Manlio Tummolo
KARL MARX
E GLI ATTUALI
PROBLEMI UMANITARI
(una risposta alle menzogne
vigenti)
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(giugno - luglio 2015)
Il
presente saggio è dedicato all’Ellade, madre d’Europa e sorella d’Italia.
Premessa: Marx e
i marxismi
“… Quest’Associazione è diretta da un Consiglio, anima del quale è Carlo Marx, tedesco, uomo d’ingegno acuto, ma, come quello di Proudhon, dissolvente,
di tempra dominatrice, geloso dell’altrui influenza,
senza forti credenze filosofiche o religiose, e, temo, con più elemento d’ira, s’anche giusta, che non d’amore…” - Giuseppe
Mazzini, “Agli Operai Italiani”,1871 [1].
Un ritratto sintetico ed efficace, quello
che Mazzini fa di Karl Marx, pur non essendosi mai incontrati di persona a quanto mi risulta, ritratto che segue uno più breve, ma ancora più elogiativo,
di lui in: “Condizioni e Avvenire
dell’Europa” - del 1853 - dove lo
definisce quale unico potente intelletto tra i comunisti del tempo (allora,
evidentemente, Engels non gli era conosciuto), ma che precede uno ben più
pesante in cui lo qualifica come “piccolo
Proudhon”. Qualcuno potrebbe
stupirsi di tali giudizi, ma va ricordato tuttavia che Marx qualificò Mazzini in termini ben più offensivi
e spregiativi. A quei tempi nelle
polemiche, a differenza di quelle odierne su INTERNET dove paura e aggressività si alleano nel modo più turpe, il tono era spesso duro, ma ci si affrontava, salvo casi dovuti alla
censura, a viso aperto e senza misericordia
né galateo [2], e non ci si rivolgeva, neppure per pubblicazioni, alla Magistratura. Fece eccezione Antonio Rosmini Serbati,
quando fu attaccato da Cattaneo a proposito del preteso “ateismo” di Giandomenico Romagnosi. Va pure detto però che quei grandi uomini si
affrontavano non solo a base di attributi denigratori (altra moda comune ai
nostri tempi), ma opponendosi l’un l’altro con buone, se non
ottime, argomentazioni. Bastino questi
pochi esempi per far capire quanto l’Ottocento sia stato superiore al lungo (per nulla corto) secolo XX - inizi XXI.
Dunque, torniamo al carattere e alla
personalità di Karl Marx. Probabilmente
le sue aspirazioni giovanili furono quelle dell’accademico. Avrebbe voluto diventare professore
universitario, sulla scia della grande
tradizione idealistica e positivistica tedesca. Molti lo rappresentano come un grande rivoluzionario, ma al di là di una
partecipazione, non ben determinata, al 1848 e alle relative rivolte in
Germania, che costarono a lui e ad Engels, e a vari liberali e radicali
tedeschi, l’esilio, prima in Francia e in Belgio poi in Gran Bretagna, non fu mai capo di qualche organizzazione
armata o attivamente insurrezionale. La Lega dei Comunisti e, soprattutto,
l’Associazione Internazionale dei Lavoratori (non fondata, ma progressivamente
deformata da Marx) erano piuttosto
organizzazioni di propaganda o, tutt’al più, di qualche sciopero. Del
professore universitario di orientamento filosofico, aveva il grande amore
allo studio e alle ricerche bibliografiche.
Era nato classicamente come un super-topo di biblioteca, ma l’assenza di mezzi, e soprattutto i suoi
“peccati politici” di gioventù, gli
impedirono di poter svolgere tale lavoro in serenità, con ordine e, soprattutto, di pubblicare da sé i propri lavori. Il suo libro più noto è “Il Capitale”, che avrebbe voluto essere
quello che per Hegel fu “L’Enciclopedia
delle scienze filosofiche, in compendio”. Magari anche qualcosa di più,
ovvero l’opera che partendo dalle tesi liberiste dell’economia conduceva alla
dimostrazione pedantescamente scientifica del crollo naturale e logico del
capitalismo, in una sorta di processo dialettico che Marx, dallo spirito
hegeliano, importava nell’economia matematica e pratica. Egli sosteneva di voler rimettere l’hegelismo
in piedi e non partendo dalla testa, dimenticando tuttavia che un sistema
filosofico deve necessariamente partire dalla “testa” (ovvero dalla logica) e
poi applicarsi alla realtà concreta: vuoi per giustificarla, vuoi per
condannarla (secondo gli orientamenti conservatori o rivoluzionari del filosofo). Vedremo come tale pretesa, metodologicamente
infondata, diventasse causa prima di
tutti i successivi contorcimenti, quali i vari riformismi, estremismi,
massimalismi, indecisionismi, revisionismi e conclusivi fallimenti dell’idea
sociale marxista che, nondimeno, conserva tuttora aspetti per nulla spregevoli
ed anzi validi, soprattutto quando e dove si ricollegava a concezioni propositive preesistenti, dando
loro maggiore solidità sul piano teorico o storico.
Di questa debolezza espositiva di Marx, è prova tanto la giovanile “L’Ideologia Tedesca”, rivolta contro gli hegeliani di “sinistra” e di “destra”, quanto “Il Capitale” stesso. Tutte queste opere (piaccia o non piaccia ai marxisti), senza la mano di Engels, che lo aiutò sia economicamente sia per la stesura di molti suoi lavori, non sarebbero esistite nemmeno come leggibili manoscritti. Enormi pacchi di carta che solo la pazienza di Engels e poi di successivi interpreti, quali Bernstein, Kautsky, e soprattutto i marxisti sovietici, riuscirono a salvare e pubblicare, mentre in caso contrario sarebbero finiti sotto la “critica dei topi”, come Marx stesso disse dell’”Ideologia Tedesca” - “critica” senza dubbio severa, ma mai distruttiva quanto il disinteresse verso chi esprime un pensiero non adeguato a quello dei poteri forti.
La
storia della filosofia parla sempre di “marxismo”, poi di “marxismo-leninismo” (relativamente
alle modificazioni ed applicazioni di Lenin al pensiero del suo ispiratore). Ciò è, a mio parere, abbastanza erroneo, in
quanto sarebbe stato corretto parlare sempre di marx-engelsismo, perché Friedrich Engels non fu semplicemente
un collaboratore e un finanziatore di Marx, ma fu colui che cooperò alla stesura di varie opere, ne riordinò i manoscritti, li pubblicò a
proprie spese e poi - dopo la morte di
Marx, abbastanza prematura, ne riespose con ben maggiore sinteticità e
chiarezza le idee. Va detto che Engels, quantunque a mio parere
intelletto ben più potente per capacità di sintesi e anche dal punto di vista
pratico rispetto all’amico e compagno di
idee, fu molto più modesto e per certi aspetti addirittura succube, tanto da
attribuirgli ogni merito sulla formulazione della loro comune ideologia. Pur suonando insieme “a quattro mani”, come
si dice per il pianoforte, Engels insistette sempre sul fatto che le mani
fossero due: quelle di Marx (il che viene acriticamente adottato dalla
tradizione storica e non solo marxista). Dopo la morte del socio, non
poté più attribuirgli ogni merito, per
forza di cose. Ma chiunque legga un’opera di
Marx e una del solo Engels, nota immediatamente la differenza in termini di
chiarezza e sinteticità. Così, relativamente
al socialismo, definito da Marx sprezzantemente utopistico rispetto al proprio
che sarebbe stato il non plus ultra
per metodologia scientifica e per inconfutabilità, Engels riconobbe nell’“AntiDuehring” [3] i
meriti dei precursori.
Come si è anticipato, Marx dà al proprio pensiero un valore
speciale, caratterizzato da una scientificità
razionalista fondata sulla dialettica hegeliana messa - a suo sindacabile parere - sui piedi, unito ad un uso continuo di metodi
e riferimenti statistici il più delle volte copiati dagli economisti
dell’epoca o da dati pubblicati in riviste e saggi. Oggi incontrollabili e per
di più particolarmente noiosi. Il tutto
è alternato da citazioni di episodi commoventi sulle condizioni di vita dei
lavoratori dell’epoca e da molte nozioni storiche, anche lì spesso staccate ed
episodiche. Il tutto riunito in un
pastone che solo l’enorme amicizia e fedeltà di un Engels potevano poi mettere
in un ordine leggibile, e malgrado ciò a fatica [4]. Lo stesso Marx non fu mai
in grado di riuscirvi. “Il Capitale”, come gran parte del
sistema di pensiero di Karl Marx, pur con grandiose ambizioni di risoluzione
definitiva dei problemi sociali, inevitabilmente segnate dalle stesse premesse capitalistiche, risultò un sentiero che seppur lastricato da buone
intenzioni condusse all'inferno della guerra civile, dello stalinismo e del
maoismo (con i vari derivati e surrogati). La dialettica hegeliana, mal trasposta dal mondo logico-spirituale o
astratto all’economia e alle lotte sociali storicamente concrete, nelle sue varie convulsioni e nei suoi
molteplici spasmi dolorosi, finì per
riportare gli Stati sovietici e parasovietici al loro punto di partenza, ovvero
alla restaurazione del capitalismo (un po’ come alla Rivoluzione Francese e a
Napoleone seguì la Restaurazione, quale ritorno
per 15 anni alla monarchia semi-assoluta da cui la Francia era partita).
In questo lungo processo, il marxismo ebbe
molteplici incontri e numerose fornicazioni: quella più attuale e dominante, almeno in Italia, è il clerico-marxismo,
l’ideologia pretesamente anti-ideologica e pragmatica, con risciacqui e
lavature liberiste, di stampo
anglosassone, particolarmente di marca USA, è - per dirla con linguaggio
appunto dello stesso tipo - un enorme blob, la “goccia mortale” venuta dallo
spazio che ingloba in un pensiero “unico” (ovvero, un “non–pensiero”
debolissimo) espresso con un linguaggio “unico” - politically correct - posizioni
antitetiche. In origine vi erano il
clericalismo (ovvero il cattolicesimo politico della Chiesa come potere
sovrano [5]) e il marxismo, di cui si è
detto nelle sue molteplici deviazioni [6], ben contrapposti tra loro sotto ogni
aspetto. Poi vi fu un’alleanza politica
tra forze cristiano-democratiche e cristiano-sociali [7] con l’ideologia
marxista prosciugata dal crollo
dell’URSS; seguito dalla progressiva
unificazione, per cui il clericalismo ha rinunciato a Dio, alla Bibbia, ma non
al Papato; il marxismo alla sua finalità
economico-sociale, ma non a certe tendenze tiranniche o dittatoriali, per
quanto mascherate, sulla comune base o sul minimo denominatore comune
dell’anti-nazionalità, soprattutto in funzione anti-italiana [8], nazionalità negata tanto dall’universalismo
religioso ed ecclesiastico, quanto dal cosmopolitismo socialista del marxismo.
La risultante di questo aggrovigliato blob ideologico clerico-marxista [9] è una concezione del mondo, visto, non come
fecero i federalisti europei o mondiali
(a partire dall’abate Saint-Pierre e da Kant), quale un ordinato
condominio, dove vi sono ambienti propri e spazi comuni e dove vigono regole
precise, ma come un enorme baraccone o
una giostra modello rave party, un luogo dove genti, tribù, individui singoli
e pazzi, in forme neo-nomadistiche, si abbrancano l’un l’altro in modo
orgiastico e selvaggio, si montano reciprocamente, si accavallano, si
rincorrono e si spingono, e dove vigerebbe di fatto solo la legge di natura, ovvero del più forte, se qualcuno potesse detenere la forza effettivamente. Pensiamo al Caos primigenio della tradizione
filosofica ellenica o a una gigantesca tempesta marina in cui onde, correnti,
cavalloni, venti e maremoti si rovescino tutti insieme nello stesso spazio, ed
avremo esattamente l’immagine del mondo così come concepito dai
clerico-marxisti.
A
questo corrisponde anche il sistema capitalistico, che condivide tale visione psicopatologica
del mondo, ma con la premessa e la condizione che il potere
del più forte sia conservato dai grandi affaristi e grandi speculatori di Wall
Street e della City londinese. Sarà proprio Karl Marx con il suo “Capitale”, ma non solo, a farcelo capire e a dimostrare ai troppi
immemori e pietisti di “sinistra” [10] che l’attuale andazzo delle cose non è nulla di positivo, nulla di
umanitario, nulla di accettabile, nulla di inevitabile, nulla di
progressivo. Corrisponde solo al piano
di coloro che, eternamente assetati di ricchezze a qualunque costo e senza
alcun limite, mirano a disordinare ogni
regola conquistata dall’Europa e dal mondo occidentale in due millenni o più di
storia, di lotte e di sangue, ai soli
fini del proprio egoismo ed egocentrismo, nel nome di una “felicità” [11] che altro non è se non il proprio indefinito arricchimento personale, anche se ciò
provoca l’immiserimento di tutti gli altri .
1) La
globalizzazione.
Una
delle maggiori mistificazioni nei nostri tempi è far credere che la cosiddetta globalizzazione o mondializzazione sia un
fenomeno recentissimo affermatosi tra la fine del secolo XX e gli inizi del
XXI, confondendo volutamente la
sostituzione, peraltro non assoluta, di certe tecnologie e di certe tecniche
informative a quelle ormai superate, con
un’ineluttabile espansione ed unificazione economica e finanziaria del mondo. Come se prima esistessero Stati e Nazioni commercialmente chiusi e ignoti uno all’altro. Il che - se creduto - sarebbe un’autentica fesseria. In realtà, quella che oggi viene chiamata globalizzazione è solo l’imposizione della mentalità, della
tecnologia, del linguaggio anglosassone,
particolarmente nel modello USA, al mondo intero. Tutto il pianeta “civile” obbedisce agli
ordini della Borsa di New York, e guai se non vi obbedisse perché allora con i
soliti trucchi collaudati fin dal sistema di John Law [12] nel XVIII secolo - e
poi sempre perfezionati di crisi in
crisi, di disastro in disastro - potrebbero spezzare ogni resistenza. Il capitalismo particolarmente finanziario occupa oggi esattamente il posto che aristocratici ed alti prelati occupavano
nella Francia del XVIII secolo, pagando molto poco in proporzione delle
ricchezze acquisite ed incontrollate, attraverso tutta una serie di manovre
speculative. In sostanza, l’assolutismo
settecentesco da struttura politica e sociale radicalmente parassitario si è
trasformato in un assolutismo finanziario di dimensioni mondiali. Questo è, nella realtà, ciò che si va
spacciando per “globalizzazione”, che
è semplicemente un eufemismo ipocrita per significare il sistema parassitario
mondiale. L’uso dell’aggettivo “globale”
si diffonde prima con le idee di Herbert Marcuse (la nota contestazione globale, che però aveva un significato soprattutto
qualitativo e non geografico), poi con quell'autore (di cui non ricordo il
nome) che descrisse, grazie alle nuove
tecniche informatiche, un villaggio
globale, da cui logicamente derivò il senso geografico di globalizzazione. Il capitalismo, industriale o mercantile o
finanziario che sia, ha perduto fin
dalla crisi del 1929 ogni valore
realmente produttivo, sia pure alle spalle altrui, come si dirà fra non molto,
e fu salvato dalle svariate e diverse applicazioni delle teorie di Keynes
(economia mista, fondata sul notevole
intervento dello Stato nelle attività economiche, a sua volta basato sul
sistema fiscale dal peso sempre crescente).
Le soluzioni del Keynes consentirono all’Occidente, specialmente dopo la Seconda Guerra Mondiale e durante la cosiddetta “guerra fredda”, di reggere l’urto comunista, il cosiddetto “spettro del comunismo”, di cui parla Marx ne “Il Manifesto”, rappresentato militarmente dall’URSS e dalla sua “alleanza” forzata. In realtà, le soluzioni del Keynes potevano avere, e avevano, solo un valore provvisorio, come fase di transizione da un sistema capitalistico, caratterizzato dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dei pochi sui tanti, alla democratizzazione sociale, ovvero un sistema economico in cui ogni lavoratore sia padrone di sé, della propria attività e dei frutti di questa, cooperando con altri lavoratori, ma non essendo subordinato a nessuno: sistema ancora tutto di là da venire, ma unica soluzione possibile e durevole dei problemi sociali. Viceversa, lo spettro comunista si dissolse da sé, piuttosto che per interventi altrui, tanto che il dissidente Amalrik lo previde già negli anni ’70 con la sua opera: “Durerà l’Unione Sovietica fino al 1984?” - sbagliò di soli cinque-sei anni, una vera inezia in termini storici. Altri dissidenti, invece, come Bukowsky, ancora negli anni ’80 prevedevano un’URSS pimpante e capace di attaccare militarmente l’Occidente. E fu a quel punto che il capitalismo “globale” di marca USA vide l’agognata occasione per far retrocedere l’intera umanità al liberismo settecentesco di Adam Smith, con la medesima impostazione ma con tecniche e metodologie molto diverse e molto meno produttive, puramente parassitarie.
Le soluzioni del Keynes consentirono all’Occidente, specialmente dopo la Seconda Guerra Mondiale e durante la cosiddetta “guerra fredda”, di reggere l’urto comunista, il cosiddetto “spettro del comunismo”, di cui parla Marx ne “Il Manifesto”, rappresentato militarmente dall’URSS e dalla sua “alleanza” forzata. In realtà, le soluzioni del Keynes potevano avere, e avevano, solo un valore provvisorio, come fase di transizione da un sistema capitalistico, caratterizzato dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dei pochi sui tanti, alla democratizzazione sociale, ovvero un sistema economico in cui ogni lavoratore sia padrone di sé, della propria attività e dei frutti di questa, cooperando con altri lavoratori, ma non essendo subordinato a nessuno: sistema ancora tutto di là da venire, ma unica soluzione possibile e durevole dei problemi sociali. Viceversa, lo spettro comunista si dissolse da sé, piuttosto che per interventi altrui, tanto che il dissidente Amalrik lo previde già negli anni ’70 con la sua opera: “Durerà l’Unione Sovietica fino al 1984?” - sbagliò di soli cinque-sei anni, una vera inezia in termini storici. Altri dissidenti, invece, come Bukowsky, ancora negli anni ’80 prevedevano un’URSS pimpante e capace di attaccare militarmente l’Occidente. E fu a quel punto che il capitalismo “globale” di marca USA vide l’agognata occasione per far retrocedere l’intera umanità al liberismo settecentesco di Adam Smith, con la medesima impostazione ma con tecniche e metodologie molto diverse e molto meno produttive, puramente parassitarie.
Nella sostanza, per i lavoratori poco cambia
nelle loro condizioni, se non in senso largamente peggiorativo. Vediamo come, per Marx, la globalizzazione (come oggi è
chiamata) esistesse già nel secolo XIX:
“… Nella produzione della carta è generalmente
possibile esaminare con vantaggio e nei dettagli la distinzione tra i diversi
modi di produzione, come pure la connessione tra i rapporti produttivi sociali
e questi modi di produzione. La più
antica fabbricazione tedesca della carta ci offre un modello della produzione
artigianale, l’Olanda del secolo XVII e la Francia del XVIII ci offrono un
modello della manifattura propriamente detta, la moderna Inghilterra ci offre
un modello della fabbricazione automatica; e infine in Cina e in India sussistono tuttora due diverse antiche forme della medesima
industria…” [13].
Più significativa ancora è la seguente nota
di Marx :
“… Oggi in virtù della concorrenza del mercato mondiale [si noti: mercato mondiale], iniziata in quel tempo [XVIII secolo, altro che oggi!], siamo già parecchio avanti. ‘Qualora la Cina’, dichiara il deputato Stapleton ai propri elettori,‘dovesse divenire un grande paese industriale, non vedo come la popolazione operaia d’Europa potrebbe sostenere la lotta senza abbassarsi al livello dei suoi concorrenti’ (Times, 3 settembre 1873). Lo scopo che si è prefisso il capitale non è più il salario continentale, bensì quello cinese [il neretto è mio: vedete come sia al tempo stesso attuale e antica la “globalizzazione” come immiserimento universale]…” [14].
Qualche possibile marxista o
clerico-marxista potrebbe sicuramente obiettarmi che questa visione fu dovuta
al geniale profetismo di Marx
nell’intuire sviluppi futuri, ma prescindendo
pure dal deputato Stapleton, oggi
a noi del tutto ignoto, da cui
parte la considerazione, possiamo rispondere che la consapevolezza di un unico mondo economicamente collegato
era ben anteriore, e nessuno potrebbe ritenere che “Lo Stato secondo ragione, ovvero lo Stato commerciale chiuso”(1800) del filosofo Johann Gottlieb Fichte [15], idealista tedesco, rappresentasse la realtà economica tra il XVIII e il XIX secolo, anche perché di
Stati chiusi al commercio non esistettero che pochi esempi, compresa la Cina
che tentò soltanto di impedire l’importazione
dell’oppio, da cui la guerra con il “civile e democratico” Impero Britannico nel 1840 - 42 o il Giappone
“democraticamente” aperto a cannonate dalla
flotta degli USA verso la fine dell’Ottocento (nulla è nuovo sotto il Sole!). Prima di Marx, ad esempio, il nostro Carlo Cattaneo
scriveva saggi sull’India e la Cina, così sul Messico, ecc., visti anche sul piano economico. Di
quest’ultimo sono ad esempio interessanti queste sue valutazioni sulle attività
produttive cinesi, espresse nel 1861:
“... Chi reputa immobile la China, se
consulterà le istorie , la vedrà in agitazione continua. La vedrà dissodare primieramente un vasto
territorio, arginare fiumi, scavar canali, diffondere lungo le mille valli dei due fiumi
colonie d’agricultori, città innumerevoli; assorbire le tribù barbare dei monti; abbracciar tutti i suoi popoli col vincolo
d’una sola lingua; inventar leggi, arti
e scrittura…"
"... Li ultimi eventi tendono a introdurre, per forza d’armi e di commercio,
nuovi principii nel sistema chinese, e ad aprir nuovi campi alla forza
espansiva. Nelle nostre colonie [intende
“nostre” come europee, non certo
italiane] i Chinesi si vanno mescolando
principalmente colla libera stirpe anglobritanna..."
[e
così conclude ironicamente il saggio, in riferimento all’ignoranza europea di
questo Impero Celeste]
"Siamo Chinesi a nostro modo anche noi” [16].
"Siamo Chinesi a nostro modo anche noi” [16].
Di considerevole interesse
storico-statistico, ad unità italiana
raggiunta quasi completamente (mancavano Gorizia, Trieste e l’Istria ad
est, il Trentino – Alto Adige a
nord), la celebre (di nome, ahinoi!), Inchiesta Jacini, della quale
leggendo la Relazione scopriamo come il mondo di fine ‘800 fosse tutt’altro che costituito da Stati
commercialmente chiusi, malgrado i
vari protezionismi, affermatisi in quel
periodo storico (il protezionismo non impedisce il commercio, ma lo regola
imponendo dazi sulle importazioni per difendere la produzione interna da
eccessiva concorrenza, costituendo altresì una fonte d’entrata non indifferente. Forse non tutti sanno che la nostra Unione
Europea ha abolito i dazi interni, come è
noto, ma utilizza dazi con l’esterno quale propria fonte diretta d’entrata, oltre ad una
percentuale sull’IVA). In tale Relazione
così si legge:
“… Tutte le barriere artificiali create
nel passato, sia per limitare l’esercizio dei commerci e delle industrie, a
favore di un determinato numero di cittadini, con esclusione degli altri, sia
per promuovere, per mezzo di monopolio, l’interesse di alcuni produttori indigeni,
obbligando la moltitudine dei consumatori a pagare a più alto prezzo le merci…, furono le prime
a sparire, rovesciate dalla corrente del progresso moderno… La facilità delle comunicazioni ha fatto sì
che tutto il globo terracqueo è diventato un grande laboratorio di materie
prime…” [17].
