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lunedì 15 settembre 2014

Mostrami la prigione, mostrami il carcere, mostrami il detenuto la cui vita è andata male e io ti mostrerò, ragazzo mio, mille ragioni per cui è solo un caso se al posto suo non ci siamo noi...


C'è di che disperarsi se si viene a sapere, dai dati divulgati da Eurispes e Unione Camere Penali Italiane, che su 2500 domande annuali di risarcimento per ingiusta detenzione, solo 800 vengono accolte dai giudici italiani (meno di un terzo). C'è di che disperarsi perché il motivo è sconcertante: l’Italia è l’unica nazione europea dove l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è regolato da una clausola incredibile, allucinante, inserita nel Comma 1 dell’articolo 314 del Codice Penale. La norma prevede che dopo essere stati in carcere per anni da innocenti, detenzione che quando va bene lascia in eredità solo malattie psichiche e fisiche e una conseguente vita sociale rovinata, detenzione che influisce sulla salute dei parenti tanto che frequentemente la carcerazione di un figlio porta alla morte dei genitori (quando non al suicidio del carcerato), per aver diritto al risarcimento non è sufficiente una sentenza d’assoluzione irrevocabile (il fatto non sussiste - non è stato commesso - non costituisce reato - non è previsto dalla legge) e non basta neppure che la cassazione abbia riconosciuto l’illegittimità della misura cautelare in carcere o ai domiciliari. Per essere risarcito, chi viene ingiustamente condannato deve dimostrare di non aver tratto in inganno, con il suo comportamento quotidiano (quindi nella vita privata di tutti i giorni), quei magistrati che l'hanno giudicato colpevole di un reato e quindi arrestato.

Un esempio? Tempo fa il tribunale di Milano ha negato il risarcimento a Giulio Petrilli, una persona che ha trascorso in carcere, ingiustamente, sei anni per "partecipazione a banda armata con funzioni organizzative". Lui non c'entrava nulla con la banda armata, ma era stato indagato e condannato perché al tempo aveva frequentato e conosceva chi della banda armata faceva parte. Per cui, hanno scritto i giudici milanesi, il Petrilli non ha nessun diritto alla riparazione perché, frequentando terroristi o comunque soggetti appartenenti all'antagonismo politico illegale, ha colposamente creato l’apparenza di una situazione che non poteva procurare l’intervento dell’Autorità giudiziaria. Poco importa l’esito del giudizio penale. Occorre distinguere l’operazione logica compiuta dal giudice del processo penale da quella, diversa, del giudice della riparazione. La reciproca autonomia dei due giudizi comporta che una medesima condotta possa essere considerata, dal giudice della riparazione come contributo idoneo ad integrare la causa ostativa del riconoscimento del diritto alla riparazione e, dal giudice del processo penale, elemento non sufficiente ad affermare la responsabilità penale.

Si può pensare che quei giudici facciano storia a sé e che non cambierà nulla, ma non è così perché questa ingiusta sentenza potrebbe far legge e fungere da sacrario tombale per tanti innocenti che si vedranno negare ancor più spesso i loro diritti e un risarcimento che, nove volte su dieci, non basta neppure a pagare le spese legali sostenute negli anni (Daniela Stuto, protagonista suo malgrado del caso chiamato "omicidio al cianuro", a fronte di circa 100.000 euro di spese legali ha ricevuto dalla stato italiano solo 52.000 euro). Il motivo è semplice. Prendiamo ad esempio un abitante della Campania. Mettiamo che questa persona frequenti il bar sottocasa frequentato anche da qualche camorrista. Mettiamo che, magari tramite chiacchiere locali, abbia il sospetto che quell'uomo, che comunque lo rispetta, non è lindo come lui. Grazie a questa combinazione, pur non sapendo in realtà nulla di specifico sui loschi traffici della persona con cui gioca a carte o scambia qualche parola al giorno, se fosse ingiustamente accusato di essere un affiliato di qualche clan camorristico, e per questo rinchiuso in carcere per anni, potrebbe vedersi negato il risarcimento perché chi indagava su di lui è stato tratto in inganno dal fatto che frequentava quel bar e parlava con quello pseudo amico camorrista. Questo è un esempio limite, però non si adatta solo a chi abita in Campania. Tutti gli italiani possono, loro malgrado, conoscere un delinquente e non sapere che lo sia. Se durante una rapina le telecamere di una banca immortalassero il volto di un uomo che conoscete da qualche mese, che non sapete essere un criminale e magari frequentate e vedete spesso perché padre di un compagno di scuola di vostro figlio, per non beccare un euro dallo stato basterebbe che veniste arrestati perché la stessa telecamera ha immortalato anche una persona con la corporatura simile alla vostra e un cappellino Nike come quello che avete dimenticato nel baule dell'auto.

