazione e di facile convincibilità, finisce per intendere
queste forze come “persone”, a loro volta rappresentate quali
“superuomini”, maschi e femmine, nate per via sessuale con poche
eccezioni (cfr. Pallade Athena, alias Minerva), con
tanto di corpo, sempre bello e speciale, ma simile a quello umano, forniti di
tutti i capriccetti umani. La mitologia, descritta da Omero ed
Esiodo, nei rispettivi poemi costituiscono la versione popolare della
religione greca, in gran parte assorbita dai Latini e dai Romani che adattarono
la propria a quella greca. Altrettanto vale per gli Etruschi. I
Celti, invece, ebbero princìpi e pratiche rituali più vicine al
panteismo originale (naturalistico). La religione egizia, ben
prima, con le sue figure di divinità zoomorfiche, appare
ancora più vicina ad un panteismo pluralistico, animistico. Ovviamente,
ognuna di queste religioni ha una teologia più approfondita,
probabilmente segreta, manifestata solo all’interno dei livelli più
alti della casta sacerdotale, che si esprime con linguaggi simbolici, ermetici
ed esoterici, ovvero non aperti al popolo comune, che non li avrebbe
compresi. Questo simbolismo religioso sarà motore non piccolo della
successiva filosofia teologica, in Grecia a partire da Senofane, che
criticò molto sarcasticamente l’antropomorfismo greco, ma
anche le forme zoomorfiche, sebbene indirettamente. Deridendo
l’antropomorfismo, disse che, se buoi e cavalli avessero avuto mani
e non zampe, avrebbero rappresentato gli dèi come buoi e cavalli, il che
precisamente avveniva nell’antico Egitto , pur non essendo i sacerdoti del bue
Api, o dell’Avvoltoio o del Gatto, né buoi, né avvoltoi, né gatti.
[6] La religione zoroastriana, nata nell’antica Persia
degli Achemenidi, fin dall’inizio di quell’Impero aveva (e in parte ha ancora
tra i Parsi, loro eredi, fuggiti in India dopo
l’invasione e la conquista musulmana della Persia o Iran) un
Libro Sacro, lo Zend Avesta, rimastoci solo
in parte nelle dimensioni della Bibbia ebraica all’incirca, è una
specie di dialogo tra il Dio Ahura Mazda, il
creatore delle cose buone (il suo nome significa “Colui che
crea col solo pensiero”) e il profeta Zoroastro o Zarathustra; l’Oppositore di Ahura, Ahriman (più
esattamente chiamato Angra Mainyu, il creatore delle cose malvagie
e dannose per l’uomo) è una Entità non creata, ma da sempre
esistente ed in perpetua lotta con Ahura Mazda. Ciò mira
a spiegare in termini proto-filosofici e proto-razionali l’esistenza
del Male, non più come un fatto mitologico (il Vaso di Pandora o la
mela di Eva), ma con una spiegazione che si potrebbe definire di
metafisica etica, anche se potrebbe oggi sembrare
semplicistica. La religione zoroastriana, prima dell’apparizione e
della codificazione teologica dei monoteismi ebraico, cristiano e
musulmano, era la più complessa ed avanzata, preludendo ad una forma
di dualismo etico-religioso che risolveva la questione
dell’esistenza del Male rispetto all’esistenza di un Dio
assolutamente perfetto e buono. Nel concetto di Divinità si
formulava l’idea della Creazione, non come generazione sessuale o fabbricazione
materiale, ma come un’azione diretta e senza strumenti materiali
della Volontà divina, scavalcando così per qualità, con un salto
enorme, qualunque altra forma religiosa precedente, compreso il Monoteismo
solare del faraone Akh En Aton. Anche qui, a livello più alto
(teologico), lo zoroastrismo tendeva ad un monoteismo imperfetto (essendo Ahura
Mazda destinato alla vittoria su Ahriman anche se
lontana); a livello popolare si mescolò ad altre religioni
preesistenti (panteismo indiano brahmanico, mithraismo - dottrina
solare -, alle religioni politeiste mesopotamiche ed
egizie) trasformando, come succederà poi con
l’Ebraismo e lo stesso Cristianesimo, in Entità minori, ma
ugualmente super-umane, i vecchi dèi di altre religioni. Per
concludere, Ahriman il Creatore Malvagio non è che
l’antenato di Satana o Lucifero, ridotto ad Angelo nella religione
ebraico-cristiana. Infine, lo zoroastrismo preluse
a quell’altra sincresi religiosa, rappresentata dal Manicheismo,
molto diffusa nell’Impero Romano e, come il Mithraismo, rivale dello
stesso Cristianesimo nell’Impero. Così sotto molti aspetti lo
zoroastrismo o mazdeismo (dal nome dell’Entità Benefica Mazda)
costituisce il prodromo delle grandi religioni monoteiste, che ad esso devono
moltissimo.
[7] Cfr. Zend Avesta, o
più semplicemente Avesta, Frammenti di Nask, Nask
Haedhoekht, 80 -98 - ed. UTET
(Torino. 2004), a cura di Arnaldo Alberti, pagg. 606 –
607 .