Eh! Esisteva già INTERNET? Nossignori, INTERNET non esisteva, ma vi erano progressi tecnici e meccanici enormi nell’antico e dispregiato secolo XIX, senza i quali oggi INTERNET non esisterebbe neppure, e non sto ad elencarli. Ebbene, nel secolo XIX si vantavano i propri grandi progressi, come il miserando secolo (a suo confronto) XX - inizi XXI, vanta i propri come inimitabili, irraggiungibili, “post-moderni” (perfino!). Nel secolo XXX, se l’umanità girerà ancora sul pianeta, considererà sicuramente assai primitive, rozze e infantili le nostre grandi scoperte tecniche d’oggi.
Eh! Esisteva già INTERNET? Nossignori, INTERNET non esisteva, ma vi erano progressi tecnici e meccanici enormi nell’antico e dispregiato secolo XIX, senza i quali oggi INTERNET non esisterebbe neppure, e non sto ad elencarli. Ebbene, nel secolo XIX si vantavano i propri grandi progressi, come il miserando secolo (a suo confronto) XX - inizi XXI, vanta i propri come inimitabili, irraggiungibili, “post-moderni” (perfino!). Nel secolo XXX, se l’umanità girerà ancora sul pianeta, considererà sicuramente assai primitive, rozze e infantili le nostre grandi scoperte tecniche d’oggi.
Ma che sorpresa, per certi propagandisti
dell’attuale globalizzazione fatta passare per cosa “nuova, ineluttabile, epocale (!), ecc. ecc.”, i rivali dell’Italia del tempo risultavano
essere, già allora, gli USA, la Russia,
gli Stati o Imperi asiatici, tra cui l’India (oh, che novità!) e la Cina per
il riso e la seta, il Sudafrica, l’America Meridionale (specialmente il Brasile)
[18].
Di questa Relazione Jacini riparlerò poi a
proposito di emigrazione. Pertanto,
concludendo sulla globalizzazione, sostengo che non è un fenomeno nuovo, anzi è vecchissimo, a partire almeno
dai più antichi grandi Imperi (dall’egiziano, al sumerico,
all’assiro-babilonese, al persiano, macedonico, ai regni ellenistici,
all’Impero Romano, ecc.), fino ai grandi Imperi, più o meno mimetizzati, dei nostri giorni. Cambiano certo le tecnologie e pure le
motivazioni. La gloria militare dei sovrani
conquistatori non è più di moda, dopo gli orrori del secolo XX, ma le esigenze economiche e commerciali che
spingono all’approvvigionamento di materie prime e fonti energetiche, hanno
caratterizzato da sempre la spinta imperiale, anche quando si travestiva di
eroismo epico. Sempre nell’Ottocento,
Jules Verne (credo, se non ricordo male, nell’”Isola Misteriosa”, ovviamente nell’edizione completa e non nelle
riduzioni per bambini) segnala un imprenditore americano (che, si sa, come tutti i suoi colleghi ama fare le
cose in grande), che congiunse le opposte coste dell’Atlantico con un lungo cordone
per i collegamenti telegrafici. Dunque,
è perlomeno da allora che anche sul piano della rapidità informativa (se non
ancora informatica) si realizza una
globalizzazione, proporzionale alla conoscenza ed applicabilità tecnologica del
momento storico, nell’intero pianeta. Una delle cose curiose che lessi nell’Epistolario di Mazzini, in una
lettera alla madre (durante le ricerche
per la mia prima tesi universitaria), è
che si sdegna che una lettera da Londra a Genova impiegasse addirittura una
settimana, visti i grandi progressi
tecnologici delle navi a vapore… A
maggior ragione lo storico del liberalismo Guido de Ruggiero, in un articolo su
“L’Internazionale della cultura”, ripubblicato
in “Il Ritorno alla ragione” (1946), osservava:
“…
La radio, il telegrafo, il telefono, il cinema, l’aeroplano, pongono in
contatto ogni giorno, anzi ogni ora, gli uomini di ogni parte della terra e
creano possibilità di scambi che nel passato non erano neppure immaginabili…” [19].
Ogni generazione umana è assai orgogliosa dei propri mezzi tecnici, come noi oggi ci consideriamo imbattibili per quelli attualmente in funzione. Ma che diranno di noi e della nostra meravigliosa tecnologia informatica nel XXX secolo d. C. ?? Penso che ci guarderanno con molto compatimento. A me, sinceramente, assai più dei tablet, degli’pad, e simili, stupisce sapere che nel Settecento con meccanismi ad orologeria avevano realizzato “il Turco che gioca a scacchi”, un automa che sapeva fare una partita (si dice anche che vi fosse un nano nascosto). L’aggeggio esiste tuttora e si potrebbe metterlo alla prova. E.T.A. Hoffmann ne fece un racconto intitolato “L’Uomo della Sabbia”, in cui si parlava di Olimpia, un automa femminile irriconoscibile come tale, tanto da far innamorare il protagonista Nathanael.
Ogni generazione umana è assai orgogliosa dei propri mezzi tecnici, come noi oggi ci consideriamo imbattibili per quelli attualmente in funzione. Ma che diranno di noi e della nostra meravigliosa tecnologia informatica nel XXX secolo d. C. ?? Penso che ci guarderanno con molto compatimento. A me, sinceramente, assai più dei tablet, degli’pad, e simili, stupisce sapere che nel Settecento con meccanismi ad orologeria avevano realizzato “il Turco che gioca a scacchi”, un automa che sapeva fare una partita (si dice anche che vi fosse un nano nascosto). L’aggeggio esiste tuttora e si potrebbe metterlo alla prova. E.T.A. Hoffmann ne fece un racconto intitolato “L’Uomo della Sabbia”, in cui si parlava di Olimpia, un automa femminile irriconoscibile come tale, tanto da far innamorare il protagonista Nathanael.
2) Crisi economiche e disoccupazione
Torniamo a Karl Marx. Non dimentichiamoci che è soprattutto il suo parere che ci interessa, perché l’obiettivo di queste mie osservazioni è rivolto a confutare le tesi liberiste e clerico-marxiste oggi vigenti. Per circa 150 anni si è discusso sulla natura ciclica o non ciclica delle crisi economiche e pure del fenomeno della disoccupazione provocato, a dire dei grandi economisti, dalla legge della domanda e dell’offerta di posti di lavoro, nonché dai progressi tecnologici che eliminerebbero posti di lavoro di un modello obsoleto di produzione, per crearne di nuovi per le nuove forme tecnologiche di produzione. Tutto questo è un elegante trucchetto, uno specchietto per allodole, in quanto tutta la storia del capitalismo è la storia di crisi a catena, talvolta per effetti valanga o frana, provocati da minuscoli sassolini, ma spesso intenzionalmente create, soprattutto a livello finanziario per riuscire ad impadronirsi con poca spesa (acquisto di azioni completamente svalutate) di importanti attività economiche, da “razionalizzare” con procedure automatiche e conseguente licenziamento di gran parte dei dipendenti. Il capitalista (in senso tanto individuale che societario), che per definizione fa della ricchezza l’integrale e pressoché unica ragione di vita (è plutolatra, ovvero adoratore della ricchezza), vorrebbe arricchirsi con moto uniformemente accelerato anche vendendo aria o terra, ma siccome nessuno gli darebbe tanto denaro per una qualsiasi cosa che si trova abbondantemente in natura, è costretto a tener conto dei bisogni, a crearne di nuovi e così via. Per questo produce: del lavoro non gli interessa un tubo, di remunerarlo meno ancora. Ma, visto che nessuno lavora per altri gratis (nemmeno lo schiavo che deve essere alloggiato, nutrito e perlomeno vestito) è costretto a pagare. Come sosteneva Lassalle, ma non solo, il capitalista applica la “legge bronzea del salario”, ovvero paga il suo lavoratore quanto meno possibile, ma quel tanto che basti a dargli la forza di sopravvivere e di continuare a lavorare. Se il capitalista potesse fare tutto con automi, lo farebbe volentieri, ma… chi comprerebbe i suoi prodotti, visto che gli automi non potrebbero farlo? Di qui la necessità di avere il minimo numero di lavoratori pagati il meno possibile, secondo il noto principio economico del massimo risultato col minimo sforzo, una legge del tutto innaturale, in quanto nella natura si ha il risultato sufficiente col massimo sforzo possibile.
Lo si vede bene nella riproduzione delle specie, dove milioni di spermatozoi o di semi sono necessari perché nasca un individuo. Ma si sa, l’essere umano si ritiene sovrannaturale e miracoloso, per cui - soprattutto se capitalista - vorrebbe arricchirsi al massimo con minima spesa. Ciò ovviamente deve tener conto di vari fattori, quali la ricchezza generale e ambientale (risorse materiali), la concorrenza di colleghi, la concorrenza di altri popoli, eventuali guerre e distruzioni, proteste e insurrezioni popolari, e via discorrendo. Quindi le sue ambizioni devono necessariamente essere limitate, ma nondimeno - come l’irraggiungibile orizzonte ottico - devono sempre essere perseguite. Dovendo lottare contro una legge di natura, volendo anzi annullarla in modo miracolistico, è evidente che il capitalista (o più esattamente il sistema capitalistico) finisce inevitabilmente per produrre crisi economiche di vasta portata: di queste, se può, cerca anzi di approfittare. Scoperto che delle crisi ci si può approfittare, spesso le crea con tale intenzione. La crisi economica non ha carattere ciclico, né tantomeno eccezionale, ma è anzi lo stato “fisiologico” - o meglio patologicamente cronico - del capitalismo: vive di questo e con questo, e non “malgrado” questo. Da che sono nato e ho avuto una qualche consapevolezza razionale, ho contato solo pochi anni di “boom” [20] - grossomodo nei primi anni ’60. Già attorno al 1964 si ebbe un primo periodo di crisi, allora chiamato eufemisticamente “contingenza”. Una certa ripresa si ebbe dopo il 1967 fino alla crisi petrolifera del 1973/ 74, dalla quale l’Italia in specie non si è mai risollevata veramente, altalenandosi non tra alti e bassi ma tra momenti molto bassi e altri meno bassi, sempre tuttavia al di sotto dell’esigenza e sempre in discesa. Ma la mia esperienza, taluno potrà obiettare, è storicamente troppo breve, relativamente alla storia del capitalismo che ha oltre tre secoli, se non di più. Qualcuno, più giovane di me e con memoria più fresca della mia, potrebbe elencare tutte le crisi che si susseguirono poi dagli anni ’80 ad oggi. Intanto vediamo che cosa ne dice il buon Engels, il fedelissimo amico di Marx, della catena di crisi, già nel XIX secolo :
“… In effetti, dal 1825, anno in cui scoppiò la prima crisi generale [secondo Engels la prima vera e propria crisi
internazionale, planetaria o “globale” come oggi si dice per moda, è del 1825, ma non credo che sia la
prima. Se guardiamo la data essa segue
i primi moti rivoluzionari europei del 1820-21, dopo il periodo napoleonico conclusosi 10 anni prima. Evidentemente,
una simile crisi è conseguente alla deconcentrazione produttiva da azioni
belliche alla produzione di pace, ed è anche razionalmente o storicamente
spiegabile, ma il problema di fondo
rimane, non ancora ben tecnicamente determinabile], tutto il mondo industriale e commerciale, la produzione e lo scambio
di tutti i popoli civili e delle loro appendici più o meno barbariche, si
sfasciano una volta ogni dieci anni circa [è quella che si diceva teoria
ciclica delle crisi, ma come questo secolo ha dimostrato, le crisi, da
decennali come calcolavano nell’800 Engels ed altri, diventano praticamente la
costante con cicli – viceversa – di miglioramenti provvisori dovuti a cause, più che economiche, politiche e sociali come poi si dirà]. Il commercio langue, i mercati sono
ingombri, si accumulano i prodotti tanto numerosi quanto inesitabili, il denaro
contante diviene invisibile, il credito scompare, le fabbriche si fermano, le
masse operaie, per aver prodotto troppi mezzi di sussistenza, mancano di mezzi
di sussistenza; fallimenti e vendite
all’asta... La stagnazione dura per anni… E così sempre da capo. Tutto questo dal 1825 lo abbiamo sperimentato per
ben cinque volte e in questo momento (1877) lo stiamo sperimentando per la
sesta volta…” [21].
In sostanza, in 52 anni 6 crisi avvengono
ad un ritmo tra gli 8 e i 9 anni una dall'altra. Relativamente alle stagnazioni, sono chiamate così le fasi di stabilità economica che non sarebbero intese
come negative se non fosse che per la mentalità capitalistica si deve
“crescere” (comunque). Se non si cresce,
ovvero se le casseforti delle varie società quotate in Borsa non aumentano di numero e di dimensioni, la
situazione è tragica. Per tale mentalità le cose vanno bene solo quando
la ricchezza aumenta in modo almeno uniformemente accelerato ogni anno. Ma proprio questa mentalità comporta poi la
crisi di impoverimento, in quanto se un’azione non aumenta di valore ogni anno
del 10 % (a titolo di esempio,
s’intende), questa viene venduta. Una
volta che inizia il processo di vendita tutti vendono, e l’azione si riduce al
valore prossimo a zero. Allora si
ricomincia ad acquistarla e continua (in
astratto) a ricrescere: questo se la
società per azioni non è fallita o svenduta nel frattempo. Per capire il capitalismo, più che Marx o
altri occorrerebbe leggere Walt Disney .
Ma torniamo a Marx: il suo spirito analitico lo porta ad elencare
in tutti i dettagli le successive crisi del secolo:
“… Le vicende dell’industria del
cotone inglese possono illustrare nel modo migliore le vicende dell’operaio
di fabbrica"
"Dal 1770 al 1815 l’industria del cotone subì un calo o
ristagno di 5 anni (…) Dal 1815 al
1821 depressione, 1822 e 1823 anni di prosperità, 1824
soppressione delle leggi contro le coalizioni operaie… 1825 crisi; 1826
grande miseria e rivolta tra gli operai cotonieri; 1827 lieve
miglioramento, 1828 grande aumento dei telai meccanici…; 1829
punta massima dell’esportazione, che supera tutte le precedenti annate soprattutto in India; 1830 mercati saturi, stato di profonda crisi, dal 1831
al 1833 calo costante; il commercio con l’Asia orientale (India e Cina [sull’India in mani inglesi non c’è molto da dire, ma
la Cina smentisce la tesi storica che il Celeste Impero non consentisse il
commercio internazionale. La verità è
che i "buoni” Britannici volevano continuare nel decennio successivo
l’esportazione dell’oppio, che invece il “cattivo” imperatore rifiutava] viene tolto al monopolio della Compagnia
delle Indie Orientali…1837 e 1838 depressione e crisi. 1839
ripresa. 1840 profonda
depressione, rivolte, intervento militare [il liberismo, infatti, non vuole
che lo Stato intervenga nell’economia, ma se
i lavoratori protestano allora lo Stato deve intervenire con le sue
forze di polizia e, se non bastano, con l’Esercito. Come si vede, un modo ben “egualitario” nelle lotte di classe!]… 1843 miseria. 1844 ripresa. 1845
grande prosperità… 1847 crisi…” [22].
Non mi pare necessario continuare. Marx prosegue nella sua altalenante disamina
di crescite e decrescite fino al 1863, sottolineando che in 9 decenni si ebbero, per le più svariate
ragioni (l’ultima delle quali era la guerra ancora in corso nel 1863 nel
nord-America, tra Unione federalista e Confederazione del sud, la guerra di secessione o guerra civile, una
grande occasione persa per l’Europa -
detto di passaggio – per ridurre gli USA nelle sue mire espansioniste nel mondo
a più miti consigli: troppo tardi se ne accorse Napoleone III, facendo nominare
il povero Massimiliano d’Absburgo imperatore del Messico), crisi non decennali, come poi sostenne Engels,
ma addirittura ogni due o tre anni, crisi il cui conto fu pagato
(poteva esservi dubbio?) dai semplici
lavoratori.
Ora chiedo ai miei pazienti lettori: direste che una persona è in buona salute, ancorché viva o
sopravvivente, se sta bene un anno
sì e poi si ammala per due anni, se poi guarisce e quindi si riammala per altri due o tre, segue una difficile convalescenza e poi gli arriva una broncopolmonite, gli
passa e segue un infarto, si salva e poi giunge l’Ebola, riesce a superarla e
così avanti fino al termine decisivo dei suoi giorni, pur sopravvivendo a tutto
per 90 anni? Penso che tutti noi
diremmo che l’uomo è fortunato e sfortunato al tempo stesso, ma a dire il vero
non si può affermare che sia stato sano
nel corso della sua vita. Ora, giudicando il sistema capitalistico sempre
pieno di acciacchi e di malanni, pur trascorrendo tra semi-agonie e lievi
riprese la sua esistenza, potremmo dire che è un sistema ragionevolmente
funzionale? Confrontiamolo pure con
altri sistemi, a partire dal comunismo sovietico, ma non va dimenticato che il
male di quest’ultimo era quello di
essere nato dalla violenza, di aver proceduto col terrore, poi, calando il
terrore e permanendo tuttavia l’assenza di libertà, alla fine si è spompato da
solo, non certo per l’azione di Reagan o per le preghiere di Giovanni Paolo II come qualche ingenuo sostiene.
Confrontiamolo, viceversa, col
mercantilismo [23] e il corporativismo
che, nati nel Basso Medioevo, sono durati quasi fino alla Rivoluzione Francese.
E comunque fino alla prima metà del secolo XVIII. Ebbene, il corporativismo, in cui i rapporti
tra capi e subordinati delle corporazioni erano quasi di colleghi dato che lavoravano
insieme, consentiva una buona e costante
distribuzione della ricchezza; consentiva un livello di benessere costante,
ovviamente da proporzionarsi ai tempi e ai mezzi tecnologici. Il vero problema del sistema corporativo e mercantilista riguardava però
non tanto le città, quanto le campagne in cui restava vigente un sistema
altomedioevale e feudale di servitù della gleba. Lì non vigevano corporazioni e il signore
feudale (aristocratico o alto prelato che fosse) aveva rendite nette, limitandosi a sfruttare
i servi in ogni senso, in modo totalmente parassitario (mutatis mutandis, come oggi avviene per i grandi speculatori, le
società bancarie, assicurative, ecc.). Il vero dramma sociale dell’ancién
regime, come si usa definire, era
quello. Ma la situazione preborghese del
corporativismo non conosce crisi, a parte le varie guerre che, per motivi
espansionistici, di gloria militare, o di religione, i vari sovrani assoluti scatenavano per conto
loro, non certo a causa del sistema economico.
Ora la domanda da porsi sarebbe
questa: si può istituire un regime
sociale ed economico che abbia la solidità del corporativismo antico, pur
essendo più equo anche per le società contadine? Non vedo ragione di negarlo. Il cooperativismo puro sarebbe oggi la
risposta a questo interrogativo, ma esso
non è voluto né a livello dei dirigenti politici, né ovviamente da quelli
economici e finanziari che si troverebbero
ridotti ad un livello più o meno pari a quelli del lavoratore e
cittadino comune. Per realizzarlo occorre dunque che sia il lavoratore stesso a rendersene conto, operando
insieme agli altri per la democratizzazione sociale del lavoro, per il
principio che il lavoro deve essere libero, di personale scelta, capace di
godere da sé dei frutti ottenuti. In
brevi parole, coordinando i rapporti
collegiali di lavoro, e non subordinandoli ad uno o più capi, da cui dipendere
perfino per la propria esistenza.
Passiamo ordunque alla questione disoccupazione: secondo la
propaganda dell’economia classica la disoccupazione è un fenomeno eccezionale e
non voluto o intenzionalmente provocato, conseguente a crisi eccezionali.
Abbiamo visto invece che, elencandole di seguito, le crisi possono certo avere
cause molteplici, talvolta del tutto involontarie, talaltre intenzionalmente
provocate (quella del 1973/ 74, conseguente all’azione degli Stati produttori
del Medio Oriente, fu per l’occidente una sorpresa e non voluta, conseguente
alla protesta araba dopo la guerra dello Yom Kippur; quella, all’opposto, del 2007/ 2008, tuttora
perdurante, fu intenzionalmente
scatenata da sudici giochi speculativi e senza obiettive ragioni esterne), ma mai essere eccezionali, rare, cicliche, o
quel che sia: sono viceversa costanti e
continue, e che - al contrario - sono i periodi buoni ad essere rari,
eccezionali, discontinui, poco durevoli. Questo avviene perché l’economia capitalistica ha carattere egocentrico,
sia individuale, sia collegiale o societario, per cui il carico dei costi pesa
sempre sui più deboli, mentre i ricchi e i potenti possono perdere qualcosa, ma
non certo oltre al 10 % di quello che possedevano prima. Danno e tolgono briciole, non certo il pasto
intero. Ora, in questo quadro di
egocentrismo, di interesse concentrato in pochissimi, di totale antisolidarietà verso i
subordinati, di prevaricazione, la disoccupazione non è un fatto epidemico
eccezionale, ma un fatto endemico, strutturale, congenito, connaturato al
capitalismo stesso. Possono bene certi
partitocrati decantare che, con i loro Jobs
Act [24], e consimili porcheriuole, otterranno milioni
di miliardi di posti di lavoro. Il
problema non è quello di creare posti di
lavoro, bensì a quali condizioni. Va ricordato, per la verità storica, che nel
corso del XX secolo vi furono alcuni tizi, due o tre in particolare che per
pudore non nomino, che crearono infatti
milioni di posti di lavoro, peccato però non alle migliori condizioni
economico-sociali. Se al capitalista
dite di creare “posti di lavoro”, egli lo farà subito se sono per lui
completamente gratis, comprese le spese di nutrizione e di vestiario. Il capitalista non fa (salvo eccezioni)
beneficenza, fa esclusivamente il proprio interesse. Deve necessariamente avere un certo numero di
compratori dei suoi prodotti, che così gli restituiscano ciò che hanno ricevuto
da lui o dai suoi colleghi, per cui è costretto ad avere un certo numero di
dipendenti pur malvolentieri, ma nel minor numero possibile e al minor costo
possibile, per la nota “legge” del massimo risultato col minimo sforzo.
Poniamo che, sul mercato del lavoro (termine
che indica bene la concezione che il capitalista ha del lavoro stesso), per
ogni posto di lavoro vi sia un solo lavoratore disponibile. In tal caso,
il capitalista dovrebbe pagare il lavoratore al 100 % del massimo
possibile, ossia un “costo del lavoro” insostenibile. Poniamo ora che per ciascun posto di lavoro vi
siano due soli lavoratori, uno in attività, l’altro disoccupato. In tal caso, il capitalista potrà ridurre il
“costo del lavoro” al 50 % (questa proporzione è puramente teorica, matematica,
come il calcolo delle probabilità:
prescinde da ulteriori condizioni, tra cui la resistenza del lavoratore
attivo a vedersi dimezzato il salario;
la sua eventuale associazione a organizzazioni sindacali; la presenza di leggi favorevoli ai lavoratori
stessi, ecc.). Se vi saranno 3
lavoratori, di cui uno attivo e due disoccupati, il “costo del lavoro” potrà
essere ridotto ad un terzo. E’ facile capire come al capitalista, individuo
o societario che sia, conviene in
termini matematici avere sempre un mercato del lavoro in cui vi sia
un’altissima percentuale di disoccupati, così, se il lavoratore attivo non accetta
di vedersi ridotto il salario o stipendio ad un 1000° di quello che sarebbe il massimo
teorico, il capitalista potrà
licenziarlo, avendo a disposizione, tra 999 disoccupati, la possibilità di
trovarne uno almeno disposto a farsi pagare il 1000° del massimo possibile. Ciò rende ovvio ed evidente il fatto che la
disoccupazione è, per le esigenze del capitalista, una necessità, un modo di
regolare nel suo interesse speculativo il “costo del lavoro”, un costante strumento di ricatto sul
lavoratore, un’arma efficace nella cosiddetta lotta di classe. La disoccupazione è dunque coessenziale col
sistema capitalistico [25]. Non è una scoperta mia, ovviamente, ma dell’intera
serie di teorie sociali dalla fine del XVIII secolo a gran parte del secolo
XIX, tuttavia quasi del tutto scomparse
dall’odierno dibattito per le ragioni di cui si dirà .