Voi non avete partecipato alla rapina, magari eravate a casa con moglie e figli, ma sappiate fin da ora che grazie al Comma 1 dell'art. 314 cpp, nel caso vi arrestassero e vi mandassero in galera per qualche mese o anno, nel caso perdeste lavoro e salute, nel caso dobbiate pagare cento o duecentomila euro per la parcella del vostro avvocato, quanto vi è capitato potrebbe toglievi il diritto di ottenere un certo risarcimento. Perché per il Comma suddetto non è colpa di chi ha indagato se somigliavate al complice del vostro amico. Per i giudici la colpa dello sbaglio investigativo potrebbe essere vostra perché, frequentando quella persona per qualche mese prima della rapina, avete tratto in inganno i Carabinieri o la Polizia. Ridicolo? Affatto! Lo dimostrano la sentenza sfavorevole a Petrilli e i due innocenti su tre che si vedono negare i risarcimenti dai giudici. Giudici che forse dovrebbero farsi le ossa e, visto che nei codici non si fa cenno a cosa psichicamente prova l'ingiustamente accusato, a quale stress sono sottoposti i suoi familiari, prima di essere chiamati a giudicare starsene rinchiusi in carcere da innocenti per qualche anno. Perché pare che troppi di loro non sappiano quanto sia traumatica e rovinosa una simile esperienza. In aggiunta e a conferma di quanto scritto, potrei inserire le varie e incredibili storie conosciute, parlare di quelle condanne basate su indizi che si potevano leggere più a scarico dell'imputato che a colpa, quelle che la cassazione ha confermato senza fare alcun vero controllo. Potrei parlare di alcuni degli errori più eclatanti capitati in Italia e soffermarmi su Gino GirolimoniDomenico Zarelli (che fumava sigarette HB ed ora, a 39 anni di distanza, grazie a un anonimo che conosce bene i reperti catalogati all'epoca, si dice abbia lasciato il suo Dna su 4 sigarette marca Gitanes e il suo sangue su uno straccio), Domenico Morrone, Massimo Carlotto (in questo caso fu il Presidente della Repubblica a rimediare agli errori della magistratura), Enzo TortoraGiuseppe GullottaDaniele Barillà, Massimo Pisano, Salvatore Gallo. Oppure potrei dar voce alle migliaia di innocenti ignorati dal sistema mediatico, a Melchiorre Contena, a Gianpaolo Ragusa, a Carlo Fabbozzo, a Davide Lombardo e a tantissimi altri fra cui Roberto Giannoni.

Lui prima dell'arresto era l'uomo normale, il vicino che non aveva e non dava problemi, la persona che si alzava presto ogni mattina e tornava a casa la sera dopo essere stata per oltre otto ore in un ufficio: all'incirca come le persone comuni che fanno parte dell'opinione pubblica. Roberto aveva un lavoro (era un bancario diventato direttore di una filiale della Cassa di Risparmio di Livorno), aveva un padre, una madre e una fidanzata. La parte brutta della sua vita iniziò alle 4.15 del 6 giugno 1992 - quando tanti poliziotti si presentano a casa sua con le manette. Venne assolto per non aver commesso il fatto sei anni dopo, ma a quale prezzo? Suo padre e sua madre morirono di dolore, il padre durante la carcerazione, il lavoro lo aveva perso e la sua mente rimase imprigionata in una situazione strana che rigettava la cosiddetta vita sociale. Dopo la sentenza di assoluzione, Roberto era un uomo libero che aveva paura della libertà. Per capire in parte cosa significhi finire in carcere da innocenti, pubblico la lettera che lo stesso Giannoni inviò a Ristretti.it.