[8] Se si pensa che perfino il britannico filosofo
John Locke, teorico e vantato sostenitore della tolleranza religiosa, vissuto
tra il secolo XVII e gli inizi del XVIII, escludeva dalla “tolleranza” gli
atei e i cattolici (questi ultimi perché considerati più intolleranti delle
varie sètte protestanti, difensore “pro domo sua”, di
tale pretesa liberalità, che sappiamo essere solo fantasiosa),
possiamo ben capire quanto, fino all’Illuminismo vero e proprio, la
tolleranza fosse un concetto vago, scambiato per pura
sopportazione, non applicazione di misure repressive o punitive. Il
suo più o meno contemporaneo Jonathan Swift (l’autore dei “Viaggi
di Gulliver”) descrisse in termini anche di assoluto sarcasmo
quanto fossero “tolleranti”, nei confronti degli “intolleranti”
cattolici irlandesi, gli Anglicani. Né andrebbe mai dimenticato l’incitamento
al massacro dei contadini tedeschi ribelli del “tollerante” Lutero,
fondatore del Protestantesimo. In conclusione, la tolleranza, anche
prescindendo dal suo significato etimologico di “sopportazione”, è
un principio che si afferma solo con l’Illuminismo in maniera rilevante. Occorreva arrivare
alla negazione delle mitologie religiose e delle classi sacerdotali, come
potere politico, alla negazione della Rivelazione, che non sia pura
e razionale fede in un Principio Supremo Creatore od Organizzatore della
Realtà, per trasformare una vaga “tolleranza” religiosa
in una piena accettazione del diritto di professione religiosa e
filosofica nelle sue varie forme, una conquista - del
resto - non ancora pienamente consolidata in
questo infelice Pianeta.
[9] M. Fabio Quintiliano, “La Formazione
dell’Oratore”, Libro III, VI, 12 . trad.
it. BUR (Milano, 2006), vol. I, pag. 489.
[10] E’ quello che oggi chiamiamo onere
della prova, che, nel rito accusatorio, spetterebbe a chi accusa.
[11] M. F. Quintiliano, op. cit., ibidem, §§
13 – 17, pagg. 491 - 493. Quintiliano, in
sostanza, dimostra che l’onere della prova si sposta man mano che la
parte che inizia, e a cui spetta in primo luogo, viene confutata o
respinta, per cui la parte contrapposta deve a sua volta farsi carico sia
dell’esatta natura della causa, nello specifico esempio di natura penale, sia dell’eventuale
tesi d’accusa. E così si prosegue fino ad esaurimento del
dibattito. Il commentatore Stefano Corsi, alla nota 36
di p. 493 rimprovera a Quintiliano una certa confusione, dimenticando
però che mentre Quintiliano fa riferimento ad una pratica
giudiziaria reale, il Corsi richiama in campo la ben successiva
rielaborazione della dottrina giuridica penale, conclusa appunto col Corpus
Juris Civilis di Giustiniano. In sostanza chi fa
confusione è proprio lui e, in genere, chi idealizza il Diritto romano pensando
ad una sua perfezione ed immutabilità, mai esistite. Lo
stesso Giustiniano in sede penale fece formulare quelle “Leges
Terribiles”, la cui denominazione già dice tutto. Né va
dimenticato che tutta la storia giudiziaria penale dell’Impero è un
progressivo avviarsi verso forme inquisitorie molto pesanti, piuttosto che nel
mantenimento di riti accusatori.
[12] Ibidem, §83, pag.
529. Per il testo successivo con medesimo numero di
nota, Libro VII, II, §§ 15 – 16, ed.
cit., vol.II, pag. 1159 .
[13] Ibidem, Libro IV, I §§ 9 – 10.
[14] Ibidem, §§ 10 – 11 , pagg. 625 – 627.
[15] Ibidem, §§ 16 - 29, pagg. 629
– 631. La Berenice in questione, regina della Giudea, fu
amante del proprio fratello Agrippa II e amata pure da
Tito. Siamo ai tempi della distruzione di Gerusalemme ad opera di
Vespasiano e Tito. Da essa nacque anche la denominazione, data ad una
costellazione, di “Chioma di Berenice”.
[16] Ibidem, §§ 33 – 34, pag. 639.
[17] Ibidem, §§ 56 – 57, pag. 651.
[18] M. F. Quintiliano, op. cit., Libro
V, IV, §§ 1 – 2, ed. cit., vol. II, pag.
773
[19] Ibidem, V, §§ 1 – 2, pagg.
773 – 775.
[20] Stefano Corsi, nota 1 a pag. 775 del
testo di Quintiliano.
[21] M. F. Quintiliano, op. ed edizione
citate, vol. II, Libro V, VI, §§ 1 – 6, pagg. 775 - 777.
[22] Ibidem, VII, §§ 1 – 7, pagg.
779 – 781.
[23] Cfr. VII, §§ 9 -
37, pagg. 783 - 797. Importante è sottolineare
che Quintiliano suggerisce il metodo socratico quale migliore per spingere il
testimone avversario alla contraddizione o al silenzio: ibidem, § 28,
pag. 791.
[24] Ibidem, X, §§ 7 – 8, pag. 813.
[25] Ibidem, XII, §§ 16 - 20, pagg. 915
– 917. Ma Quintiliano si oppone anche alla sciatteria volgare e
sproloquiante da osteria, che piace al popolo con basso livello culturale, oggi
molto diffusa nei vari mezzi di comunicazione: il pessimo gusto
impera nel mondo grazie agli esempi USA. Cfr. Libro II,
XII, §§ 9 – 12, Vol. I, pag. 349. Per
l’uso diffusissimo dell’evirazione di schiavi bambini e preadolescenti parlano
pure, per condannarla, Seneca e molti Cristiani; tali infelici
venivano usati poi per i gusti depravati di chi voleva
provare di tutto. Oggi abbiamo casi analoghi, in parte anche
ottenuti con l’utilizzo di ormoni femminili (cosiddetti
“transessuali”): non è certo un buon segno per la civiltà
occidentale, anche perché - se allora vi era chi,
cristiano o laico, condannava tali pratiche - oggi è un
continuo esaltare ogni forma di abuso sessuale, come se rispondesse a chissà
quali criteri di libertà !
