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domenica 9 settembre 2012

GIURISTI CONTRO LA FILOSOFIA. I PROCESSI CONTRO PROTAGORA E SOCRATE


 Bertiolo (UD) Agosto - Settembre 2012

Tutta la vita degli uomini… è retta da natura e leggi. E di queste la natura è una realtà disordinata e particolare, a seconda dell’individuo che la possiede, mentre le leggi sono una realtà universale, e ordinata, e per tutti identica. La natura, se malvagia, tende spesso ad azioni perverse: troverete quindi in colpa chi la segua. Le leggi hanno invece di mira il giusto, il conveniente, l’utile, e questo ricercano; e quando ciò sia stato individuato, esso viene posto in forma manifesta quale norma comune, uguale e analoga per tutti: questo è la legge. Conviene che tutti obbediscano alla legge, soprattutto perché la legge è invenzione e dono degli dèi, deliberazione di uomini saggi, correzione di colpe volontarie e involontarie, patto comune della città… Per due ragioni vengono poste le leggi: perché nessuno compia ciò che non è giusto, e perché con la punizione di chi trasgredisce queste norme, gli altri possano essere resi migliori…

Anonimo, “Sulle Leggi” riportato dallo Pseudo-Demostene, in “Contro Aristogitone” [1]

PREMESSA STORICO-FILOSOFICA

Secondo la manualistica della storia dela filosofia in generale, e di quella greca antica, derivata da una tradizione espositiva platonicamente orientata, in parte seguita anche da Senofonte e poi trasmessa da Hegel, tra la mentalità dei celebri Sofisti, visti quasi sempre negativamente come demolitori del pensiero piuttosto che come costruttori critici, e il pensiero socratico passa un’enorme differenza. Secondo tale tradizione, i Sofisti insegnavano anche ciò che non conoscevano, erano degli imbonitori e dei diseducatori, Socrate invece sapeva di nulla sapere e avviava i suoi discepoli alla costruzione di un metodo di ricerca, di analisi, alla formulazione esatta dei concetti attraverso l’analisi precisa delle parole che li rappresentano. Studiosi più esatti della filosofia greca hanno da tempo, viceversa, confutato questa rozza e, tutto sommato, moralistica contrapposizione, per la quale Socrate era buono e bravo, i Sofisti dei veri imbroglioni.

Comiciamo così ad analizzare gli stessi termini “Sofisti” e “Sofistica”, che poi hanno dato origine ad altri termini qualitativamente negativi come “sofisticare”, nel senso di usare prodotti scadenti o scaduti, una sostanza nociva al posto di una buona, e così avanti. Il termine “sofista” null’altro significa, etimologicamente, che “sapiente”, e tali si qualificavano i primi studiosi della natura, ricordati poi come i “sette sapienti” dell’antica Grecia (tra cui Solone e Talete). Tale termine “sofista” viene contrapposto al termine “filosofo” che significa ”amante del sapere”. Tale attributo fu usato da Pitagora e dai Pitagorici indicando sé stessi, e ben prima che apparissero i “sofisti” veri e propri. I “sofisti” del V secolo A. C. sono stati qualificati variamente: secondo Theodor Gomperz, che pure li apprezzò e seppe criticare la svalutazione fattane da Platone, erano paragonabili culturalmente ai giornalisti d’oggi, persone che si occupano di tutto senza sapere nulla in modo specifico. Alcuni saranno stati così, ma non tutti, e non certo i più celebri quali Protagora di Abdera, Gorgia di Leontini, Prodico, Antifonte, ed altri. Si tratta semplicemente di docenti liberi e privati che avviavano i giovani all’oratoria politica e forense ed avevano un certo numero di alunni e di ammiratori. Furono, a partire da Protagora, i primi studiosi del linguaggio, formulando un sistema di regole grammaticali, poi universalmente accettato. Non si può dire che costituissero una Scuola, sul modello di quelle precedenti (i filosofi naturalisti e i pitagorici, o come più tardi avvenne per i socratici, i platonici, gli aristotelici, gli scettici), avendo tra di loro, soprattutto nella filosofia politica e del Diritto notevolissime differenze. Molti di loro erano fortemente democratici (della democrazia furono i primi teorici), altri invece fortemente aristocratici o tirannici. Ciò che li accomuna è, generalmente, un fortissimo spirito critico, una capacità di analisi dei fatti e dei termini molto acuta, uno sprezzo per le tradizioni soprattutto religiose ed istituzionali, un’abilità dialettica e retorica nel giocare sui termini. In pratica, tutto l’armamentario metodologico della filosofia, non solo greca, ma universale, è sostanzialmente loro invenzione. Ad essi va il merito di aver creato un vero pensiero “europeo ed occidentale”.

Di essi, che scrissero ed insegnarono molto, ci è rimasto poco, come dei filosofi precedenti: praticamente “frammenti”, inseriti quali citazioni negli scritti di Platone, Senofonte, Aristotele, e successivi. Le loro opere o vennero distrutte intenzionalmente (lo vedremo nel caso di Protagora), o furono perdute nelle varie vicissitudini di quei tempi. Per cui il giudizio negativo complessivo, che la tradizione manualistica ha ereditato e anche l’uso comune (ad es., identificare come “sofisma” il paralogisma, il falso ragionamento, il discorso ingannatore, poi accentuato dai cosiddetti “eristi”, che ne fecero un vero e proprio metodo), ha avuto buon gioco non restando di loro altro che frammenti interpretati ad uso e consumo dei successori e loro critici. Prendiamo il celebre principio di Protagora, che è il fondamento dell’Umanesimo greco o dell’Illuminismo greco (come più correttamente si dovrebbe qualificare il periodo) “dell’uomo misura di tutte le cose”, che vi siano o non vi siano, è stato interpretato in senso solo individualistico. Protagora avrebbe, assurdamente, sostenuto che ciascun individuo è misura della realtà. Giustamente Theodor Gomperz ed altri rigettarono una tale interpretazione che sarebbe la negazione di ogni conoscenza, sostenendo viceversa che, quasi preludendo al pensiero kantiano, ”l’uomo” di cui parla Protagora è una collettività, la specie umana nel suo insieme, il pensiero umano, il quale non può che vedere la realtà secondo l’ottica umana, per cui non può ragionare né da angelo, né da bove, né da pulce, ma appunto da uomo singolo per quanto riguarda la propria esperienza, gruppo o collettività universale. La verità, che egli raggiunge, non è rivelata da nessuno, bensì acquisita dall’esperienza e dalla mente umana. Da qui, la negazione che si possa conoscere la natura divina: Protagora, cosa che metteva in crisi la mentalità religiosa del tempo, diceva che all’uomo era impossibile sapere se gli dèi esistessero o non esistessero, perché il problema della loro natura è troppo complesso e sfugge alla vita di ciascuno di noi. Ovviamente, per i contemporanei tradizionalisti egli era un ateo, degno quindi, come lo fu poi Socrate, o di esilio o di morte. E Protagora e Socrate, è lo stesso Platone, ad ammetterlo, furono in realtà amici, spesso in polemica quando si incontravano, perché il primo sosteneva che la scienza si potesse insegnare, l’altro negava che si potesse insegnare qualunque cosa [2], salvo alla fine scambiarsi con reciproca ironia le parti. Infine l’uno e l’altro ebbero un destino analogo, perché Protagora accettò l’esilio, ma morì nel naufragio della nave che lo portava in Italia, dopo aver viste distrutte tutte le sue opere; Socrate, del quale si dice che nulla avesse mai scritto, rispettoso delle leggi, rifiutò l’esilio, sfidò i suoi miserabili giudici, bevve la cicuta meditando con i suoi discepoli sulla vita e sulla morte, sul doveroso rispetto verso la Legge e le decisioni giudiziarie, anche se ingiuste. Personaggi grandiosi, certo oggi non di moda negli ambienti culturali del mondo.

Ho introdotto il frammento dell’Anonimo “Sulle Leggi”, riportato in uno scritto attribuito erroneamente a Demostene [3] appunto per sottolineare quanto anche in sede teoretica del Diritto, noi dobbiamo moltissimo ai Greci e, in modo particolare, a questo periodo che, in senso lato, possiamo defnire dell’Illuminismo o Umanesimo greco, e che inizia proprio con i Sofisti, i quali passarono da un preteso studio sui princìpi della Natura, allo studio dell’uomo, il quale vede e studia la natura con la propria mente, per cui anche le pretesi leggi della natura sono, in realtà, leggi dell’uomo. Quella che definiamo “filosofia del Diritto” o “teoria generale del Diritto”, più che nei Romani, trova nei Greci la propria radice, sia in sede costituzionale ed istituzionale (forme di governo), sia nelle regole generali di applicazione delle leggi. Tali presupposti, che sono “sofistici”, vennero poi sviluppati sia da Platone (cfr. “Repubblica”, “Politico” e “Leggi”), sia da Aristotele (in “Etica Nicomachea”, “Politica” e le “Costituzioni”). Ma ci si chiederà: in tale campo i Romani non hanno forse importanza? Il Diritto romano non è una gloria che consideriamo tuttora nostra? Va intanto chiarito che ciò che chiamiamo “Diritto romano” è essenzialmente la rielaborazione, medioevale prima, rinascimentale poi, del Codice Giustinianeo, che rappresenta a sua volta la “summa” del Diritto precedente, ma non è da confondere il Diritto romano formale, anche autentico, con l’applicazione [4]; inoltre, la mentalità romana è rivolta essenzialmente alla vita pratica, concreta, poco portata alla base teorica che la deve reggere, e solo con Cicerone, Seneca, Quintiliano e successivi, si riprese la tematica teorica, ispirandosi alla radice greca della filosofia del Diritto, tanto in sede costituzionale, istituzionale, e di procedure civili o penali. Inoltre, il Diritto romano, che pure non differisce così enormemente dai Diritti concreti soprattutto ellenico ed ebraico, prevalse nel prestigio per il fatto di essere divenuto dominante nel mondo antico, medioevale e fino al Settecento in Europa, per cui ebbe modo di essere conservato maggiormente pur con molte rielaborazioni, spesso falsificanti (da cui le successive polemiche nel Rinascimento, tra i tradizionalisti e i classicisti del Diritto romano, che portarono prima ad un enorme sforzo di razionalizzazione, quindi alle codificazioni delle leggi).

