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venerdì 25 maggio 2012

Tragedia di Brindisi. E se li avessero linciati?


In questi giorni il parlare di Brindisi fa male al cuore perché porta a pensare alla tragedia che ha colpito l'istituto "Morvillo-Falcone", porta a pensare alla bomba esplosa ed alla morte di Melissa Bassi, alla salute di tanti ragazzi e ragazze sconvolti nella psiche, a Veronica Capodieci che non vivrà mai più la stessa vita spensierata vissuta in precedenza. Ma quanto avvenuto a Brindisi ha avuto un rovescio della medaglia, perché in men che non si dica è divenuta una doppia tragedia capace di generare "mostri" e "contro-mostri" ad uso e consumo dell'audience sovrano. E questo è accaduto grazie ai nostri incurabili media ed agli informatori a loro aggregati, informatori senza coscienza che hanno creato con l'orrore una nuova torta, con tanto di nome e indirizzo ricamato in superficie, una torta confezionata 'ad oc' e data in pasto agli spettatori per 72 ore in maniera costante ad ogni minuto del giorno e della notte. Questo spettacolarizzare la tragedia, accade ormai da troppo tempo in Italia, lo ha analizzato in maniera perfetta la "giunta" dell'Unione Camere Penali in un articolo dal titolo emblematico: "E se li avessero linciati?". Leggiamolo.


Rispetto del dolore, ma non si può tacere che a Brindisi la spettacolarizzazione del processo ha toccato il punto più basso. Gli inquirenti si sono contesi l’inchiesta e noti giornalisti hanno creato il “mostro” esponendolo al linciaggio. I due fatti non sembrano scollegati e il Garante della Privacy fa un giusto richiamo ai doveri di riservatezza...

 ... E se li avessero linciati?

Come tutti, come ogni madre, come ogni padre, come ogni fratello di questo Paese siamo rimasti colpiti dalla strage di Brindisi. Come qualsiasi italiano vorremmo che fosse fatta presto giustizia, scoprendo i colpevoli, giudicandoli secondo le regole, condannandoli alla pena di giustizia. Comprendiamo anche che fatti di questo genere sconvolgono una comunità, la colpiscono nei sentimenti più intimi e suscitano reazioni istintive. Lo comprendiamo perché conosciamo il dolore delle vittime, cui siamo spesso accanto nella ricerca di verità e giustizia. E proprio perché, da avvocati, conosciamo questi sentimenti, siamo altrettanto convinti della necessità del rispetto delle regole, quelle del codice e quelle deontologiche, da parte di tutti coloro che abbiano a che fare con una indagine penale.

A poche ore dalla strage avevamo registrato le impossibili certezze di alcuni commentatori, di alcuni politici, di qualche magistrato, sulla matrice del gesto, quando ancora il sangue era caldo, quando le indagini si erano appena aperte, quando nulla di certo era possibile affermare, come sempre è in una indagine preliminare al suo inizio. Con lo scorrere delle ore avevamo osservato l’ormai consueto collasso informativo causato dalla mancata tenuta del segreto di indagine, con elementi probatori sbattuti in prima pagina ad horas, con possibile gravissimo pregiudizio per le stesse indagini, e l’abituale balletto delle dichiarazioni relative alle piste investigative, ai reati ipotizzabili, alle concorrenti competenze di uffici di Procura. Di fronte a questi fatti, da subito, avremmo voluto intervenire, per denunciare, per l’ennesima volta, quello che ormai due anni fa abbiamo definito “il pessimo spettacolo della giustizia spettacolo”, offerto dai media ed utilizzato da inquirenti e magistrati, ma poi abbiamo ritenuto di aspettare. Lo abbiamo fatto in attesa degli sviluppi, in nome di una serietà sulle vicende giudiziarie che sembra desueta ma a cui almeno noi teniamo, ma soprattutto per rispetto di quel dolore forte, dei congiunti delle vittime e di una intera città. Le parole pesano e a volte vanno pesate tenendo in conto anche la possibilità che esse, senza volerlo, possano essere fraintese.