Siccome mi sono voluto concentrare
essenzialmente sul marxismo, sarà sempre
al duo Marx –Engels che mi riferirò.
Ora, che dice a proposito di disoccupazione “Il Capitale” ?
“…..
Perciò, se da un lato l’uso
capitalistico del macchinario fa sorgere nuove validissime ragioni per uno
smodato prolungamento della giornata lavorativa e sconvolge lo stesso modo
di lavorare, come pure il carattere del corpo lavorativo sociale…,
dall’altro lato quest’uso, un po’ per la
sottomissione al capitale di strati di operai che prima non erano soggiogati,
un po’ per il disimpegno degli operai
che sono rimpiazzati dalle macchine,
genera una popolazione operaia eccedente (154), che si vede
obbligata ad accettare passivamente le
imposizioni del capitale. Deriva proprio
da questo il singolare fenomeno della storia della moderna industria, per cui
la macchina calpesta ogni limite morale e naturale della giornata
lavorativa. E ne deriva anche il paradosso economico che il
più potente strumento per abbreviare il tempo di lavoro si trasforma nel
mezzo più sicuro per trasformare tutto il tempo d’esistenza dell’operaio
e della sua famiglia in tempo di lavoro a disposizione del capitale per
la sua valorizzazione…
[nella
nota 154 osserva:] E’ uno dei grandi meriti di
Ricardo l’aver considerato il macchinario quale mezzo di produzione non soltanto
di merci, ma anche di ‘redundant population’…” [26].
In sostanza, Marx sostiene, e dimostra con
l’ausilio del pensiero dell’economista Ricardo (al quale deve moltissimo nelle
sue teorie economiche), che l’automazione del lavoro riduce, dal lato della fabbrica,
il numero di dipendenti aumentando la quantità dei prodotti, ma anche si
fornisce di una manodopera potenziale che bilancia quella attiva, ponendola per
la sua stessa presenza e per l’esigenza di sopravvivere anche con il minimo
vitale sotto costante ricatto. Se questo
è, per Marx come per Engels, alla lunga uno dei motori della rivoluzione
sociale, nel frattempo una condizione di riduzione del cosiddetto “costo del
lavoro”, dovuta alla lotta tra individuo
lavoratore e capitalista (individuo o societario), che però prescinde da altri
fattori: non tanto dai governi più o
meno democratici, di cui il marxismo non tiene conto affatto, non tanto
dall’esistenza di leghe di resistenza operaia o dai sindacati che scatenano scioperi, quanto proprio dal numero crescente dei lavoratori nel loro complesso, per cui
si forma una solidarietà tra quelli
attivi e quelli disoccupati, o in attesa di lavoro: gli uni per le pessime condizioni di vita
privata e di lavoro, gli altri per lo spettro della fame. Siccome, poi, tra gli stessi capitalisti si
scatena una lotta sociale sotto forma di concorrenza, non tutti questi reggono
l’urto e si proletarizzano a loro volta.
Similmente scrive Engels: “…il
miglioramento del macchinario significa soppiantare un numero sempre crescente
di operai - essi stessi addetti alle
macchine - e in ultima analisi creare
una massa di salariati disponibili superiore alla quantità media di unità che
il capitale ha bisogno di occupare: creare cioè un vero esercito di riserva industriale, come io lo chiamavo
già nel 1845 [aveva allora 25 anni !],
disponibile per i tempi in cui l’industria lavorò ad alta pressione, gettato
sul lastrico nella crisi che necessariamente segue, in tutti i tempi palla di
piombo al piede della classe operaia nella sua lotta per l’esistenza col
capitale, regolatore che serve a tenere il salario a quel basso livello che è
adeguato alle esigenze dei capitalisti.
Così avviene che, per dirla con Marx, la macchina diventa il più potente
mezzo di guerra del capitale contro la classe operaia…”[27].
Dunque, le considerazioni marx-engelsiane
non facevano, né fanno, una piega relativamente al rapporto tra capitalismo e
disoccupazione, la quale è connaturata, in modo variabile quantitativamente ma
qualitativamente costante, al sistema produttivo capitalistico. Ciò che non funziona nel pensiero dei due, e
che la storia ha dimostrato con i fatti, è l’erronea applicazione dell’astratta
dialettica hegeliana alla realtà politica e sociale, oltre che economica. Infatti, accennando brevemente a tale
procedimento logico (quasi matematico) applicato da Hegel all’evoluzione dello
Spirito, inteso come Azione pura del Pensiero che diventa Realtà, attraverso
una serie di passaggi di tesi – antitesi – sintesi, oppure affermazione – negazione – negazione
della negazione (o nuova affermazione),
già discutibile sul piano astratto hegeliano, diventa addirittura
ridicolo e fuorviante, quando viene applicato alla realtà umana. Infatti, il dramma dei successivi marxismi fu quello di capire quando sarebbe
arrivato il momento dell’antitesi o quello della sintesi che superasse
l’antitesi. Per taluni, il fatto era
automatico: l’umanità sarebbe passata da
un momento all’altro indipendentemente dalla volontà dei singoli e dei gruppi;
altri (come Lenin, Trotzkij ecc.) erano
invece convinti che il momento era determinato dalla volontà di un capo o di un
partito che, abilmente, approfittasse di questa o di quella occasione. Nondimeno, anche all’interno dei crescenti
atteggiamenti interpretativi, non tutti erano d’accordo sul come e sul
quando: se procedere con riforme
(riformismo o revisionismo), se con azioni pacifiche, se con insurrezioni, con intervento dello Stato, senza intervento
dello Stato, e via così. Chi conosce la
storia del marxismo capisce bene che cosa io intenda. Ora, da oltre vent’anni, sappiamo pure come
la canzone e i vari ritornelli, con varianti e musica da danza, siano
tristemente finiti, nondimeno il motivo conduttore è tuttora valido.
Marx ed Engels non tennero granché conto
(se ne occuparono, ma incidentalmente) del fatto che, per arricchirsi, il
capitalista, individuo o societario, ha
bisogno di compratori, consumatori. Se
questi sono al 90% disoccupati, e
sopravvivono solo grazie alla Caritas
Caritatis (la quale, per la miseria
generale, potrebbe non essere adeguatamente
finanziata), a chi venderebbero i loro prodotti? Dunque, per il capitalista è vitale esigenza
una società con benessere diffuso, pur se variabile o riducibile, ma che soprattutto
non sia effettuata con sue elargizioni, ma piuttosto degli altri colleghi,
eventualmente dallo Stato tramite imposte che, tuttavia, non dovrebbero gravare
sul capitalista (di qui l’odio verso la forte progressività delle imposte
stesse, che limiterebbero l’arricchimento), oppure ancora con titoli pubblici, sui quali lucrare. Deve reggere la concorrenza interna ed
esterna: a ciò ovvia con accordi, allargamenti ed unioni di società, con
l’internazionalizzazione. Deve pure
accettare che lo Stato, proprio per la propria sicurezza interna e per
mantenere enormi spese, emani leggi
“umanitarie” che proteggano almeno le condizioni minime dei lavoratori. La stessa lotta di classe, che i due teorici
pongono a motore della storia, esige che i lavoratori si organizzino in
sindacati e, perfino, in partiti, per agire politicamente, almeno nei Paesi che
hanno sistemi parademocratici o pseudodemocratici, con sistemi elettorali e con
incarichi elettivi a durata provvisoria. Tutto ciò, nella storia del XIX e XX secolo si è realizzato, pur con enormi difficoltà,
resistenze e perfino due guerre mondiali. Fu dunque necessario formulare princìpi di economia mista, espressi poi
nella maggior sintesi di Keynes, ma certo non inventata da
lui, ma soprattutto dal socialismo
tedesco che si ispirava a Lassalle, a Duehring, a Rodbertus, e che, anche col
contributo di Bismarck, si affermarono
sempre di più dalla Germania al resto d’Europa.
Soluzione anch’essa provvisoria, va detto: perché l’economia mista ha caratteri troppo contraddittori per reggere a lungo (ad esempio, lo stato sociale o welfare state diventa alla lunga insostenibile per il capitalismo, proprio perché questo è anti-solidaristico per definizione e mira di per sé solo all’arricchimento costantemente crescente di pochi: infatti è durato nei fatti circa un secolo scarso, poi ha dimostrato di dover cedere, soprattutto da quando lo spettro del comunismo, rappresentato dall’URSS, si è dissolto da sé). Caduto il timore di una rivoluzione mondiale pilotata dall’URSS e coadiuvata dal fantasma atomico, che aveva terrorizzato il capitalismo dal 1917 al 1985 (grossomodo), ecco che si rimette in moto la reazione, quasi una Restaurazione post-napoleonica (ma ben più durevole, ahinoi!) allo svanire di speranze ed illusioni o delle paure sui due fronti del mondo. Si ritorna, in sostanza, al veterocapitalismo, becero, aggressivo, ma non più produttivo, ossia del tutto parassitario (ovvero, ben peggiore economicamente dell’antico), e in forme tecnicamente più efficienti e meno costose. Infatti, giocare in Borsa è assai meno rischioso, sotto ogni aspetto, che dover gestire una o più aziende produttive. Si ha a che fare solo con carta (almeno visivamente) e se da questa carta consegue la rovina per milioni di persone, che ce ne importa? Nel 1929 si ebbe un primo assaggio di tutto ciò, con conseguenze che sappiamo disastrose. Ma allora il mondo occidentale aveva a disposizione risorse effettive e potenziali ben diversi, tanto che poté sostenere una seconda guerra mondiale. Inoltre, il sistema economico misto consentì agli Stati di superare i momenti peggiori.
Soluzione anch’essa provvisoria, va detto: perché l’economia mista ha caratteri troppo contraddittori per reggere a lungo (ad esempio, lo stato sociale o welfare state diventa alla lunga insostenibile per il capitalismo, proprio perché questo è anti-solidaristico per definizione e mira di per sé solo all’arricchimento costantemente crescente di pochi: infatti è durato nei fatti circa un secolo scarso, poi ha dimostrato di dover cedere, soprattutto da quando lo spettro del comunismo, rappresentato dall’URSS, si è dissolto da sé). Caduto il timore di una rivoluzione mondiale pilotata dall’URSS e coadiuvata dal fantasma atomico, che aveva terrorizzato il capitalismo dal 1917 al 1985 (grossomodo), ecco che si rimette in moto la reazione, quasi una Restaurazione post-napoleonica (ma ben più durevole, ahinoi!) allo svanire di speranze ed illusioni o delle paure sui due fronti del mondo. Si ritorna, in sostanza, al veterocapitalismo, becero, aggressivo, ma non più produttivo, ossia del tutto parassitario (ovvero, ben peggiore economicamente dell’antico), e in forme tecnicamente più efficienti e meno costose. Infatti, giocare in Borsa è assai meno rischioso, sotto ogni aspetto, che dover gestire una o più aziende produttive. Si ha a che fare solo con carta (almeno visivamente) e se da questa carta consegue la rovina per milioni di persone, che ce ne importa? Nel 1929 si ebbe un primo assaggio di tutto ciò, con conseguenze che sappiamo disastrose. Ma allora il mondo occidentale aveva a disposizione risorse effettive e potenziali ben diversi, tanto che poté sostenere una seconda guerra mondiale. Inoltre, il sistema economico misto consentì agli Stati di superare i momenti peggiori.
Ora il pianeta è saturo di produzione e impoverito di risorse, con una serie immensa di nuovi problemi, e certo il parassitismo non gli fa sicuramente
bene. La crisi del 2007/ 08 ha dato un segnale gravissimo ed è ben lungi
dall’essere superata. La crescita, di
cui si parla a suon di slogans,
avviene dopo una diminuzione ben più consistente: paragonandolo ad una caduta, se precipitiamo di cento metri, non è che,
risalendo di due o tre metri, abbiamo recuperato il punto di partenza. Siamo solo nel pieno rischio di ricadere
ancora più in basso, visto che questo è un pozzo senza fondo, aperto dal
demoniaco egocentrismo di pochi (quello
sì, che è un vero buco nero, non i corpi celesti!).
3) Rapporto tra questioni demografiche ed
economia capitalista.
Se la disoccupazione, nelle sue varianti numeriche e qualitative, è coessenziale al capitalismo, come questo può indurre al decremento della popolazione occupata e al decremento della popolazione semi -o inattiva? Il metodo iniziale, quando ci si accorse del necessario rapporto tra numero dei disoccupati e sistema capitalistico, era quello dell’incremento della popolazione, sebbene già nel XVIII secolo si parlasse di necessità del controllo delle nascite, secondo le note e quasi antonomasiche dottrine di Thomas Robert Malthus. Egli infatti aveva notato, attraverso calcoli statistici abbastanza precisi, che la sovrappopolazione era causa di miseria e che, mentre le risorse alimentari procedevano con ritmo aritmetico (1, 2, 3 ecc.), la popolazione aumentava a ritmo geometrico (1, 2, 4, 8 ecc.). Questa teoria, espressa in forme più generiche da altri, si è dimostrata poi in gran parte erronea, e già tra XVIII e XIX secolo molti pensatori e studiosi si preoccuparono di confutarla. Il buon Malthus pensava che imponendo la castità ai poveri li avrebbe aiutati a superare la miseria ed almeno sopravvivere. Rousseau aveva già risposto nel suo “Emilio” [28] che ogni famiglia avrebbe dovuto avere, per mantenere il grado di fecondità generale, almeno quattro figli, dato per scontato che almeno due sarebbero morti di una qualche malattia o di fame o per guerre. Il curioso è che, mentre Rousseau sosteneva tesi di incremento demografico, come si legge nelle sue “Confessioni”, abbandonò poi alcuni dei figli in orfanotrofio. Rimproverava poi le donne francesi di applicare già forme contraccettive (l’aborto e altri sistemi empirici). La coerenza non era certo il suo forte. Il grande giurista e filosofo del Diritto Giandomenico Romagnosi criticava le dottrine del controllo delle nascite, in quanto la castità forzata avrebbe tolto uno dei massimi, ma unici, piaceri di due coniugi, perché essendo poveri non ne avevano altri [29].
Pertanto, se la questione era controversa sul piano del
naturale incremento delle nascite, si
puntò, da parte degli imprenditori,
grazie alle invenzioni meccaniche, a ridurre il numero dei lavoratori con l’utilizzazione
di sistemi sempre più automatizzati. Una
macchina poteva fare il lavoro di dieci operai e, salvo guasti o incidenti,
senza eventuali errori manuali. Quindi,
con un solo operaio che la controllasse si poteva fare il lavoro di dieci o
venti operai. I 9 o 19 superflui venivano inviati in riserva,
ed allora senza una minima tutela anche provvisoria, ovvero voleva dire ridurli
alla fame con tutta la famiglia, a parte un po’ di carità ricevuta da qualche benefattore. Poiché questo
riduceva i costi di produzione, per
l’imprenditore significava un ben maggiore profitto, ma a causa della reciproca
concorrenza occorreva ridurre anche i prezzi e, quindi, scaricare sul lavoratore
operativo (non certo per l’imprenditore
e soci) la differenza tra prezzo in
monopolio e prezzo in concorrenza.
Ma ciò non era sufficiente: se finalmente l’imprenditore aveva dipendenti
con salario minimo, doveva però ampliare
il mercato. Se prima vendeva in una sola
regione, poi dovette vendere sull’intero territorio nazionale, quindi anche a
livello internazionale. Gli interessava
di vendere liberamente all’esterno, ma di impedire la stessa libertà alle
medesime merci di provenienza estera. Di
qui si tornava alla contraddizione tra esigenze liberiste ed esigenze
protezioniste [30].
Inoltre, appariva sempre più necessario
anche l’approvvigionamento di materie prime, che cominciavano già
scarseggiare. Di qui il ritorno al
colonialismo, sia pure in modi diversi da quello successivo alle scoperte geografiche, ma sempre regolato dall’occupazione militare
e dall’uso della forza in caso di resistenza. Negli USA è, ed era, costituzionalmente vietato creare delle colonie. Nondimeno si portò, dopo la guerra di
secessione, la conquista diretta alle
terre centrali, ancora nelle mani delle popolazioni autoctone o indigene o natives, come dicono i Nordamericani, schiacciate in lunghe guerre, private delle
fonti primarie della loro vita seminomade (le mandrie di bufali), quindi rinchiuse in riserve, come tuttora
avviene “molto democraticamente”.
Inoltre vi fu l’enorme condizionamento della vita degli Stati latino-americani, contro la Spagna a Cuba, rimasta fino ad allora colonia spagnola, e con tanto d’uso - contro la Colombia - del big
stick del primo Roosevelt. In Asia l’espansione
militare fu più ridotta, perché i Britannici, e in parte i Russi, avevano a che fare con Stati poveri e mal organizzati che nondimeno avevano un certo grado di resistenza e un apparato (soprattutto l’Impero
Nipponico, con rapide capacità di modernizzazione) militare, se non altro per numero di
uomini. Non restava dunque che l’Africa,
in gran parte da esplorare. Abbiamo così
il colonialismo ottocentesco, le cui
cause furono molteplici. Cominciarono
primi i Francesi con Napoleone, allora
ancora generale, e il Direttorio in
Egitto contro i Mamelucchi. Poi ancora i Francesi nell’Algeria. Non va dimenticato che il nord-Africa
mediterraneo era ancora sede di pirateria, che gli Europei sgominarono così del
tutto. Le coste nordafricane furono
occupate progressivamente da Francesi e Inglesi e, buoni ultimi, da Italiani in
circa 80 anni (1830 – 1912). Le coste
occidentali (atlantiche) ed orientali (Mar Rosso e Oceano Indiano) erano state progressivamente conquistate dai
Portoghesi, i quali con alterne vicende le mantennero in parte fino al 1974
(Rivoluzione dei garofani e crollo della dittatura salazariana), dagli Olandesi, che le persero in gran parte contro i Britannici e i cui discendenti (Boeri), trasferiti all’interno, furono poi del tutto sconfitti dai Britannici nelle
varie guerre anglo-boere (si videro allora i primi campi di concentramento per
la popolazione civile, imitazione europea delle riserve indiane degli
USA).
Intanto, i Francesi si espansero nella zona sahariana e subsahariana, avvicinandosi ai dominions britannici nell’Egitto, in Sudan, Kenia, Tanganica ecc., fino a ricongiungersi alle province meridionali intanto conquistate. Il Belgio riuscì a conquistare il Congo, poi lo Zaire, quindi nuovamente il Congo. Vi fu, con l’incidente di Fashoda (1898), il rischio di una guerra coloniale anglo-francese, che però, per la contemporanea pretesa di Guglielmo II imperatore di Germania (già Regno di Prussia) di avere anch’egli colonie, fu superato, anzi si arrivò alla Duplice Intesa anglo-francese, poi allargatasi alla Russia. Proprio dall’imperialismo coloniale nascono i germi della Prima Guerra Mondiale. Nel frattempo l’Italia, dopo aver occupato quelle che oggi si chiamano (i nomi erano Italiani) Somalia ed Eritrea, mirava con Crispi alla conquista dell’Abissinia, un Regno abbastanza potente ma con aspetti ancora barbari (schiavismo e tribalismo), tanto da riuscire a fermare l’avanzata italiana a Dogali, Amba Alagi e soprattutto Adua. L’Italia riuscì a occupare l’Abissinia (poi classicamente Impero d’Etiopia) solo tra il 1935 e il 1936. Il colonialismo era ormai al punto finale, nondimeno Mussolini volle tentare in un’impresa tanto costosa, quanto inutile, che ci costò la simpatia della Società delle Nazioni e l’opposizione ostile di Francia e Gran Bretagna, con tutto quello che sappiamo avvenuto poi.
Intanto, i Francesi si espansero nella zona sahariana e subsahariana, avvicinandosi ai dominions britannici nell’Egitto, in Sudan, Kenia, Tanganica ecc., fino a ricongiungersi alle province meridionali intanto conquistate. Il Belgio riuscì a conquistare il Congo, poi lo Zaire, quindi nuovamente il Congo. Vi fu, con l’incidente di Fashoda (1898), il rischio di una guerra coloniale anglo-francese, che però, per la contemporanea pretesa di Guglielmo II imperatore di Germania (già Regno di Prussia) di avere anch’egli colonie, fu superato, anzi si arrivò alla Duplice Intesa anglo-francese, poi allargatasi alla Russia. Proprio dall’imperialismo coloniale nascono i germi della Prima Guerra Mondiale. Nel frattempo l’Italia, dopo aver occupato quelle che oggi si chiamano (i nomi erano Italiani) Somalia ed Eritrea, mirava con Crispi alla conquista dell’Abissinia, un Regno abbastanza potente ma con aspetti ancora barbari (schiavismo e tribalismo), tanto da riuscire a fermare l’avanzata italiana a Dogali, Amba Alagi e soprattutto Adua. L’Italia riuscì a occupare l’Abissinia (poi classicamente Impero d’Etiopia) solo tra il 1935 e il 1936. Il colonialismo era ormai al punto finale, nondimeno Mussolini volle tentare in un’impresa tanto costosa, quanto inutile, che ci costò la simpatia della Società delle Nazioni e l’opposizione ostile di Francia e Gran Bretagna, con tutto quello che sappiamo avvenuto poi.
Il
quadro storico, che qui ho sintetizzato al massimo, serve a spiegarci eventi attuali: il giudizio storico fu - giustamente
– negativo, ma ogni giudizio storico deve essere anche obiettivo. L’Africa non era,
né nel XIX secolo né prima, un paradiso terrestre. Il nord-Africa, come detto, era stato sede di pirati fin dal Medioevo (i Saraceni), spesso
combattuti dagli Europei e perfino dagli USA: specialmente la Tunisia, occupata
dai Francesi, mentre era obiettivo italiano, poi sostituito dalla Libia (anche
qui, nome classico attribuito dagli Italiani: prima era costituita dai tre spezzoni persistenti tuttora: la Tripolitania, la Cirenaica in mano ai
Senussi alleati dei Turchi, e il Fezzan, abitato da beduini nomadi). La fascia orientale, fino alla Somalia, era
abbastanza civilizzata: a parte l’Egitto vi erano il Sudan, che ne aveva
sentito da secoli l’influenza, e la citata Abissinia, copta; ma il resto dell’Africa non conosceva che
culture tribali in selvaggia lotta fra loro. Tribù contro tribù, praticanti spesso il cannibalismo rituale o
puramente alimentare, e poi il traffico degli schiavi, venduti prima alle
popolazioni arabe, quindi da questi agli Spagnoli, Portoghesi, Francesi, Britannici,
ecc... La pretesa che tutti i problemi attuali dell’Africa siano dovuti al colonialismo europeo è infondata. Gli Europei, se non la civiltà,
ne portarono almeno le forme, tanto è vero che i primi rivoluzionari africani, come quelli asiatici, si formarono spesso
nelle università europee, specie britanniche e francesi. Certamente gli Europei portarono conoscenze
tecnologiche e scientifiche, misero a frutto le non poche ricchezze del continente, investendo in ricerche
minerarie non poco denaro.
Pare assurdo che si accusino gli Europei del solo sfruttamento di quelle risorse, mentre senza di essi certamente nemmeno oggi gli Africani le conoscerebbero e men che meno le sfrutterebbero. Va pure aggiunto, per amore della verità, che a partire dall’indipendenza della maggior parte degli Stati africani attuali ad oggi, sembra che le guerre interne o fra Stati, le secessioni (celebri quella del Katanga nel Congo e del Biafra in Nigeria, degli anni ’70 – ’80), siano state continue e feroci. Accusarne i soli Occidentali mi pare eccessivo e sul vagamente ridicolo, se pensiamo che il colonialismo europeo durò in Africa, calcolato tutto in blocco, 100 – 130 anni, eccezion fatta per le colonie portoghesi ed olandesi (il colonialismo italiano poi in Libia durò a fatica 31 anni guerra compresa, in Etiopia 6 anni guerra compresa; in Somalia circa 80 anni, compreso il periodo di amministrazione fiduciaria post-bellica).