Tornando al nostro tema, i cosiddetti “sofisti” sono altresì importanti per aver iniziato la distinzione tra Diritto divino, Diritto naturale e Diritto positivo; a contrapporre o a cercare di armonizzare la Natura con la Legge umana; la volontà divina con le applicazioni religiose concrete (positive, nel senso di “poste dall’uomo”); ad essersi posti il problema della scelta tra legge “giusta” e legge “ingiusta”; a meditare sull’istituzione democratica, allora formalmente vigente in diverse città (Atene, ovviamente, in testa); quindi alla tirannide. Troviamo, ad esempio, nel cosiddetto Anonimo di Giamblico (un sofista citato appunto da questo storiografo della filosofia greca) un’importante argomentazione contro le teorie, già allora sussistenti, di un preteso “superuomo”, che avesse per ciò stesso diritto di dominio su tutti gli altri, perché più forte o più astuto. Ora l’Anonimo di Giamblico sostiene con molta forza argomentativa che, se anche esistesse un uomo più forte e più astuto degli altri, non potrebbe dominare su un’intera collettività che gli si ribellasse [5], perché nessuno può avere, fosse anche figlio di dèi o Ercole stesso, la forza di tener a bada centinaia di uomini che lo assalissero. In sostanza, nell’Anonimo di Giamblico, non solo troviamo il fondamento dell’idea di democrazia come governo di una maggioranza o di una totalità consapevole, bensì anche il principio del diritto rivoluzionario di un popolo oppresso da qualcuno ad insorgere. Un tale principio si trova, anhe se ridicolizzato, fin ”dall’Ilìade” [6], quando il semplice soldato Tersite, descritto anche fisicamente come un debole (ma lo vedreste un vecchietto, brontolone e mezzo gobbo, combattere a Troia? è un’evidente caricatura), quando sfida Agamennone incitando i semplici guerrieri ad abbandonare gli Eroi, lasciandoli soli contro i Troiani a conquistare la città e a recuperare la bella Elena. Omero narra con sarcasmo che Tersite viene picchiato e messo a tacere, anzi a piagnucolare, con due buone bastonate, da Ulisse, così che i guerrieri, che non avevano mal visto la proposta di Tersite, si mettono il cuore in pace ridendo e continuando a farsi massacrare nell’interesse dei vari Menelao, Agamennone, Ulisse, Achille, e via discorrendo. Il tema non sarà più ripreso. E’ difficile immaginare che tale tema fosse già in discussione fin dal IX – VIII secolo A.C in Grecia, durante quello che viene chiamato Medioevo Ellenico, dalle invasioni dei Dori e dei popoli del mare, che distrussero tanto la civiltà micenea (quella descritta nel poema), quanto il potente Impero Ittita e minacciando lo stesso Antico Egitto. E’ probabile che un simile episodio venisse inserito da qualcuno nella rielaborazione scritta del poema avvenuta ben più tardi, in età alessandrina, dai cosiddetti “logografi” (noi diremmo filologi critici), rielaborazione che ci ha dato il poema così come lo conosciamo oggi e come è stato studiato dalle generazioni successive. E’ pure presumibile che un tale dibattito, ancronistico in un poema così antico, fosse dovuto alla volontà di tali logografi di sostenere gli Imperi assolutistici, nati sotto modello orientale, con e dopo Alessandro Magno.

La forza del numero contro la forza fisica o psicologica di un uomo o di pochi uomini, ma la forza del numero, per affermarsi, deve essere accompagnata da alta consapevolezza civica, politica e sociale: è ciò che ci vuol far capire questo “anonimo sofista”, e che valeva allora come oggi. Non può esservi democrazia, se non formale, se non è consapevolezza collettiva dei propri doveri e diritti, attraverso giuste leggi e attraverso una loro rigorosa applicazione. Il numero da solo non basta ed i quasi tremila anni che ci separano da Omero ce lo insegnano largamente.

IL RELATIVISMO DI PROTAGORA E L’AGNOSTICISMO DI SOCRATE

Si è detto che, stante la tradizione, soprattutto platonica e senofontea, poi largamente dominante nella storia della filosofia, il pensiero di Protagora e di altri sofisti, ed il pensiero socratico fossero quasi agli antipodi. Ciò non è affatto esatto, ma uno di quei luoghi comuni che si ripetono senza una seria analisi critica: è chiaro che sia prevalso, per il fatto che Platone e Senofonte furono considerati uniche fonti informative di tale pensiero, trascurando invece altre considerazioni. Per un contemporaneo di Socrate, ovvero il commediografo Aristofane, la differenza era pressoché inesistente. Nella sua commedia “Le Nuvole” (già il titolo dice molto), Socrate è uno dei protagonisti e, con molto sarcasmo, così viene descritto nella premessa: “Un vecchio, tale Strepsìade, oppresso dai debiti del figlio che alleva cavalli, lo prega di andare alla scuola di Socrate per apprendere il Discorso Debole – se in qualche modo usando argomenti ingiusti in tribunale, possa vincere i creditori e non rendere nulla ad alcuno degli usurai [si noti già questo primo passo: Socrate viene visto come un abile “sofista” che deve insegnare l’arte “sofistica”, per ingannare i giudici e riuscire ad evitare di dover pagare debiti: in sostanza un Socrate agli antipodi di quello platonico o senofonteo]. Poiché il ragazzo non vuole, decide di andare lui stesso a imparare: chiama fuori un discepolo di Socrate, e discorre con lui. Quando viene mostrata la scuola, si vedono i discepoli seduti in cerchio, sudici [similmente verranno poi descritti i Cinici, quelli di Antistene e del celeberrimo Diogene (quello della botte e di Alessandro Magno), allievi appunto di Socrate, chiamati “cinici” ovvero cani, cagneschi, per la loro trascuratezza negli abiti e nel resto, e che costituiscono insieme ai Cirenaici e ai Megarici le tre scuole socratiche di tendenza scettica, materialista ed utilitarista], e appare Socrate in persona, sospeso in una cesta e intento ad osservare i fenomeni celesti [in Platone stesso viene detto che Socrate da giovane seguiva i filosofi della natura, specialmente Anassagora; solo abbastanza tardi cominciò a studiare l’uomo e i limiti della sua conoscenza]. In seguito egli finisce per accettare il vecchio [Strepsìade], e invoca gli dèi in cui crede: Aere e inoltre Etere e le Nuvole [si osserva qui una derisione dei noti quattro princìpi della natura, anche oggi alla base dell’astrologia, ovvero Aria, Acqua, Terra e Fuoco, teorizzati da Empedocle, ma anche dalla filosofia orientale]. Alla sua preghiera entrano le Nuvole in forma di coro; quando Socrate ha trattato dei fenomeni naturali in modo non inverosimile, rivolgendosi agli spettatori esse conversano intorno a molte cose. Poi il vecchio, istruito sulla scena, mette in ridicolo una serie di insegnamenti; e poiché per la sua ignoranza viene cacciato dal pensatoio, trascinando a forza il figlio lo affida a Socrate. Costui fa venire per lui in teatro il Discorso Ingiusto e quello Giusto: l’Ingiusto contende con il Discorso Giusto, ottiene il figlio e lo ammaestra. Quando è istruito per bene, il padre lo riprende con sé e maltratta i creditori, e fa festa insieme a lui, convinto di avere sistemato ogni cosa. Invece, a causa di un contrasto durante il banchetto, il figlio lo picchia, e lui protesta a gran voce; ma il figlio lo confuta dimostrando come sia giusto che i padri vengano a loro volta pestati dai figli. Infuriato per le percosse del figlio, il vecchio abbatte e incendia il pensatoio dei socratici…” [7].

Non possiamo sapere perché Aristofane ce l’avesse tanto contro Socrate irridendolo in quel modo, ma la citazione da me fatta alla sottostante nota 7, da “Le Rane”, probabilmente ce lo spiega. Socrate, pur così beffeggiato dal commediografo, viene descritto come personaggio fornito di una concezione filosofica completa, sia sulla natura, sia soprattutto sui rapporti umani, compresa la retorica forense da utilizzare nei tribunali. Abbiamo già visto qualcosa di analogo nel Discorso in difesa di Elena, scritto da Gorgia: ebbene Socrate viene rappresentato satiricamente da Aristofane come uno dei tanti sofisti, abili nell’ingannare con discorsi tortuosi e fumosi (“sofismi”) tutti, compresi i giudici. Ad Aristofane non andava giù, si presume, l’atteggiamento antiletterario di Socrate, soprattutto contro commedie e tragedie, dove si presentava una realta umana e sociale falsa. Questa sembra, dunque, la ragione fondamentale dell’astio di Aristofane per Socrate. Nondimeno ne dimostra anche la formidabile influenza sui giovani, da cui deriverà poi l’accusa, sostenuta da Anito e Meleto, di “corruzione dei giovani”, di cui più avanti dirò, accusa lanciata anche contro altri Sofisti.

Che cosa dunque accomuna Socrate ai Sofisti in generale e soprattutto Protagora e Gorgia? proprio l’interesse umanistico, la critica alla tradizione religiosa o politico-sociale, il rigetto di vecchie convinzioni, ormai non più idonee ad una società che, dopo le guerre persiane e le guerre civili con Sparta, aveva rigettato gli antichi valori ed era alla ricerca di nuovi e più razionali.

Viceversa, che cosa poteva dividerli? Per i Sofisti, la conoscenza e le scienza umane, soprattutto, sono insegnabili all’uomo, pur nella relatività e nella limitatezza di mezzi. La verità è una conquista umana, parziale e relativa, ma trasmissibile attraverso l’insegnamento per un uso pratico (soprattutto politico e forense). Si rigetta la pretesa di poter scoprire i princìpi assoluti della realtà, che sono fuori dalla nostra portata (Gorgia col suo discorso sul “Non-Essere” satireggia, in modo assai fine e sottile, le concezioni di un Essere universale immutabile, ma Determinato (secondo Parmenide e Zenone di Elea), Indeterminato ed Infinito (secondo Melisso): con abilità notevole Gorgia contrappone i due discorsi e ne deduce che l’Essere non esiste, ma esiste il Non-Essere. Questo fa credere che un Gorgia ed altri fossero negativisti, in realtà sono agnostici, né più né meno di Socrate, ma in reazione alle teorie metafisiche e fisiche, piuttosto che sul piano della razionalità umana e dei rapporti umani.