È difficile da spiegare, da capire, da far credere come un click possa cambiarti per sempre la vita. È quello delle manette che ti scattano ai polsi alle 4,15 di mattina nel bel mezzo di una vita passata a lavorare sodo e seriamente, prima di quel momento non si può immaginare cosa possa essere l’arresto, cosa significa perdere la libertà, non essere più padrone di te stesso. Oggi paragono le parole del mio avvocato che dopo aver parlato con i poliziotti mi disse: "Roberto, ti arrestano", alle parole che i medici mi dissero pochi istanti prima che mio padre e mia madre morissero: "Roberto, stanno per morire". Non sapevo cosa fosse la morte e fino a quando vedevo il respiro non riuscivo a capire, a spiegarmi come una persona potesse morire, così fino a quando non ho sentito quel click non sapevo cosa fosse un arresto. Ma soprattutto non ci credi: non credi che una persona a te cara possa andarsene per sempre e finché vedi un respiro speri che non muoia mai, e così fino a che non senti il click non credi che a te innocente possano toglierti la libertà Dopo quel click ho lasciato la mia casa con i miei genitori atterriti e smarriti in mezzo al corridoio, un’immagine che rimarrà per sempre nella mia mente. Sconcerto e disperazione è stata la prima sensazione. Una vita distrutta in pochi minuti. Portato via sottobraccio dai poliziotti, il "mio mondo" è scomparso.

Sono stato fatto salire su di un’auto e ho iniziato un lungo viaggio, che mi ha portato ad attraversare due mondi nuovi. Non vedevo più nulla intorno a me, lo sguardo si perdeva nel vuoto, non focalizzavo più, sentivo le voci ma non vedevo le persone, una folle corsa a sirena spiegata fino ad arrivare in Procura, quindi "spinto" senza poter ragionare, rendermi conto di dove mi trovavo, interrogato per ore ed ore e poi di nuovo via di corsa sempre a sirene spiegate, fino ad arrivare al carcere, e qui con un lugubre rumore si è spalancato il grande cancello e sono entrato nel tunnel della carcerazione. Sono entrato come per incanto in un mondo che non conoscevo ma che è sempre esistito, ed in quel momento così disperato il detenuto che mi ha accolto era la persona che più capiva il mio dolore, perché solo chi soffre dietro quelle sbarre può capire veramente la sofferenza di uno che sta entrandoci. La sorpresa di aver trovato nel compagno di cella un’umanità semplice, povera ma sincera, non riusciva a togliermi il trauma della limitazione di spazio, dover dividere una cella di 12 mq. con un’altra persona con la quale non c’era nessuna affinità. Lo scandire concitato dei tempi e delle cose che si devono fare in veloce sequenza, con ogni giornata sempre identica alle precedenti, mi facevano arrivare rapidamente al momento in cui spegnevano la luce e rimanevo al buio con la disperazione che si faceva più grande. Parlavo, ascoltavo gli altri detenuti, ognuno di loro aveva una parola buona quando con il pianto cercavo di alleviare un po’ la sofferenza, rispondevo loro con dei cenni, annuivo accettando i loro consigli, ma dentro di me ero con il pensiero lontano da loro, da quel mondo, vivevo ora dopo ora pensando di tornare nel mondo che avevo lasciato, era lì che io ero sempre con la testa. Dopo pochi mesi sono stato trasferito sotto il regime del 41 bis, la massima restrizione carceraria, il carcere duro, quello dei mafiosi.

Mi giravo intorno, assente con la mente, ma ero sempre in compagnia di un pensiero che non mi lasciava mai, la testa mi scoppiava, sentivo solo vuoto ed abbandono. Il passo delle guardie e il tintinnio ferreo delle chiavi riuscivano a distrarmi un momento ed era come mi fermassi sull'orlo del precipizio: quel suono di chiavi era la voce che mi urlava l’istante prima di gettarmi nel vuoto. L’urlo del silenzio era assordante, più mi tappavo le orecchie e più si faceva forte. C’era il conforto della fede con il cappellano del carcere che aveva sempre una parola di aiuto per tutti, c’erano i medici, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, persone civili che ti portavano negli incontri un pezzo di quel mondo che ricordavo ed al quale mi avevano ingiustamente strappato, ma io mi sentivo ed ero innocente e mi ritrovavo in un luogo dove si espiano le condanne, ed allora davanti a queste persone, ognuna delle quali svolgendo il suo lavoro cercava di aiutarmi, io mi sentivo in difficoltà, provavo disagio, vergogna, sarei tanto voluto sparire. 