Pare assurdo che si accusino gli Europei del solo sfruttamento di quelle risorse, mentre senza di essi certamente nemmeno oggi gli Africani le conoscerebbero e men che meno le sfrutterebbero. Va pure aggiunto, per amore della verità, che a partire dall’indipendenza della maggior parte degli Stati africani attuali ad oggi, sembra che le guerre interne o fra Stati, le secessioni (celebri quella del Katanga nel Congo e del Biafra in Nigeria, degli anni ’70 – ’80), siano state continue e feroci. Accusarne i soli Occidentali mi pare eccessivo e sul vagamente ridicolo, se pensiamo che il colonialismo europeo durò in Africa, calcolato tutto in blocco, 100 – 130 anni, eccezion fatta per le colonie portoghesi ed olandesi (il colonialismo italiano poi in Libia durò a fatica 31 anni guerra compresa, in Etiopia 6 anni guerra compresa; in Somalia circa 80 anni, compreso il periodo di amministrazione fiduciaria post-bellica).
Sicuramente il colonialismo in Africa
non fu, complessivamente, una bella cosa, come manifestazione certamente razzista
e di sfruttamento economico, ma sarebbe assai ingenuo e poetico credere che senza il nostro colonialismo l’Africa d’oggi sarebbe chissà cosa e avrebbe
fatto chissà quali progressi, salvo forse il nord-Africa mediterraneo e le zone
costiere a contatto con altre culture [31]. Bisogna pure aggiungere che il
colonialismo del XIX e inizi XX secolo fu ben più umano, malgrado violenze
d’ogni genere, di quello in
America nei secoli XVI – XVIII, soprattutto
verso le popolazioni autoctone amerindie. Perfino nel XIX secolo, da parte dei tanto decantati democratici USA, la
mano usata contro i “pellerossa” fu
estremamente pesante e feroce: l’ ”epopea”
del West fu in realtà un orrore, come oltre alla documentazione storica
disponibile mostra il film “Balla coi lupi” che ritrae la
durissima lotta in tempi di
contestazione e nello spirito della guerra nel Vietnam. La spietatezza dei coloni euroamericani
contro gli Indiani fu dovuta alla
fierezza e combattività di questi ultimi, che non vollero servire, come invece
accadde agli Africani schiavizzati.
L’Africa senza il colonialismo sarebbe oggi come la trovarono i primi
esploratori nel XIX secolo. Oggi, dopo
50 anni di indipendenza, non ha fatto grandiosi progressi nello sviluppo,
nella pace, nella buona amministrazione delle proprie risorse. Un’ultima considerazione riguardo al
colonialismo italiano: le terre che a
fatica riuscimmo a conquistare, se non fossero state occupate da noi sarebbero state occupate o i Francesi, o
gli Inglesi, così nel Corno d’Africa, come in Libia. Lo dimostra il fatto che quando l’Italia
rifiutò l’invito inglese a partecipare alla guerra contro il mahdismo sudanese,
gli Inglesi occuparono l’intero Sudan ugualmente. Inglesi e Francesi si sarebbero spartiti la Libia. Gli uni occupando
sicuramente l’intera Cirenaica (confinante con l’Egitto), gli altri la
Tripolitania e il Fezzan confinanti con la Tunisia e l’Algeria. Ciò avrebbe significato per l’Italia, nel
1911 – 12, alleata alla Germania e all’Austria-Ungheria, vedere l’intero
Mediterraneo centrale in mano a potenziali nemici (Francia, Gran Bretagna e Russia costituivano la
Triplice Intesa, contrapposta alla Triplice Alleanza). Per cui, tirando le somme, la nostra partecipazione alle guerre
coloniali non era poi del tutto ingiustificata.
Ora chiediamoci cosa pensarono Marx ed altri
rivoluzionari dell’epoca del colonialismo. Potrà sorprendere quello che dico, ma né
Marx né Engels né Mazzini espressero giudizi negativi contro l’espansione coloniale: la ragione di questo loro silenzio parziale o
totale era dovuto ad una semplicissima
ragione. Parlare male del colonialismo
sarebbe stato parlar male di Francia e
Gran Bretagna, le prevalenti nazioni colonialiste. Tutti e tre i pensatori sociali e politici
erano ospiti ed esuli in Gran Bretagna: questo in parte spiega tale silenzio. Può anche darsi che essi, come altri studiosi e scrittori dell’epoca,
ritenessero l’espansione coloniale come un fatto “irreversibile” di espansione
culturale in terre considerate selvagge. Invece Carlo Cattaneo, che viveva in Svizzera, Stato non colonialista, fece
varie obiezioni, come si è accennato, al colonialismo europeo in
Asia... ma non si occupò che per cenni di quello in Africa.
In Italia il dibattito sull’espansione
coloniale si ebbe a fine Ottocento nella sinistra non marxista fra due
repubblicani. Il filosofo del Diritto Giovanni Bovio sostenne il diritto
dei popoli civili di civilizzare, anche con la forza e l’occupazione
militare, popolazioni considerate
selvagge. Viceversa, il geografo e
politico Arcangelo Ghisleri, con affermazioni che quasi preparano la critica
sulle culture degli antropologi Lucién Levi-Bruhl
e Claude Levi-Strauss, negava
innanzitutto sia i princìpi di superiorità razziale degli europei, sia anche
quelli di superiorità culturale, civile, politica, tali almeno che
giustificassero pretese di conquista e di sottomissione. Ghisleri dimostra, in un libretto assai interessante perché, pur
nella sintesi ricco di dati e di argomentazioni che riusciranno a
distogliere lo stesso interlocutore da posizioni superficiali, tale assunto. Scrive ad esempio :
“… Or io invece presi il toro (che nel
caso mio era l’on. Bovio) per le corna e mi domandai: - Esiste davvero la ‘razza migliore’? Può affermarsi il ‘diritto’ d’una razza a
soggiogare o a disperdere le razze inferiori? Quali sono i fondamenti di un
tale diritto ? La inferiorità di alcune
razze è dessa un fatto assoluto, perenne, insanabile ? E’
vero che il ‘semplice contatto’ della civiltà con alcune razze, le
faccia estinguere… ?... E’ vero che razza bianca e civiltà siano
sinonimi? Che fuori della nostra razza
non siansi sviluppate altre civiltà ? e
cos’è la civiltà?…
Tali i problemi che osai propormi col fine di trovarne una soluzione
scientifica, spoglio di preconcetti ed estraneo a preoccupazioni del
momento. La conclusione a cui venni è un
po’ severa: essa dimostra che le teoriche di coloro, i
quali pretendono di giustificare colla Scienza [in realtà, un’erronea e grossolana interpretazione
del darwinismo, sia biologico che sociale:
la sopravvivenza del più forte] le
prepotenze di una razza contro le altre, non hanno fondamento che in una
boriosa ignoranza…” [32].
Una
Nazione che può vantare uomini di questo calibro non deve mai vergognarsi di
sé, anche quando sia sottoposta alle zampe di ben inferiori (intellettualmente e moralmente, non
fraintendiamo) personaggi che ci stanno
conducendo da decenni alla rovina e al disfacimento. Sarebbe lungo esaminare tutte le
argomentazioni storiche e statistiche utilizzate dal Ghisleri, anche con
l’appoggio di politici e studiosi socialisti moderati suoi contemporanei come
il Bissolati e il Turati, ma esse
dimostrano come le sue osservazioni siano integralmente attuali e in larga
parte valide anche ai nostri tempi. Va
pur tuttavia osservato, sia sul suo pensiero, sia su quello di successivi
antropologi e sociologi, che una cosa è
la questione genetica in cui è dimostrato che la razza umana è unica e che le
sue varianti sono solo caratteri esteriori, per cui la superiorità o
inferiorità fisiche sono solo fenomeni di ciascun singolo uomo e non dei gruppi
umani; fin qui, siamo ben
d’accordo. Il problema è quando si vuole
estendere l’argomento al fatto culturale e di civiltà: perché non è la medesima cosa. Un conto è un popolo che
ha millenni di civiltà (come i popoli mediterranei), altro è un popolo che ha civiltà e culture più
recenti, ancorché sul piano tecnologico abbia fatto enormi progressi. Come parlare di due persone colte. Un conto è parlare di una che diviene colta studiando per l’intera sua vita, non limitandosi al solo periodo scolastico, aggiornandosi continuamente, un conto è parlare di chi dopo una vita d’ignoranza si dedica allo studio negli ultimi anni della sua esistenza. alla stessa maniera un popolo non acquisisce o crea una
propria civiltà in pochi decenni o pure in cento o duecento anni, ma è civile perché lo è con una certa
costanza e malgrado decadimenti da
almeno un millennio. Cultura e
civiltà non sono “acqua” facilmente
reperibile, ma “sangue” raro, denso e prezioso.
Il dibattito in Italia venne approfondito
ulteriormente durante la guerra di Libia anche all’interno della
sinistra: Alfredo Oriani, a dire il vero
letterato extra-partitico, cantò la
battaglia di Dogali con toni da poema epico, e Giovanni Pascoli, socialista
moderato, nel suo celebre discorso “La gran proletaria si è mossa” vedeva nella conquista della Libia
un’occasione di sviluppo e di emigrazione dei suoi lavoratori, senza dover
più dipendere dagli Stati
stranieri; lo stesso dicasi per i liberali
nazionalisti. Viceversa i socialisti,
gli anarchici ed i repubblicani, si opposero anche con scioperi e manifestazioni
di boicottaggio. Non mi sembra che in altri Stati del pianeta ci si
opponesse al colonialismo quale forma di imperialismo. Gli Stati Uniti vietavano di possederne, ma
solo perché preferivano un’espansione
soprattutto economica e culturale, asservendo a se stessi tutta l’America Latina, come oggi avviene per gran parte del pianeta. La Russia formalmente non aveva colonie, tuttavia già da tempo si era allargata
enormemente in Asia. Solo Lenin cominciò a qualificare l’imperialismo come forma ultima del capitalismo. Il
problema dell’autonomia delle terre
asiatiche, sotto controllo russo, e altre popolazioni asiatiche ed africane si pose solo quando si formò, appunto con
Lenin, l’URSS - dopo la guerra civile. Francia, Gran Bretagna e Germania
erano in sostanza favorevoli alle colonie per ragioni di potenza
militare. Solo l’Austria-Ungheria - per
varie ragioni - non aspirava a un’espansione coloniale (salvo piccoli
possedimenti), mirando piuttosto ad espandersi nella Penisola Balcanica, dove
però trovava l’ostacolo russo, serbo e, in generale, panslavista.
Tutto questo, come si sa, avviò l’Europa e il mondo alla Prima Guerra Mondiale, dopo la quale la Germania perse tutte le sue colonie africane, proclamate “mandati” dalla Società delle Nazioni e, vedi caso, affidate a Francia e Gran Bretagna. L’Italia nel 1935/ 36 occupò l’Abissinia mettendo in moto la macchina da guerra, con un atto che poteva essere del tutto evitato, anche perché, evitandolo, non ci avrebbe spinto prima all’isolamento, alle sanzioni ed infine alla funesta alleanza con la Germania di Hitler. Anche ammesso che l’Abissinia allora esercitasse pressioni sui confini dell’Eritrea e della Somalia, sarebbero bastate risposte militari adeguate, anche portando alla Società delle Nazioni la questione, invece che agire con la forza che ci costò non poco, senza la minima possibilità di difendere l’Africa Orientale dalla controffensiva britannica, come si dimostrò poi tra il 1940 ed il 1941 .
Tutto questo, come si sa, avviò l’Europa e il mondo alla Prima Guerra Mondiale, dopo la quale la Germania perse tutte le sue colonie africane, proclamate “mandati” dalla Società delle Nazioni e, vedi caso, affidate a Francia e Gran Bretagna. L’Italia nel 1935/ 36 occupò l’Abissinia mettendo in moto la macchina da guerra, con un atto che poteva essere del tutto evitato, anche perché, evitandolo, non ci avrebbe spinto prima all’isolamento, alle sanzioni ed infine alla funesta alleanza con la Germania di Hitler. Anche ammesso che l’Abissinia allora esercitasse pressioni sui confini dell’Eritrea e della Somalia, sarebbero bastate risposte militari adeguate, anche portando alla Società delle Nazioni la questione, invece che agire con la forza che ci costò non poco, senza la minima possibilità di difendere l’Africa Orientale dalla controffensiva britannica, come si dimostrò poi tra il 1940 ed il 1941 .
La civiltà europea è civiltà mondiale non
certo perché ha usato la forza e ha
conquistato il mondo in forme più o meno violente, né perché gli Europei
abbiano la pelle rosea o, al massimo, olivastra (piuttosto che bianca in senso
letterale), né perché il loro profilo
sia ortognato anziché prognato: questi
sono fattori essenzialmente estetici e di proporzione; ma per i suoi principi e le correlative
deduzioni ed applicazioni in sede filosofica, scientifica, sociale, politica,
giuridica, morale, religiosa, artistica, svolte almeno dal 1000 a. C. all’intero secolo XIX . E nessun altro continente, neppure l’antichissima Asia pur ricca di
grandiose civiltà e culture, potrebbe vantarsi di aver fatto altrettanto.
Che rapporto vi è, allora tra il colonialismo e gli attuali movimenti migratori? Nessuno, assolutamente nessuno. Prescindendo da tanta propaganda
giustificatoria nei confronti di tali movimenti. Neppure le guerre in corso in tante parti dell’Africa bastano a giustificare tali
movimenti: in Africa da cinquant’anni
vi sono guerre continue (celebri quelle del Biafra, in Nigeria, e quelle del Katanga
nel Congo), nondimeno le popolazioni fuggivano dai luoghi abitati, spostavano i
loro villaggi, ma a nessuno o a ben pochi saltava in testa di venire con
barconi in Europa, della cui esistenza sapevano assai poco.
Vediamo. Le prime popolazioni umane furono stanziali, come si ricava da certi
miti (l’Eden) e anche dai ritrovamenti paleoantropologici e storici. Finché l’uomo fu cacciatore e raccoglitore, egli limitava i suoi movimenti a
territori percorribili a piedi, non si
allontanava granché dalla sua “tana” - anche per difendere la sua
famiglia o la sua tribù dagli animali feroci e dall’aggressione di tribù nemiche. Gli esseri umani divennero nomadi essenzialmente per ragioni climatiche,
per impoverimento del territorio o
perché cominciava a fornirsi di animali da allevare. La pastorizia fu la
forma di allevamento più antica e veniva esercitata su larghi territori in cui
doversi spostare a causa della consumazione di erbe da parte di ovini e caprini. Non sapendo ancora coltivare in modo
abbastanza razionale, non potendo procurare al bestiame il cibo vegetale
sufficiente, le tribù di pastori dovevano
spostarsi generalmente orientandosi sull’apparente moto solare, ovvero da est
ad ovest, tanto è vero che le grandi
invasioni, o come le chiamano i Tedeschi “Voelkerwanderungen” (migrazioni
di popoli), avvenute principalmente tra
il 2000 e l’Ottocento a. C, e poi tra il I secolo a. C e il X d. C, provennero
sempre dall’Asia verso l’Europa. Una migrazione massiccia verso Ovest fu anche
quella seguita alla scoperta e progressiva conquista delle due Americhe, dal
XVI secolo alla fine del XIX (guerre “indiane” degli USA). Le migrazioni violente o pacifiche (rare) avvengono sempre da territori a notevole
densità abitativa, e con scarse risorse, a territori a bassa densità abitativa con molte risorse. Questa è
l’evidente ragione, essenzialmente
economica, che portò al colonialismo nelle sue varie forme, questo ci è pure confermato dalla storia delle migrazioni antiche dei Greci (in
età micenea e classica), soprattutto in
direzione dell’Italia (Esperia) e della Spagna, o anche della Gallia (ora Francia)
mediterranea. Lo stesso dicasi per i
Fenici che si espansero nell’attuale Tunisia e in parte di Algeria e Libia, solo più
tardi in Spagna dove crearono il potente
Stato di Cartagine, rivale di Roma.
Esempi opposti di trasmigrazioni da terre
poco popolate e ricche di risorse a
terre molto abitate, ma povere (proporzionalmente) di risorse, si ebbero con l’Impero Romano. Ma ciò era dovuto alla spinta di popolazioni nomadi e guerrieri
dall’est (Goti, Unni, Avari, Ungari). Le
invasioni barbariche dell’Impero Romano rappresentarono per alcuni secoli la
lotta tra popolazioni stanziali, sedentarie, agricole, contro le popolazioni nomadi che cercavano terre per le loro greggi e le
loro mandrie, anche questo fenomeno ben antico (i re pastori che conquistarono
l’Egitto provenendo dall’Asia, attorno al XVI secolo a. C).
Vi sono oggi popolazioni naturalmente nomadi che trascinano greggi e mandrie? Non mi
pare, almeno in Europa non mi risulta
che la gente, che oggi si accavalla sui barconi, abbia bisogno di campi dove nutrire pecore, capre, cavalli o buoi. E’ facile capire che tutto questo spostarsi di milioni di persone è una
forma di neo-nomadismo che ha ben
altre cause del tutto artificiali, ovvero intenzionalmente provocate. Un altro tentativo di giustificazione per queste immigrazioni, specialmente in
Italia dopo la storia del colonialismo,
è quella che, siccome gli Italiani emigrarono a milioni, oggi l’Italia (e
l’Europa) debba diventare terra di immigrazione, quasi a rendere un preteso
debito. Come ho rilevato, le emigrazioni
italiane, come le europee, si indirizzarono
da Paesi ad alta densità abitativa e scarse risorse, a Paesi con scarsa densità abitativa e ricche
di risorse, tanto più perché sono
proprio le classi dirigenti dei nuovi Stati, soprattutto americani, che sollecitano queste immigrazioni
dell’Europa per poter sfruttare meglio le proprie risorse. Ma né l’Europa, né ancor meno l’Italia, di
cui riparlerò più avanti a proposito di decremento demografico, hanno spazi enormi o materie prime appena
scoperte da sfruttare. Tra le
immigrazioni in America, ed in parte in Asia e Africa, degli Europei, e
l’accavallarsi di genti, oggi in Europa la situazione è incomparabile. Qui si arriva non per necessità insite in
Stati di recente formazione con scarsa densità abitativa e molteplici risorse
da sfruttare, ma - per quanto sopra si è detto a proposito di disoccupazione - perché il capitalismo e i suoi complici
bramano ardentemente di poter ridurre il “costo del lavoro” grazie alla spropositata presenza di
immigrati disposti anche a salari da fame e condizioni di vita di tipo sette-ottocentesco pur di sfuggire a situazioni che molti di loro, anche perché ingannati da una
pubblicità assurda e da specchietti per allodole o canti delle sirene (trucchi vecchi, come
dimostrerò fra poco), trovano
insostenibile.
Questo fenomeno, in linea principale, non è scatenato da guerre, tanto è vero che l’Africa le conosce da almeno cinquant’anni senza interruzioni significative, ma i moti demografici cominciano appena dalla metà degli anni ’80 e poi soprattutto dopo il grande tonfo dello “spettro del comunismo”: ovviamente non si tratta di semplici coincidenze. Gli Europei hanno pur conosciuto guerre ben peggiori nel XX secolo, vi erano talvolta milioni di fuggitivi, ma non è che se ne andassero chissà dove con barconi o barchette, bensì si rifugiavano nei loro stessi territori, ancora non occupati dal nemico: vedi, solo in Italia, la fuga di circa 500.000 profughi friulani e veneti nel 1917-18 e quella di circa 300.000 Istriani e Dalmati tra il 1943 e il 1945. Lo stesso dicasi per i Francesi nel 1940, i Tedeschi nel 1945 e via discorrendo. Occorrerebbe risalire alle mitiche età descritte dall’Iliade, dall’Odissea, dai poemi ciclici e dall’Eneide, dalla Bibbia (anch’esso un poema mitologico, dal punto di vista della storia, scientificamente intesa) per trovare qualcosa di analogo ad oggi, ma - in sostanza - si trattava di piccole popolazioni semi-nomadi che, non avendo più una propria Patria perché occupata da invasori, la cercavano in terre poco popolate. “Antiquam exquirite Matrem” (cercate l’antica Madre!) dice un vaticinio ad Enea e ai Troiani che fuggono da Troia distrutta. E quei popoli cercavano terre promesse: infatti, vi sono molte analogie tra i poemi greci dei “ritorni” (dopo la guerra con Troia), quelli della tradizione etrusco-romana (di cui l’”Eneide” è la grande sintesi) e il mito della Terra Promessa tra gli Ebrei guidati da Mosè e da Giosuè.
Questo fenomeno, in linea principale, non è scatenato da guerre, tanto è vero che l’Africa le conosce da almeno cinquant’anni senza interruzioni significative, ma i moti demografici cominciano appena dalla metà degli anni ’80 e poi soprattutto dopo il grande tonfo dello “spettro del comunismo”: ovviamente non si tratta di semplici coincidenze. Gli Europei hanno pur conosciuto guerre ben peggiori nel XX secolo, vi erano talvolta milioni di fuggitivi, ma non è che se ne andassero chissà dove con barconi o barchette, bensì si rifugiavano nei loro stessi territori, ancora non occupati dal nemico: vedi, solo in Italia, la fuga di circa 500.000 profughi friulani e veneti nel 1917-18 e quella di circa 300.000 Istriani e Dalmati tra il 1943 e il 1945. Lo stesso dicasi per i Francesi nel 1940, i Tedeschi nel 1945 e via discorrendo. Occorrerebbe risalire alle mitiche età descritte dall’Iliade, dall’Odissea, dai poemi ciclici e dall’Eneide, dalla Bibbia (anch’esso un poema mitologico, dal punto di vista della storia, scientificamente intesa) per trovare qualcosa di analogo ad oggi, ma - in sostanza - si trattava di piccole popolazioni semi-nomadi che, non avendo più una propria Patria perché occupata da invasori, la cercavano in terre poco popolate. “Antiquam exquirite Matrem” (cercate l’antica Madre!) dice un vaticinio ad Enea e ai Troiani che fuggono da Troia distrutta. E quei popoli cercavano terre promesse: infatti, vi sono molte analogie tra i poemi greci dei “ritorni” (dopo la guerra con Troia), quelli della tradizione etrusco-romana (di cui l’”Eneide” è la grande sintesi) e il mito della Terra Promessa tra gli Ebrei guidati da Mosè e da Giosuè.
Ma vediamo ora che cosa scrive Marx, che abbiamo lasciato in disparte per un bel
po’, a proposito di immigrazioni ed emigrazioni :
“…un gran numero dei garzoni che
lavorano presso i fornai a prezzo ridotto sono stranieri [udite, udite: qual novità? I pizzaroli d’oggi
non sono forse in buona percentuale stranieri? E perché? La risposta del capitalista e dei suoi trombettieri delle gazzette, sostiene che ciò avviene perché gli Italiani
non vogliono più fare i pizzaroli e i fornai. Ma non dicono perché: perché
orari e lavoro sono pagati miseramente, per cui
solo un immigrato africano o d’altra provenienza extracomunitaria se ne
accontenta. Miserabili e sordidi i
trombettieri al servizio del capitalista],
giovani ed altri che si vedono costretti accettare qualunque salario…
[nella
nota 44 si legge: …come confessa il loro stesso
portavoce Bennett, fanno ‘iniziare il lavoro ai propri dipendenti alle 11 di
sera o prima, e lo protraggono molte volte fino alle 7 della sera seguente… ovvero,
dalle 23 alle 19, ovvero 20 ore
continuate, oggi ciò non succede in queste misure, ma ugualmente, considerate le tutele
sindacali che allora non esistevano, lo
sfruttamento rimane enorme]…” [33]
Citando varie situazioni dell’epoca, Marx scrive:
“…caratteristici brani in cui viene
dichiarato senza tanti sottintesi il titolo di proprietà del capitale sulla
forza lavorativa [in sostanza
Marx sottolinea la differenza tra l’immigrazione chiamata dal capitalista, che
riduce il “costo del lavoro” e l’emigrazione che invece priva il capitalista
della sovrabbondanza di manodopera disponibile, e che il capitalista stesso non
vede di buon occhio perché, rendendo più rari gli operai, li rende più costosi].