Anche questo apparente scetticismo negativista diverrà patrimonio delle citate Scuole socratiche, soprattutto dei Cinici, ma anche dei Megarici e dei Cirenaici, ma lo stesso pensiero platonico nella fase intermedia (età ellenistico-tomana) tenderà a forme scettiche: qui basti ricordare Carnèade, quello celebre di Don Abbondio, (“Carnèade, chi era costui?”), il quale recatosi ai tempi di Marco Porcio Catone senior (quello che insisteva sull’esigenza che Cartagine venisse rasa al suolo “Ceterum censeo Carthaginem delendam esse” – II sec. a C.), il primo giorno sostenne che Roma avrebbe mantenuto il dominio del mondo continuando ad agire come agiva, e il secondo giorno sostenendo che, con gli stessi mezzi, sarebbe precipitata a rovina. Il che fece infuriare Catone e molti senatori tradizionalisti (non gli Scipioni, viceversa, che furono ammiratori del pensiero greco), per cui per almeno un secolo cacciarono tutti i filosofi da Roma. Ebbene, Carnèade null’altro faceva che utilizzare formule “sofistiche” (i discorsi duplici, le antilogie), per le quali la verità è relativa alla convenienza del singolo e del momento. Per cui, tirando le somme, se perfino la Scuola platonica, nemica fierissima dei Sofisti, ne utilizzò metodi e mentalità, possiamo dire senza timori di confutazione, che il pensiero socratico fu uno tra i vari sistemi di pensiero gnoseologico (il problema della conoscenza e della sua comunicazione), tipici di quell’età comunemente detta “sofistica”, ma che più correttamente va qualificata come “umanistica, illuministica, antropologico-culturaleellenica e pre-ellenistica. Ad Aristotele poi, allievo critico di Platone, spettò di descrivere le “Confutazioni sofistiche”, ovvero sia le argomentazioni negative, sia la risposta ad esse (contro-confutazione), ispirandosi anch’egli a quel pensiero.

Il problema interpretativo del pensiero socratico (o questione socratica) nasce dal fatto che egli non sembra aver lasciato scritti o che questi, forse dopo la sua morte, vennero fatti completamente distruggere. Di lui, non rimangono che ricostruzioni dalle opere di Platone e Senofonte, ossia non espressioni sue seppure parziali (forse l’unica è la celebre “So soltanto una cosa, di non sapere nulla”). Viceversa di quasi tutti i grandi o piccoli sofisti, rimangono frammenti attraverso le citazioni fatte da autori successivi, sia per scopi critici, sia per riferimento storico.

Da quello dunque che ci resta e prescindendo dalle cose che, soprattutto a Socrate, furono attribuite da altri e particolarmente da Platone, vediamo di capire per quanto possibile ciò che distingue il relativismo protagoreo e dei maggiori sofisti, relativismo che non è scetticismo, e neppure agnosticismo, ma semmai convinzione che una qualche conoscenza della realtà sia umanamente possibile, anche se condizionata dai limiti della specie, del gruppo culturale o etnico e dell’individuo. Relativo qui può significare tanto “parziale” (per quantità e qualità), quanto in rapporto ad altro, eventualmente anche di un Assoluto, di cui tuttavia non conosciamo nulla, nemmeno la determinata esistenza. In sintesi, l’uomo conosce da uomo, ma conosce, mentre il pensiero socratico è più radicale, in quanto nega la possibilità del conoscere, ma soprattutto del poter trasmettere tale conoscenza; solo attraverso la maieutica, termine che deriva dall’arte medica greca, ossia la tecnica di facilitare il parto, tecnica usata qui non nel senso fisico, ma nel senso morale e spirituale. Ossia: si tratta, per Socrate, di trarre fin dove possibile dalla conoscenza interiore dell’uomo, attraverso il ragionamento e un metodo induttivo (dai particolari all’universale, soprattutto passando da esempi concreti alla definizione generale, come per qualificare la natura dell’uomo), l’unica conoscenza possibile per l’uomo, ovvero princìpi morali, esigenza del rispetto dell’altro, il dovere verso le leggi e la società. Socrate non si spinge, come invece avrebbe fatto Platone, ad un mondo superiore, l’Iperuranio (letteralmente, il “mondo oltre il cielo”), quale fonte primaria di conoscenza, per cui la maieutica si trasforma in un’opera di richiamo al ricordo ormai inconscio di un Sapere primigenio (conoscenza, dunque, come Memoria), ma presumibilmente si limita all’intuizione di quei princìpi basilari della Ragione umana, del pensiero dell’uomo in quanto uomo, quindi alcunché di superiore all’istinto animale, che pure conosce ma non sa di conoscere. E’ difficile tuttavia poter dire con certezza quanto questa metodologia sia l’iniziale platonica (che, non va dimenticato, si ispirò largamente anche al pensiero pitagorico, alla concezione delle realtà come Numero, come Misura, unitamente ad una concezione parmenidea dell’Essere in quanto uno, da cui derivò l’esigenza di conciliare in Platone l’Unità con la Molteplicità, l’Essere – statico – con il Divenire dinamico), oppure veramente ed esclusivamente socratica. Tuttavia, confrontando la descrizione platonica a quella senofontea dei “Memorabili” e di un’altra “Apologia Socratica”, nei punti di concordanza possiamo ben dire che Socrate effettivamente teorizzò la dottrina gnoseologica (della conoscenza) di un ritrovare, come dirà poi S. Agostino, la verità nell’interiorità dell’uomo, e l’insegnamento null’altro può essere che stimolo esterno a questo lavoro interiore (principio dell’autoeducazione).

Di Protagora possiamo dire che fu colui che avviò, forse insieme a Gorgia, un’analisi critica del pensiero religioso e filosofico-scientifico del tempo. Egli scrisse molte opere, di cui qui ricordo “I Discorsi Demolitori”, “Le Antilogìe” e, qui di grande attualità, “Azione giudiziaria per l’onorario”. Alunno di Democrito, con Leucippo il primo teorizzatore dell’atomismo, ovvero la dottrina fisica che riteneva la materia composta da particelle indivisibili separate dal vuoto assoluto, egli scandalizzò la società nella quale operava con questi assiomi: “Di tutte le cose è misura l’uomo, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono”. Peggio che mai per i tempi, dire: “Riguardo agli dèi, non posso dire né se esistono, né se non esistono, in quanto la vita umana è troppo breve e l’argomento troppo complesso per poter dimostrare tali asserti”. Generalmente si considera la società politeista come molto tollerante: in realtà tollerava per definizione qualunque dio ci si volesse inventare (per esempio il dio dell’informatica), ma non accettava né il monoteismo (tipo quello ebraico o cristiano), né men che meno anche il solo dubbio sull’esistenza degli dèi. Di qui, come rivedremo, il perché egli fu cacciato in esilio e i suoi libri bruciati. Ora riporto una sorta di barzelletta, perché Protagora, come Gorgia, fu uomo di spirito:

… una volta chiese l’onorario al suo scolaro Evatlo; e obiettandogli questo: ‘Ma io non ho ancora vinto nessuna causa’, gli ribattè: ‘Ma se vincerò io, dovrò averlo perché ho vinto: se tu, perché hai vinto tu [in quanto mio alunno]” [8] .

Questa battuta spiega anche il successo dei sofisti in generale, in quanto essi preparavano i loro allievi, sia all’oratoria politica, sia a quella forense, insegnamento dunque non da poco e abbastanza lucroso, in quanto lo stesso Platone ricorderà i lauti guadagni di Protagora, come docente. Secondo Filostrato, Protagora fu anche allievo dei magi persiani, ovvero seguaci delle dottrine di Zoroastro o Zarathustra, che insegnavano sul piano etico-religioso l’eterna lotta tra il Bene (rappresentato dal Dio Ahura-Mazda) e il Male (rappresentato dal demoniaco Ahriman). Questo, vero o falso che fosse, è importante, perché la filosofia, in quanto pensiero critico, nasce appunto dalla e nella contrapposizione tra pensieri diversi, che pure devono essere ben conosciuti. E questo spiega pure perché la filosofia greca nasce non nel cuore dell’Ellade (Atene o Sparta), ma alla periferia, nella Ionia anatolica e nell’Italia greca, di fronte soprattutto a religioni e mitologie locali, come quella persiana, etrusca e fenicio-cartaginese.

Di notevole interesse per le teorie sulla responsabilità d’un delitto, il dialogo che egli ebbe con Pericle, su una vicenda che, nei giorni scorsi, si è ripetuta:

10. Plutarch. Pericl. 36 (da Stesimbroto). Capitò nel pentatlo che un tale colpì involontariamente con un giavellotto Epitimo di Farsalo, e lo uccise; allora Pericle stette un giorno intero a discutere con Protagora chi, secondo il ragionamento più giusto, si dovesse ritener colpevole della disgrazia. Se il giavellotto o, piuttosto, il lanciatore o gli agonoteti [controllori dei giochi, addestratori]” [9].
Non illudiamoci di emarginare un tale dibattito, con l’aggettivo “sofistico” in senso deteriore. Simili ragionamenti, che poi il pensiero giuridico romano erediterà e farà propri con rigide classificazioni, prepara quella distinzione tra colpa, preteintenzione e dolo, formulata da Aristotele nella “Etica Nicomachea”, divenuta quindi patrimonio del Diritto romano e di quello canonico cattolico, e da lì giunta a noi nel Diritto penale. Recentemente è successo un fatto analogo: il dibattito tra i due (ma in un’altra versione c’era pure un terzo personaggio) mette in discussione se l’incidente può essere ascritto al puro caso oppure al cattivo addestramento, o ancora ad una volontà precisa. Oggi una cosa del genere è facilmente risolubile, ma forse non lo sarebbe senza quell’antico dibattito.

