L'Orco del parco dei mostri di Bomarzo |
Salvatore Gallo in carcere |
Ma per parlare di assassini ed omicidi ci vuole un cadavere, e dato che non pare esserci il morto partono le ricerche di Paolo Gallo vivo. Però l'uomo sembra essersi volatilizzato.
Non è da nessuna parte e neppure i cani ne fiutano l'odore; inoltre al
suo podere vi è una cospicua chiazza ematica, oltre ad una "coppola" che pare
anch'essa insanguinata. Le indagini cambiano quindi direzione, si concentrano subito sul fratello e
si intensificano quando in casa sua viene ritrovata una camicia
macchiata di sangue. Fin qui solo ipotesi e sospetti, niente altro. Tutto cambia quando entra in scena Ferdinando Nicoletti, il
medico legale incaricato di stabilire se il gruppo sanguigno trovato nel campo corrisponda
a quello dello scomparso. La sua diagnosi è cruenta e impietosa. Non solo dice che il
gruppo sanguigno corrisponde, ma afferma anche che l'abbondanza di sangue è tale da poter dare l'assoluta certezza che il signor
Paolo Gallo è morto per dissanguamento.
A questo punto gli inquirenti, grazie al patologo stimato, arrestarono subito Salvatore e
stabilirono che da solo non avrebbe potuto occultare il cadavere del
fratello, quindi convocarono in caserma il figlio Sebastiano, convinti che
l'avesse aiutato. Subito i carabinieri si accorsero che il ragazzo
indossava due paia di pantaloni. Il maresciallo gli fece togliere i
primi e vide chi i secondi erano sporchi di sangue. "E' una macchia
vecchia", disse il ragazzo, "è di quanto abbiamo sgozzato l'agnello". Ma la sua giustificazione non convinse i carabinieri. Nessuno gli credette ed anche lui fu incarcerato.
Sebastiano Gallo alla sbarra |
Cominciò il processo e grazie
alla testimonianza del patologo l'esito sembrò da subito scontato, condanna per padre e figlio. Ma
improvvisamente arrivò il colpo di scena. Due contadini che conoscevano bene Paolo Gallo, i signori Masuzzo e La
Quercia, si presentarono
spontaneamente a qualche giorno uno dall'altro. Entrambi giurarono in
tribunale di aver parlato col Chiodo, con Paolo Gallo, pochi giorni
prima. Ma le affermazioni del dottor Nicoletti, persona stimatissima, non lasciavano
dubbi. I due contadini non furono creduti ed addirittura finirono in carcere.
Masuzzo il giorno successivo ritrattò la sua deposizione e fu liberato. La
Quercia, sicuro di essere dalla parte della verità, vi restò tre mesi
fino a quando le sofferenze dei suoi familiari convinsero anche lui a
ritrattare.
Già da questa premessa si capisce come gli inquirenti vittime del pregiudizio non riescano ad avere una mente aperta, come non riescano a cercare soluzioni investigative valide, come non riescano ad indagare guardando oltre il loro naso. Già da questa premessa si capisce
quanto molto conti, per chi non sa usare la logica e la propria mente, la parola di un dottore, di un patologo stimato che dall'alto della sua esperienza si dichiara certo della morte di chi non si trova. Per contro si capisce anche a quanto poco servano le
testimonianze giurate di persone semplici ed incolte. Si capisce quale sia il metodo usato per annullarle, se contrarie alla strada preferita (addirittura a volte basta minacciare la galera per fare in modo che chi si presenta per dire quanto sa, specialmente se è padre di più figli, se ne torni a casa propria senza far stilare alcun verbale). Da questo si capisce pure come sia chiaro che non indagando a modo e seguendo solo la linea già tracciata, si arrivi inesorabilmente ad una condanna degli imputati.
Infatti al processo di primo grado il fratello ed il nipote dello scomparso vennero condannati: Salvatore all'ergastolo ed il figlio a 14 anni. I due dalla prigione gridavano la loro innocenza, ma, si disse, tutti i detenuti si dichiarano innocenti. Passarono altri 15 mesi e si arrivò all'appello, nessuno fece altre indagini ed ancora si insistette nel ritenerli colpevoli. Questa volta a Sebastiano andò meglio, la sua pena si ridusse a 16 mesi e fu scarcerato perché già li aveva fatti in galera. Al padre, che continuava a proclamarsi innocente, non fu concesso nessuno sconto di pena e nessuna attenuante.