‘Agli operai cotonieri si può dire che
la loro offerta è troppo grande… essa forse dovrebbe essere ridotta di un terzo
e allora vi sarebbe una sana domanda per i rimanenti 2/3... L’opinione pubblica insiste sull’emigrazione…
Il padrone (ossia il fabbricante di cotone) non può essere troppo contento
che la sua provvista di lavoro [oggi, più elegantemente viene chiamata “risorsa
umana”] se ne vada; può pensare
che questo sia tanto ingiusto quanto sbagliato… Quando l’emigrazione viene
sostenuta con i fondi pubblici, egli ha diritto di essere ascoltato e forse di
protestare... qualcuno dice che son
proprio gli operai a desiderare l’emigrazione. Ma è assolutamente logico che sia così… E adesso diteci se esiste un progetto più
suicida di questo per ogni classe del paese, indebolire la nazione con l’esportare
i suoi migliori operai di fabbrica…” [34].
Utilizzando la loro stessa propaganda
(questo Potter deve essere l’antenato di Harry Potter, il maghetto), Marx rileva in un solo colpo due aspetti dei
movimenti migratori: quello verso
l’esterno indebolisce il capitalista locale, rendendo più raro e prezioso il singolo operaio, per cui si deve pagarlo
(ah, che disgrazia!) di più; quello verso l’interno è visto con favore
perché aumenta la manodopera inattiva a
disposizione, e ne riduce il costo. Ma
il più interessante è un aspetto che resta implicito: il Paese da cui si emigra si impoverisce, senza arricchire (anzi!) quello d’arrivo. Chi si arricchisce è soltanto il capitalista
che così ha maggiori strumenti di sfruttamento. Tutto il resto è strumentale propaganda, di
cui trombettieri, tamburini e araldi della stampa finanziata dal capitalismo
stesso fa pascere gli ingenui dotati di molto buon cuore, che però sono
dimentichi di cosa veramente interessa ai capitalisti e ai loro
complici: l’accrescimento continuo dei loro forzieri [35].
Con sorpresa forse di taluno, che vede
Giuseppe Mazzini solo come un gretto
patriota, tutto concentrato nell’unità d’Italia o al massimo per una qualche vaga federazione
europea, egli, in Inghilterra
soprattutto, si occupò di questione
sociale sul piano pratico organizzativo (soprattutto per gli immigrati
italiani) con i quali costituì a Londra nel 1840 (Marx aveva solo 22 anni) l’Unione degli Operai Italiani, a cui collegò
una Scuola Gratuita, soprattutto per
ragazzi ma anche per adulti analfabeti o poco più. Questa Scuola fu organizzata grazie anche
all’aiuto filantropico di molti amici inglesi, da cui si era fatto conoscere,
soprattutto con la dura polemica contro il ministro Graham che aveva informato
il governo borbonico della Spedizione dei Fratelli Bandiera (1844) facilitandone così a cattura e la fucilazione. Grazie all’intervento di deputati inglesi, fra cui il celebre scrittore e storico Thomas Carlyle, il ministro Graham, che aveva spiato e fatto
aprire la corrispondenza di Mazzini ai due fratelli e ad altri, fu costretto alle dimissioni. Il successo ne facilitò la fama in Gran
Bretagna e non solo. Descritto in breve
questo importante periodo della sua
vita, passo ora alla sua descrizione dei bambini ed adolescenti italiani a Londra e in altri luoghi, e alla storia dell’adescamento con cui essi venivano
attratti sul luogo:
“… Come le conseguenze logiche della nostra fede mi trascinassero a
lavorare non solamente pel popolo, ma col popolo, non occorre ripeterlo. E i pochi popolani d’Italia coi quali, nei
casi passati, io aveva avuto contatto, mi s’erano mostrati tali e così vergini
di calcolo e di basse passioni da confortarne davvero al lavoro…
Affiatandomi, sulle vie della vasta città, con taluni di quei giovani
che vanno attorno coll’organino, imparai, con vero stupore e dolore profondo,
le condizioni di quel traffico, condotti da pochi speculatori, ch’io non saprei
additare con altro nome che con quello di tratta dei bianchi: vergogna d’Italia, di chi siede al governo [attenzione: i
fatti si riferiscono agli anni ’40 dell’Ottocento, ma l’epoca in cui Mazzini scrive è quella
degli anni ’60, post-unitaria: ovvero
egli scrive contro i malgoverni italiani insorti dopo il 1861, ai quali si deve un incremento
dell’emigrazione italiana, piuttosto che una limitazione] e del clero che potrebbe, volendo, impedirlo. Cinque o sei uomini italiani stabiliti in
Londra, rotti generalmente ad ogni mal fare e non curanti fuorché di lucro, si
recano di tempo in tempo in Italia. Là,
percorrendo i distretti agricoli della Liguria e delle terre parmensi,
s’introducono nelle famiglie dei montagnoli, e dove trovano i giovani figli più
numerosi propongono i più seducenti patti possibili: vitto abbondante, vestire, alloggio salubre, cure
paterne al giovine... una certa somma,
dopo trenta mesi pel ritorno e per compenso dell’opera prestata. E’ steso un contratto: se non che i poveri montagnoli non sanno che, se non
convalidati dai consoli inglesi, non hanno valore alcuno in Inghilterra. Intanto, i giovani raccolti a quel modo
seguono lo speculatore a Londra: ivi
giunti vi si trovano schiavi. Alloggiati, quasi soldati, in una stanza comune,
ricevono, i giovani un organino, i fanciulli uno scoiattolo o un topo
bianco; gli uni e gli altri di portare,
la sera, al padrone una somma determinata. La mattina hanno, prima d’uscire, una tazza di tè con un tozzo di
pane: ma il pasto della sera dipende
dall’adempimento della condizione: chi
non raccoglie non mangia; e i più giovani sono, per giunta, battuti. Io li vedeva, la sera in inverno, tremanti
per freddo e digiuno, chiedenti, quando la giornata era stata - come in quella stagione è sovente - poco proficua, l’elemosina d’un soldo o di
mezzo soldo agli affrettati pedoni, onde raggiungere la somma senza la quale
non s’attentano a tornare a casa [più propriamente nel tugurio in cui venivano
ammassati]. E non basta: l’avidità dei padroni arbitri onnipotenti trae partito [vantaggio] dalle infermità, che commovono, quando sono
visibili, le buone fantesche inglesi. Taluno di quegli infelici, sospinto sulla strada benché consunto dal morbo
e col pallore della morte sul volto, fu raccolto dagli uomini della polizia e
portato allo spedale, dove morì senza proferire parola. A tal altro è ingiunto fingersi mutolo,
ferito in un piede o còlto da convulsioni epilettiche…” [36].
Vi
ricorda nulla? A me ricorda molto da
vicino la situazione immigratoria italiana d’oggi: vi troviamo anche gli stessi elementi: il malgoverno o sgoverno, la presenza di una criminalità organizzata,
che Mazzini non chiama “mafiosa “ o “camorrista”, ma lo era, e già al nord
(Liguria, Emilia, ecc.); la cooperazione del clero che, pur potendo
distogliere i propri fedeli dal turpe mercato, perlomeno lasciava fare. Vi troviamo pure metodologie di adescamento
simili: si fa credere che si andrà a lavorare in un paradiso terrestre e poi
ci si trova o nella prostituzione, o nella mendicità, o nello schiavismo vero e proprio.
Non crediamo a Mazzini? Bene, allora sentiamo cosa si dice, due decenni dopo (circa), nell’Inchiesta Jacini, che era parlamentare, non un singolo rivoluzionario:
“… Ma con tutto questo non si cura il male alla radice; la quale non si può togliere se non per mezzo
di un maggior benessere generale...; se
non per mezzo di una trasformazione graduale delle coltivazioni che attribuisca
a ciascuno un lavoro più remunerativo; se non per mezzo della emigrazione patrocinata dal Governo per i
coltivatori esuberanti [sarà soprattutto Giolitti a favorire questo tipo di emigrazione, meno
disordinata della precedente, anche per ricavare profitti in forma di imposte
sulle rimesse mandate dagli emigrati all’estero, qualcosa che, a parti
rovesciate succede oggi per i Paesi africani. Giolitti creava un sistema tendenzialmente mirante sia a favorire
l’incremento industriale, sia a diluire
le ragioni della protesta popolare, non con misure militari come fatto da Crispi
e dai governi Di Rudinì, Pelloux a fine secolo, ma con un insieme di misure
economiche e sociali abbastanza efficaci, che portarono l’Italia ad un maggior
prestigio tra le grandi Potenze dell’epoca. Per obiettività si può dire che, con Cavour, Giolitti fu il più efficiente presidente del Consiglio, come non
ne avemmo mai più]…
Su quest’ultimo punto, cioè sull’emigrazione, sarebbe bene che si
fissassero meglio le idee: ‘La nuova
Italia, questa madre snaturata che respinge dal proprio seno i suoi figli’ si sente ripetere da molti, e si aggiunge che
‘ogni emigrante rappresenta una forza utile sottratta, o temporariamente o per
sempre, alla patria’; sono tutte frasi
il cui senso va ridotto alla vera misura…
Ci sono due specie di emigrazioni: la temporanea e la permanente. La prima è quella per la quale le
popolazioni, per lo più montanare [tanto
del nord che del resto della penisola],
spinte dal bisogno di supplire, in qualche modo, alla deficienza delle
risorse, si trasferiscono per qualche mese dell’anno, nelle pianure, ovvero
altrove, anche fuori d’Italia, e per parecchi anni, ma col proposito di
ritornare. E’ un’usanza che può aver dato luoghi a parziali abusi, ma in
generale, si può dire che produce effetti benefici. Si deve ad essa se la piccola proprietà non è
tutta quanta in stato di liquidazione, se non altro per ricostruire un tugurio [il che appare molto
consolante…], riceve così dagli effetti
dell’emigrazione temporanea, il supplemento necessario.
Lo stesso non si può dire invece dell’emigrazione permanente. Essa
non ha il medesimo carattere di spontaneità [il neretto è mio per sottolineare questo punto
critico]. Può essere utile anch’essa e talvolta necessaria, ma se il Governo non
‘assiste, c’è pericolo che sia causa di molti mali e lo è anche stato.
In questi ultimi anni [veramente, abbiamo visto che ciò avveniva da oltre 40 anni: anche qui il neretto è mio], non
pochi accaparratori di emigranti, interessati a fornire a intraprenditori di
regioni transatlantiche, ad un tanto a testa, fecero un’attiva
propaganda, con magnifiche promesse, presso le popolazioni agricole di
parecchie provincie d’Italia. Molti contadini che prestarono ascolto a
quelle suggestioni, pur troppo pagarono il fio della loro credulità e furono
decimati dal clima tropicale del Brasile e di altri paesi del pari insalubri. Altri furono persino abbandonati indegnamente
a mezza via. La smania dell’emigrazione
si propagò talmente, che si estese anche ai contadini relativamente benestanti,
i quali ebbero almeno il vantaggio di servirsi del loro piccolo peculio per
potere, appena accortisi… della fallacia delle promesse, far ritorno agli
antichi lari, nudi, egli è vero, ma pur lieti di potervi ritornare, a
differenza di molti loro colleghi che in quelle lontane regioni lasciarono
miseramente la vita.
In tali circostanze ha adempiuto il Governo a tutti i suoi doveri verso
questi infelici? Non lo crediamo [sono parlamentari dell’Opposizione di sinistra ad
affermarlo, ovviamente]; ma è fuor di dubbio che l’opinione pubblica
non gli diede il minimo lume in questa contingenza, anzi tendeva a fuorviarlo.
L’emigrazione in certi casi è una soluzione plausibile d’una difficoltà sociale. Quando sopra una determinata superficie, un complesso di cause antiche e recenti ha avuto per effetto di agglomerare una popolazione numericamente affatto sproporzionata [si noti: allora, la popolazione italiana si aggirava sui 30 milioni scarsi e con un territorio a cui mancavano poche parti delle attuale regioni, ovvero l’intero Trentino-Alto Adige e le attuali province (piccoli tronchetti) di Gorizia e Trieste, tutti territori allora appartenenti all’Austria-Ungheria. Il neretto è ancora mio] , è inevitabile che una parte di questa popolazione sia ridotta alla miseria… Non è dunque l’emigrazione per se stessa che lo Stato deve proporsi d’impedire… Ottocentomila persone emigrarono dall’Europa in America nel solo anno 1883, e nessun Governo tentò d’impedire quell’esodo grandioso. Ciò che spetta allo Stato si è di disciplinarla…” [37].
Il neretto è mio, anche per l’ultima
frase. Penso che la citazione sia sufficiente a capire come l’emigrazione
italiana, fra XIX e XX secolo, sia
imparagonabile a quella odierna, proveniente dall’Africa per le condizioni
geografiche e materiali dell’Europa e dell’Italia, in particolare rispetto a
quelle africane. Ancorché le popolazioni africane si siano incrementate
per popolazione, la densità per kmq è largamente ancora inferiore rispetto a
quella europea e particolarmente italiana. Imparagonabile anche la situazione delle risorse energetiche ed altre
materie prime. Una cosa in comune,
viceversa, vi è, e si tratta dei turpi metodi utilizzati dai complici del
capitalismo internazionale per far spostare milioni di persone da un luogo
all’altro, da un continente all’altro, promettendo paradisi terrestri e
facendo poi vivere situazioni spaventose di sfruttamento e di miseria. Nelle false promesse, come ricaviamo dalle testimonianze
dell’epoca, mentalità e metodologia degli adescatori sono sempre le
stesse. E noto: quando l’Italia aveva 20 - 25 milioni di abitanti, venivamo considerati
troppi e dovevamo in buon numero emigrare. Anche la Commissione Jacini non è in sostanza sfavorevole a questa
soluzione, purché ordinatamente regolata dallo Stato. Quando fummo da 30 a 40 milioni di abitanti,
e fino a 50 – 55 milioni (anni ’60), venivamo considerati ancora troppi e
dovevamo emigrare. Ora, raggiunti e
superati i 57 milioni di abitanti (autoctoni, con genitori e nonni italiani,
per intenderci), improvvisamente e senza che l’Italia si sia allargata per
fenomeni geologici, o che si siano scoperte miniere di metalli preziosi, oppure
fonti di nuove e ricchissime risorse energetiche, improvvisamente tra la
metà degli anni ’80 e i primi anni ’90,
improvvisamente - ripeto - siamo diventati troppo pochi, troppo vecchi
e, forse, troppo scemi, per cui si considera necessario che milioni e milioni,
anzi miriadi senza fine, come le schiere angeliche della Bibbia, di stranieri vengano in Italia per i più vari motivi, di cui dopo
si dirà. Un miracolo unico ed
impareggiabile nella Storia dell’umanità! Quello che fino a cinquant’anni fa era Paese d’emigrazione è ora
diventato degno, come gli USA e l’intero continente americano, al quale siamo
pareggiati, di immigrazione senza limiti.
Ma, prima di affrontare la specifica situazione italiana, vediamo di capire quando la macchina del neo-nomadismo planetario, in una sorta di giganteggiante resurrezione delle Voelkerwanderungen, si rimise in moto: nel 1974, la lunga guerra del Vietnam, tra gli USA e il Vietnam del nord, finiva con la fuga più o meno mimetizzata delle forze americane e dei loro sudditi sud-vietnamiti. Dopo la bastonata della Corea, si dimostrava che gli USA, pur potentissimi sul piano tecnologico, non riuscivano assolutamente a vincere un avversario che fosse deciso, come e più di loro, a resistere. Le tecniche di bombardamento che erano ben riuscite in Europa, contro grandi città ed eserciti concentrati, servivano molto meno contro popolazioni disperse su vasti territori, e capaci di notevole resistenza (per mezzo della guerriglia), proprio per i loro costumi di vita sobri e scomodi. Alla fine i poveri giovani USA, abituati ad una vita comoda e lussuosa, alla fine psicologicamente non reggevano lo sforzo. Sicché il regime sudvietnamita fu spazzato via, e con esso crollarono anche la Cambogia e il Laos, nei quali si svolgeva una guerriglia più sotterranea ma non meno logorante di quella del Vietnam. Reggevano invece meglio i regimi militaristi e dittatoriali della Thailandia, della Birmania (oggi Myan Mar), della Malaysia, dell’Indonesia (qui i comunisti vennero massacrati dal regime). Fu in questo periodo che migliaia o decine di migliaia di persone fuggivano dall’Indocina ormai assoggettata a regimi comunisti (divisi verso orientamento sovietico o quello cinese maoista), spesso fuggendo per mare (che non è certo il Mediterraneo) per dirigersi verso le isole dell’Australia. Vennero chiamati boat people (popolo delle imbarcazioni). Alcuni vietnamiti giunsero in quegli anni fino in Italia, e poi da lì, probabilmente tramite le ambasciate USA, fino in America.
Il
capitalismo internazionale, già prima del crollo sovietico, sotto la direzione
del duo Reagan-Tatcher, d’accordo nel
restaurare il vecchio liberismo che si era dato per morto [38], si accorse che quella poteva essere una buona
occasione da sfruttare: rimettere in moto
le migrazioni dei popoli, non più a poche migliaia e anche centinaia di
migliaia di persone (abbiamo visto che
nel solo1883 erano partiti verso l’America oltre 800.000), ma a
milioni. Si colse l’occasione del crollo
dell’URSS e della progressiva adesione della Cina all’economia di mercato, pur
nel formale mantenimento del vecchio Partito Comunista (un altro esempio della
dialettica marxista, unita al pragmatismo confuciano: dal libretto rosso di Mao si passò alla
dottrina del colore del gatto, il quale, indipendentemente dalla tinta del
pelo, doveva prendere i topi), così si ebbe il curioso (solo per gli
ingenui) fenomeno per cui, mantenendo una dittatura di tipo
comunista, si affermava un’economia
liberista e, dalla chiusura rigida delle popolazioni entro i confini, si arrivò ad un’espansione migratoria in
tutto l’Occidente. Solo apparentemente
c’è una formale contraddizione: in
effetti, se per comunismo si intende “capitalismo di Stato”, questa forma economico-sociale utilizza gli
stessi criteri fondati sul lucro e sul profitto [39], solo che questi
andrebbero allo Stato e non a persone. Tuttavia, nessuno ignora che lo Stato dovrebbe essere un’astrazione giuridica, mentre
di fatto lo Stato è diretto da persone,
ovvero da capipartito o da burocrati (qui poco importa). Questi dirigenti dello Stato si
impadroniscono, anche per i loro interessi, dei beni acquisiti: fino a che punto non è semplice dire, in
quanto potrebbe trattarsi di semplice uso, o di vera proprietà trasmissibile
ereditariamente. Sapendo che in Europa
tali regimi sono tutti conclusi e che in Cina il comunismo è caratterizzato
oggi solo da una dittatura partitica di tale denominazione, che però ammette il
“libero” mercato, essendo trascorso neppure un secolo dall’instaurazione del
regime in Russia, e sessant’anni nell’Europa centrale e in Cina
(approssimativamente), non si è potuto
verificare quest’aspetto fondamentale, che renderebbe così (quello
dell’ereditarietà) puramente nominale ed
apparente la distinzione tra capitalismo privato e capitalismo di Stato, mentre
i criteri del profitto sarebbero pressoché identici. Anche per questa via si dimostrerebbe che
non c’è una funzionalità superiore del capitalismo privato da quello pubblico,
bensì l’elemento determinante sarebbe costituito dalla parvenza democratica o
liberale nel capitalismo privato e dall’effettiva dittatura nel capitalismo pubblico (in questo secondo,
lo stesso regime dittatoriale comunista, man mano che si allenta, è causa congenita del proprio crollo
apparentemente improvviso) .
Mentre si stava profilando lo sfacelo
comunista, a cavallo tra 1989 e 1990,
già allora si prevedevano, per ragioni misteriose sul piano della pura
logica, valanghe di migranti dai Paesi ex-comunisti e dalla Russia stessa. La cosa è ben curiosa, in quanto fino ad
allora si fuggiva dall’est ai paesi dell’Occidente per ragioni politiche (molti
Polacchi erano arrivati in Italia, grazie anche alla presenza di Woityla come
papa, a inventarsi il lavoro altamente
professionale di pulitori di parabrezza, prima tenuto solo da benzinai
volonterosi, poi ereditato da molti altri) e per opposizione al regime
comunista in seguito alle repressioni contro Solidarnosc Non si capiva perché dovessero fuggire ancora in
numero ben maggiore una volta riacquistata la
libertà politica. Così
vi furono le prime ondate attorno al 1991 (anche di giovani donne
destinate alla prostituzione stradale o
di uomini raccolti dalla
criminalità). Poi cominciarono ad
affluire gli africani.
Nell’anno scolastico 1987/88, avendo
vinto la cattedra al Liceo Classico e Maxisperimentale di Schio (Vicenza), ebbi
modo di conoscere una collega genovese, la quale - con una certa mia meraviglia - mi
spiegò che a Genova erano arrivati molti africani, che si erano insediati in
pianta stabile in certi quartieri. Nel nord-est il fenomeno non si era ancora
manifestato, ma già nei primi anni ’90 africani bantu o zulu (neri, per intenderci) arrivavano per lavorare nelle piccole imprese locali. Nel 1991, ad esempio, andando a trovare mio
nipote che vi svolgeva il servizio militare, ebbi modo di notare che lì gli Africani erano numerosi, come osservai
nella tristemente nota Piazza della Loggia, che è centralissima.
In Francia, in Gran Bretagna, terre già colonialiste, l’immigrazione africana si poteva dire ormai fenomeno vecchio, per le più varie ragioni. In Italia, viceversa, che come si ribadisce è rimasta terra d’emigrazione massiccia fino a 40 -50 anni fa, la cosa suscita molti e gravi sospetti. Il discorso dell’immigrazione in terre già sovrappopolate e povere di risorse, non può avere la stessa natura di altri fenomeni migratori. L’equiparazione tra l’Italia o la stessa Europa e l’America, sfiora l’evidente ridicolo: qui l’immigrazione, specialmente nella misura spropositata, in cui è avvenuta e sta avvenendo ha carattere artificioso, provocato e voluto. Da chi ?
4) L’immigrazione in Italia.
Chi ha qualche cognizione storica, sa che la nostra penisola fu oggetto di immigrazione massiccia (in proporzione alla popolazione autoctona) alla fine dell’Impero Romano d’Occidente (V – VI secolo d. C.), con le invasioni barbariche soprattutto con popolazioni di stirpe germanica, e, in misura minore, durante le invasioni straniere (XV – XVIII secolo), soprattutto per il transito di eserciti francesi, spagnoli, austriaci. Limitatamente ai confini del nord-est alpino e carsico, di popolazioni slave, assai scarse di numero e soprattutto come immigrazione per lavoro (es.: la trasformazione di Trieste da semplice Comune marinaro a grande emporio dell’Impero austriaco). Gruppi di lingua germanica affluirono, in quel periodo, nell’attuale Alto-Adige sommergendovi i gruppi ladini, che ora sono molto ridotti, ma si trattava sempre e comunque di popolazioni poco numerose. Pochi erano stati gli scampati all’invasione turca nella Penisola Balcanica dopo il crollo definitivo dell’Impero Bizantino (1473), arrivati in Molise, in Puglia, in Sicilia dalle terre slave ed albanesi dell’interno (non va dimenticato che allora la fascia costiera dell’Adriatico rimase, ancorché pericolante, sotto la Repubblica di S. Marco fino all’invasione napoleonica e al Trattato di Campoformio (oggi Campoformido). Per l’intero Ottocento, vuoi per ragioni politiche (i rivoluzionari anti-austriaci), vuoi per ragioni economiche, cominciò e si accrebbe una fortissima emigrazione degli Italiani in ogni parte del mondo, continuata ancora nel secolo XX. Perché dunque vedere nell’Italia una terra d’immigrazione? Ad opera di chi? Quale ideologia si nasconde dietro l’assurda, innaturale volontà di farla diventare terra di immigrazione, quasi improvvisamente? A questi interrogativi si risponde in successione .