[26] L’epoca corrente sembra essere una pessima sintesi di
tutto il peggio del passato, e solo una tecnologia spinta alla tecnolatria,
all’esaltazione del prodotto tecnico umano, ormai procedente quasi
da se stessa sembra reggere una società vile e marcescente. Finché potrà
durare…
[27] Sui reati non scritti (oggi se ne è vista
l’importanza a seguito della diffusione di INTERNET e del cattivo uso da parte
di molti di questo strumento), cfr. Libro
VII, IV, § 36 e nota 14, vol. II, pag.
1215. Sarebbe anche interessante la questione opposta,
soprattutto in riferimento al tema che affronto, quando un atto di
per sé innocuo venga considerato “reato”, anche grave e quindi perseguito con
la forza. Certamente, per il giurista il tema non si pone: egli
sostiene il principio romano “Dura lex, sed lex”, e di
ciò si accontenta. Non così vale per il filosofo del Diritto o per
il politico riformatore. Un atto in sé innocuo, per non dire magari
onestissimo e buonissimo, non dovrebbe essere mai considerato “reato” e non
dovrebbe mai essere previsto per legge come tale. Se ciò
avviene, è la legge, fondata sull’arbitrio, a dover essere
considerata iniqua e da abrogare.
Sulla non moltiplicabilità dei procedimenti, civili e penali,
sul medesimo fatto, ibidem, VI, § 4, pag. 1227 .
Quintiliano affronta , in questo e in successivi capitoli, e anche la
questione di filosofia del linguaggio giuridico, sull’eventuale vaghezza o
ambiguità dei termini, e sull’apparente conflittualità delle leggi.
[28] Nicola di Lorenzo, detto più brevemente Cola di
Rienzo, era vissuto a Roma nel XIV secolo. Nato povero, riuscì a
studiare molto la cultura latina, tanto da diventare un pre-umanista. Entrato
in politica, si era messo in testa di poter fare di Roma il
nuovo centro dell’Europa e dell’allora vigente Sacro Romano Impero di Nazione
Germanica. In questo seguiva le idee di Dante e del Petrarca. Ottimo
oratore, non certo il chiacchierone venditore di
fumo di moda oggi, fu adorato dal popolo, e tentò a suo
modo di fare dello Stato Pontificio disgregato del tempo la base per questa
scalata. Assunse titoli della tradizione repubblicana romana, e come
spesso capita , il successo gli diede alla testa. Dopo alcuni
successi locali, fu cacciato da una prima ribellione. Ritornò
a Roma dopo qualche tempo al servizio del cardinale Albornoz (i papi
allora era in Avignone), invecchiato, ingrassato e vizioso. Se la
prima volta riuscì a salvarsi, la seconda ribellione si concluse col suo
massacro, il corpo fu preso e impiccato, quindi gettato nel Tevere. La
storia italiana è stracolma di questi penosi esempi, e nondimeno i nostri
partitocrati continuano a ritenersi invincibili, perfetti ed eternamente
gloriosi. A questo fine abusano di slogans e di
promesse, ma terminano la loro vita ingloriosamente, se non sempre
in modo violento. Il popolo deve essere educato, reso responsabile,
elevato moralmente, spiritualmente, culturalmente: solo così non
tradisce mai, solo così dà il meglio di sé. Questo vale
per gli Italiani, come anche per una qualunque tribù africana o qualche
Staterello delle banane. E la migliore educazione non si ha e non si
dà con vane chiacchiere, ma con l’onesta coerenza quotidiana, con il
lavoro personale, con l’agire nel rispetto verso se stessi e verso gli altri.
[29] Rutilio Namaziano, poeta di origine gallica,
viaggia nel 414 d. C. attraverso l’Italia, ormai devastata dalla orde
barbariche, e ne approfitta per scrivere un poema intitolato “De Reditu
Suo” (non pensate al “reddito” per assonanza: si tratta “Del
Proprio Ritorno”). Ecco che cosa scrive su Roma:
“Ascoltami, regina bellissima del mondo che è tuo,
Roma accolta tra le stelle del cielo !
Ascoltami o madre degli uomini, o madre degli dèi;
in virtù dei tuoi templi non siamo distanti dal cielo.
Un’unica patria hai fatto di tante genti diverse:
Ai popoli incivili giovò essere dominati da te.
E mentre offri ai vinti di partecipare della tua legge,
hai fatto di tutto il mondo un’Urbe sola”.
Citato da Augusto Serafini, “Storia
della Letteratura Latina - dalle origini al VI secolo d. C.”, ed.
SEI (Torino, 1965), pag. 404 .
[30] Publio Cornelio Tacito, “Annali”,
Libro XV, capp. 38 – 39, ed. it. Newton
Compton (Roma, 2013), trad. Lidia Storoni Mazzolani e Gian
Domenico Mazzocato, pag. 571.
[31] Che i Cristiani del tempo non fossero tutti santoni e
devoti al martirio, è ampiamente dimostrato dal gruppo dei “circumcelliones”,
i quali più tardi combatterono violentemente sia con gruppi rivali, sia
contro i politeisti, con sistemi terroristici analogamente ai sicarii ebrei. Oggi
li qualificheremmo come “integralisti”. Ancora più tardi, si sa bene
che i Cristiani ad Alessandria, guidati dal vescovo Cirillo, massacrarono la
neoplatonica Ipazia, colpevole solo di non essere cristiana e di studiare gli
astri, malgrado la sua vita morale fosse assolutamente irreprensibile e casta,
non meno di tanti altri santoni cristiani.