Poi, abbiamo assistito all’ennesimo impazzimento di quel circuito che caratterizza l’informazione sui temi giudiziari, con le notizie delle attività degli inquirenti riportate quasi in diretta, con le iniziative di acquisizione di elementi probatori scambiati per impossibili certezze e apprese dalla pubblica opinione ancor prima del loro completamento. Il tutto sullo sfondo di un contrasto tra uffici di Procura neppure dissimulato. Siamo venuti a conoscenza, come tutti, delle perquisizioni, delle convocazioni, delle verifiche, ed ancor prima di un identikit ideale del presunto colpevole sbattuto in prima pagina assieme alle immagini sfocate di quello reale. In un susseguirsi di notizie di agenzia che davano atto del fermo - in seguito rivelatosi non vero - di alcune persone, abbiamo visto il sospetto diffondersi prima nella città colpita e poi, come un’eco propagata dai media nazionali, in tutto il Paese. In poco tempo è arrivata la notizia, diffusa su twitter da un giornalista più solerte, o forse più strettamente legato ad ambienti di polizia giudiziaria, del nome di queste persone. Dopo il nome l’indirizzo, la foto della sua casa, alcuni dettagli della vita personale. Il tutto, secondo un autorevole commentatore “ha assunto i contorni grotteschi dello stereotipo più logoro:i testimoni si volevano oculari, sedicenti vicini di casa, aspiranti criminologi hanno tracciato la fisionomia di un identikit tanto prevedibile da sembrare inventato di sana pianta. Come appunto era”. Questo parossistico inseguirsi di notizie, questa costante violazione di una regola prudenziale che serve a difendere sia le indagini che le persone, vittime o sospetti, che ne restano coinvolte, ha finito per produrre l’esito che si poteva immaginare: una folla si è radunata avanti agli uffici di polizia ed ha tentato di farsi giustizia da sola.

Non è la prima volta, e non interessa - anche se la notizia acuisce l’irresponsabilità dei tanti che sulla violazione del segreto vivono - che le persone di cui si parla non sono mai state neppure iscritte nel registro delle notizie di reato. E continuerebbe a non importare anche se in seguito le stesse persone fossero indagate. Ciò che importa è che quella violazione delle regole di cui spesso ci siamo lamentati, quel circuito informativo che porta alla pubblicazione di atti e notizie riservate senza alcun ritegno, e prima ancora del loro effettivo riscontro, abbia fatto correre il rischio che altro sangue fosse versato. Se li avessero linciati, fisicamente, stavolta, non solo moralmente come capita a quei molti che incappano anche solo per un momento in una indagine, quegli stessi che avevano contribuito a determinare le condizioni affinché ciò avvenisse avrebbero probabilmente speso parole di sdegno. Ma sarebbero state indegne a loro volta.

I meccanismi della giustizia, le sue stesse regole, si sa, sono spesso incomprensibili per la pubblica opinione, pur tuttavia nascono sull’esperienza di secoli, servono ad evitare errori che gli uomini hanno compiuto in passato giudicando e pregiudicando il destino di altri uomini. Chi si occupa delle indagini, polizia giudiziaria, magistrati, avvocati, dovrebbe conoscerle e rispettarle, anche per questo motivo, non solo perché vi sono obblighi in tal senso. La stampa italiana, spesso, sembra negare questa ovvia verità con i processi virtuali sulle indagini non concluse e con la pubblicazione di atti di indagine non consentita, ma soprattutto con il continuo arretramento della soglia, che è un vero confine di civiltà, tra il sospetto e il fatto.

Questo non è un giudizio complessivo sulla stampa e la libertà di informare, ovviamente, ma un grido di allarme verso un fenomeno che, inutilmente, denunciamo da anni e vediamo espandersi sempre più. E non è un grido isolato. Ha scritto un giornale attento a questi temi “Noi pensiamo che questo modo di fare informazione sia scandaloso. Sia sciacallaggio puro. Dare le generalità di una persona sospettata, mentre la folla assedia la questura, è una istigazione alla violenza. È mettere la vita di qualcuno, forse un probabile innocente, nella mani della gogna pubblica”. Se, in questo caso, la folla di giornalisti e fotoreporter che usualmente vengono convocati in occasione di arresti per riprendere uomini costretti a mostrarsi come trofei, fosse stata sopraffatta da una folla vera, pazza di dolore, pronta a farsi giustizia da sé sarebbero scorsi fiumi di inchiostro. Qualcuno avrebbe recitato il mantra della informazione che non può aspettare, che non si può censurare a pena della perdita del bene prezioso della libertà di stampa. Fortunatamente il linciaggio fisico non è avvenuto mentre quello morale è terminato e con la stessa rapidità molte testate hanno cannibalizzato anche il destino dei malcapitati mostri per un giorno con il corredo consueto di interviste sulla loro disavventura, come già avvenuto in passato, come se tutto non fosse dipeso anche dalla informazione, meglio dalla qualità della informazione e dal rigore deontologico che la dovrebbe connotare. Ieri il Garante della Privacy, pur difendendo il diritto di informazione, ha sottolineato al riguardo “ovviamente si deve valutare l'accuratezza del lavoro e la correttezza, il modo in cui lo si fa. Anche quando si dice che il mostro é stato sbattuto in prima pagina e non era il mostro, ci si potrebbe chiedere: perché, se era il mostro andava bene?".