“Tu
che angusta a’ tuoi figli parevi,
tu
che in pace nutrirli non sai,
fatal
terra, gli estrani ricevi:
tal
giudizio comincia per te.
Un
nemico che offeso non hai,
a
tue mense insultando s’asside;
degli
stolti le spoglie divide;
toglie
il brando di mano a’ tuoi re”.
Così
asseriva, descrivendo la battaglia di Maclodio tra Veneziani e Milanesi
nel XV secolo, Alessandro Manzoni nella
tragedia “Il Conte di Carmagnola”
(Atto II - Coro, vv. 105 – 112). La lezione della storia e dei nostri grandi
letterati e pensatori del XIX secolo,
nel XX secolo era già dimenticata. Nel
1938/ 39, pur nel nazionalismo e nell’imperialismo imperanti sotto il fascismo,
il nostro capo di malgoverno Benito Mussolini, con progressivi accordi, ci
asserviva alla Germania di Hitler, portandoci poi, nelle condizioni che ben
sappiamo, alla seconda guerra mondiale e
ad una disfatta vergognosa. Dopo un
primo riscatto, i nostri malgoverni e sgoverni ci asservirono agli USA, con il Patto Atlantico che ha fatto di noi delle
pure marionette agli ordini provenienti da Washington. Non bastando ciò, ci siamo impelagati con
altri trattati di asservimento nella Comunità Europea, che ci sta conducendo
di passo in passo ad un disastro economico e finanziario che non ha precedenti e – malgrado l’obbedienza servile - ci
punisce con sanzioni finanziarie con ogni pretesto, fondato o infondato che sia.
In questo quadro di svendita assoluta
della Nazione, giocano più forze che, storicamente e per appoggi stranieri,
hanno avuto maggioranze elettorali: quella clericale, quella marxista, e la fusione degli aspetti peggiori delle due prime forze, il clericomarxismo
o, come alcuni lo definiscono, il cattocomunismo: preferisco però la prima denominazione,
perché meglio sottolinea la natura ideologica: il potere temporale ecclesiastico, da un lato; il pensiero marxista dall’altro. Il comune denominatore di tali forze è l’odio verso la nazionalità, lo Stato
nazionale, nato con la Rivoluzione Francese e il Romanticismo, contro quello italiano in particolare, perché
distruttore dello Stato Pontificio storico (il cui ultimo residuo sarebbe il
mussoliniano Stato del Vaticano, se non fosse che oggi, nella prassi e non
nella forma giuridica, è esteso
all’intera Italia, che pende continuamente dalla bocca di un papa, per quante
sciocchezze, assurdità, fantasie, contraddizioni ne escano, ancorché patenti),
esercitato nelle più varie forme dal 1861 fino ad oggi. Tutto ciò in nome di un preteso
“universalismo” da parte clericale, “cosmopolitismo proletario” da parte marxista. Per fondersi, queste forze hanno rispettivamente rinunciato a Dio, alla Bibbia e alla lotta di classe, adeguandosi,
soprattutto dagli anni ’90, invece, al liberismo economico capitalistico o
plutocratico, anch’esso con ambizioni universali, ma più modestamente definite
“globali”. Non basta: a queste forze si
sono unite altre entità internazionali, con ambizioni universalistiche, quali
l’ONU e organismi derivati (UNESCO, ecc.), il Fondo Monetario Internazionale,
la Banca Mondiale, l’Unione Europea (che
più esattamente andrebbe qualificata quale Dis-Unione Europoide: in essa l’europeismo è un cavallo di
Troia, un volgare trucco, per asservire i popoli alle società finanziarie internazionali,
specie USA. Pensando poi che il prefisso “eu” significa in greco “buono e bello”, la UE meglio si definirebbe come “Cacoropa”,
ossia una “ropa brutta e cattiva”) .
Non
potendo esporsi apertamente nel sostegno al capitalismo, che mira a stimolare i
moti migratori fino al parossismo, sia approfittando di guerre già esistenti, sia
provocandone di nuove, sia incoraggiando subdolamente ogni forma fanatica e
violenta in nome di un ipocrita
umanitarismo, hanno incoraggiato le
popolazioni d’Europa e degli Stati occidentali ad accettare benevolmente le
valanghe e le colate laviche delle popolazioni, africane, asiatiche,
sudamericane che fossero. Creare una sovrappopolazione di disoccupati
e di saltuariamente occupati è, l’abbiamo visto largamente, il metodo primario del capitalismo, onde
ridurre al minimo possibile, ciò che esso chiama “costo del lavoro” [40].
A chi affidare dunque l’importante compito di
arruolare e trasportare milioni di
aspiranti alla schiavizzazione, sotto veste di emigrazione economica, se non
alle varie bande criminali organizzate a livello internazionale? Organizzare un trasporto a quei livelli
numerici in modo legale e aperto sarebbe stato impopolare ed antipolitico,
dovendosi i singoli Stati sobbarcare spese enormi che i contribuenti non
avrebbero gradito, oltre un certo limite. Solo la criminalità, mafiocamorrista in
primis ma non soltanto, poteva farlo: con ciò si creava un interessantissimo mercato ben remunerativo, con
l’altro piccione della fava costituito dalle situazioni commoventi, con tanti
poveri bambini abbandonati, almeno in apparenza, a se stessi, donne incinte,
giovani uomini che, eroicamente, sfuggivano a guerre e mobilitazioni militari,
oppure alla ricerca di un “futuro migliore”, il tutto alla fine per impietosire
le masse italiane. Le varie sponde
mediterranee divennero luogo di un
florido commercio. Intanto cominciò la
Chiesa Cattolica, nascondendo sotto la tonaca di vescovi e cardinali qualche
candidata suora, visto che le vocazioni religiose delle europee, italiane in
particolare, si andavano facendo più rare [41]. Sempre la Chiesa Cattolica, onde salvare
l’anima di molte donne extracomunitarie europee o africane o sudamericane, le
faceva diventare “badanti”, un mestiere nuovo, oppure un nuovo nome per un
mestiere vecchio, perché “gli Italiani
non vogliono più badare ai loro vecchi genitori” e preferiscono metterli
nelle mani di queste brave signore. Succede pure che la giovane, o quasi, badante, incanti il vecchio rimbambito
stimolandogli i residui sensi riproduttivi, si faccia sposare per “amore” costringendo i figli del vecchietto alla sola
quota legittima: tutto ciò con il
consiglio e l’amorevole assistenza di sindacati, patronati, associazioni
umanitarie quasi sempre clerico-marxiste.
Fu messo in moto un meccanismo che
interessò anche capi di sgoverno. Vi sarà,
tra i miei lettori, qualcuno che
ricorderà che cosa faceva il governo tunisino, che sequestrava
ai tempi di Craxi le barche dei nostri pescatori? Ebbene, l’Italia doveva, benché certo non
priva di oliveti e di frantoi dalla Liguria alla Puglia, comprare l’olio tunisino, ricavato spesso da olivi
piantati da antichi nostri coloni di fine ‘800. Lo stesso fece poi Gheddafi, non tanto per venderci olio quanto per costringerci a pagargli presunti danni di
guerra, già precedentemente pagati al
tempo di re Idris. Qualcuno rimpiange
Gheddafi ora: ma non sa che aveva
cacciato i nostri coloni tra il 1968/69 con la forza, confiscando i loro beni e per giunto facendo spesso
violentare le donne. Poi ci minacciò per
lunghi anni, finché Reagan non gli dette una buona lezione che lo calmò in
parte. Quando iniziarono i moti migratori, Gheddafi ne organizzava le trasferte ovviamente in
combutta con la Chiesa Cattolica, la mafia/camorra, e facendosi ulteriormente
pagare dal bravo Berlusconi per ridurre questi afflussi. Poi il brav’uomo ha saldato i suoi conti col
popolo libico, ma con le conseguenze che sappiamo e che sono recentissime.
In sostanza, seguendo questi eventi, non
per gli ultimi anni ma per tutta la storia, a partire almeno dalla fine degli
anni ’60, ci accorgiamo che ci fu un
piano ben determinato in varie fasi per
distruggere lo Stato nazionale italiano. Chi ha occasione di consultare un’Enciclopedia degli anni ’60, vi
leggerà sicuramente che l’Italia era considerata etnicamente e linguisticamente
omogenea, salvo poche frange di confine, irrisorie rispetto al numero complessivo. Non credo che arrivassero al milione, rispetto ai 50-55 milioni raggiunti in
quegli anni. Ora si dice, facendosene un vanto particolare, che l’Italia è
“multietnica e multirazziale” (sicuramente multi-scema), così da poter imitare gli USA e l’America in
generale. Ci crediamo anche noi grandi
per esserci fatti invadere, nel giro di tre decenni scarsi, da milioni di
stranieri. Ora questo vanto è pure contraddittorio per chi afferma, in senso
opposto, che non esistono “razze distinte” ma una sola razza umana. In
effetti, come esiste un mono-razzismo (ovvero credenza nella superiorità di
un’unica razza pura), così esiste anche
un pluri - o multirazzismo (nel senso del credere che il mescolamento genetico
di razze e popoli diversi renda più
forte il prodotto biologico finale). Quanto
all’ethnos, esso è sì in parte un
fatto genetico, ma è essenzialmente
linguistico culturale. Grazie all’azione
invasiva esercitata dalle forze clerico-marxiste e dalla plutocrazia
internazionale, con l’azione concreta della criminalità organizzata e la
propaganda esercitata trombettisticamente dai mezzi d’informazione finanziati
dalle suddette forze, ora l’Italia è
ridotta a colonia internazionale, né può
certo proclamare la propria omogeneità culturale, civile, etnica, ecc..
Personalmente, se non amo il razzismo e
il colonialismo esercitato dagli Europei
verso altri popoli, non amo neppure
razzismo e colonialismo esercitati da altri contro gli Europei, e l’Italia in
maniera particolare. Così pure non apprezzo (storicamente) i moti migratori
europei, come non apprezzo quelli attuali di altri popoli in Europa. Lo Stato nazionale fu ideato a cavallo dei secoli XVIII e XIX per risolvere i
problemi sociali ed economici all’interno di un certo ambiente geografico,
salvo le poche eccezioni dovute a scambi commerciali e culturali, o di
lavoro. Solo dallo Stato nazionale, una
volta consolidato, si può passare progressivamente, attraverso alleanze,
confederazioni e sistemi federali, alle unità continentali e poi
planetarie. Il tutto con ordine, concependo il pianeta come
un condominio di popoli ben organizzato e non un’orgia selvaggia e
disordinata, un baraccone di rapporti
promiscui, un rave party indetto in
luoghi oscuri.
Per
le suddette forze, invece, una simile concezione della progressiva
unificazione dei popoli non è mai stata né compresa, né accettata, e, per
quanto riguarda l’Italia (per ragioni
storiche antiche), dal 1961 circa (primo centenario della proclamazione del
Regno d’Italia), ma soprattutto dopo la contestazione
globale, si diede il via al piano
programmatico per la distruzione e dissoluzione del popolo italiano. Come?
Si cominciò, partendo dall’incremento
demografico. L’Italia era allora
fortemente incrementata. Dopo il 1945 aveva, malgrado le emigrazioni e la guerra mondiale, circa 45 milioni di cittadini. Verso il 1960 era passata ad almeno 54 o 55 milioni. Poi cominciava una
fase di crescita minore. Per farsi
vedere antifascisti ad ogni costo, le forze democratiche allora imperanti (DC,
PCI, PSI e sottoprodotti, PRI, Partito radicale, PLI), col coro accompagnatorio della gazzetteria
nazionale, tuonavano contro le donne italiane troppo fertili, il che appariva
troppo arretrato. “Occorre fare come i civilissimi Paesi nordici”, un quarto di figlio a testa, ecc. ecc... Consumare più carne, più sapone (eravamo
anche sporchi, ma per altre ragioni, visti i tempi). L’educazione sessuale, per quel poco che si faceva nella società e sui giornali
specie femminili, era orientata al solo controllo delle nascite. Ora che le Italiane fanno un figlio ogni
miliardo di donne, dicono che così non
va bene, ma ne riparliamo. Essere antifascisti voleva pure dire opporsi
al concetto del’incremento demografico come “carne da cannone”, sostenuto
durante il fascismo, attraverso varie
provvidenze, tra cui l’istituzione
dell’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia che aveva asili nido e provvedeva anche ad aiuti alle famiglie numerose con alimenti, medicinali e visite mediche. Cito due parti di discorso di
Mussolini nel 1934 a Lecce (7 settembre) e nel 1939 (31 marzo) a Reggio Calabria, che ci dànno il senso
dell’atteggiamento mussoliniano verso la questione demografica:
“Desidero rivolgere un elogio alla gente
di Puglia, perché è feconda e crede coi fatti nell’unico primato che veramente
conta nella vicenda della lotta dei popoli: il primato dei figli, il primato della vita, perché solo la gioventù
guarda con occhi impassibili e freddi tutte le difficoltà che l’avvenire pone
innanzi alla marcia di un popolo che vuole ascendere agli orizzonti del
benessere e della grandezza [42]…”.
“ Venendo in questa terra si ha la certezza assoluta, attraverso le
miriadi e miriadi dei vostri figli, la
certezza assoluta della continuità nei secoli della nostra Patria. I
popoli forti sono popoli fecondi. Sono viceversa deboli i popoli sterili. Quando questi popoli [si riferiva soprattutto a Inglesi e Francesi] saranno ridotti a un mucchio miserabile di
vecchiardi, essi piegheranno senza fiato sotto la sferza di un giovane
padrone…”[43].
Io
stesso fui uno di quei bambini curati dall’ONMI, e devo ad essa un
obbligo di gratitudine. A scanso di
equivoci, voglio sottolineare qui che io
non apprezzo né le politiche di incremento, né ancor meno quello di decremento
della natalità, dovute in realtà più che
alla propaganda di regime a situazioni specifiche particolari. Ogni popolazione che abbia raggiunto una
certa capacità di sopravvivenza, sia tra gli uomini che nelle specie animali, tende a ridurre quasi per istinto la propria
natalità. Più deboli sono gli individui
della specie, più per legge di sopravvivenza la specie è numerosa. Più forti sono gli individui, maggiore è la loro vitalità modale, minore è
l’esigenza di aumentare il tasso di
generazione. Negli insetti, ad esempio,
dove la vita del singolo dura pochi mesi tra primavera ed estate, il numero è elevatissimo. Tra gli elefanti o altri animali molto longevi individualmente, la natalità è
piuttosto bassa: ovviamente prescindendo dall’opera di
distruzione fatta dall’uomo. Tra i popoli
poveri e con scarse capacità di
aumentare la durata modale della vita,
la natalità è altissima, con alto tasso di mortalità. Se non generassero molti figli, probabilmente
il gruppo umano più debole sparirebbe. Ciò posto come legge generale delle specie e prescindendo da altre
condizioni di natura sociale ed economica, il popolo italiano ha raggiunto un picco abbastanza alto di longevità,
da ciò se ne procura un più basso tasso
di natalità. Poiché comunque non esiste
l’immortalità fisica, si riavrà un
riequilibrio tra generazioni giovani e generazioni anziane tra non molto,
mentre fino agli anni ’60 sembrava che i giovani fossero troppi, e ciò veniva
considerato stoltamente un problema. Se
la vita dovesse dipendere dagli studiosi di statistica o da certi vacui
demografi, a quest’ora la specie umana sarebbe scomparsa da un pezzo. Un governo serio, e non quelle cialtronerie
oggi vigenti, dovrebbe occuparsi di creare le migliori condizioni sociali ed
economiche, in modo proporzionato, senza abissi tra ricchi e poveri. Uno Stato o un popolo sono tanto più ricchi
quanto più e meglio la ricchezza vi è proporzionalmente distribuita. Né assoluti egualitarismi, né differenze spropositate: ecco la chiave, insieme ad una diffusa
educazione sessuale (dal punto di vista morale, non solo biologico), di una saggia proporzionalità tra singole generazioni, senza prevalenze
eccessive delle più giovani o delle più anziane. Vanno considerati anche coloro che, per
scelta o per difetto fisico, o per non aver incontrato la giusta persona
(generare si fa in due, e lo si fa sperabilmente con comune senso di responsabilità), non procurano una discendenza. Né queste cose si possono fare su ordinazione: 2 figli e mezzo (!) per ciascuna famiglia, visti che i figli non si fanno a frazioni
matematiche.
Negli anni ’70, dopo la crisi petrolifera, l’ONMI
fu proclamato Ente Inutile (quando di inutile e nocivo in Italia vi sono - in
primo luogo - soprattutto una sordida classe politica, malgoverni e sgoverni
totalmente deprecabili), e quindi chiuso
con la predazione di tutti i suoi beni. Ovviamente,
questo era solo l’inizio: sempre negli stessi anni si alimentarono il
localismo, il municipalismo, il desiderio (grazie anche a finanziamenti in
denaro) di considerarsi minoranza etnico-linguistica (gli Italiani erano, e
sono, sempre gli altri…). Si approfittò del terremoto friulano del 1976 per proclamare il friulano una lingua e una razza speciale (non si
sapeva bene se celtica, longobarda o slava, o che diavolo fosse, bastava che non
si considerasse italiana), e così
per altre cittadinanze. Dividere e
contrapporre gli Italiani uno all’altro divenne uno sport per tutti gli anni
’80. Ma questo evidentemente non bastava
agli insaziabili distruttori della coscienza nazionale, della nostra comune
cultura e della nostra stessa storia. Si leggano le “Georgiche” di Virgilio, e già vi troviamo la
descrizione di un’Italia ricca di genti e di glorie locali, ma anche della
comune identificazione nella civiltà
romana o romano-magnogreca, qualcosa che
le invasioni barbariche, ma ancor più la devastante opera antinazionale della Chiesa Cattolica [44] e le invasioni
straniere del XVI secolo, lacerarono violentemente almeno fino al XIX secolo
In un’Italia politicamente,
istituzionalmente, educativamente indebolita, per non dire fradicia, il piano di immigrazione massiccia da ogni
parte del monto costituiva veramente il “cacio
sui maccheroni” per chi ne voleva la totale distruzione in una massa planetaria
indistinta. La Chiesa Cattolica,
soprattutto dal primo papa straniero (non dimentichiamo che i primi ad arrivare, ancor prima del
1989, furono i Polacchi, evidentemente chiamati da Woityla), il marxismo e questa nuova agglomerazione
ideologica, il clerico-marxismo, miravano
alla sparizione dell’entità nazionale soprattutto italiana. La plutocrazia capitalistica, soprattutto
finanziaria, già descritta da Engels (“Tutte le funzioni sociali del capitalista
sono oggi compiute da impiegati
salariati [i managers]. Il
capitalista non ha più nessuna attività sociale che non sia l’intascar rendite,
il tagliar cedole e il giocare in borsa, dove i capitali si spogliano a vicenda
dei loro capitali…” [45]), trova le
sue ricchezze non dal proprio lavoro (ovviamente, per quel che si è detto, ma
neppure dal lavoro altrui, almeno non
direttamente, bensì dal suo traffico cartaceo di azioni e titoli vari, con cui
gioca). Egli applica il principio
vespasianeo, per cui “pecunia non olet”,
sia che provenga da un orinatoio, sia da
un mattatoio, o da una fogna. Come
scrisse Seneca all’amico Lucilio, “Su
taluni il denaro cade come in una fogna”. Arricchire senza limite, questo è il suo motto, per cui gli è
giocoforza, pur mascherandosi di
umanitarismo o di ineluttabilità fatalistica o astrologica, approfittare di questo moto di popoli,
avviato sia grazie ai suoi sgherri propagandisti,
sia da guerre, direttamente o indirettamente provocate. Paga pure, sotto forma di pubblicità ed altre
forme di finanziamento, i mezzi d’informazione perché lo aiutino a mascherare i
veri fini e le vere cause del
neo-nomadismo planetario. Materialmente,
ha pure bisogno di organizzazioni schiaviste e criminali per il trasporto di tutti costoro.
Chi è nel dubbio su queste mie
affermazioni, basta che si chieda la natura assurda di certe norme: se una
certa azione (trasmigrazione di popolazioni intere) è permessa, o non viene punita, come si
può punire chi la facilita? E’ vero che questo strano fenomeno giudiziario è avvenuto per la
prostituzione (riconosciuta legittima, dalla celebre “legge Merlin”, ma punita per
il suo favoreggiamento); così per il drogarsi (mentre è punito chi spaccia,
ovvero vende, la droga). Ma avete mai
sentito dire che comprare salumi sia permesso, mentre il venderlo sia vietato? La compravendita è un rapporto ineliminabile: nessuno compra se nessuno vende, e
viceversa. Ma, obiettano i soliti
legulei: ad essere legalmente perseguito
è lo sfruttamento (arricchirsi sull’attività altrui) o il favoreggiamento
(affittare una stanza a chi si prostituisce) della prostituzione. Chissà
perché invece non si punisce lo sfruttamento del lavoro nei campi,
nell’industria, negli uffici, nelle Scuole (specie private), nel commercio? Mah! Il fatto è che lo sfruttamento di attività
di per sé lecite diviene lucroso proprio perché viene vietato. Comportando rischi legali, aumenta ovviamente
il costo. Un esempio storico è la famosa epoca proibizionista negli USA
(anni ’20), che fece diventare lucroso ciò che di per sé poteva essere un semplice onesto profitto. Con ciò non voglio dire che sia bene
sfruttare la prostituzione o le migrazioni: dico che sarebbe logico vietare l’uno e l’altro: il prostituirsi e lo sfruttamento della
prostituzione; l’immigrazione illegale
(che è, come dire, una violazione del domicilio statale o nazionale) e chi la favorisce. Se è vietata la vendita, deve essere vietato
l’acquisto. Ma ben si sa che il Diritto,
anche quello internazionale, è tutt’altro che logico, bensì fondato
sull’arbitrio formalistico: io, Stato sovrano, re, Sgoverno o quel che
sia, VIETO CIO’ CHE MI FA COMODO VIETARE. Come dicevano gli antichi giuristi in un
latino maccheronico: “Quod principi placuit, legis habet vigorem” (ciò che piace al
sovrano, ha vigore di legge) o, più classicamente, “Quod
princeps vult, lex esto” (ciò che il principe vuole, sia legge). Ma la volontà del sovrano (individuo o
collegio che sia), per essere realmente LEGGE, deve essere logica e reale: partire dalla realtà conosciuta,
per giungere ad una realtà migliore.
Come per entrare in casa altrui, ho
necessità del permesso esplicito o implicito del possessore o proprietario di
quella casa, così per entrare in un altro Stato, ben delineato nei suoi confini internazionalmente riconosciuti, ho bisogno del permesso del detentore della
sovranità di quello Stato, e non entrarvi e trattenermi a mio piacimento. Per questo sono stati inventati i passaporti,
non per puro divertimento dei burocrati. Ogni violazione del genere, una volta avvenuta, deve essere sanzionata
in modo proporzionale ai modi della violazione stessa. Se con la forza, con una forza uguale e
contraria; se con l’inganno, con una
detenzione o espulsione, ecc. ecc... Se
con l’aiuto di qualche trafficante, punendo anche il trafficante.