Già la filosofia, precedente questa fase, aveva formulato un primo abbozzo dell’idea di evoluzione della materia; già Talete, ritenendo l’acqua, il principio liquido, come origine di tutte le cose, pose le basi per la formidabile intuizione che nel mare si formassero tutti i viventi, il che fu approfondito ulteriormente da Anassimandro e, più tardi ancora proprio da Democrito, maestro di Protagora, col suo atomismo. Qui siamo di fronte ad un’evoluzione della materia intesa come aggregazione e disaggregazione degli atomi. Protagora, oltrepassando i limiti degli studi fisici, comincia a formulare un’idea di progresso culturale umano. Egli (ecco perché si parla del suo come illuminismo, oltre che umanesimo greco) vede nella cultura, nello studio, la base fondamentale del progresso dell’uomo, tanto come singolo quanto come società. Di lui non abbiamo frammenti riferiti ampiamente ad un progresso socio-culturale umano, ma è lo stesso Platone ad attribuirgli un interessante discorso nel dialogo “Protagora”, di cui riporto alcune parti:

Plat. Protag. 320 c sgg (mito di Prometeo). Ci fu dunque un tempo che esistevano gli dèi, ma non le stirpi mortali. Come giunse anche per queste il momento fatale della nascita, ecco che gli dèi le plasmano… mescolando terra e fuoco… Al momento di trarle alla luce, ordinarono a Prometeo ed Epimeteo di distribuire le facoltà applicandole convenevolmente a ciascuno… Ed ecco che ad alcuni esseri dava forza senza velocità, mentre forniva di velocità i più deboli; alcuni armava, altri faceva inermi, ma escogitando per loro qualche altro mezzo di salvezza… E tutto il resto distribuiva, secondo una legge d’equilibrio… 

Ma ecco che Epimeteo, che era un po’ sciocco, senza accorgersene spese tutte le facoltà per gli esseri irragionevoli, mentre rimaneva ancora da fornire il genere umano… viene Prometeo a esaminare la distribuzione; e vede… l’uomo invece nudo, scalzo, senza giaciglio, senz’armi… Allora Prometeo, non sapendo più qual mezzo di difesa inventare per l’uomo, ruba la perizia tecnica di Efesto e di Atena insieme col fuoco (ché separata questo, era impossibile a chiunque o acquistarla o servirsene [formidabile argomento: non basta dare il mezzo tecnico, occorre dare anche l’intelligenza, la razionalità, la capacità intellettuale per usarlo, altrimenti è perfettamente inutile]) e la regala all’uomo. In tal modo l’uomo ebbe sì la sapienza per la vita pratica; ma non possedeva la sapienza politica, ché questa era presso Zeus… più tardi Prometeo, a quanto si racconta, dovette scontar la pena del furto. Dopo che dunque l’uomo divenne partecipe della condizione divina, anzitutto, unico tra gli animali, credette negli dèi, ed ecco erigere altari… Poi con l’arte ben presto articolò la voce in parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e scoprì gli alimenti che ci dà la terra… da principio gli uomini vivevano sparsi, perché non c’erano città; sicché perivano uccisi dalle fiere…; e la perizia pratica… era insufficiente nella lotta contro le fiere; ché non avevano ancora l’arte politica, di cui la bellica è parte. Cercarono allora di radunarsi… fondando città; ma quando facevano tanto di raccogliersi, si facevano offesa tra loro… sicché di nuovo si disperdevano e perivano. Allora Zeus, temendo per la nostra specie, che non andasse tutta in rovina, manda Ermes a portare agli uomini Rispetto e Giustizia, perché fossero ordinatori della città e vincoli conciliatori di reciproco affetto. Domanda Ermes a Zeus… ‘Debbo distribuirli come furono distribuite le arti … o debbo darne a tutti?’ - ‘A tutti – rispose Zeus – e che tutti ne partecipino; ché se solo pochi li avessero come le arti, le città non potrebbero esistere. E fa’ pure una legge a nome mio, che chi non è capace di accogliere in sé Rispetto e Giustizia, sia ucciso come peste della città” [10].

Questo mito platonico messo in bocca a Protagora è assai interessante, ma suscita alcuni problemi: quanto di esso appartiene al pensiero di Platone e quanto a quello di Protagora? Sicuramente, se lo stile è nettamente platonico, il contenuto è protagoreo. Infatti, Platone possiede una cultura nettamente aristocratica, rifiuta la democrazia, e quindi non avrebbe accettato mai il principio che tutti debbano essere forniti, in modo uguale o proporzionale, di determinate doti intellettuali. Platone ritiene che la società debba essere divisa in vere e proprie caste, sul modello egizio o, più moderatamente, spartano. Non apprezza il sistema ateniese. Dunque, l’idea democratica che tutti debbano esser forniti di cultura quale base per una corretta convivenza tra singoli e gruppi, è certamente protagorea e di alcuni altri sofisti, sicuramente non tanto di Socrate, più propenso se non alle caste, ad una distinzione di categorie sociali e professionali, ad una specializzazione tecnica dei ruoli. Protagora, viceversa, ritiene che tutti possano fare tutto, ma soprattutto che tutti abbiano capacità intellettuali e morali, in grado di superare gli antagonismi personali e collettivi.

Un altro problema si pone: ma non si era detto che Protagora non credeva alla possibilità di conoscere il Divino? Come mai si rifà al mito? Questo interrogativo si potrebbe risolvere o come stile tipico di Platone (che cita miti in abbondanza, anche di sua totale invenzione per far capire, al modo delle parabole di Cristo, certi concetti difficili per le persone comuni), oppure che lo stesso Protagora, rivolgendosi a persone credenti nel politeismo del tempo, cerca di razionalizzare le loro convinzioni, le adotta come metodo di avvicinamento, ma le trasforma. Zeus, la Divinità suprema, visto il lavoro confuso di Epimeteo che si era dimenticato di fornire all’uomo ogni mezzo di difesa, visto l’aiuto un po’ truffaldino di Prometeo, che ruba doni tecnici come il fuoco [11], decide di far avere per mezzo di Ermes, messaggero degli dèi, ma anche dio dei mercanti e dei ladri, due princìpi per la fondazione della società umana: il Rispetto reciproco e la Giustizia, ahinoi, ahinoi, tuttora ben lontani dall’essere realizzati, come ciascuno può constatare nella vita quotidiana. E nondimeno come si farebbe a non dare ragione a Protagora nel sostenere che una società, senza l’applicazione rigorosa di questi princìpi, non possa reggere?

Ora, sia pure con metodologie abbastanza diverse (eteroeducativa in Protagora, autoeducativa in Socrate), sia pure con la forte distanza sul piano dei rapporti con gli allievi (a pagamento ad opera di Protagora, gratuito da parte di Socrate), questi due uomini furono maestri essenziali di etica per quei tempi e nella società ellenica, un’etica non più legata al costume religioso, alla prassi consuetudinaria, ma al continuo confronto con la ragione e in modo critico, in modo da stabilire basi ben più solide nella coscienza e nell’effettivo comportamento. Ora, come mai ambedue vengono associati nell’accusa di corruzione dei giovani, ambedue processati ed ambedue condannati, sia pure - anche qui - con pene diverse? Il fatto curioso è che di Protagora abbiamo un maggior numero di frammenti e una più ampia esposizione del pensiero, ma non abbiamo nessun documento del processo. Di Socrate, al contrario, non abbiamo frammenti, citazioni dirette, ma solo ricostruzioni personali di due autori principali suoi ex-alunni; abbiamo tuttavia due versioni, quella platonica ben più bella per contenuto e forma, e quella senofontea, della sua “Apologia” ovvero discorso difensivo (arringa, si direbbe oggi, con parola però di origine germanica) davanti ai suoi accusatori e ai giudici .

ACCUSE E PROCESSO A PROTAGORA E SOCRATE

Tanto a Protagora, quanto a Socrate venne intentato un processo a causa di una presunta “corruzione dei giovani”. Sgomberiamo subito il campo da una discutibile e rozza interpretazione di tale accusa, secondo certi superficiali e confusionari interpreti del pensiero soprattutto platonico: che questi due maestri venissero accusati di omosessualità o di forme di pedofilìa nei confronti dei loro alunni. In questo settore, di Protagora non si sa granché, di Socrate, con totali equivoci del dialogo “Simposio”, si pretende che egli avesse rapporti omosessuali, pur con moglie e figli. I Greci antichi, adoratori della bellezza fisica come segno esteriore di una bellezza morale e metafisica, non disdegnavano avere rapporti d’ogni genere, non esaltavano o propagandavano l’omosessualità, come oggi di moda, ma la tolleravano notevolmente. Tolleravano pure la pedofilìa, soprattutto nei confronti degli efebi (adolescenti). Ma di Socrate nulla si dice a questo proposito, anzi proprio nel dialogo “Simposio”, quando appare al banchetto Alcibiade [12], mezzo ubriaco, ne elogia la personalità, che paragona a quella di Sileno, brutto e tozzo di fuori, ma bello e pieno di fascino interiore. Narra anche, nel dialogo, di aver tentato di sedurlo, infilandosi nel suo lettino, senza che Socrate desse segni di un qualche interesse, ma anche senza cacciarlo: “… sappiatelo bene per gl’Iddii e per le Dee ch’io, dopo aver dormito con Socrate, mi levai non altrimenti che se dormito avessi con mio padre o mia madre(Simposio, cap. 34 [13]).

Chiarito che il senso dell’accusa di “corruzione dei giovani” non concerneva l’aspetto sessuale, vediamo di che cosa potesse trattarsi, per capire poi la difesa di Protagora (indirettamente riportata) e quella di Socrate, nelle versioni di Platone e di Senofonte, il quale tuttavia limitò tale difesa nel senso che Socrate si vantò semplicemente, nel processo, di essere uomo ligio alle leggi. Il testo platonico è ben più articolato.

Una delle accuse fatte a Protagora, come a tutti i sofisti, e spinta avanti, non da Socrate, ma dal gruppo socratico, fu quella di farsi pagare per le proprie lezioni. Come detto, non si sa se tale rimprovero divenne un’accusa formale, ma lo si può ritenere probabile. Secondo Senofonte: "Xenoph. Mem. 6, 13. Perché se uno vende la sua bellezza per denaro a chiunque la desidera, lo chiamano prostituto;… e analogamente, quelli che vendono per denaro la sapienza a chiunque, vengon chiamati sofisti, che è quanto dire prostituti. Xenoph. Cyn. 13, 8. I sofisti parlano per trarre in inganno, e scrivono per il loro guadagno, e non giovano in nulla a nessuno; né v’è alcuno di loro né vi fu mai che sia ‘sofo’ [un vero sapiente] , ma ognuno si contenta d’esser chiamato sofista, il che, presso la gente assennata, suona come un’ingiuria. Raccomanda di guardarsi dagl’insegnamenti dei sofisti, e invece, di tener in gran conto i ragionamenti dei filosofi “ [14].