[32] P.C. Tacito, op. ed edizione cit., Libro
XV, cap. 44, pagg. 577.
[33] A prova di quanto, successivamente, la documentazione
di quest’epoca fosse stata falsificata, ricordo la leggenda di un Seneca
“cripto-cristiano”, del quale venne addirittura creato un fino
carteggio con S. Paolo, abbastanza breve in verità, ma in cui si pretendeva di
far notare una forte amicizia e, nell’ultimo testo, perfino una conversione
anche se non pubblica ed aperta. Del resto, sarebbe stata
impossibile, trattandosi di una religione considerata clandestina. Il
preteso “cristianesimo” di Seneca è già confutabile in
base alla lettera 41.a a Lucilio in cui nega che Dio, presente in
noi come fuori di noi (una sorta di panteismo o immanentismo etico), si
possa o si debba pregare. Pur credendo nella provvidenza, Seneca
esclude che questa Volontà divina sia modificabile con la preghiera ed i
riti. Lo stesso afferma nella Lettera 95.a, sulle norme generali
della filosofia come norme etiche, in cui critica i costumi del
tempo e spiega l’inutilità dei riti e delle preghiere. La divinità
non cerca servitori, ma essa stessa è al servizio del genere umano. Sappiamo,
viceversa, bene che il Cristianesimo esalta la preghiera e pure una
certa ritualità come necessario culto di Dio. Basta dunque questo a
confutare ogni accostamento tra il razionalismo etico di Seneca ed il
Cristianesimo ed ogni altra religione rivelata, sacerdotale. In
conclusione, Seneca, né nelle “Lettere a Lucilio”, né in
altra opera certamente sua, accenna mai ai Cristiani in generale, e men che
meno a Paolo di Tarso in particolare. Per cui il preteso
carteggio, ripubblicato dall’editrice Rusconi, è
considerato del tutto spurio.
[34] P.C. Tacito, Libro XV, capp. 48 - 74,
e nello specifico 56; ed. cit., pagg. 579 -
603. I lettori ricorderanno che tutti questi episodi vengono
narrati nel “Quo Vadis” di Sienkiewicz.
[35] Cfr. Libro V, delle ”Storie”,
ed. cit., pagg. 1007 - 1021. La
citazione di Sulpicio Severo si trova a pag. 1035.
[36] Gaio Svetonio Tranquillo, “Vite dei
Dodici Cesari”, “Divo Claudio”, XXV, 4, ed.
it. Rusconi (Milano, 1994), a cura di Gianfranco
Gaggero, pag. 491. Svetonio ridicolizza l’imperatore
anche nella funzione di giudice o di presidente del Collegio giudicante: “XV. 1 Nei
processi e nei giudizi fu di umore estremamente variabile, ora circospetto e
perspicace, ora impulsivo e precipitoso, talvolta frivolo e quasi
folle. Compiendo la revisione delle decurie dei giudici, ne cancellò
uno come troppo ansioso di giudicare…; un altro, che era stato citato dagli
avversari per una lite personale e dichiarava che tale processo non era di
competenza dell’imperatore, ma dei tribunali ordinari, fu da lui obbligato a
discutere immediatamente quella causa in sua presenza, per mostrare, in una
questione che lo riguardava, quanto sarebbe stato onesto nel
giudicare le cause altrui…” (ibidem, pag. 474). Svetonio
cita altri svariati esempi a scopo di denigrare l’imperatore, che
pure fu il migliore della dinastia giulio-claudia, dopo Ottaviano
Augusto. Questi episodi sono assai interessanti per confutare
chi, tra gli storici del Diritto Romano, si immagina, sulla base del
Diritto giustinianeo, una perfezione ed una regolarità del
tutto insussistenti.
[38] Ibidem, pag. 531.
[39] I due testi sono riportati da John Gordon Davies in “La
Chiesa delle origini”, ed. Il Saggiatore (Milano, 1996). Le
lettere del carteggio Plinio-Traiano dovevano essere 50, nondimeno
oggi nessuno riporta largamente lo scambio di informazioni fra i
due. Plinio il Giovane è nipote (figlio di fratello) di Plinio il
Vecchio, e ne descrive la morte eroica nell’eruzione di Pompei del 79 d. C, a
cui lo zio volle assistere direttamente per comprendere la natura
dell’eruzione da un punto di vista empirico-scientifico (ovviamente in
relazione alle possibilità del tempo).
[40] Celso, “Contro i Cristiani”, ed. it.
BUR (Milano, 1989), trad. di Salvatore Rizzo, pagg. 163 –
210 .
[41] Ibidem, pagg. 219 - 287
.
[42] A controprova, ricordiamo che, pur rimproverando
Catilina di non credere agli dèi, e di esserne addirittura “nemico”, né
Cicerone né Sallustio lo accusano di aver minato con ciò stesso la
Repubblica, bensì con la preparazione della sua rivolta
armata. L’accusa di “ateismo” a Catilina era soltanto
secondaria e con funzione puramente denigratoria.