La nostra emigrazione, salvo le eccezioni
politiche limitate nel numero, specialmente nell’Ottocento o durante il
fascismo, non avveniva senza l’autorizzazione dello Stato di arrivo, sia
europeo, sia americano. E i controlli,
sanitari e burocratici, erano piuttosto severi. Perciò, essa non giustifica affatto il neo-nomadismo oggi imperante .
Vediamo, ordunque, i pretesti adottati
dal regime, coadiuvato dal coro dei capitalisti, dei sindacalisti, degli alti
prelati e dei gazzettieri o pubblici informatori ben stipendiati nelle varie
forme:
§
A) Il popolo italiano è ormai vecchio: la media della sua popolazione è al di sopra
dei 1.000 anni d’età, e tende all’immortalità fisica (cfr. anche problema delle pensioni, di cui diremo
dopo). Necessita quindi l’arrivo di
popolazioni al di sotto dei 20 anni anche in stato embrionale e fetale,
possibilmente provenienti dalle più svariate parti del mondo.
Naturalmente trombettieri e tamburini non
si chiedono perché la popolazione italiana
sia ora così vecchia (alcuni sono nati ai tempi di Augusto e di Cristo). Avendo fatto di tutto negli anni ’60 e ’70 per diminuire la natalità (controllo delle nascite, aborti largamente
propagandati anche con la pompa della bicicletta, propaganda
per l’uso degli anticoncezionali, dipingerci come popolo primitivo ed
arretrato perché fecondo; costruzione di
appartamenti minuscoli, ove se entra il naso non entra una gamba, se metti il
letto non entra il comodino, e più recentemente il diritto all’organizzazione
dei gay
pride, ecc.), era evidente che le esigenze moderne di una vita abbastanza
agiata, impedivano alle famiglie di avere più di due figli o anche uno
solo. Molti preferivano vita da single, perché così non avevano responsabilità, altri che dovevano subirla pur volendo sposarsi,
perché non basta volerlo: nel matrimonio
occorre che due volontà si incontrino, non ne basta una, il che non è facile
come dimostrano divorzi e convivenze non formalizzate.
Riguardo poi la durata della vita, i
soliti demografi, facendo calcoli astratti [47] sostengono che, grazie ad alimentazione e ad
altre comodità, la vita non solo si è allungata, ma si allungherà approssimandosi
all’eterno, da cui si ruba a man bassa sulle pensioni. Nessuno tiene conto che le generazioni nate
prima delle due guerre, o fra le due guerre, ne hanno passate di tutti i colori,
miseria, fame, epidemie, falcidiate e selezionate in modo eccezionale. I
sopravvissuti sono i più forti, “Quelle giovani gagliarde nuove generazioni”
di cui concionava da un balcone all’altro Benito Mussolini. Nessuno di questi demografi si chiede quanti
avrebbero potuto essere gli Italiani senza le guerre mondiali, senza la
spagnola, senza l’asiatica, senza le emigrazioni postbelliche, ecc. ecc.. In
trent’anni (1915 - 1945, solo per le guerre principali, tralascio Etiopia e Spagna) perdemmo oltre un
milione di giovani. Credono, questi
poveri tontoloni, di aver inventato, a
scopo antiprevidenziale, l’elisir della vita fisicamente eterna.
Chi come me legge le lapidi dei defunti, quando vado in
visita al Cimitero, vede quanta gente, ben al di sotto della fantastica età
media, o per incidenti, o per malattia, se ne è andata nell’aldilà. Se
penso a miei coetanei compagni di scuola, molti di questi sono già
trasmigrati in altra dimensione. In
sostanza, con biechi trucchi contabili si vuol far credere che in Italia ormai vi siano tanti Titone (ovvero quel personaggio mitico, fratello di
Priamo re di Troia, che aveva ottenuto l’immortalità, scordandosi di chiedere
anche l’eterna giovinezza, sicché
invecchiava senza morire mai, e
allora per conforto fu trasformato in
cicala o dissolto nell’aria), ma con la progressiva scomparsa dei nati
ante-seconda guerra mondiale (gente che ora va dai novant’anni agli ottanta),
tutta questa pretesa immortalità generalizzata risulterà una delle tante e troppe bolle di sapone dei
propagandisti di regime.
Non bastando più profetare l’allungamento
della vita media degli Italiani, diventata come un infinito elastico, gli
attuali demografi al servizio dell’INPS (ex Istituto Nazionale Fascista della
Previdenza Sociale) e del regime parlano
di una cosa veramente poetica: non è
più la vita media ad allungarsi, sibbene l’aspettativa di vita degli Italiani. Questo è poco, ma sicuro, tutti noi ci aspettiamo che la nostra vita si
allunghi, non come quella di Titone, ma come quella degli dèi omerici all’infinito con
infinita giovinezza. Io ad esempio mi aspetto di vivere un milione d’anni sempre
bello, giovane, forte, ecc. Però,
però: signori demografi, non è affatto detto, e tanto meno vero, che queste aspettative verranno facilmente soddisfatte nei prossimi decenni. E chi muore ben al di sotto dell’età media
reale, per incidente o malattia o aggressione, che dovrebbe dire per sé e per gli eventuali mancati eredi? E nondimeno, quando fa comodo, malgrado ci
attribuiscano questi poteri divini, prevedono, con singolare contraddizione, che fra due decenni saremo
dimezzati o scomparsi, causa il decremento delle nascite. Dunque non più Titoni, ma fantasmi. Otterremo, dunque, non l’immortalità fisica,
bensì quella spirituale. Vagheremo per
lande e case deserte, con un lenzuolo bianco, facendo “uuuuuuhhhhhh” o battendo sui tavoli rotondi,
o trascinando catene arrugginite.
Non ricordo quale studioso (la memoria dei
nomi non è il mio forte, temo che tra non molto dovrò pure guardare i documenti
per sapere il mio) avesse saggiamente spiegato che la statistica vale spesso per il passato, talvolta per il
presente, ma quasi mai per il futuro, che non è nelle nostre mani, ma del Caso
(per gli atei), o di Dio (per teisti e deisti). Né si possono estrapolare dati
futuri (ancorché probabili, ovvero calcolabili, oppure possibili, ovvero solo
immaginabili) dai dati passati o da quelli presenti. In parole assai semplici, posso ben sapere
quanti polli vennero arrostiti in Italia nel 2014, quanti nel primo semestre del 2015, ma per
nulla il numero di polli che saranno arrostiti nel 2016. Benito Mussolini, sempre ottimista tanto da
prevedere la vittoria finale ancora nel dicembre 1944 al Teatro Lirico di
Milano, così concionava nel 1935/36: “La
ruota del destino, sotto l’impulso prorompente della nostra calma
determinazione, va verso la meta”, a cui - in altre occasioni - dovevamo
giungere “nudi”. Questa mentalità di poter non solo intuire,
ma determinare il futuro in un modo o
nell’altro, o guardando nelle interiora di poveri animali, o guardando le
stelle, le aquile o gli avvoltoi, o con manipolazione di dati statistici (il principio futurologico, anche se dipinto
di scienza, è sempre identico), persiste
nei demografi, negli statistici, nei partitocrati e loro servidorame
gazzettieresco, ripetendo l’uguale concetto mussoliniano anche se con
espressioni più rozze e meno eleganti.
Molti individui, tra cui un bel numero di
scienziatucoli, soffrono di mentalità neopitagorica, ovvero ritengono che
l’intima realtà sia Numero. Ora, se per
Numero intendiamo, come Pitagora, che tutte le cose siano fra loro in un
rapporto matematico, la cosa potrebbe andare, ma se commettiamo il rozzo errore
di identificare questo Numero (la Quantità assoluta ed indifferenziata di
Pitagora) con i relativi simboletti
ovvero segni e cifre, scambiandoli a
loro volta per realtà assoluta e unica, lì commettiamo una delle più ingenue
confusioni della mente umana. Poniamo un
semplicissimo esempio: 1 + 1 = 2. Che cosa è più evidente di questo? Nulla si direbbe, sennonché occorre
distinguere: la cifra 1 che cosa
rappresenta? La stessa cosa del secondo uno e del successivo due? Se sì, va
bene. Ma se il primo segno rappresenta
un oggetto e il secondo segno un altro, la loro somma sarebbe errata. Che cosa dà un uomo + un gatto? Nulla ovviamente. Dovremmo considerarli per il
loro elemento comune: sono due mammiferi
carnivori. E allora dovremmo dire: 1
mammifero + 1 mammifero = 2 mammiferi. L’abitudine di confondere astrazione matematica (aritmetica, geometrica
e algebrica) con la realtà fisica, ci porta ad assurdità considerevoli.
Oggi poi, col calcolo mediante lettere
e, peggio che mai, col computer, si
rende il procedimento scientifico non dissimile da quello degli aristotelici
che procedevano per puri
sillogismi, con conclusioni assolutamente
irrealistiche.
Già nel XVII secolo il nostro Gian Battista
Vico aveva segnalato l’errore di Cartesio di confondere la matematica con la
realtà fisica, ma la sua lezione è stata
poco o per nulla compresa. Solo
rifacendo il fenomeno si poteva conoscerlo, il che Vico esprimeva nella formula
“Verum ipsum factum” ossia “Il Vero è lo stesso Fatto”, il che sarà
ripreso anche nella pedagogia, quando sosterrà che le cose si imparano
facendole o rifacendole. Dio conosce
tutte le cose, in quanto le fa, ne è la Causa Prima. L’uomo conosce limitatamente le cose che
riesce a produrre. La matematica è
dunque un ottimo e razionale metodo di ordinare, inquadrare e paragonare i fenomeni, ma non li spiega, li simbolizza, ne rende più facile il calcolo, l’astrazione,
che, se fossero puramente verbali, sarebbero molto più complicati (torneremmo
alla sillogistica, che era una forma di matematica verbale). Ammesso questo, non se ne deve dedurre che,
fra i risultati dei calcoli e la realtà che si tenta di descrivere con quegli
stessi calcoli, vi sia identità assoluta [48]. Da qui, tornando alla questione demografica, si capisce quanto
insignificanti siano certe previsioni del futuro, nel mentre ci manca la
conoscenza di tutte le future condizioni che agiranno insieme alle già date .
§
B) Il
popolo italiano non vuole più lavorare, è pigro in modo estremo.
Oggi, dopo otto anni di crisi, il discorso non è più di moda, ma per circa
vent’anni, oltre al fatto che il popolo
italiano era ormai sterile e vecchio, si sosteneva, per giustificare le orde di
invasione dai più svariati continenti, che i cittadini italiani, vivendo nell’assoluto benessere, non avevano
più voglia di lavorare, confondendo
intenzionalmente due dati di partenza: che nei lavori dove prevale la fatica fisica e psichica, o ambedue, la remunerazione è estremamente bassa. Recentemente, ho scoperto che una commessa di
supermercato che lavora in piedi varie ore al giorno, sottoposta a notevole stress fisico portando pesi o
trascinando quegli strani carretti carichi di merci, e stando alla cassa, spesso subisce stress
nervosi non indifferenti, talvolta deve subire rapine, ha la responsabilità del denaro ivi
presente,ecc., viene pagata 600 €
mensili (almeno quella che ho conosciuto io che spero sia un introito netto…) quale ricco
stipendio sindacale. Ora 600 €, per chi
vive solo, sono un’inezia, se si pensa che un affitto di appartamento in un
piccolo paese del Friuli, non a Roma per intenderci, arriva a 700 € mensili. Se si vive in famiglia e si è molto giovani,
potrebbero appena essere
accettabili. Per gente che lavora in
fonderia, e che rischia ogni giorno la salute e spesso la vita, i 1200 – 1400 € netti mensili sono un vero
insulto. E così si potrebbe elencare
avanti. Dunque, nessuno può sostenere che l’italiano non vuol
lavorare, ma semmai che non vuol lavorare con uno stipendio da caritas caritatis. E nondimeno l’Italiano lavora anche in
condizioni estreme. Qualche anno fa,
l’illustre prof. Prodi che ha guidato
due sgoverni italiani ed è pure stato presidente della Commissione Europoide o Cacoropea, sosteneva, appunto, che nelle
fonderie c’erano solo africani. Peccato
però, che quando vi sono stati incidenti in tali aziende, i morti erano solo italiani, chissà perché, chissà perché, illustre prof.
Prodi! Gli strani casi del Destino,
segnato dalle stelle o dalle interiora di
poveri animali uccisi?
Nessuno poi si immaginerebbe che fare il vicedirettore del “Corriere della Sera” sia considerato un lavoro non degno dagli Italiani, così come fare il giornalista free-lance alla RAI, specie il GR 3 e trasmissioni associate, non trova giovani italiani disposti all’eroico sacrificio; così anche il deputato, il ministro, il parlamentare europeo. Infatti, abbiamo visto pure che vicedirettori, deputati nazionali, ministri e parlamentari europoidi o cacoropei, erano stranamente extra-comunitari, almeno in origine (sposandosi con qualche vecchietto ancora in calore si riesce ad ottenere una facile e appassionata cittadinanza). La pigrizia degli Italiani è veramente ingiustificabile .
L’altro lato è questo: degli Italiani nessuno vuole prostituirsi, chiedere
l’elemosina davanti a supermercati, cimiteri, lavare parabrezza, fare i delinquenti
ed altre essenziali attività economiche,
che infatti sono spesso svolte decorosamente da persone extracomunitarie (non è
forse vero che la Cacoropa ci chiede
caldamente per il PIL di contare anche le imprese criminali?). Subito ci obiettano che anche gli Italiani
delinquono e che i delinquenti esterni sono percentualmente pochi. Ma se gli Italiani non vogliono più fare i
delinquenti (o meglio, manovalanza delinquenziale) sentiamo forse bisogno di assumerla dall’estero? E anche ammesso che i
delinquenti extracomunitari siano pochi, ammettiamo pure che ne arrivi 1 su
1000, ebbene, su 4 – 5 milioni di
extracomunitari si avrebbero 4.000 o
5.000 delinquenti, i quali se riuniti in un luogo solo, o in una organizzazione, costituiscono un piccolo
esercito, non certo innocuo.
Si dimostra così, senza ombra di dubbio, che è una storiella quella degli Italiani che non vogliono lavorare e che i posti di
lavoro occupati da extracomunitari siano quelli rifiutati dagli Italiani, ecc... è solo una favola per gonzi, roba che va bene dai pulpiti delle parrocchie e
dei giornali finanziati dal capitalismo internazionale.
§
C) Gli stranieri ci pagheranno le pensioni. Ovvero: il rapporto tra debito pubblico e pensioni.
Già dalla fine degli anni ’80, perfino da sindacalisti
(ovviamente della CGIL, CISL, UIL) si
sentiva dire che l’immigrazione che cominciava ad affluire sulle nostre coste
era indispensabile, inevitabile, epocale (questo brutto aggettivo di probabile
derivazione anglosassone dovrebbe essere
sostituito da e-pitale, ossia di orina sparsa fuori dal pitale),
ineluttabile, irreversibile, e così avanti, perché senza di questa l’INPS ed
altre entità poi abrogate non avrebbero avuto i soldini per pagarci le
pensioni. Questa balla colossale viene
tuttora adoperata per contrapporre i giovani ai vecchi: si dice infatti che gli anziani hanno la colpa del fatto che per
i giovani non ci sono i privilegi avuti dai vecchi, in materia di lavoro e di
pensione, senza tener conto che i “vecchi” sono stato costretti a lavorare fino
alla soglia della morte o quasi, perché gli enti previdenziali potessero pagare col loro
denaro gli interessi sul debito pubblico.
Ma procediamo con ordine storico: il termine pensione è antico ed era usato, sotto le monarchie assolute, quale
donazione vitalizia per premiare servizi di fedeltà alla Corona o per motivi
artistici. Noto è l’esempio di Carlo
Goldoni, premiato dal re di Francia con una pensione che poi i rivoluzionari
francesi gli tolsero riducendolo in miseria e, nondimeno, Goldoni preferì
restare in Francia che non tornare nella terra natale, la Repubblica di Venezia,
ormai in un regime di decadenza dorata e festaiola.
Con
la stessa parola vennero pure chiamate le misure previdenziali previste dalle
società di mutuo soccorso appunto per tutelare i lavoratori anziani o malati
che non avrebbero più potuto lavorare. Un errore di partenza l’uso di questa parola, perché fece credere a vari
scagnozzi che le pensioni siano un regalo
fatto ai lavoratori, come pure le liquidazioni o TFR, come si vogliano
chiamare, dimenticando una differenza
abissale tra la pensione di Carlo Goldoni (donazione vitalizia del
sovrano) e le pensioni dei lavoratori. Per capirlo citiamo nulla po’ po’ di meno che il padre del liberismo, il teorico della “mano invisibile” Adam Smith, al quale tutto il capitalismo
antico e moderno dedica altari e templi. Nella “Ricchezza delle Nazioni”
scriveva:
“Un uomo parsimonioso, con quello che risparmia ogni anno, non solo assicura
il mantenimento a un numero maggiore di lavoratori produttivi, per quell’anno o
per l’anno seguente, ma, al pari del fondatore di una pubblica casa di lavoro,
egli istituisce una specie di fondo perpetuo per il mantenimento di un ugual
numero di lavoratori per tutto il tempo a venire. In verità, l’assegnazione e la destinazione perpetue di questo fondo
non sono sempre tutelate da una legge positiva… A ogni modo, esse sono sempre tutelate da un principio potentissimo, cioè dal chiaro ed evidente
interesse di ogni individuo a cui appartenga una qualche quota di quel
fondo. Nessuna parte di quel fondo può
mai essere impiegata se non per mantenere lavoratori produttivi, senza una
evidente perdita per colui che la distogliesse in tal modo dalla sua giusta
destinazione…”[49].
Si
tratta null’altro del concetto di rendita
perpetua definito agli artt. 1861 e
1865 del Codice Civile italiano. Di circa mezzo secolo più giovane, William Thompson applicò lo
stesso principio, non più al sistema capitalistico, bensì al mutuo soccorso tra
lavoratori e al sistema cooperativo, di cui può considerarsi storicamente
l’ideatore (insieme all’altro grande
principio per cui solo il lavoro crea ricchezza, non l’oro, e non lo sfruttamento
d’altrui). Vediamo di chiarire questo
concetto con un esempio semplice e di facile calcolabilità: poniamo che io abbia un capitale di 1.300 €. Posso ricavarne una rendita perpetua? Sì, e in modo abbastanza semplice: lo deposito in banca che mi dà un 1% come interesse annuo regolare e perpetuo. Ciò significa che io, ogni anno, avrò una rendita di 13 € con la quale ogni
mese otterrò 1 euro, calcolata pure la tredicesima mensilità. L’obiezione è immediata: ma con 1 € al mese non posso certo
vivere. Nessuno può metterlo in dubbio,
ma qui non si parla di rendite perpetue con cui vivere agiatamente, ma di una
semplicissima e minima rendita perpetua di un capitale molto piccolo, ma
facilmente calcolabile a vista. Nessuno deve poter privare il lavoratore di
quanto versato, come viceversa si vuole e si fa da oltre 20 anni, mettendo per
giunta le categorie l’una contro l’altra, anche con l’avallo spregevole dei
grandi sindacati complici del regime. Un
lavoratore regolare è costretto dalla
legge a versare ogni mese all’INPS, o altro Ente previdenziale, una certa somma che si accumula
costantemente e che ogni anno dà un’altra somma determinata dagli interessi
correlativi, che a loro volta si accumulano sul capitale crescente. Dopo 20 anni (poniamo pure trattarsi del capitale di un lavoratore pigro e sfaticato), egli possiede un capitale fisso ed
inalienabile, pari alle somme mensilmente versate, più interessi
correlativi. Dopo vent’anni, chiede di
ottenere una rendita sulla base degli interessi maturati su quel capitale, che
certo non è scarso come vorrebbero sostenere i furbacchioni del regime [50],
tenendo conto di tutte le condizioni avvenute in quel periodo storico.
Né si venga a sostenere che il mio discorso non regge, in quanto il deposito globale dei versamenti, chiamato INPS e già a suo tempo Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale, sorto per opera di Benito Mussolini col furbesco pretesto di ordinare e consolidare il sistema previdenziale, allora pluralisticamente organizzato, di fatto anche per utilizzarne i fondi nelle guerre e guerrette degli anni ’30 – ’40, è un calderone dove non si possono distinguere i capitali dei singoli. Ciò è nettamente falso: non si vuole, non che non si possa. Anche il Ministero delle Entrate è un calderone, anche le Banche sono calderoni in cui vengono versati i capitali di Tizio o di Caio, ma pure si può tranquillamente calcolare quanto ha versato uno e quanto un altro. Quando un lavoratore vuole andare in pensione (d’anzianità di servizio), il patronato o sindacato o lo stesso INPS sa dire quanto è stato versato complessivamente e se uno ha diritto a 1.000 euro mensili netti oppure 5.000 o 300, poco importa. Non si discute sulla quantità della rendita, bensì sulla natura e sul diritto alla rendita stessa. Che tale rendita poi basti o non basti alla vita, o come debba essere aggiornata in caso di inflazione, è una questione successiva, che esula dal discorso di base.
Dunque è una bieca mistificazione sostenere
che i lavoratori d’oggi paghino le pensioni attuali: essi pagano, e devono pagare, per sé e non per
altri. Il vero problema è che questi
furbacchioni e ladroni del regime usano
il capitale complessivo dell’INPS e/o Enti analoghi per tutt’altri scopi (già Adam Smith lo aveva capito), dei quali si
sono impadroniti in forma legale, ma illegittimamente con abuso di potere
sostanziale, e non per dare la dovuta rendita a ciascuno. Con quali denari sono stati fabbricati gli
edifici degli Enti previdenziali? Con
i denari dei lavoratori. Con quali denari si pagano gli impiegati
degli Enti previdenziali? Con i denari dei lavoratori. Con quali denari si pagano quei raffinati managers che dirigono e mal amministrano gli Enti previdenziali? Con i denari
dei lavoratori. Chi paga almeno
una sostanziosa parte del debito pubblico? Il denaro del lavoratori (non a
caso tra le misure “strutturali” invocate dalla Commissione UE, dalle Banche
private nazionali e europee, dal FMI, dalla Banca Mondiale e simili
organizzazioni di complici della grande speculazione internazionale, si
impongono ai singoli sgoverni di
derubare le pensioni al fine esclusivo di soddisfare la famelica brama della grande
speculazione). E’ ovvio che in una simile situazione in cui i
capitali versati dai lavoratori servono a riempire le fauci insaziabili di tante
persone, ben difficilmente il sistema
può reggere. Ma per dirci “pane al pane”, ecc., una cosa è la rapina sistematica esercitata
sul sistema previdenziale, altra è l’impossibilità o difficoltà di versare
rendite perpetue a chi ha lavorato per decenni.
Una cosa va detta sulle giovani, “poco
gagliarde” generazioni dei nostri tempi: non sanno difendersi, non sanno reagire come, anche se non ottimamente,
facemmo noi nati a cavallo della guerra
o negli anni immediatamente successivi, quella generazione che, grosso modo, va dal 1935 al 1955. Questo anche per colpa nostra, ovvero dei
loro genitori, che ha cercato di rendere fin dalla nascita la loro vita abbastanza comoda e facile, in una misura
inimmaginabile prima ed anche nel
prossimo futuro (abbastanza nero, ahinoi). Nulla di più facile che mettere le categorie o le generazioni l’una
contro l’altra. Già Manzoni ci paragonava, come Italiani, ai capponi di Renzo
(si badi, non “galli”, ma proprio “capponi”…! Oggi cosa saremmo per Manzoni, i “capponi” di Renzi?),
sempre pronti a beccarci tra noi, come individui o come gruppi, ma mai a colpire
con durezza spietata, come si dovrebbe, chi sgovernandoci ci ha mandati alla
rovina (dovremmo subire un’altra devastante situazione per liberarci da certa
marmaglia, responsabile dei disastri?). Eppure, io mi auguro che i giovani non si facciano a lungo menare per il
naso da questi sordidi speculatori morali e materiali della nostra società occidentale.