Vediamo: tanto Platone, quanto e forse più Senofonte ci tengono a distinguere Socrate dai sofisti, proprio per difenderne la memoria, rispetto alla tradizione calunniosa affermatasi contro la corrente illuministica ed umanistica, che comprende se non altro la parte migliore di tutti questi pensatori e maestri di arte dialettica e retorica, oltre che di filosofia in senso più generale. Senofonte, ma anche Platone rimproverano Protagora ed altri di farsi pagare: Senofonte, mettendolo in bocca al suo “Socrate”, parla addirittura di prostituzione. E’ facile sottolineare come l’accusa fosse del tutto infondata: intanto, non risulta che Protagora ed altri si facessero pagare per i loro insegnamenti filosofici, ma piuttosto per l’arte dialettica, soprattutto in sede politica e forense. I maestri del tempo come altrimenti facevano a vivere ? E lo stesso Socrate, di cui pur si faceva vanto che non si facesse mai pagare (del resto, è ovvio: diceva di nulla conoscere…), come viveva: aveva un lavoro? Non risulta, risulta dallo stesso Senofonte che la moglie Santippe, arrabbiatasi un giorno perché non le aveva portato né soldi né cibo, gli gettasse in testa un vaso da notte pieno, da cui il detto “memorabile”: “Tanto tonò finché piovve”. Eppure, come dimostrano i dialoghi che ne descrivono la morte, Santippe amava Socrate, e non meno i numerosi figli. Probabilmente quindi Socrate viveva di doni ed omaggi in natura, vi era chi, non pagandolo in denaro sonante, però gli forniva direttamente il necessario. Egli poi spesso era invitato a cena. Qui l’accusa di farsi pagare, e quindi di prostituire il proprio pensiero, da parte dei sofisti (uomini il cui pensiero risulta viceversa assai libero, e poco propenso a ripetere affermazioni a comando), appare in generale, o almeno nel caso dei migliori, del tutto inconsistente. Lo stesso Platone, ad esempio, mette in bocca a Socrate, questo elogio di Protagora:

8. PLAT. Men. [Menone] (Socrate ad Anito): - Io so d’un uomo, Protagora che ha guadagnato lui solo più danari con questa scienza (la sofistica), che non Fidia, le cui belle opere sono così celebri, e dieci scultori insieme… PLAT. Men. 91 E. Ma intanto di Protagora, nessuno in tutta quanta la Grecia s’è acccorto che guastava i discepoli e li rimandava peggiori di come li aveva ricevuti: e questo, per più di quarant’anni ! … E in tutto questo tempo fino ad oggi la sua celebrità non è mai venuta meno” [15].

Ancora Platone fa dire allo stesso Protagora: “5. PLAT. Protag. 317 a (la scena nel 431 circa; parla Protagora). Io dunque ho preso la via del tutto opposta (a quella dei sofisti camuffati da poeti, iniziati, ginnasti, musici, ecc.) e convengo d’essere sofista, e di educare gli uomini… PLAT. Protag. 317 c. E sì che da moltì anni sto nell’arte; perché ne ho parecchi addosso - né v’è alcuno tra voi, al quale non potrei, quanto a età, essere padre… PLAT. Protag. 318 A. Ragazzo mio, se tu frequenterai la mia scuola, già il primo giorno che verrai, potrai tornartene a casa migliore; e il giorno dopo lo stesso; e così ogni giorno potrai progredire verso il meglio… PLAT. Protag. 318 E Gli altri rovinano i giovani; sfuggiti questi alle scienze speciali, li riconducono loro malgrado e li ricacciano alle scienze speciali, insegnando loro e calcolo e astronomia e geometria e musica (e qui diede un’occhiata a Ippia [altro celebre sofista]); mentre chi vien da me, non altro studierà se non quello per cui viene. Materia di questo studio è un retto discernimento tanto nelle cose domestichequale sia il miglior modo di amministrare la casaquanto nelle politichein che modo si diventa abilissimi al governo, sia con l’opera, sia con la parola [il neretto è mio: ci vorrebbe oggi un Protagora, visti i pessimi governanti che abbiamo da alcuni decenni]…” [16].

Stando dunque a questo riferimento, lo scopo di Protagora è la formazione del buon padre di famiglia, economo nella propria casa, e dell’ottimo politico. Ovviamente con metodi e con un’impostazione critici e razionali che per i tempi parevano, ai tradizionalisti greci, soprattutto ateniesi, rivoluzionari e dunque pericolosi. Infine, sull’onorario, Platone fa dire allo stesso Protagora quanto segue: “6. PLAT. Protag. 328 B (Protagora): - E perciò anche la faccenda dell’onorario l’ho regolata in questo modo: dopo che uno ha sentito le mie lezioni, se vuole paga la somma che io chiedo: se no, va in un tempio, giura. E quanto afferma che valga il mio insegnamento, tanto vi depone. (Aristot. Eth. Nic. K 1)” [17].

Tanto poco interessato al denaro, pur ricevendolo e richiedendolo, appariva Protagora, è dimostrato dal fatto che, se la somma richiesta non era accettata, egli si faceva valutare con giuramento in un tempio e il valore corrispondente veniva dato in beneficenza o simile. Quanto riportato e riferito da suoi avversari, dimostra a mio parere che l’accusa di farsi pagare per le sue lezioni, forse portata in tribunale come sembrerebbe indirettamente dal continuo confronto fatto dai socratici col comportamento diverso di Socrate, non aveva consistenza, né morale, né giuridica. Resta dunque in sostanza da chiedersi: perché fu condannato all’esilio e i suoi non pochi libri interamente distrutti con un rito che poi si ritroverà anche in pieno Cristianesimo e con le varie S. Inquisizioni anche protestanti? il motivo, come risulta, fu essenzialmente di natura poltico-religiosa: aveva messo in dubbio non tanto l’esistenza degli dèi, quanto la possibilità che fossero conosciuti dagli uomini. La motivazione viene così esposta dal filosofo scettico Sesto Empirico, anche sulla base della testimonianza di Timone Filasio: “12. Sext. Emp. Adv math [Contro i matematici, soprattutto gli astrologi - 18] IX 55 – 56. S’accorda con costoro (cioè gli atei Evemero, Diagora, Prodico, Crizia [19]) anche Teodolo l’ateo, e, secondo alcuni, anche Protagora di Abdera… per aver scritto testualmente così: ‘Riguardo agli dèi, non posso affermare né se sono, né di che natura sono; perché molte sono le cose che me l’impediscono’. A cagione di ciò gli Ateniesi lo condannarono a morte; riuscito a fuggire, fece naufragio e morì per mare. Allude a questa storia anche Timone Filasio nel Secondo Libro dei ‘Silli’ (fr. 5 Diels):

<al primo di tutti i sofisti, di prima e di poi>,
di bella voce, d’acuto versatile ingegno, a Protagora.
Ma in cenere vollero ridurre i suoi scritti, perché
Scrisse di non sapere, di non poter comprendere
Gli dèi, chi sono, come, e quali sono,
massima cura avendo d’un imparziale giudizio.
Non gli valse, e la fuga cercò, per non bere anche lui
La fredda bevanda di Socrate e scendere all’Ade… “ [20].

Sarebbe assai errato credere che l’intolleranza religosa fosse nata solo con l’affermarsi del Cattolicesimo, o, prima ancora, del Mosaismo. Questa intolleranza colpiva già nella pur “democratica” Atene, come più tardi nell’Impero Romano. Perché già allora la religione era vista come strumento di comando e di ordine costituito, quindi non già solo il negare l’esistenza della divinità era considerato pericolo di disordine sociale, ma pure il metterla in dubbio. Eppure, anche in questo Protagora prelude a Kant, non solo perché vide nell’intelletto umano il limite della conoscenza, ma anche per il rifiuto ad esprimere certezze nel merito dell’esistenza di Dio, e, come ben si sa, il re di Prussia costrinse per diversi anni Kant a non scrivere nulla di religione appunto per il suo agnosticismo. Kant eseguì, Protagora invece dovette scegliere, come più tardi Socrate, tra l’esilio e la cicuta (bevanda ricavata da una pianta velenosa che paralizza la circolazione del sangue, progressivamente dai piedi al cuore. Quando arriva al cuore ovviamente c’è la morte), una pena di morte sostanzialmente “dolce” rispetto a forme ben peggiori d’allora e quelle inventate poi, e che lascia al condannato una certa dignità materiale, come avvenne appunto a Socrate. Protagora preferì l’esilio (qualcuno parla, invece, di fuga), ma la sorte fu forse più terribile per Protagora che, partendo per la Magna Grecia, morì in un naufragio. Così finì una delle maggiori menti del tempo antico, contemporaneo ma più anziano di dieci anni, di Socrate, ed anteriore a Platone ed Aristotele, insieme a Gorgia ritenuto il maggiore dei “sofisti” (ma, ripeto, meglio sarebbe definirli umanisti ed illuministi, o razionalistico-critici).

Plutarco, nelle sue “Vite Parallele”, scelse di confrontare singoli personaggi greci con singoli personaggi romani, generalmente nell’intento, non troppo scoperto, di sostenere che i secondi, per quanto simili, fossero migliori dei primi. Avrebbe potuto scegliere, viceversa, di confrontare tra loro personaggi greci e personaggi romani separatamente. In questo caso, sono convinto che avrebbe potuto parlare di Protagora e di Socrate appunto per le loro somiglianze e differenze. Ora espongo con larghe citazioni quella che fu “L’Apologia” di Socrate nella versione platonica, quindi la sua decisione finale di preferire la morte all’esilio o alla fuga, per la virtù dell’esempio da dare ai giovani: il rispetto assoluto verso le leggi, anche se ingiuste, e la fermezza nel non rinunciare mai alla propria coscienza. Chi, viceversa, rimarrà nell’infamia della storia furono, oltre ai suoi farisaici accusatori Anito, Meleto e Licone, soprattutto i suoi giudici, gente nemica della verità e dell’onestà per professione.

Carlo Carena nella Premessa all’ “Apologia” scrive : “L’anno 399 A.C. fu presentata all’arconte re l’accusa di empietà contro Socrate, in questi termini: ‘Accusa mossa e giurata da Meleto figlio di Meleto del cantone di Pitto contro Socrate figlio di Sofronisco, da Alopece. Socrate commette reato non credendo negli dèi in cui crede la città e cercando d’introdurre nuove divinità; commette anche reato corrompendo i giovani. Pena, la morte. Dietro Meleto stavano un ricco industriale, Anito, e uno screditato demagogo, Licone…” [21].