[43] Ai tempi di Paolo e dei vari Apostoli, ci si muoveva
a piedi, con qualche asino, oppure via mare con qualche imbarcazione a remi e a
vela. Difficile è immaginarsi che avesse compiuto realmente tutti i
viaggi descritti nelle opere a lui attribuite, se si considera la vastità
dell’Impero, del Mediterraneo e degli ostacoli naturali ed umani che un
viaggiatore dell’epoca poteva trovare. Va detto che anche molti di
quei viaggi sono inventati o raddoppiati, ed anche molti episodi
costruiti a posteriori. Nessuno, penso, si è divertito a calcolare,
sia pure per approssimazione, i chilometri percorsi da questi primi
apostoli, e divisi per gli anni. Credo che se ne
dedurrebbe una velocità di percorso e un tempo di permanenza veramente
fantasiosi.
[44] I nomi che Paolo ricorda nel salutarli, nella lettera ai
“Romani”, sono quasi tutti di modello greco o ebraico, qualcuno
latinizzato. Poiché l’originale era in greco, è impossibile
immaginarci che cittadini romani di modesta condizione sociale e culturale conoscessero
il greco, e nulla sappiamo se Paolo effettivamente conoscesse il latino.
[45] Il primo apologista, che scrive in latino, è Tertulliano
che vedremo più avanti in modo specifico, ma siamo ormai alla fine del II
secolo. Seguiranno Minucio Felice, Cipriano, Arnobio, Lattanzio e
Firmico Materno. Nel frattempo, ad oriente, si continua a scrivere
in greco questi testi teologici o polemici (cfr. soprattutto
Origene). Più tardi la lotta si scatenò, più che contro
religioni politeiste o filosofie classiche, contro le eresie,
soprattutto l’ariana, ma qui il discorso riguarda un ben
diverso tema che segna il passaggio dall’intolleranza imperiale
“pagana” all’intolleranza imperiale cristiana. E
tra le due, giuridicamente e giudiziariamente, non corre grande
differenza.
[46] Giustino, “Apologie”, ed.
it. Rusconi (Milano, 1995), trad. e commento
di Giuseppe Girgenti, I Apologia, §§ 1 e
2, pagg. 37 - 39 .
[47] Ibidem, §§ 3 e 4, pagg.
39 – 41 .
[48] Ogni dottrina che si denomini con l’”a” privativo
esclude qualcosa, ma è pura negazione. Nel caso qui in esame, con
rilevante intelligenza, Giustino osserva che il Cristiano è, o appare,
“ateo” di fronte al politeismo che ammette più dèi. Ma
non lo è di fronte alla propria concezione di Dio, come Essere perfetto,
Creatore, Giusto, Unico, ecc. Chi si vanta “ateo” dovrebbe dire in
che senso: egli nega Dio, o meglio nega una o tutte le
idee di Dio comunemente intese, ma, se la definizione di Anselmo
d’Aosta, è valida (Dio è il Maggiore Pensabile), noi, negando una
qualunque idea di Dio come Entità Pensante, Volente ed Agente, finiamo, non per
negarne l’esistenza (le nostre negazioni, rispetto ad una realtà
assoluta, conterebbero assai poco), ma per far coincidere
con Dio, in quanto Maggiore Pensabile, qualunque altro ente, ad esempio l’uomo
stesso, o la materia, o la natura, perché, tolti i primi della fila, rimangono
pure gli altri. Ben possiamo negare enti spirituali a parole, ma non
possiamo negare quelli che restano per primi, dopo aver eliminato i precedenti,
ovvero pure entità materiali organiche o inorganiche. In pratica,
l’ateismo è in sé illusorio, ma nega ogni speranza di soluzione prossima o
lontano dei problemi della Realtà. La vera “scommessa”
non è quella di Pascal (mettersi a pregare Dio in ginocchio, per
convertirsi), è quella della consapevolezza di non poter risolvere
alcun reale problema dell’uomo senza presupporre l’esistenza di un Essere
superiore che ne affianchi o diriga l’azione. Il Bene non
è raggiungibile se non esiste, né per l’umanità, né per chiunque altro. E,
una volta negato il Bene come esistente ed operante, si renderebbe impossibile
eliminare, sia pure in secoli o millenni, quello che chiamiamo Male,
e che non potrebbe neppure essere chiamato tale, in quanto sarebbe l’unica
realtà esistente.
[49] Che Dio sia Innominabile, in quanto nessun nome umano può
essergli adatto, era già detto da Celso, e può trovare un riferimento anche
nella Bibbia, quando si dice che, più che Innominabile, il nome YHWH sia
Impronunciabile. Questa convinzione viene qualificata
“teologia negativa”, ossia di Dio si può dire ciò che non è, non Ciò Che E’,
essendo talmente al di sopra della sua creazione, anche rispetto alla creatura
più alta, l’Uomo, che sarebbe un ridimensionarlo a livelli
antropomorfici dargli un qualunque nome. Presa così, la teologia negativa
renderebbe impossibile capire, anche in minima misura, chi sia Dio, e si
cadrebbe in un larvato ateismo. L’unica ammissibile “teologia
negativa” è negargli tutto ciò che può essere considerato fatto materiale,
spaziale, psicologico umano, antropomorfico, sottolineando che queste
“negazioni” sono puramente verbali (dati i limiti del nostro linguaggio
etimologicamente legato a fatti o fenomeni materiali; es. Spirito = Soffio,
come pure Anima in greco), ma concettualmente delle affermazioni, ossia
affermano una Sostanza Assoluta, completamente diversa dal mondo materiale.
[50] Giustino, op. cit., pagg. 39 - 57.
[51] Ibidem, pag. 67.
[52] Ibidem, pag.
69.
[53] Ibidem, pagg. 85
– 87 .
[54] Ibidem, pag. 87.
[55] Ibidem, pag. 95.
[56] Giustino, “Seconda Apologia”, ed. cit.,
pagg. 179 – 181 .