Il tempo scorre rapido, può sembrare strano, sei spinto continuamente dalla conta del mattino fino alla sera quando ti chiudono il blindato, ma anche perché speri di correre incontro al processo e per un innocente l’assoluzione dovrebbe essere sicura, ma i dubbi, le angosce, il perverso evolversi della vicenda, ti mette tutto in discussione e ti pone terribili interrogativi. Passi le ore abbarbicato al cancello con la faccia spiaccicata alle sbarre per avere un campo visivo maggiore. L’angoscia di affrontare un processo con il terrore di non riuscire a dimostrare la mia innocenza. Sotto il regime del 41 bis, due colloqui al mese con i miei genitori, biancheria ridotta all'essenziale, pantaloni senza cintura, due ore sole di aria al giorno, nessuna possibilità di cucinare, a gomito e branda con i boss, quelli veri. Lì, mi sembrava di rivivere il film "Il Padrino".

All'inizio nessuno di questi signori mi rivolgeva parola, poi piano, piano vengo avvicinato, mi si chiede il nome, la professione e perché mi trovo lì. Declinate le mie generalità dico: associazione a delinquere di stampo mafioso. Qualcuno mi guarda con sospetto, altri accennano un sorriso, un vecchio boss mi guarda dall'alto in basso e sentenzia: voi siete un coglione, altro che un mafioso. Questa sezione mi vedrà ospite per 10 mesi, per tutto questo periodo godrò delle gentilezze dei miei scomodi vicini di casa, ma non riesco, non mi è possibile sentirmi un inquilino di quei palazzi.

Ed è arrivato, dopo 365 giorni, il giorno della scarcerazione.

L’euforia di tornare libero è durata poco, quando la guardia mi ha comunicato che ero libero ho esultato, preparato in fretta le poche cose che avevo, salutato fugacemente gli altri detenuti e dentro di me ho pensato: sono libero, ritorno, finalmente, nel mio "mondo". Ma dopo l’abbraccio con i familiari e gli amici che erano ad attendermi, fatti alcuni passi mi sono fermato ed un pensiero mi ha subito assalito la mente: stavo entrando in un mondo del quale sentivo di non fare più parte. L’angoscia di affrontare un processo con il terrore di non riuscire a dimostrare la mia innocenza, unito al fatto di incontrare persone, anche conoscenti, nelle quali leggere velatamente una forma di dubbio, avere la sensazione che chi ti parla non vede l’ora di finire la conversazione, bussare a tantissime porte e accorgerti che, con una scusa banale, tutti ti negano un lavoro, tutto ciò rafforzava in me la convinzione di essere in un mondo che non conoscevo, che non era più quello che avevo lasciato e per il quale avevo trascorso il mio tempo con il desiderio di ritornarci.

Ora, libero, volevo fuggire da quel mondo e quando al mattino uscivo di casa, evitavo le strade del centro cercando di incontrare meno persone possibile, mi sentivo un oggetto misterioso motivo di curiosità.

È quello il momento in cui si scoprono gli amici veri, quelli che non hanno aspettato l’assoluzione per credere in me e darmi il loro affetto, ed è così che comincia a maturare verso questo mondo un rapporto dove la fiducia non è più totale. Questo sentimento infatti non passa più per il cuore, ma attraverso le valutazioni più fredde e razionali della mente. Finivo per rifugiarmi nel retrobottega di tre amici, lì mi sentivo più tranquillo, ritrovavo un pizzico di serenità e speranza ed anche un po’ di quel mondo che avevo lasciato.

Dopo aver ascoltato la sentenza che decretava l’ assoluzione, il mio pensiero è corso subito alla memoria di mio padre e a mia madre che stava morendo in ospedale colpita da un tumore sconosciuto. Ma anche ad Aldo, Carlo e Leoluca, i tre amici che mi accoglievano nel loro retro bottega aiutandomi infinitamente. In quel momento ho capito che forse avevo abusato della loro grande disponibilità e fraterna amicizia, mettendoli con la mia presenza in difficoltà, ed ero contento per loro della mia assoluzione che li gratificava, ma chissà quanta amarezza e dispiacere avrei dato loro se colpito anche solo da una piccola condanna.