Il documento citato dal Carena era ancora reperibile presso l’Archivio del Tempio di Cibele, ad Atene, come testimonia un certo Favorino, secondo quanto riportato da Diogene Laerzio; rivela anche come venissero presentate le denunce con rito assolutamente accusatorio ad Atene. L’accusa è del tutto vaga e generica, e nessuno oggi la prenderebbe sul serio, vista la sua indeterminatezza. Allora, invece, venne accettata da un magistrato dell’Eliea, una sorta di corte popolare, quindi discussa nei testi di querela ed opposizione, ancora sentite le testimonianze. Poi vennero ascoltati accusatori e accusato, il quale non risulta avere avuto avvocati. E’ altresì interessante rilevare che, se ancora nel II secolo D. C., era consultabile l’accusa, nessun atto invece doveva essere rimasto della difesa, in quanto sarebbe stato l’unico documento scritto di pugno da parte di Socrate. Il motivo di questo è certamente oscuro, ma denota anche qui la tipica violazione di una procedura che pure doveva essere prevista, oppure che lo si volesse cancellare anche nel pensiero. Ed ora sentiamo Socrate, come descritto dalla penna di Platone

… se ho da dire, essi non han detto nulla di vero. Ma delle molte loro menzogne ne ammirai massimamente una, questa; dissero che a voi bene conveniva guardarvi non foste tratti da me in inganno, perciò che sono terribile dicitore… questa mi parve la loro maggior impudenza: salvo che non chiamino terribile dicitore uno che dice il vero… udirete cose dette senza niuno studio, con quelle parole che vengono, ma giuste, io credo; e niun di voi si aspetti altro da me… Dunque ripigliamo da principio. Che è l’accusa, dalla quale m’è nata la calunnia, e alla quale prestando fede scrisse la querela sua Meleto? E che mai dicendo mi calunniarono i calunniatori? Via essendo accusatori essi, la loro querela giurata conviene che la legga. Eccola: ‘Socrate fa rea opera, e temeraria, cercando le cose sotto terra e quelle su in cielo, e le più deboli ragioni facendo più forti, e questo insegnando agli ‘altri’. – Su per giù così ella dice… nella commedia di Aristofane [è interessante notare come i contemporanei vedevano Socrate né più né meno che come un sofista, raffigurato viceversa da Platone e Senofonte tutto all’opposto] … voglio che vi contiate l’un l’altro quanti mi avete udito ragionare… se mi ha udito mai alcuno o poco o molto ragionare di cose simili… e se avete mai udito che io mi provo a educare uomini e fo danari, né anche questo è vero… come Gorgia il Leontino, o Prodico di Ceo, o Ippia di Elide [tutti considerati sofisti dei maggiori] … mi glorierei anch’io ed inorgoglirei, se sapessi; ma io non so, Ateniesi [dopo aver ricordato l’oracolo della Pizia, nel tempio dell’Apollo di Delfi, la quale aveva asserito essere Socrate il più sapiente di tutti, appunto perché riconosceva la propria ignoranza delle cose, mentre molti altri ritengono di essere sapientissimi, ma nulla sanno realmente] … Or da questi esami mi son nate molte inimicizie [mettendo a nudo col suo metodo maieutico appunto l’ignoranza dei presuntuosi], e molte aspre e fierissime, fra l’altre questa: ch’ei mi chiamano sapiente… No, cittadini, quel che pare è questo: sapiente davvero essere Iddio, e volere Egli dire per quell’oracolo che la sapienza umana vale poco o nulla… Oltre a ciò, i giovani che s’accompagnano meco… udendo esaminare gli uomini, godono, e molte volte fra loro provano d’imitare me, e poi si mettono a esaminare gli altri… e [i suoi nemici] dicono che ci è un certo Socrate, scelleratissimo uomo, che guasta i giovani… dicono quel che si è soliti dire contro tutti i filosofi: che insegna le cose del cielo e le cose di sotto terra, e a non credere negl’Iddii, e a fare diritto il torto: perocché la verità credo che non la vorrebbero dire, che si sono palesati persone che presumono di sapere, non sapendo nulla… Meleto in collera per ragion dei poeti, Anito per gli artefici e i politici, e Licone per gli oratori… Qua a me, Meleto: di’, non ti sta assai a cuore che divengano buoni, quanto si può, i giovani? - A me, sì – Via, di’ a costoro chi li fa migliori [abbiamo visto la stessa espressione in bocca a Protagora: rendere migliori gli alunni]. Lo dèe sapere, se ti sta a cuore, dacché trovato hai, come tu di’, chi li guasta, e me trai al cospetto di costoro, e me accusi. Via, chi li migliora? Mostralo: chi è? Meleto, tu taci, e non sai che dire. E non ti pare brutta cosa? E non ti par sufficiente prova di quel che dico io, che dei giovani non te ne sei curato niente? Ma di’, o buono uomo, chi li migliora? – Le leggi - Ma non dimando questo… ma sì chi prima conobbe ancora questa medesima cosa, le leggi- - Costoro, o Socrate, i giudici… Tutti? o alcuni di loro... ? - Tutti…” [22].

Qui il dibattito si fa vivo: Socrate attacca con le sue domande terribili, mostrando l’inconsistenza, sia delle motivazioni di Meleto, che è trascinato nel vortice delle definizioni, sia dei restanti accusatori. Citare tutto sarebbe piuttosto complesso: Socrate prova che Meleto parla senza cognizione di causa, né mai si è occupato di educazione o istruzione dei giovani. Non ha dunque la competenza per dire quando si educano o si diseducano gli allievi. Meleto è costretto ad affermare ridicolmente che tutti gli Ateniesi sono bravi educatori, salvo Socrate stesso, il che ovviamente non regge. Contro Anito e gli altri, Socrate esprime quella che ritiene la propria missione, a cui lo spinge il dèmone interiore, una sorta - per usare un linguaggio freudiano – di Super-Io, una voce intima che gli impone di agire come agisce. Nel discorso, spesso Socrate invita il pubblico alla calma e all’ascolto, perché spesso i suoi atteggiamenti e toni, che diventano sempre più provocatori, li fa rumoreggiare, protestare o forse anche ridere, come spesso avviene in tali occasioni.

… nol lascerò sì tosto, non me ne andrò via, ma lo interrogherò, lo esaminerò, ed iscruterò; e se mi pare ch’ei non possieda la virtù, pur dicendo di sì, lo riprenderò… Ché sappiate, questo mi comanda l’Iddio; e io credo che niuno maggior bene abbia la città vostra, che questo ministerio che fo all’Iddio, questo mio andare attorno non facendo altro che confortar voi, e giovani e vecchi… E soggiungerei: - Ateniesi, diate retta ad Anito, o no; mi assolviate o non mi assolviate; io non farò altrimenti, né anche se molte volte io avessi a morire. Non rumoreggiate, Ateniesi… state quieti a udire come vi ho pregato; ché, udendo, penso che ne riceverete giovamento… sappiate che se ucciderete me… più che me danneggerete voi medesimi. A me non farebbe niuno danno né Meleto, né Anito; ché non potrebbero… non è lecito che il più buono possa essere danneggiato dal più tristo [questa è la dottrina morale che Platone attribuisce a Socrate: il male, che è compiuto per ignoranza del Bene, danneggia più chi lo compie di chi fisicamente deve subirlo]… Dunque , io non difendo ora me per me, come penserebbe alcuno, ma per voi; acciocché condannando me, non pecchiate contro il dono di Dio. In vero, se mi ucciderete, non vi sarà agevole cosa (la dirò anche se fa ridere) trovare un altro come me, messo da Dio addosso alla città, come addosso a grande e generoso cavallo, ma… un poco sonnolento… - … gli accusatori, pur accusandomi di tante altre cose spudoratamente, non hanno avuto tanta spudoratezza da addurre testimoni che io abbia patteggiato mai o dimandato mercede [si risente qui la polemica platonica e senofontea contro l’interesse pecuniario dei sofisti]. Ma io un buon testimone credo di avercelo… la povertà. Ma parrà strano che io dia consigli in privato… La cagione l’avete da me udita molte volte: cioè, ch’ei m’avviene un che di divino e demonìaco… come disse… anche Meleto… Ed è una cotal voce che, sin da fanciullo, sento io dentro. E tutte le volte che io la sento, mi svolge da quello che son per fare: sospingere, non sospinge mai. Ella mi si oppone che non metta mano nelle cose della città; e mi par che a ragione… se da un pezzo ci avessi messo mano, da un pezzo sarei morto…” [23].

Chiarito dunque che egli sente questa forza interiore non per smania di potere ma tutt’altro, per un puro fatto di coscienza, spingere i propri concittadini a migliorare se stessi per sé e per la vita politica, Socrate ricorda anche sue esperienze precedenti nell’amministrazione, quale Pritano, ed elenca molti testimoni in suo favore del rischio che corse sotto il dominio (imposto dagli Spartani) dei Trenta Tiranni. Conclude la prima parte del discorso ricordando (e dovremmo ricordarlo tutti) che: “…né mi par giusto il pregare il giudice, né pregando procurar suo scampo, ma sì informare e persuadere lui… non per cotesto [pregare] siede il giudice, per dispensare graziosamente i diritti, ma sì per giudicare di quelli, e giurò egli di non favoreggiare chi a lui paresse, ma sì di sentenziare secondo le leggi… “ [24].

L’ottusa giurìa lo giudicò colpevole. Ma restava ancora da decidere o scegliere la condanna. Ormai sapendo che la partita era perduta, Socrate comincia a farsi beffardo, e ciò aggraverà ulteriormente la condanna : “… anzi mi meraviglio assai del numero [280 votarono a favore della condanna, 220 contro; nondimeno per la condanna decisiva i suoi nemici aumentarono ulteriormente, probabilmente proprio per il tono beffardo che Socrate assunse] di voti dell’una e dell’altra parte… se soli trenta voti fossero caduti giù nell’altra urna, scampava io. Ma, anche così, da Meleto sono scampato…; se non fosse montato quassù Anito e Licone, ei doveva pagar mille dramme, per non aver avuto la quinta parte dei voti [era una sorta di misura fiscale per gli accusatori, che non raggiungevano voti sufficienti dalla giurìa]. Colui vuole dunque la mia morte? Sia. Ma che pena mi assegnerò da me, Ateniesi? [come era avvenuto per Protagora o altri, la legge prevedeva che il condannato proponesse una pena alternativa: qui Socrate ridicolizza l’intera giurìa, il che peggiorerà la sua posizione]. E’ chiaro, quella che merito… Adunque, quale pena merito io, se sono così’ non pena, ma premio…. E un premio che mi convenga. E che si conviene a povero e pur benefico uomo…? Nulla è più che si convenga, come l’essere cotale uomo nutricato nel Pritanèo; molto più che se alcun di voi con cavallo o biga o quadriga vinto avesse nei giochi olimpici [qui Platone mette in bocca a Socrate un concetto già espresso dal rapsodo e filosofo Senofane, commentatore di Omero, di critica al culto sportivo degli antichi Greci: Socrate ribadisce che vale molto di più la formazione critica della ragione umana che non l’addestramento fisico e muscolare. Egli dunque va premiato e non punito, e messo al posto dei ben pasciuti atleti di Atene. Come si vede, in oltre venti secoli le cose non sono poi granché cambiate sotto questo aspetto] …io sono persuaso che mai ho fatto torto a nessuno volontariamente… E per paura di che? Che non riceva la pena che vuol Meleto, la quale, dico, non so se è male né se è bene, e per scegliermi in cambio qualche pena, la quale so essere male davvero. E quale? La carcere? E perché devo vivere in carcere, sommesso al magistrato, agli Undici? Danari, forse? E stare in ceppi insino a che non avrò pagato? Ma gli è il medesimo… Mi condannerò all’esilio?… E poi la bella vita che farei io, a questa età, tramutarmi sempre d’una città in altra, sempre cacciato via?… [ancora, Socrate, sempre beffardo, propone di pagare una mina d’argento come multa proposta da altri. Alcuni suoi amici ed alunni, tra cui lo stesso Platone, propongono trenta mine. Nondimeno, venne condannato a morte. Non cessa Socrate tuttavia dallo sfidare giudici e giurati, ringrazia chi ha votato per la sua assoluzione e poi conclude la lunga orazione con quel sublime concetto, secondo cui subisce più il male colui che lo compie, che non chi debba riceverlo] … Ma già ora è di andare: io, a morire; voi a vivere. Chi di noi andrà a stare meglio, occulto è a ognuno, salvoché a Dio” [25].