[57] Ibidem, pagg. 181 – 183 .
[58] ibidem, pagg. 185 – 187 .
[59] Gli “Acta Diurna” “fatti del giorno”, che
presumibilmente venivano letti in pubblico da qualche araldo o banditore, ma
che sicuramente non avevano certo l’efficacia dei nostri giornali e
dei nostri mezzi di comunicazione.
[60] Lucio Apuleio, “Sulla magia”, cap. I, ed.
it. Mondadori (Milano, 1994), trad. e note di Costanza Viareggi, pag. 5. Sul
divieto e sulle persecuzioni e processi a maghi in età imperiale parla anche
Tacito negli “Annali”, Libro II, cap.
32, ed cit. pag. 115. Vi si dice che il Senato
durante il governo di Tiberio decretò che il “mago” Pituanio venisse scagliato
giù dalla celebre Rupe Tarpea: questo perché aveva previsto che un
tal Libone doveva diventare imperatore; costui, incoraggiato dalle sue
previsioni, aveva tentato di organizzare un colpo di mano contro
Tiberio, ma si era ucciso quando tale piano venne scoperto. Altri
maghi ed astrologi furono cacciati dal’Italia. E’ interessante
notare che al cap. 30, pag. 113, Tacito dice che gli
schiavi non potevano essere torturati per atto inquisitorio sul loro padrone,
quando era in gioco la pena capitale: anche questo sintomo di come
già allora si capisse che la tortura è un pessimo modo di conoscere la verità
dei fatti !
[61] Ibidem, capp. II e III, pagg.
5 e 7 .
[62] Il tema dell’omosessualità nel mondo classico meriterebbe
studi adeguati: sicuramente il fenomeno, inteso come relazione
sessuale e di piacere fisico tra persone dello stesso sesso, specie fra i
maschi, non doveva essere affatto raro, ma quasi mai apprezzato come
meritevole di elogio. Qui Apuleio sembra voler chiarire che, nelle
poesie o in certi scritti, un’amicizia molto stretta, ma
puramente di natura psicologica ed affettiva, non si traduceva
necessariamente in relazioni fisiche, limitandosi negli scritti a
quelle descrizioni che, noi ora, tendiamo ad interpretare come dati
di fatto. Se l’omosessualità fosse stata apprezzata in termini
“moderni”, sarebbe stato poi assurdo che venisse deprecata in opere di natura
politica o morale. Lo stesso Apuleio qui è molto ambiguo: se
oggi scrivessimo ad un amico nei termini che egli cita per se stesso, saremmo
immediatamente descritti come omosessuali a tutti gli effetti: viceversa
Apuleio sembra voler sfuggire un’accusa del genere e la dichiara semplicemente
uno “scherzo”.
Pur restando un certo grado d’ambiguità, seguendo la teoria
dell’amore, che Platone esprime nel dialogo Simposio o Convito,
Apuleio cerca di chiarire il problema distinguendo tra due tipi fondamentali
d’amore. Anche noi d’uso diciamo, troppo spesso, “far
l’amore” come eufemistico sinonimo di coito o rapporto sessuale (mentre
gli Americani d’oggi, maestri di brutali volgarità tecnolatriche, dicono “fare
sesso”, ignorando che il sesso è solo una condizione fisiologica
in cui ci si trova, non un’azione !), o comunque di una serie di
atti tendenti al puro piacere psico-fisico o, se si preferisce,
fisio-neurologico; ma intendiamo anche l’amore di tipo
puramente affettivo-sentimentale, non sempre connesso al primo, come
nell’amicizia, come nel rapporto genitori-figli, fraterno ecc., senza che ciò
comporti (psicoanalisi freudiana a parte) un qualche significato
erotico o fisico. In antico, a partire almeno da Platone, che
la esplicitò in quel dialogo, si faceva
altrettanto. E’ pure rimasto, nel linguaggio letterario, l’uso dei
termini “amor sacro” e “amor profano”. Ora
in questa sostanziale ambiguità, gli antichi Greci, ma anche i
Romani quando si adeguarono a tale cultura, vedevano nel rapporto
“amichevole” tra persone dello stesso sesso (ma più specialmente tra
i maschi), una serie di atti non ben chiariti nel loro limite,
quando erano espressi in semplici parole apparentemente spinte, o
quando diventavano veri e propri atti sessuali o erotici. In tale
senso è per noi spesso difficile capire se si trattasse di una retorica
sessuofila, oppure se si trattava di descrizione desiderata o reale di rapporti
fisici. In nessun modo tuttavia, è l’unica cosa
chiara, ne facevano motivo di elogio o, peggio di “orgoglio”:
“XII. Non parlerò qui del sublime e divino pensiero platonico
che assai raramente ignora chi è sensibile alla religione: esistono
due Veneri, ciascuna signora di un precipuo genere di amore e di amanti
distinti. La prima è la Venere popolare: stimolata
dall’amore volgare, essa sprona alla lussuria non soltanto l’animo degli esseri
umani ma anche quello degli animali… L’altra, la Venere celeste,
preposta all’amore più nobile, si occupa soltanto degli uomini, e di pochi
anche fra loro, senza sconvolgere i suoi seguaci… incitandoli alla
libidine; l’amore ispirato da lei, non sensuale e lascivo ma al
contrario semplice e severo, indirizza gli amanti verso la virtù attraverso la
bellezza morale, e se talvolta induce a lodare un corpo armonioso, mette anche
in guardia dal recargli offesa. La bellezza fisica va apprezzata in
quanto richiama all’anima, che è divina, quella bellezza autentica e incorrotta
che ha già ammirato fra gli dèi…” : (il neretto è mio) ibidem,
cap XII, pag. 21. Cita pure un verso di Afranio “il
saggio amerà, tutti gli altri brameranno”. In sostanza, Apuleio
sostiene che al poeta è lecito descrivere, in forme allegoriche che
richiamano l’amore fisico, il rapporto sessuale, quella che nella realtà è
una relazione sentimentale, spirituale. Sallustio, di
Catilina, riportava una definizione dell’amicizia, anche in termini
politici, come un medesimo sentire e volere tra due o più persone,
possedere identici ideali di vita. Se vogliamo, quando nel
cattolicesimo si definiscono le monache come “spose di
Cristo o in Cristo”, così nella Chiesa vista come la “sposa
di Cristo”, c’è un richiamo all’amore platonico; così l’agape è
la riunione tra più persone che si amano spiritualmente (e spesso fraintesa tra
i pagani, come se si trattasse di orge: è tendenza dell’uomo
proiettare sugli altri, ciò che fa o pensa lui, soprattutto nelle
azioni disoneste). In conclusione: il rapporto
omosessuale descritto in termini licenziosi ha, nel poeta, un significato
simbolico o allegorico del rapporto spirituale. Così la descrizione
di un bel viso, di un bel corpo sono rappresentazioni simboliche di un’anima
bella: questo è quanto Apuleio sostiene sulla linea platonica, il
che non toglie che questi rapporti omosessuali fossero stati molto
frequenti nel mondo antico, frequenti, ma mai elogiati, e talvolta
condannati.