Se il problema dell’informazione non si può archiviare con il cinico detto “è la stampa, bellezza”, che pur sintetizza le esigenze di sensazionalità insite in quel mestiere, a maggior ragione si deve trarre insegnamento dal corto circuito che si è venuto a creare tra le Procure che indagano sui gravi fatti di Brindisi in relazione alla diffusione di atti e notizie di indagine.
Ovviamente, non conosciamo gli elementi investigativi a disposizione degli inquirenti, per cui non siamo in grado di interloquire sull’esistenza o meno della finalità di terrorismo che fa spostare la competenza dalla Procura ordinaria di Brindisi alla DDA di Lecce. Certo è che l’impressione devastante data dalla polemica tra i due uffici è quella di una valutazione dei fatti non oggettiva, come dovrebbe essere, ma strumentale, operata cioè da ciascuno in modo da dirigere il processo verso la propria competenza per materia.
Ne è venuta fuori l’immagine di uffici giudiziari che “piegano i fatti” per contendersi il caso mediatico, lasciando nella pubblica opinione più accorta il sospetto di una gestione non distaccata e serena della giustizia, come invece dovrebbe essere in ogni vicenda, anche (e forse a maggior ragione) in quelle dove la pressione della pubblica opinione è più opprimente. Sempre il Garante della Privacy ha giustamente sottolineato che i magistrati “dovrebbero proteggere gli elementi in loro possesso, e stavolta non l'hanno fatto” e non importa che ciò sia avvenuto “ volontariamente o per negligenza: hanno comunque gravemente violato la legge che li obbliga a custodire i dati che hanno per ragioni di giustizia” dunque sono “censurabili sotto due profili: perché hanno violato la legge che devono applicare, e poi sotto il profilo professionale, perché un buco che fa uscire una notizia così delicata é certamente una grave responsabilità”.

Questi fattori patologici si tengono vicendevolmente, ed il loro superamento richiede che tutti rispettino le regole: magistrati, polizia giudiziaria e giornalisti.
Occorre che gli inquirenti recuperino la sobrietà e la riservatezza del proprio ruolo, che non sono doti eccezionali loro richieste ma costituiscono l’abc di un lavoro delicato e potenzialmente dannoso quale quello che svolgono.
Occorre altresì che si smetta di contrabbandare per diritto di libertà l’uso violento ed irresponsabile dell’informazione. E questo non avverrà fino a quando gli organi preposti al controllo deontologico, anche di fronte a casi eclatanti, continueranno a voltare lo sguardo dall’altra parte.
Occorre, e se tutto ciò non bastasse, prendere atto che ogniqualvolta si è scatenato il caos del processo mediatico la soluzione dei fatti criminali, gravissimi o gravi che fossero, è sempre stata negativa o comunque insoddisfacente.
Occorre infine avere una idea della giustizia che ponga al centro il diritto di ogni uomo a vedere rispettata la propria dignità.
Roma, 24 maggio 2012
La Giunta



4 commenti:

  1. c'è un punto però in cui feci presente da un 'altra parte, che non abbiano fatto vedere per intero?!... a questo punto era meglio che non lo facesse vedere per niente.......in questo caso non so' se è da definirsi dei giochi mentali che è esposto la gente.....
    so' che un altro caso del genere era successo in campagna in una tabaccheria in quel caso era stato utile perchè l'assassino era stato preso subbito....
    ora c'è un 'altro punto che mi fa pensare,come mai inquirenti abbia interogato la persona sbagliato?.....suppongo che loro il video c'è l'abbia per intero......è chiaro che qualcosa non torna......
    per come siamo partite ho l'impressione che sarà un 'altra storia lunga.....è come una persecuzione,che si faccia tanto rumore di proposito in modo da tenere allo scuro il reale problema.....mettendo la gente nell'insicurezza...e come si sà l'insicurezza spesso porta alla violenza......speriamo bene,che melissa e tanti altri vittime,senza giustizia che ci possa dare una mano da lassù....saluti

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  2. Scriviamo anche per correttezza e completezza, cosi' come nell'articolo riportato dall'unione camere penali, che uno dei principali fomentatori e' stato il giornalista Ruotolo de " La Stampa " di Torino. Non proprio un pivello locale dell'ultim'ora. C'e' da inorridire nel leggere i suoi tweet..

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  3. Grazie, caro Massimo, per aver pubblicato questo articolo. Speriamo che l'autorevole fonte serva ad istruire almeno, nei limiti delle loro possibilità intellettive, i vari colpevolisti a scatola chiusa, sia quelli che scrivono "professionalmente" nei giornali, sia quelli che fanno commenti sui blogs.

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  4. prima ancora di leggerti
    appena lessi i nomi e poi del secondo pure l'indirizzo di casa sono inorridita
    d'accordo il dovere di cronaca, ma non è un fatto qualsiasi, un'accusa qualsiasi, per quanto grave
    c'era il rischio che qualcuno se la prendesse con i famigliari, e questo per assurdo ipotizzando la colpevolezza, sarebbe stato gravissimo
    e non mi è venuta in mente la legge sulla privacy, che conosco
    ma il buon senso
    buon senso prima che norme
    ma come hanno potuto ?

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