Infatti al processo di primo grado il fratello ed il nipote dello scomparso vennero condannati: Salvatore all'ergastolo ed il figlio a 14 anni. I due dalla prigione gridavano la loro innocenza, ma, si disse, tutti i detenuti si dichiarano innocenti. Passarono altri 15 mesi e si arrivò all'appello, nessuno fece altre indagini ed ancora si insistette nel ritenerli colpevoli. Questa volta a Sebastiano andò meglio, la sua pena si ridusse a 16 mesi e fu scarcerato perché già li aveva fatti in galera. Al padre, che continuava a proclamarsi innocente, non fu concesso nessuno sconto di pena e nessuna attenuante.
In Carcere gli anni passano lenti, specialmente per chi non ammette di essere il colpevole di un omicidio. E se capita quanto capita sempre, a poco a poco tutto si sgonfierà e chi si è visto rinchiudere senza prove verrà dimenticato diventando uno dei tanti carcerati che, purtroppo senza microfono, urlerà a vuoto la propria innocenza. D'altronde i giudici, dice l'opinione pubblica che si sente psicologicamente inferiore a chi indossa una divisa (sia una toga o sia un camice da dottore), hanno tutte le carte in mano, e se sentenziano che una persona è colpevole significa che è colpevole... non si va in carcere senza prove. Mai pensiero si rivela più sbagliato e assurdo. Gli uomini, sia abbiano un'istruzione superiore o un'incarico istituzionale, sono uomini, come lo siamo tutti, ed hanno deficit e debolezze come li ha ogni essere umano. Non esiste l'essere perfetto e l'errore è parte integrante dell'uomo, sia che sbagli ad innestare una pianta o a fare una potatura, e si trovi a non avere un raccolto, sia che sbagli a prescrivere un farmaco o a fare una diagnosi, ed intossichi i suoi pazienti, sia che condanni qualcuno per omicidio senza avere né un briciolo di prova né un cadavere, e rovini la vita di un altro uomo e della sua famiglia. Salvatore Gallo entrò in quest'ultima categoria, fu rovinato da investigatori incapaci, da un patologo prevenuto e da diversi giudici che non ebbero la voglia di controllare al meglio gli Atti che non contenevano indagini ma solo pregiudizi. Ma pur nella sfortuna, trovò un alleato. La sua strada si incrociò con quella di un vero giornalista: Enzo
Asciolla.
Enzo Asciolla, morto il primo novembre del 2007, all'epoca del processo lavorava per il quotidiano "La Sicilia". Aveva seguito il caso e capito quanto avessero indagato male, o addirittura non indagato, i carabinieri ed i magistrati, aveva capito che la condanna era una pessima ed ingiusta condanna. Ma capì ancora di più quando decise di aiutare Salvatore Gallo e si scontrò coi carabinieri e coi magistrati che non ne vollero sapere di seguirlo nelle sue "farneticazioni" e cercarono di farlo desistere. Ma lui non si fece intimidire e proseguì sulla sua strada. Per prima cosa andò dai contadini che avevano dichiarato di aver incontrato Paolo Gallo vivo, e questi confermarono, poi assieme a Salvatore Lazzara, l'ultimo avvocato dell'ormai ergastolano, si recò di persona a cercarlo nel paese in cui i testimoni lo avevano incontrato. Il giornalista fu aiutato dall'editore del suo giornale e dai lettori che si appassionarono alle sue ricerche, quelle che i carabinieri non vollero fare sette anni prima. Ogni suo passo venne pubblicato a puntate sul quotidiano e per mesi i lettori si incollarono ai suoi articoli, più appassionanti di un libro giallo, e con loro anche i carabinieri che alla fine si convinsero ed iniziarono a cercare il presunto morto.
Enzo Asciolla, morto il primo novembre del 2007, all'epoca del processo lavorava per il quotidiano "La Sicilia". Aveva seguito il caso e capito quanto avessero indagato male, o addirittura non indagato, i carabinieri ed i magistrati, aveva capito che la condanna era una pessima ed ingiusta condanna. Ma capì ancora di più quando decise di aiutare Salvatore Gallo e si scontrò coi carabinieri e coi magistrati che non ne vollero sapere di seguirlo nelle sue "farneticazioni" e cercarono di farlo desistere. Ma lui non si fece intimidire e proseguì sulla sua strada. Per prima cosa andò dai contadini che avevano dichiarato di aver incontrato Paolo Gallo vivo, e questi confermarono, poi assieme a Salvatore Lazzara, l'ultimo avvocato dell'ormai ergastolano, si recò di persona a cercarlo nel paese in cui i testimoni lo avevano incontrato. Il giornalista fu aiutato dall'editore del suo giornale e dai lettori che si appassionarono alle sue ricerche, quelle che i carabinieri non vollero fare sette anni prima. Ogni suo passo venne pubblicato a puntate sul quotidiano e per mesi i lettori si incollarono ai suoi articoli, più appassionanti di un libro giallo, e con loro anche i carabinieri che alla fine si convinsero ed iniziarono a cercare il presunto morto.