E’ bene, si chiede per l’ultima volta Socrate (ma ripeterà la questione anche nel carcere in attesa della morte, prima e dopo aver preso la cicuta), vivere servilmente obbedendo agli ordini ingiusti, fare i comodi propri ed altrui, oppure affrontare impavidamente la morte per un proprio ideale e per un fatto di coscienza? E’ migliore una vita da schiavo o la morte da uomo libero (libero soprattutto nella propria coscienza)? Di fatto Socrate non ha dubbi in questo, e cerca di farlo capire a tutti i suoi interlocutori. Egli, ben lungi dall’essere uno scettico e neppure un agnostico in merito all’idea di divinità, ne esprime un concetto etico-logico non legato alla tradizione, una Divinità impersonale, non fisica, non corporea, che agisce nell’intimo degli uomini e che ne indirizza la coscienza, qualcosa che persone comuni, non avvezze alla filosofia, non potevano allora (e forse neppure oggi) comprendere. Uomini ottusi, nemici della ragione, nemici di quella coscienza che è insieme razionale e morale, che deve essere presente in ciascuno di noi, agli amanti del successo, proni alla forza, non potevano lontanamente capire un uomo simile: per questo lo condannarono a morte, elevandolo involontariamente all’immortalità di una giusta e incrollabile Fama. E questo avviene sempre, o molto spesso, quando il giudizio si fonda solo sull’obbedienza cieca ad un potere, che ciò avvenga per proprio o per altrui interesse, ma non per l’interesse o le esigenze della collettività umana nel suo complesso. Non di giudici o di giurati burocrati ed ottusi ha bisogno l’umanità, ma di menti pensanti e di coscienze libere. 

Ragioni di tempo mi impediscono di approfondire un discorso che meriterebbe certo ulteriori approfondimenti, né mancherà per altri eventi storici l’occasione di farlo. Qui mi limito ad esporre le motivazioni per cui Socrate rifiuta anche la possibilità di fuggire, che del resto aveva già osservato nell’autodifesa. Anziano, con moglie e figli, come poteva girovagare nel mondo, senza denaro, senza aiuti? Meglio dunque una morte affrontata con serenità e fermezza, che non una misera vita da esule. Nel testo citato, è riportato l’ultimo discorso di Socrate ai suoi allievi: il “Critone”, suo amico, che gli propone la fuga. A lui, Socrate obietterà che egli non deve disobbedire le leggi, né far del male ai suoi incolpevoli carcerieri; nel “Fedone” si parla di lui dopo la morte e la calma con cui affrontò il blocco progressivo della circolazione sanguigna, dai piedi al cuore.

… Dunque, essendo noi di accordo in questo, rimane a considerare se è giusto ch’io tenti di uscire di qua, non dandomene gli Ateniesi la licenza; ovvero se non è giusto. E caso che ci paia giusto, tentiamo; se no, lasciamo stare. Perché quell’altre considerazioni, la spesa, il vociare della gente, i figliuoli che non c’è modo di camparli, son buone, bada, per codesto volgo leggero, che ti uccide senza una ragione al mondo, e ucciso che t’ha, senza una ragione al mondo, potendo ti revocherebbe a vita [Socrate rileva le contraddizioni della gente comune che ti odia fino ad ucciderti, e poi pentita vorrebbe farti risuscitare. Gli argomenti di questa gente non sono idonei alla filosofia] ... Ma noi, guarda se piuttosto non ci convenga esaminare, dacché così richiede la ragione, se noi operiamo giustamente pagando con danari…; ovvero se iniquamente… [a questo punto, Socrate, personificandole, fa parlare le stesse leggi e i cittadini] … Considera appresso: rompendo questi patti, macchiandoti di tale peccato, qual bene procaccerai a te e ai tuoi amici? Che tu metterai i tuoi amici nel pericolo d’essere sbandeggiati [messi al bando, cacciati essi stessi], o di esser privati di tutte le loro sostanze, è chiaro quasi. Quanto a te, poi, se ti rifuggirai in alcune delle città più vicine, come Tebe o Megara (ché si reggono con buone leggi tutt’e due), tu entrerai là come un ch’è nemico del loro reggimento. E quelli che hanno a cuore la città, ti guateranno con occhio bieco, immaginandosi che tu sii un corruttore delle leggi; e raffermerai nell’animo de’ giudici la credenza che abbiano giudicata la tua lite rettamente… - … Dunque, Critone, lascia stare: andiamo pure per questa via, che è quella per la quale ci mena Iddio”. [26].

Socrate sostiene: non solo a Megara o Tebe, città rette da buone leggi, ma anche in Tessaglia o Tracia, dove i costumi sono meno regolati, egli non si troverebbe mai bene. Le Leggi, personificate, gli indicano un futuro triste ed umiliante per lui, meglio è dunque affrontare la morte così come è stato deciso. Socrate non sembra porsi il problema se la legge sia giusta o ingiusta, come pur fece Antigone, e che alla legge ingiusta non si debba obbedire, anche a rischio della morte. Egli, proclamandosi ignorante di tutto, è, del resto, perfettamente coerente con se stesso. Egli non potrebbe affermare quando una legge sia giusta o ingiusta, La legge, e qui Platone si accosta a quello che viene chiamato formalismo giuridico (da intendersi però in Socrate come obbedienza morale alla legge, piuttosto che come cieca adesione alla stessa: del resto, il fatto di non voler rinunciare al suo metodo maieutico e critico dimostra che c’è in lui una certa contrapposizione alla legge stessa: se fosse stato un puro formalista in senso deteriore, un “fariseo”, un ipocrita, avrebbe rinunciato, non si sarebbe più accostato agli altri esigendo da loro la definizione di concetti generali, piuttosto che discorsi eleganti), deve essere obbedita sempre, anche quando ingiusta o assurda. Un tema capitale in tutta la storia e filosofia del Diritto.