[63] Ibidem, capp. XV - XVIII, pagg. 27 - 37
.
[64] Ibidem, capp. XXV - XXVI, pagg. 47 - 49
.
[65] Ibidem, capp. XXVII - LI, pagg. 51 - 95
.
[66] Malgrado oggi si parli tanto di allungamento della vita
media, quella dell’Impero Romano calava solo in relazione ai morti
in guerra o ai problemi di parto per le donne, e non per ragioni
genetiche, così come in ogni altra situazione. Forse solo nelle grandi
città, quando scoppiavano le epidemie, avvenivano vere e proprie stragi. Praticamente
impossibile calcolare la durata media della vita tra i
Romani dell’Impero o della Tarda Repubblica Romana, astraendo da
guerre e questioni igieniche, perché persi completamente i
registri anagrafici che pure esistevano. Anche un’approssimazione
del calcolo delle morti attraverso le tombe è di estrema difficoltà,
in quanto molte furono distrutte da incendi e non sempre avveniva
l’inumazione, ma piuttosto la cremazione. Tutto sommato, la vita
nell’Impero doveva essere abbastanza sana. Oggi si spaccia per cosa
seria la cosiddetta “aspettativa di vita” al solo volgare scopo di derubare i
fondi previdenziali versati in decenni dai lavoratori.
“Aspettativa” non vuol dire nulla: anch’io mi “aspetto”
di vivere almeno 3000 anni in ottima salute e senza invecchiare (secondo il
mito che i saggi Greci rappresentarono in Titone, fratello di Priamo e
amato da Eos, l’Aurora), ma questa mia “aspettativa” sarà probabilmente
delusa.
[67] Appare strano che un popolo, ormai abituato a tutto,
si scandalizzi perfino per i rapporti sessuali fra persone anziane. Questo
non avveniva per una pretesa “bassa” aspettativa di vita: come
si è detto, la vita media doveva essere ben inferiore alla media
attuale, ma non per ragioni genetiche o fisiche, bensì per guerre, violenze,
epidemie allora spesso ignote. Un antico Romano, se potesse rivivere oggi,
durerebbe quanto noi, né più né meno. Quella fissazione
dell’età dipendeva da ragioni estetiche: se non erro, fu il poeta
Catullo a definire il rapporto sessuale tra coniugi anziani cosa “turpe”, ma
non per ragioni morali, non perché lo ritenesse indegno, bensì solo ed
esclusivamente per ragioni estetiche: solo due corpi belli, giovani
e forti potevano congiungersi nell’atto sessuale. Altri popoli,
sopra si è detto degli Ebrei, di tale fatto estetico non si curavano, ma
piuttosto che la relazione non fosse illecita (ricordiamo nel Libro di Daniele
la storia di Susanna e dei tre vecchioni libidinosi e
vendicativi. Susanna, tra l’altro, non li rifiuta in quanto vecchi,
ma in quanto si trattava di un adulterio e di
fornicazione. A Salomone viene offerta una giovinetta per
risvegliare i suoi sensi ormai indeboliti, e ciò non sembrava suscitare
scandalo).
[68] Un procedimento analogo usò contro di me un
certo preside allora comunista (oggi aderirebbe al PD,
ovviamente) di Trieste (non lo nomino per carità cristiana, visto
che poi fu punito da Autorità ben più alte dei magistrati italiani), per
boicottare la mia domanda di riammissione in ruolo nel 1993: nella
relazione di prammatica, citò solo frasi parziali di un
ispettore ministeriale, venuto, su sua richiesta, ad
assistere alle mie lezioni (ero accusato per troppa bontà nel dare i voti
!!). Debitamente querelato (per la seconda volta), la pratica venne
archiviata perché, a parere del magistrato inquirente di Treviso, dr.
Cicero, un preside ha la facoltà discrezionale di
diffamare i suoi ex-docenti, anche falsificando atti, presso
l’Amministrazione scolastica.