Paolo Gallo, la presunta vittima |
Morale della storia: a Paolo
Gallo vennero inflitti 4 mesi di carcere. Non per procurato allarme o
quant'altro, ma perchè mentì ai carabinieri dando un nome falso.
C'è da chiedersi che pena abbiano dato al patologo, che in tribunale s'era
dichiarato certo della morte, ed al maresciallo, che aveva mandato in carcere i
due testimoni invece di seguire
le loro parole ed andare in zona Santa Croce Camerina per cercare di trovare lo scomparso. Ve lo dico io: nessuno ebbe problemi, nessuna imputazione e nessuna condanna, niente di niente. E vi dico altro. Per rifare il processo e scagionare il detenuto condannato in via definitiva dopo tre gradi di giudizio, il Parlamento dovette cambiare le vecchie regole che non prevedevano un nuovo giudizio per chi, colpevole d'omicidio, fosse stato scagionato da prove certe. E questo grazie al clamore che suscitarono gli articoli ed il comportamento di Enzo Asciolla.
Questa è una triste storia di malagiustizia. Una triste storia venuta alla luce e risolta grazie ad un vero giornalista che dopo aver seguito la vicenda ed i processi, ed aver capito gli errori, invece di fregarsene e lasciar marcire in carcere un innocente, ubbidì alla sua coscienza e si improvvisò investigatore. Ma è una storia triste anche perché Salvatore Gallo in carcere contrasse una
malattia che l'obbligò a passare il resto della sua vita seduto in una carrozzina. Una storia triste che dimostra come un
pregiudizio di partenza impedisca di indagare nel modo migliore e di
vedere le cose in maniera obiettiva. Una storia vecchia ma attuale. Perché l'uomo non sarà mai perfetto, perché chi ha in mano la vita delle persone a volte sbaglia, perché, anche a causa dell'orgoglio, è difficile trovare investigatori e magistrati in grado di imparare dagli errori altrui. E' difficile trovare chi sia in grado di dire: "Scusatemi, ho fatto un errore e mi dispiace".
Gli articoli in prima pagina:
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Grazie Massimo !
RispondiEliminaIl tuo articolo, molto bello ed avvincente (anche se triste come possono esserlo le conseguenze delle ingiustizie prodotte dagli esseri umani), è anche un chiaro richiamo alle coscienze di tutti noi.
Non è appropriato dire non mi riguarda. Circostanze e comportamenti ingiusti per altre persone possono, fra l'altro, anche se non lo si ritiene possibile, trovare noi stessi, un giorno, a ns volta, nei panni della vittima resa inerme.
Bisogna avere e mantenere viva e operativa la capacità di indignarsi e di cercare di fermare gli abusi (e ricordarsi, profondamente, che non sempre si può lottare, da soli, quando ci riguardano direttamente, al fine anche di comprendere come comportarci, a fini di giustizia, quando riguardano altri).
K@
Caro Massimo Come al solito riesci a scovare quei delitti di cronaca nera che hanno fatto la storia dei tanti errori giudiziari in Italia.Di giornalisti bravi al giornale LA SICILIA ne ho conosciti tanti ,anche perché ci lavorano diversi amici miei.E tante volte capitava che facevo compagnia ad un amico che aveva il turno di guardia al centralino,la prima cosa che si andava a vedere appena usciva il giornale era la cronaca di cosa era successo.Un Bravo al compianto Enzo Asciolla che con tenacia e dedizione è riuscito a risolvere il giallo del morto ,ma che in realtà era vivo.Non so se hai saputo qualcosa sul caso Falcidia,delitto di diversi anni fa che ancora oggi non si riesce di capire chi sia stato ad ucciderla.Delitto che per diversi anni ha riempito la cronaca nera di Catania.E dire che conoscevo la vittima in quando andavo in clinica FALCIDIA a 30 metri dal giornale a portare del materiale per conto della ditta con cui lavoravo.Un abbraccio affettuoso da Catania.