N O T E

[1] Riportato da: Margherita Isnardi Parente in “Sofistica e Democrazia antica”, ed. Sansoni (Firenze, 1977), pag. 76 – 77.
[2] Cfr. il dialogo “Protagora” di Platone.
[3] Molti scritti, dell’antichità e primo Medioevo, vengono attribuiti a personaggi celebri, che poi non risultarono essere quelli, per cui spesso troviamo questo “pseudo” davanti ad un nome proprio. Nel caso specifico, l’Anonimo teorizza, analogamente al pensiero socratico, il rispetto dovuto alla Legge, sia per origine divina, sia quale elaborazione di uomini saggi. Troviamo qui una contrapposizione tra Natura e Legge tipica della filosofia politica e giuridica degli antichi Greci, quale ad esempio si ritrova nella celebre tragedia “Antigone” di Sofocle, dove Antigone, violando l’ordine umano e tirannico di lasciare insepolti i due fratelli, invece li seppellisce ed affronta impavida la morte. Per Sofocle, così come fa parlare Antigone, esiste una Legge divina, vera, antica, che va eseguita, mentre quella degli uomini e dei tiranni è spesso falsa, crudele, ingiusta, e non va eseguita. Una tale dottrina deriva appunto dalle concezioni di alcuni Sofisti.
[4] Ne riparlerò trattando, alla prossima occasione della “congiura” di Catilina, e il conseguente dibattito senatoriale che ne derivò.
[5] Mentre Trasimaco, Ippia, Crizia ed altri personaggi, spesso citati da Platone o da successivi storici, sostenevano che era più corrispondente a natura la tirannide, in quando il più forte dominava con pieno diritto tutti gli altri, l’Anonimo ribatte con estrema sagacia: “Se tra gli uomini ne sorgesse uno di natura tale da possedere originariamente doti eccezionali di immunità da malattie, invulnerabilità, resistenza a offese, forza straordinaria, sì da esser quasi d’acciaio nel corpo e nell’anima, forse si potrebbe credere che ad un uomo del genere potesse bastare il proprio potere, fondato su una tal superiorità agli altri (un tale individuo potrebbe godere di immunità anche non sottomettendosi alle leggi); ma tale opinione non sarebbe giusta. Ammettendo pure che vi sia un uomo simile... questi… non potrebbe riuscir vincitore se non alleandosi con le leggi, e sostenendole, e valendosi della sua forza a loro beneficio… non certo operando in senso contrario. Potrebbe infatti bastare che tutti si unissero insieme come comuni nemici contro un uomo di tal natura in difesa del giusto regime, ed ecco che la massa del popolo, superiore a uno solo, riuscirebbe ad avere ragione di lui con l’astuzia o con la dorza. Appare così che la stessa forza, proprio in quanto è forza, si salva in virtù della legge e della giustizia. Anche la tirannide, ch’è male tale e sì grande, non nasce da altra causa se non dall’illegalità… Stolto è chi crede che un re o un tiranno abbia origine da qualcos’altro che non sia l’illegalità o la sfrenata ricerca di superiorità: quando tutti si volgono alla malvagità, è proprio questo che avviene, perché non è possibile che gli uomini vivano senza legge e senza giustizia…” (In “Sofistica e democrazia antica”, cit., pagg. 75 – 76. Cfr. anche Anonimo di Giamblico “ La Pace e il Benessere” - Idee sull’economia, la società e la morale), ed. it. BUR, (Milano, 2003), a cura di Domenico Musti, testo greco a fronte, traduzione it. e commento critico di Manuela Mari.
[6] “Ilìade”, Libro II. Interessante il punto in cui Ulisse, rivolgendosi ad Agamennone, dice che è assurdo affidare ai molti la decisione sulla guerra, nascendone solo confusione. “Omero” affida, dunque, ad Ulisse un discorso favorevole alla monarchia assoluta, mentre l’Anonimo di Giamblico è assolutamente nemico di qualunque regime monocratico. Pur, dunque, teoricamente di molto anteriore, il discorso di Ulisse nel Libro II parrebbe quasi una risposta al discorso dell’Anonimo.
[7] Aristofane, “Le Nuvole”, ed. it. Arnoldo Mondadori, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 2002, a cura di Giulio Guido Rizzi, trad. di Dario Dal Corno, testo greco a fronte, pagg. 13 – 15. Di Socrate, si parla anche, ma non come personaggio, ne “Le Rane” dove si dice:
“E’ bello non fare chiacchiere
seduti insieme a Socrate,
spregiando la poesia [anche Platone, pur poeta altissimo nella descrizione dei suoi miti, valutava negativamente la poesia]
e trascurando i sommi princìpi dell’arte tragica.
Con discorsi solenni
e insulse futilità
passare inerti il tempo
è da uomo dissennato -
Aristofane, “Le Rane”, a cura di Dario Del Corno, ed. Arnoldo Mondadori, Fondazione Lorenzo Valla (Milano, 2000), testo greco a fronte pag. 149.
[8] “I Presocratici. Testimonianze e Frammenti” , ed. Laterza (Bari, 1986), vol II, pag. 876. Da quest’opera traggo larga parte delle citazioni su Protagora.
[9] ibidem, pag. 879.
[10] ibidem, pagg. 899 – 901.
[11] Del furto del fuoco donato agli uomini, Prometeo, secondo la mitologia greca, venne punito, incatenandolo ad una roccia del Caucaso, dove ogni giorno veniva un unccello rapace a divorargli il fegato; solo Ercole poi riuscì a liberarlo.
[12] Alcibiade fu uno dei maggiori generali dell’esercito ateniese, durante la guerra civile (detta Peloponnesiaca) tra Sparta ed Atene, passato per un certo periodo con gli Spartani essendo stato cacciato in esilio, pur evidentemente per sua dichiarazione (nel dialogo citato) non disdegnando rapporti omosessuali, era anche un gran seduttore di donne, e penetrava talvolta nei ginecei travestito da donna per raggiungere il suo scopo. Lo descrive Plutarco nelle sue “Vite parallele” tra celebri personaggi greci e personaggi romani.
[13] Nel dialogo, in realtà, si narra di una serie di tentativi di Alcibiade per riuscire ad avere un rapporto intimo con Socrate, sempre vanamente: ciò è largamente spiegato nei capitoli da XXXII a XXXVII. Ricorda, sempre in sua lode, il coraggioso comportamento di Socrate che portò in salvo un amico ferito durante la battaglia di Potidea (cfr. PlatoneDialoghi” ed. Einaudi, trad. it., a dire il vero un po’ antiquata e con stile toscaneggiante, di Francesco Acri, Torino, 1970, pagg. 337 - 344, in particolare sui tentativi di seduzione, pagg. 339 - 341. Utilizzo la traduzione di Acri relativamente ai punti concernenti la difesa e la morte di Socrate.
[14] Ne “I Presocratici”, cit., vol. II, pag. 873.
[15] ibidem, pag. 879.
[16] ibidem, pag. 878.
[17] ibidem, pag. 879.
[18] Sesto Empirico visse ben più tardi, in pieno Impero Romano, nel II secolo d. C. Nel suo scritto, egli attaccò violentemente e sarcasticamente le pretese che l’astrologia del tempo vantava di esattezza matematica. Prelude in tale scritto alla teoria della relatività, che poi Einstein sviluppò con formule a loro volta matematiche, e al pirncipio di indeterminazione di Heisenberg. Sosteneva l’impossibilità di misurare o commisurare due fenomeni diversi in uno stesso istante, sia da uno, sia da due osservatori. Una volta di più per dimostrare a quali livelli giunse la scienza greca, alla quale - in sostanza - dobbiamo praticamente tutto.
[19] Di questi, Crizia precede Feuerbach, soprattutto nel punto in cui gli vien fatto affermare dal solito Platone (di suo non rimane nulla), che la credenza nella divinità ha pure ragioni politiche, dovendo imporre agli uomini il rispetto della volontà dei capi attraverso la paura di punizioni dopo la morte. L’idea della divinità, quindi, era un inganno per scopi di dominio.
[20] “I Presocratici”, cit., vol. II, pagg. 880 – 881.
[21] PlatoneI Dialoghi”, ed. Einaudi, cit., pag. 27.
[22] ibidem, capp. I - XII, pagg. 29 - 37.
[23] ibidem, capp. XVII – XIX, pagg. 42 – 44.
[24] ibidem, cap. XXIV, pag. 47.
[25] ibidem, capp. XXV – XXXIII, pagg. 48 – 54.
[26] Platone, dialogo « Critone» , testo cit., pagg. 59 – 63.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

Argomenti generali di storia della filosofia:

1) Qualunque buon manuale, soprattutto se corredato da parte antologica.
2) Carlo Sini, “I filosofi e le opere”, ed. Principato (Milano, 1988), Antologia e commento, vol. I.

Argomenti generali di storia della filosofia e del pensiero greco:

1) Hermann Diels e Walter Kranz, "I Presocratici", ed. it. Laterza (Bari, 1986), vol. II.
2) Moses Finley, “Uso e abuso della storia” (sul Diritto ed il pensiero greco), ed. it. Einaudi (Torino, 1981), trad. Barbara MacLeod.
3) Theodor Gomperz, “Pensatori Greci”, ed. it. La Nuova Italia (Firenze, 1967), trad. Luigi Bandini, vol. III.
4) Margherita Isnardi Parente, “Sofistica e Democrazia antica”, ed. Sansoni (Firenze, 1977).
5) Léon Robin, “Storia del Pensiero Greco”, ed. it. Einaudi (Torino, 1982), tr. Paolo Serini.”

Opere Specifiche:

1) Anonimo di Giamblico, “La Pace e il Benessere”, ed. it. BUR (Milano, 2003), a cura di Domenico Musti, trad. e commento di Manuela Mari.
2) Aristofane, “Le Nuvole”, ed. it. Arnoldo Mondadori – Fondazione Valla (Milano, 2002), a cura di Giulio Guidi Rizzi, trad. Dario Dal Corno; “Le Rane”, ed. it. Mondadori – Fondazione Valla (Milano, 2000), a cura di Dario Dal Corno.
3) Platone, “Dialoghi”, ed. it. Einaudi (Torino, 1970), trad. Francesco Acri, a cura di Carlo Carena. Riguardo alle posizioni anti-“sofistiche” di Platone, in età matura, quando il disprezzo e discredito che getta su quelli che egli considera più propri avversari che di Socrate, e su tutta la tematica che li coinvolgeva, va visto il dialogo “Il Sofista” (ed. it. Bompiani, Milano, 1992, testo greco a fronte, a cura di Mario Vitali, con presentazione di Francesco Maspero). Qui Socrate non è protagonista (dà solo l’avvìo alla conversazione), ma, come nelle “Leggi”, uno straniero proveniente da Elea (patria di Parmenide, Zenone e Melisso).
4) Plutarco, “Vite Parallele”, ed. it. Oscar Mondadori (Milano, 1981), trad. Carlo Carena, voll. 3.
5) Livio Rossetti, “L’Eutidemo di Senofonte. Memorabili, IV 2” (2007), reperibile su INTERNET in pdf, saggio sul metodo dialogico socratico, come espresso nei “Memorabili” di Senofonte. La BUR ha pure pubblicato tale opera, ma non mi era disponibile; altrettanto dicasi per la versione senofontea dell’ “Apologia socratica”, considerata piuttosto negativamente dalla critica storica analogamente ai “Memorabili”, come lavoro superficiale. Di ciò non posso esprimere opinione diretta. Come rilevato, la critica storica su Socrate predilige la sua immagine come tramandata da Platone, anche se ammessa come parziale e non del tutto corrispondente alla realtà.

3 commenti:

  1. ciao carissimo Manlio è un po' lungo come articolo,ma dà l'idea.....
    comunque credo anche all'individuo,cioè uno fra tanti,non so' se mi spiego.....ritengo che se non ci fosse stato delle individualità,il mondo sarebbe stato difficile,che avesse assunto dei cambiamenti,che sia in bene che in male.....per fortuna si dice che il male è di passaggio.....la saluto caramente lei possiede una bella cultura....carla

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  2. Cara Carla,
    grazie per l'osservazione. Il lavoro che sto facendo, di necessità lungo, è quello di un percorso storico su processi celebri, onde dimostrare come il detto che appartiene a Cicerone "Summum jus, summa iniuria", ovvero "il massimo del Diritto è il massimo dell'ingiuria", attaccandosi a pure formalità e spesso in modo ipocrita contro la legge stessa, sia assai pertinente. Il prossimo saggio sarà sulla "congiura" di Catilina e poi, niente po' po' di meno che, il processo a Gesù Cristo, ovviamente visto sul piano storico ed umano, non su quello religioso.

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  3. buonasera caro Manlio ,infatti se uno è bene attento al vangelo ,si capisce,che Gesù Cristo,che non è venuto in questo mondo per portare una religione,siamo noi esseri umani che ci siamo creati delle religioni.....diciamo che la religione è la nostra segnaletica stradale,che purtroppo spesso succede che viene letto non sempre corettamente,per cui chissà perchè cadiamo nello stesso errore?!.....
    notavo perfino stasera dietro un fatto, che si tende o si è attrati nel fare il sbaglio e poi ci dispiace ,perchè non ci si riesce fermarsi prima? cosa ci impedisce?......eppure si rischia di cadere nel errore inperdonabile e tutto ciò non entra nell'animo del essere umano,oppure entra a quei pochi ....concluderei che essere vigile è un esercizio molto difficile e poi ritengo che non si tratti di capacità o di dono,alla fine è una questione di volontà....
    la saluto coordialmente Carla

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