[69] Apuleio, op. cit., capp. LII - CIII, pagg. 95 - 183
.
[70] Tertulliano, “Apologetico”, ed. it.
Mondadori (Milano, 2000), a cura di A. Resta Barrile, Cap. I, §§ 1
– 13, pagg. 3 – 7 .
[71] Ricordiamo che Nicodemo, personaggio di un
certo rilievo nei Vangeli apocrifi, in quelli canonici è colui che
va a trovare Gesù di notte per parlargli, senza correre troppi rischi di
persecuzione da parte degli Ebrei. Sappiamo che tali forme di
adesione moderata e un tantino ipocrita al Cristianesimo dovevano essere
frequenti, quelle che da un lato portarono al compromesso politico-religioso
con la tradizione romana politeista; dall’altro, malgrado fossero
invisi ai Cristiani più convinti o a quelli fanatici, tuttavia
consentirono al Cristianesimo di superare le varie fasi di grande
persecuzione con sterminio continuo in tutto l’Impero. Tertulliano
stesso, malgrado il suo integralismo e malgrado le sue denunce, dovette vivere
in un periodo di relativa tolleranza, visto che sopravvisse a varie
vicissitudini. Lo stesso non potè dirsi per Giustino e
molti altri, che vennero condannati a morte.
[72] Tertulliano, op. cit., Cap. II, §§ 1
- 20, pagg. 7 - 15 .
[73] Ibidem, capp. III -
IV, pagg. 15 - 23 .
[74] Ibidem, Cap. V, § 2, pag.
23. Come giurista, Tertulliano è certamente
valido, ma come storico è alquanto ignorantuccio. In
Tacito, leggiamo un interessante riferimento su Tiberio assolutamente contrario
a questa dichiarata sua simpatia per il Cristianesimo, o
per religioni di provenienza orientale in quanto nel 19 d.C. vennero
espulsi culti egizi (probabilmente quello di Iside, particolarmente
seguito a Roma, anche secoli dopo) e giudei. Migliaia ne
furono mandati in Sardegna, altri espulsi dall’Italia: cfr. “Annali”,
Libro II, Cap. 85 - ed. cit., pagg.
159 – 161.
[75] Ibidem, Cap. VII, §§ 1 –
2, pag. 29 .
[76] Ibidem, Capp. VII - IX, pagg. 31 - 43
.
[77] Ibidem, Capp. X - XVI, pagg. 45 - 67
.
[78] Ibidem, Capp. XVII - XXV, pagg. 69 - 109
.
[79] Ibidem, Capp. XXX - XXXVIII, pagg. 117 - 135
.
[80] Ibidem, Cap. XLII, § 9,
pag. 151. Cfr. Tacito, “Annali”, Libro
I, 76 e 78, relativamente più che alle evasioni, alle
esenzioni fiscali, ed. cit. pagg. 85 – 87. Di
fatto, è proprio l’eccessiva complicazione di un sistema fiscale che
favorisce l’evasione, e soprattutto l’elusione fiscale. Il problema
dominante nell’economia italiana d’oggi ha dunque una durata almeno
bimillenaria.
[81] Tertulliano, op. cit., Capp. XLIII - L, pagg.
153 - 179 .
[82] La posizione hegeliana, se intesa in senso
ristretto, ricorderebbe il principio paolino “omnis potestas
a Deo”: se un regime politico esiste, anche il peggiore, esso
esiste perché Dio, ai Suoi fini, lo permette, finché non decide di eliminarlo.
[83] Mi raccontava mio padre, Giovanni Tummolo, che,
durante i bombardamenti aerei alleati a Trieste o altrove, vi erano persone che
si gettavano in ginocchio chiedendo “Dio, perché permetti tutto questo
?”, ma si guardarono bene dal fare la stessa domanda quando
furono i nostri aerei o quelli dell’ASSE, a gettare bombe
di qua o di là. Il male è sempre compiuto dagli altri su di
noi, non quello che noi compiamo sugli altri. Generosità
della nostra povera specie, a mezza strada, come diceva Pico della Mirandola,
tra il tendere all’angelo e lo scendere alla pietra.
Carissimo Prof Tummolo questa è una dedica di indubbio valore verso il caro amico,bellissimo gesto il suo,questo a voler dimostrare che tanto ha condiviso con il caro amico scomparso.Spero tanto in un suo ripensamento e un suo gradito ritorno nel blog di Massimo.Un caro saluto e un abbraccio dal suo amico Vito Vignera.
RispondiEliminaLa mia vera storia di vita:
RispondiEliminaCiao a tutti, mi chiamo Robt Burley, il 14 febbraio 2020, mia moglie ha litigato con me e ha rotto con me, cerco aiuto dappertutto per riaverla indietro, nessuno poteva aiutarmi, pochi giorni fa intendevo il contatto informazioni del dott. Sallam sul giornale che aiutano le persone a recuperare il loro amante perduto, e l'ho contattato per chiedere aiuto, dopo il suo incantesimo che mia moglie mi ha chiamato e mi chiedeva perdono, che miracolo. Tutto grazie al dottor Sallam, è un uomo potente e il suo incantesimo è innocuo, ha riportato mia moglie entro 24 ore con i suoi poteri, non ho mai creduto nella magia ma il dott. Sallam mi ha restituito la mia felicità, ho fatto un accordo con lui per condividere il suo nome su Internet dopo che mi ha aiutato, ecco perché lo sto facendo ora. Se hai bisogno di aiuto puoi contattarlo con la sua chat di WhatsApp: +27748693869. Email: sallamgreattemple77@gmail.com È reale e potente al 100%.