RispondiEliminaho goduto come un riccio, per questa sentenza, più che per Parolisi, per i quattro dementi che scrivono in questa blog!!
RispondiEliminaPrima eravamo in quattro, ciccio, ora con te siamo in cinque. Benvenuto
RispondiEliminabellissimo articolo grazie
RispondiEliminaps vedo che purtroppo anche qui girano min@@@oni che si nascondo dietro una tastiera (x anonimo 19:29)
diadora
Caro Massimo,
RispondiEliminaqueste cose, che tu segnali e che non riguardano solo i morti veri o finti, caratterizzano anche le più comuni questioni civili e penali che arrivano in Tribunale. Si possono fare riforme e riforme, anche ottime, ma finchè i magistrati avranno il privilegio di giudicarsi da sè, quale corporazione intoccabile, protetta proprio dal prestigio delle non molte toghe insanguinate, questi signori, che hanno la temeraria presunzione di ritenersi ispirati dalla dea greca DIKE, non faranno mai nulla per sviluppare senso critico e volontà scientifica di ricerca, ma applicheranno quel tanto decantato da loro "rasoio di Occam" - che era tutt'altro - per trovare la soluzione più semplice: prendere il primo fesso utile allo scopo, accusarlo di ogni cosa, processarlo e condannarlo.
Il problema è anche quello di fare della Facoltà di Giurisprudenza non una macchina che prende materia grezza e ne fa piccoli automi meccanici e cibernetici, ma un'Istituzione, dove la prima cosa da fare è abituare all'uso del ragionamento, non all'abuso della memoria, liberndosi al contempo da un arcaico formulario e una più arcaica mentalirà. Il metodo di ricerca critica e scientifica è tutto da insegnare a questi signori.
Articolo molto interessante, complimenti!
RispondiEliminaGrazie anche perchè non conoscevo questa storia che invece merita di essere conosciuta da tutti.
Mi fa paura questa "giustizia" e non aggiungo altro...
Vale lo stesso per i media ma in questo caso non mi riferisco alla paura ma solo ad...altro
È proprio così Massimo, come scrivi tu,
RispondiEliminaper l’opinione pubblica se i giudici «sentenziano che una persona è colpevole significa che è colpevole... non si va in carcere senza prove».
Così è soprattutto per i famigliari che hanno perso un loro caro e si accontentano di una sentenza che assicuri “un” colpevole, pensando sia finalmente resa giustizia alle vittima.
Del “dubbio” si dice sia un “tarlo”, che rode il legno piano piano inesorabilmente, ma quando viene a rodere la coscienza non si può restare insensibili, difficile avere un cuore di pietra, difficile dimenticare, impossibile che ogni tanto un pensiero non affiori anche ad anni di distanza.
Come si fa a convivere con un dubbio? Specie se è andata di mezzo l’esistenza di un’altra persona e di tutta la sua famiglia.
Non si può affermare trionfanti “giustizia è fatta”, se in aula del Tribunale non sono state presentate prove schiaccianti.
Ormai so che certi (tanti) magistrati pm e giudici non hanno né cuore né sensibilità, anzi sono acidi, ringhiosi e presuntuosi, consapevoli di avere un potere enorme nelle loro mani, di vita e di morte sugli altri individui, e alla fine si comportano come quelli che sterminavano persone perché non conformi ai requisiti della “razza pura”.
Costoro non possono permettersi il “tarlo del dubbio”, ovvio, dopo la sentenza avrebbero le notti e le giornate rovinate, e con tutti i processi a cui partecipano accumulerebbero una tale insicurezza che dovrebbero cambiare mestiere.
Però, dico io, un *pochino* di ripensamento, di valutazione sull’operato svolto, di riflessione sulle correttezze delle procedure, dovrebbero farlo PRIMA di emettere ordinanze di custodia cautelare o sentenze!
Ultima considerazione, la frase che si sente spesso dalla bocca dei difensori “Le sentenze vanno rispettate e noi rispettiamo la sentenza”, l’hanno inventata solo per non guastarsi i rapporti con i colleghi togati, non perché ci credono veramente.
È solo un modo affinché la gente, l’opinione pubblica, i cittadini a cui potrebbe capitare di restare un giorno invischiati in un processo (anche solo civile) accettino di perdere la causa.
Mimosa