Continuavo comunque ad avere la sensazione che tutti mi guardassero, e camminavo a testa china evitando gli sguardi anche di chi non conoscevo, era un rigetto istintivo verso quel mondo dal quale mi sentivo abbandonato, tradito proprio da quei valori sociali e morali nei quali avevo sempre creduto.

Quanto scritto da Roberto Giannoni è ciò che prova un imputato che si vede privare della libertà in maniera ingiusta, ciò che prova chi ha un processo da affrontare e non sa se ne uscirà innocente o colpevole perché una procura si è accanita, ha stravolto a suo favore gli eventi, magari aiutata dai media, e detto, e scritto su un atto inviato a un giudice, che l'imputato è un soggetto molto pericoloso, che può tentare la fuga, che può inquinare le prove ed anche reiterare il reato... ed è anomalo che si scriva questo, quando non si hanno vere prove (vista la successiva assoluzione) e si parla di persone comuni, di un incensurato che in vita sua non ha fatto altro che lavorare e stare in famiglia.

Phil Ochs, un cantautore americano, in una sua canzone cantava: "Mostrami la prigione, mostrami il carcere, mostrami il detenuto la cui vita è andata male e io ti mostrerò, ragazzo mio, mille ragioni per cui è solo un caso se al posto suo non ci siamo noi".

Homepage volandocontrovento

8 commenti:

  1. Tutto quello che il povero Bossetti, da innocente, sta sperimentando e provando.

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  2. Incredibile il codicillo, cioe' ma la gente che cavolo ne puo' sapere veramente di che fa uno od una nella sua vita???
    Conosci una tipa, magari te ne innamori, ci stai insieme e mentre vai a lavorare magari lei va a rapinare banche, magari prenota una cenetta romantica in un locale perche' deve portare un "pacchetto" al proprietario da parte del boss, tu ti vivi una storia, lei ti usa, ed alla fine uno finisce nei casini senza aver fatto nulla, solo perche' aveva una storia, e che doveva fare per "non trarre in inganno"??? Diventare forse frate??? Allucinante, veramente, ma chi fa e mantiene queste aberrazioni???
    Come fa uno a sapere, specie se non ci sono voci in merito, che una od uno viola sistematicamente o solo anche una volta le leggi, ma roba da matti.

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  3. Si parla e straparla tanto di riforma della giustizia ultimamente: questo è sicuramente uno dei primi elementi da modificare, ovvero semplicemente abolire.
    Poi bisognerebbe limitare la carcerazione preventiva a pochissimi reati (seriali, terrorismo e crimine organizzato) e d'un colpo si libererebbe un bel po' di spazio nelle prigioni, ad un tempo migliorando la vita tanto di chi ci deve stare che di chi non ci deve stare.
    E tra quelli che ci devono stare includo anche gli agenti di Polizia Penitenziaria, perché il sovraffollamento non può che peggiorare il loro lavoro.

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  4. Massimo,che dire, hai aperto una realtà di norme codificate che è assurda e sconosciuta alla stragrande maggioranza
    del popolo italiano.

    Non dobbiamo stupirci se non siamo stimati all'estero.

    Un caro saluto.

    Vanna

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  5. Bhe! Di che cosa vi meravigliate? Al sud il risarcimento lo vedi con il cannocchiale, a loro(Entità sovra-umana)basta la dicitura "L'atteggiamento dell' imputato lasciava spazio a sospetto di appartenere,e qui la parolina magica,a tal de tale "cosca".Et voila'il gioco è fatto!

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  6. basta vedere come si comportano quelli di avetrana . non tornano indietro pena la gogna d'aver sbagliato e rovinato vite .
    mi pare che tortora fu risarcito (x modo di dire) ma lui era un uomo facoltoso ,i miserabili col cavolo che li risarciscono.
    sono superiori e trattano il poveraccio come una pezza da piedi .
    non tutti sono cosi' uno è coppi un "signore "

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  7. anche perchè per non risarcire devono trovare una scappatoia , altrimenti il malcapitato dovra' essere risarcito : dallo stato .
    perchè ancora non c'è la legge per il risarcimento danni dal magistrato

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