Quella che viene chiamata erroneamente pensione
e che, viceversa, dovrebbe essere chiamata e considerata rendita vitalizia da capitale da lavoro (anche
se lunga da scrivere), è frutto del
lavoro di ciascuno e come fu definita a
suo tempo dalla Cassazione, quando
questa non si faceva trascinare dalla propaganda di regime, “stipendio differito”, ovvero rinviato alla conclusione dell’attività
di lavoro, non appena il capitale complessivo versato potesse rendere una somma
annua o mensile adeguata ad una vita dignitosa, ovvero con quel tanto di
superfluo da consentire una certa
comodità. Questa è la sola vera
condizione finanziaria e non il fatto che uno stia agonizzando prima di poter
smettere di lavorare. Non viviamo per lavorare, ma lavoriamo per
vivere, e per vivere in modo umano, non da schiavi e non come animali da soma! Lo sappiano una buona volta tutti gli
speculatori e sfruttatori del mondo! Ma
se non siamo noi stessi a rendercene conto, come vogliamo che se ne rendano
conto speculatori e ladroni?
Ed ora sul debito pubblico: che cos’è e come è nato il debito pubblico? Bisogna risalire almeno al
Rinascimento, quando signorotti, reucci, sovranelli e sovranoni di varia
stazza, non avendo ideato un sistema fiscale adeguato avevano bisogno, per le
loro necessità (guerre in primo luogo, amanti, concubine, maggiordomi, servetti, guardie del corpo, artisti più o meno bravi, ecc. ecc.) di farsi
prestare da banche private (celebri quelle fiorentine e lombarde) somme ingenti per pagare tutto ciò. Quando non potevano più
pagare gli interessi e il debito, si lavavano le mani e quelle banche
(celebri alcune fiorentine nel XV secolo)
andavano in fallimento, ovviamente trascinando in rovina anche i
risparmiatori. Una delle regole
fondamentali delle banche è notoriamente quella di portare via tutto al proprio
debitore, se non è potente, e di non versare nulla al proprio creditore, quando
i capitali versati sono per uno o altro motivo scomparsi. Null’altro che un patto leonino che
costituisce l’eterno rischio dei piccoli risparmiatori (quelli grossi si
salvano comunque, avendo il privilegio di
essere pagati per primi, e avendo anche mezzi materiali per farsi saldare
direttamente il conto).
Quando sorsero i grandi Stati nazionali, pur forniti di un adeguato, potente e spesso famelico sistema fiscale, onde avere fondi da utilizzare con scarsi controlli, i vari malgoverni emettevano dei fogli di carta con valore di titolo di prestito ad un certo interesse annuo. Siccome il mio non è un trattato di finanza statale, non mi interessa e non mi compete di entrare in tutte quelle distinzioni e sottodistinzioni formali dei tipi di titolo pubblico: mi interessa sottolineare, viceversa, lo scopo di questo prestito regolare che alla fine costituisce il debito che lo Stato assume con i propri cittadini in primo luogo e con quelli esteri in secondo: scopo che non è mai limpido, ma una fonte d’entrata da utilizzare in modo oscuro e non certo per le esigenze generali (salvo casi eccezionali di disastri naturali, le cui spese vengano coperte con questi sistemi). Vi sono piccoli risparmiatori che hanno pochi titoli, poco capitale e pochi interessi, e poi vi sono grandi speculatori (banchieri, industriali, ecc.), i quali utilizzano questi titoli in modo da guadagnarci il più possibile o, nel caso peggiore, perderci il meno possibile. Il debito pubblico non è che una cattiva copia del sistema creditizio privato, questo fondato su azioni e all’origine su attività produttive. Poiché il debito di per sé non è mai pagato, si pagano sempre e solo gli interessi sul debito. Nel corso della storia, il debito pubblico nutre se stesso, perché per pagare i vecchi interessi si emettono nuovi titoli, magari ad interesse maggiore (in assoluto, oppure in proporzione della situazione inflattiva). Ecco perché negli Stati mal governati o sgovernati, come in Italia, pur riducendo la spesa pubblica, pur con “avanzi primari” (quelli che si hanno prescindendo dagli interessi del debito pubblico), il debito pubblico continua tranquillamente a crescere, senza limiti e senza controllo.
Quando tale debito supera una certa
soglia internazionalmente prevista (come il 3% del debito pubblico rispetto al PIL, secondo
il vangelo di Maastricht), dove si guarda per pagare gli interessi? Ma è ovvio: i tagli su stipendi e condizioni
sociali, ma soprattutto in quel grande Pozzo di San Patrizio che è il sistema previdenziale. Essendo fonte continua, perenne, perpetua di
contributi (anche se non sono del governo, o dell’imprenditore, ma rapinati al
lavoratore), ecco che è buona occasione
di depredarlo sistematicamente, con la complicità sindacale (non
dimentichiamolo, perché altrimenti si rischierebbe ogni giorno una guerra
civile o un’insurrezione generale: i
sindacati, al massimo, indicono qualche scioperetto, una manifestazione a
Roma, poi chinano il capo e lasciano
fare). Una cosa va detta a titolo di chiarezza: il contributo previdenziale è risparmio
forzoso, imposto dalla legge per il futuro del lavoratore e non un’imposta che lo Stato infligge ai
cittadini per l’interesse comune. Dunque, non va considerato
un’entrata per lo Stato, come la rendita mensile o annua previdenziale non va
considerata un’uscita per lo Stato.
Solo il malgoverno, lo sgoverno e la truffa sistematici scambiano lucciole per lanterne, contributi per tributi (imposte, tasse). Sono gli stessi lavoratori, per primi, a doversene rendere conto, per non farsi imbrogliare da presunti loro rappresentanti o dagli Organi che inducono quei rappresentanti alla complicità ladresca.
Certo, il sistema previdenziale potrebbe anche coinvolgere aspetti di solidarietà: ad esempio, per il lavoratore che muore anzitempo o gravemente malato, o per il cittadino che necessita di assistenza a vita. Ma una cosa è la solidarietà verso chi non ha potuto crearsi un capitale sufficiente, specialmente se decisa dai lavoratori stessi, destinando allo scopo una certa percentuale dei capitali raccolti o da raccogliere, altra per l’ozioso o per il ladro o per il rapinatore di alto bordo del tutto estraneo ai lavoratori. Le società di mutuo soccorso, tuttora formalmente esistenti, ideate da William Thompson nel XVIII secolo in Gran Bretagna e poi diffuse in larga parte del mondo occidentale (tuttora previste nel Codice Civile), avevano funzione sia di previdenza del singolo, sia di solidarietà sociale, ma non certo quella dello sfruttamento del denaro altrui, come oggi si vede su larga scala, per scopi del tutti diversi.
Solo il malgoverno, lo sgoverno e la truffa sistematici scambiano lucciole per lanterne, contributi per tributi (imposte, tasse). Sono gli stessi lavoratori, per primi, a doversene rendere conto, per non farsi imbrogliare da presunti loro rappresentanti o dagli Organi che inducono quei rappresentanti alla complicità ladresca.
Certo, il sistema previdenziale potrebbe anche coinvolgere aspetti di solidarietà: ad esempio, per il lavoratore che muore anzitempo o gravemente malato, o per il cittadino che necessita di assistenza a vita. Ma una cosa è la solidarietà verso chi non ha potuto crearsi un capitale sufficiente, specialmente se decisa dai lavoratori stessi, destinando allo scopo una certa percentuale dei capitali raccolti o da raccogliere, altra per l’ozioso o per il ladro o per il rapinatore di alto bordo del tutto estraneo ai lavoratori. Le società di mutuo soccorso, tuttora formalmente esistenti, ideate da William Thompson nel XVIII secolo in Gran Bretagna e poi diffuse in larga parte del mondo occidentale (tuttora previste nel Codice Civile), avevano funzione sia di previdenza del singolo, sia di solidarietà sociale, ma non certo quella dello sfruttamento del denaro altrui, come oggi si vede su larga scala, per scopi del tutti diversi.
In sostanza, è falso voler far credere che
le cosiddette “pensioni” (d’anzianità o di vecchiaia, per 40 o 35 anni, o ancor meno, di contributi
versati) siano ottenute dai lavoratori attivi, bensì dal cumulo del risparmio
forzoso dei lavoratori ormai in quiescenza. Altrimenti, sarebbe come
sostenere che il risparmiatore che ritira i propri risparmi dalla banca per
farne qualunque cosa, sia “mantenuto”
dai risparmiatori che attualmente depositano il denaro nella stessa banca. Inoltre, se così non fosse, la prima
generazione in assoluto che storicamente ha usufruito di una pensione, avrebbe
potuto far a meno di versare contributi, ma avrebbe potuto attendere quelli
della generazione successiva. Che poi il
tutto sia stato gestito male, la colpa non è del lavoratore in quiescenza, ma solo ed esclusivamente di coloro che
gestirono il suo denaro e di quello versato poi, gestori che meriterebbero
processi e condanne per malversazione, come farà il popolo quando si accorgerà
delle colossali truffe a cui fu ed è sottoposto.
Il debito pubblico andrebbe pagato gradualmente, intanto, dopo un’opportuna verifica del mucchio di carta che lo costituisce, fare un preciso censimento dei vari titoli, del loro valore, dei detentori di titoli, dell’uso fatto con quel denaro ricevuto e dato. Poi iniziare a pagarlo fino ad una certa soglia per i detentori nazionali, interamente per quelli stranieri, onde evitare guerre economiche e finanziarie. Ma occorre altrettanto smettere la produzione di nuovi titoli che porterebbero all’infinito l’intero problema. I popoli possono ben pagare i debiti con le imposte, ma a condizione che questi vengano conclusi e non procrastinati al solo utile degli speculatori. Tributi per tributi, i popoli hanno dovere di pagarli purché servano esclusivamente alle necessità generale dei popoli stessi, senza che di tutta l’enorme massa del denaro ricevuta in modo poco chiaro, il costo ricada sempre e solo sui semplici cittadini, lavoratori o pensionati che siano. Il discorso non è per nulla impossibile, visto che si parla di un “avanzo primario”, ovvero l’attivo tra entrate tributarie e uscite dello Stato, prescindendo dagli interessi del debito.
Il debito pubblico andrebbe pagato gradualmente, intanto, dopo un’opportuna verifica del mucchio di carta che lo costituisce, fare un preciso censimento dei vari titoli, del loro valore, dei detentori di titoli, dell’uso fatto con quel denaro ricevuto e dato. Poi iniziare a pagarlo fino ad una certa soglia per i detentori nazionali, interamente per quelli stranieri, onde evitare guerre economiche e finanziarie. Ma occorre altrettanto smettere la produzione di nuovi titoli che porterebbero all’infinito l’intero problema. I popoli possono ben pagare i debiti con le imposte, ma a condizione che questi vengano conclusi e non procrastinati al solo utile degli speculatori. Tributi per tributi, i popoli hanno dovere di pagarli purché servano esclusivamente alle necessità generale dei popoli stessi, senza che di tutta l’enorme massa del denaro ricevuta in modo poco chiaro, il costo ricada sempre e solo sui semplici cittadini, lavoratori o pensionati che siano. Il discorso non è per nulla impossibile, visto che si parla di un “avanzo primario”, ovvero l’attivo tra entrate tributarie e uscite dello Stato, prescindendo dagli interessi del debito.
§ D) Con
la crisi, non ci sono più immigrati, ma solo profughi e perseguitati politici
che vogliono andare al nord, e non restare in Italia .
Di frottola in frottola, visto che in
seguito alla durevole crisi economica degli Stati
europei, compresi anche quelli che danno ordini agli altri (per ben che vada,
danno ordini appunto, perché sanno che
la loro stessa economia è fragile e temono le conseguenze dei fallimenti
altrui), si sostiene ora che le nuove
masse di immigrati non vengano più per ragioni economiche, ma in quanto
perseguitati politici. Sicché all’atto pratico, non sono “perseguitati
politici” solo uomini giovani, atti alle armi, che scappano per non dover
combattere o per ragioni politiche, non
solo le donne al loro seguito, ma pure le donne incinte, i bambini soli ed
abbandonati (!), ed evidentemente pure embrioni e feti in formazione durante
il viaggio. Tutti quanti, dal giovane robusto al feto, vogliono andare al
nord. Naturalmente tutti crediamo a
questo strano fenomeno, salvo poi a
scoprire che questi “perseguitati politici” una volta ottenuto il riconoscimento della
loro condizione giuridica internazionale di “perseguitato” buttano le carte al
macero e si danno alla clandestinità di
tipo economico. Sempre in merito a
questi argomenti, durante lo sgoverno
Berlusconi gli si rimproverava internazionalmente l’atto persecutorio di
prendere impronte agli immigrati (con conseguenti sanzioni, ecc.). Ora, con lo sgoverno Renzi, per il
fatto che i Paesi del nord sono stufi di accogliere troppi perseguitati
politici o lavoratori clandestini, ci sanzionano a causa del non prendere le
impronte. Per l’Italia, così mal sgovernata da secoli, la punizione
internazionale è uno sport prediletto
dalle grandi Potenze: questo perché,
come faceva dire Manzoni a
Perpetua, “quando si è sempre pronti a calar le…”, ti fanno poi calare pure le mutande.
Da un punto di vista politico generale,
quando i perseguitati politici di uno Stato sono centinaia di migliaia, se non
milioni (in altre epoche storiche, i
perseguitati erano in tutto poche migliaia o addirittura meno), non si capisce
perché si facciano perseguitare passivamente e non si organizzino sul
posto. Ma il discorso in tale
prospettiva sarebbe lungo e bisognerebbe verificare ogni effettiva condizione
locale. Per quanto anch’io mi consideri
un “perseguitato politico” dal vigente regime in Italia, non attraverserei sicuramente deserti e altre
zone di guerra per uscire dall’Italia e chiedere ospitalità a qualche pacifico
Paese africano o asiatico. Devo
accontentarmi di fare quel poco che mi riesce sul luogo, ma si sa non tutti
siamo uguali. Così pure, se devo crepare
di fame comunque, preferisco morire in patria che non altrove.
Nella sostanza, è che vogliono farci credere le cose come alle
alte sfere mondiali e nazionali fa
comodo. Ma proprio per questo appare
lecito dubitare con severità critica su qualunque cosa ci dicano.
Conclusioni e proposte
di soluzione .
La conclusione che appare netta è
questa: dovrebbe essere proprio la parte sinistra, se esistesse ancora, del
mondo politico ad opporsi, almeno in Italia e nei Paesi analoghi ad alta
densità di popolazione con scarse
risorse e materie prime, ad una irragionevole
immigrazione, che non ha alcun carattere naturale, ma solo artificioso, al fine
dello sfruttamento di manodopera a costo quasi azzerato, proprio sulla base di
quanto letto da Marx, Engels e vari pensatori democratici. E' evidente che in questo ambito non si devono colpire gli immigrati,
sollecitati a venire in Europa e in Italia in particolare, ma chi li fa venire
per vie dirette o traverse, onde realizzare scopi che con l’economia sana di
uno Stato nulla hanno a che vedere. Anche se si riuscisse, con la forza o con l’inganno, a rispedirli in patria,
il moto non si fermerebbe perché chiamato dalle forze che abbiamo messo in evidenza: clericali, marxisti e clerico-marxisti, per
una loro ideologia antinazionale ed anti-europea, con pretese universalistiche; i capitalisti o plutocrati per puri interessi di lucro, in parte sollecitati da un’ideologia di
espansione nel mercato planetario, in
cui ogni ideale umanitario o viene cancellato, oppure strumentalizzato,
coadiuvato da istituzioni continentali (UE) e planetarie, ONU e derivate: la criminalità internazionale, agenzia di
viaggi e collocamento della massa
migrante. Queste dunque sono le
forze (considerevoli evidentemente, anche perché cooperanti molto spesso) che vanno combattute e rese innocue. Ma come? E’ evidente che una singola
Nazione o anche poche Nazioni non possono assolutamente affrontare queste
forze, che dispongono di mezzi enormi. In Europa occorre pertanto operare per la costituzione di una Repubblica Federale Europea, a
democrazia socialmente avanzata. Come arrivarci? L’unica maniera pacifica e ragionevole
sarebbe che il Parlamento Europeo, unico organismo eletto direttamente dai
popoli europei con suffragio universale e proporzionato, seguendo l’antico rivoluzionario esempio
degli Stati Generali francesi nel 1789, e soprattutto del Terzo Stato, si
faccia forza di questa legittimazione democratica (l’unica ammissibile),
esautori la Commissione Europea e il Consiglio Europeo dei Ministri, costituisca un Governo Provvisorio allo scopo
di indire un’Assemblea Costituente Europea a suffragio universale, diretto e
proporzionale, e nel frattempo assuma disposizioni di abrogazione di tutte le
norme inique.
Ma se - come temo - il Parlamento Europeo bada più agli affari ed agli emolumenti personali, che non alle tematiche democratiche, la strada sarà molto più lunga, faticosa, costosa e sacrificante per tutti, forse anche con moti violenti che porterebbero a una totale disgregazione dell’Unione degli Stati oggi esistenti. In gioco non è tanto l’esistenza dell’euro, una moneta evidentemente fittizia servita essenzialmente alla speculazione internazionale, quanto la sussistenza di una sedicente “Unione Europea” che meglio sarebbe denominare “Dis-Unione Europoide”, oppure, più simpaticamente ancora, ricordando che il prefisso “eu” in greco significa buono-bello, sostituirle la denominazione “Cacoropa”, ovvero cosa cattiva e brutta, un’aggregazione di complici degli affaristi.
Ma se - come temo - il Parlamento Europeo bada più agli affari ed agli emolumenti personali, che non alle tematiche democratiche, la strada sarà molto più lunga, faticosa, costosa e sacrificante per tutti, forse anche con moti violenti che porterebbero a una totale disgregazione dell’Unione degli Stati oggi esistenti. In gioco non è tanto l’esistenza dell’euro, una moneta evidentemente fittizia servita essenzialmente alla speculazione internazionale, quanto la sussistenza di una sedicente “Unione Europea” che meglio sarebbe denominare “Dis-Unione Europoide”, oppure, più simpaticamente ancora, ricordando che il prefisso “eu” in greco significa buono-bello, sostituirle la denominazione “Cacoropa”, ovvero cosa cattiva e brutta, un’aggregazione di complici degli affaristi.
Azzerare tutto e ripartire. Certo non
sarebbe facile e forse neppure incruento, come sempre avviene in moti
rivoluzionari, creare le condizioni per la
formazione di un continente unito sotto la denominazione Repubblica Federale Europea, che abbia come modello la plurietnica
Confederazione Elvetica (che rappresenta
una piccola Europa di data plurisecolare) e non gli Stati Uniti [50], anche sotto l’aspetto della collegialità del
potere rappresentativo. Una Repubblica
Federale Europea, partendo non necessariamente da una grossa quantità di Stati
(è presumibile che molti dei membri dell’attuale UE non vi aderirebbero subito), ma da quei popoli e Nazioni che dimostrino
interesse con alta partecipazione elettorale (tra il 60 e il 70 %) e voto favorevole a tale creazione politica
continentale, fosse pure costituita inizialmente da soli tre Stati di rilevante dimensione demografica ed
economica, potrebbe alle condizioni di solidarietà sociale e di grande
rappresentatività democratica, con Istituzioni solide (a partire dalle Forze
Armate e di Polizia Federale, dalla
Scuola statale, dalla Sanità, commercio internazionale, ecc.), divenire
presto un esempio seguito con successive adesioni da altri Stati, sempre nella
considerazione della qualità interna, piuttosto che dal numero degli aderenti e, peggio che mai, dal loro PIL
e debito pubblico. Il debito pubblico
potrà, in un simile Stato federale, essere progressivamente dissolto con un credito pubblico fondato su una Banca Federale Europea statale, non privata, che offra prestiti a basso tasso d’interesse ma
proporzionale ad ogni eventuale processo inflattivo, a individui, famiglie,
attività produttive, con preferenza verso le cooperative pure, e non
spurie. Utopia? Irrealizzabile? Visto che ben altro che l’utopia si è realizzato
in Europa, una cacotopia europoide, penso
proprio che una Repubblica Federale Europea, dopo le amare esperienze di uno pseudo-gradualismo
economico così evidentemente fallimentare, sia ben più rapidamente e meglio attuabile.
Allora il problema socioeconomico di un’immigrazione di massa irragionevole sparirà da sé, non trovando più le calamitose e calamitanti sirene che oggi l’attirano.
NOTE:
[1] L’Associazione di cui si parla è la Prima
Internazionale dei Lavoratori che da raggruppamento generale di tutte le forze
politico-sociali anticapitalistiche, venne riducendosi prima ai soli gruppi
atei e materialisti (comunisti ed anarchici), quindi alla fine al solo gruppo
attorno a Marx ed Engels, per spegnersi definitivamente a New York.
Lo scritto di Mazzini, dedicato ai lavoratori italiani, è riportato nel 92° volume dell’Edizione
Nazionale degli Scritti Editi e Inediti (Imola, 1941). Il riferimento a Marx è a pag. 306.
[2]
Il termine meno offensivo di Marx su
Mazzini era quello di “Teopompo”;
seguivano “vecchio asino”,
“prete”, ed altri improperi.
[3]
Karl Eugen Duehring era un tedesco,
professore universitario, che formulò alcune dottrine sociali e socialiste, poi
definite “della cattedra”, abbastanza interessanti sia perché alla base, come
quelle di Ferdinand Lassalle,
dell’odierna socialdemocrazia tedesca (con radici a-marxiste, se non
anti-marxiste), sia perché alla base del
“socialismo” componente del
nazionalsocialismo hitleriano. E’ importante, come Johann Karl Rodbertus ed
altri, in quanto dimostra come nella storia europea il marxismo sia arrivato
piuttosto ultimo che primo, nelle idee sociali.
In tale opera, che costituisce la critica engelsiana (dopo la morte di
Marx) a tale socialismo considerato utopistico ed astratto dai due, Engels tuttavia riconosce i larghi contributi
del socialismo premarxista (da Saint-Simon e Filippo Buonarroti fino a Proudhon) per la formazione di proposte, e non solo di
negazioni, avanzate da Marx e compagni.
Cfr. F. Engels, “Antiduehring
- La scienza sovvertita dal signor
Duehring” (1894), ed. it. Lotta Comunista (Milano, 2003), Introduzione,
I, Considerazioni Generali, pagg. 27
- 38. Malgrado ciò, Engels
continua a sostenere la differenza dai
predecessori, proprio sul piano della scienza. L’avanzato
positivismo di fine secolo spiega questa insistenza, che finisce per
diventare banale, ossessiva, pubblicitaria e indimostrata.
Per chi osserva la storia delle dottrine
sociali e socioeconomiche o sociopolitiche dei secoli XVIII – XIX nota
innanzitutto quanto fossero ben più avanzate di quelle circolanti nel secolo
XX, per non parlare dell’attuale miseria degli inizi del secolo XXI. Tali dottrine presentano le più variabili
caratteristiche, possono essere propositive ma acritiche, critiche, a sfondo religioso, cristiano o deistico, oppure materialistico.
Possono essere individualiste, anarchiche, socialiste o cooperativiste.
Subordinate o coordinate alle questioni politiche ed istituzionali. Tutte,
però, hanno un’esatta coscienza dell’ingiustizia congenita del capitalismo
allora vigente. Quanto all’utopismo,
esso va criticato non tanto sul piano delle fantasie o dell’irrealismo, quanto
per l’eccessiva particolarità di certe proposte (soprattutto in Fourier, e in
parte nel sansimonismo), ma la cosa non è generalizzabile a tutte queste
dottrine. Il marx-engelsismo e soprattutto il marx-leninismo e il trotzkismo
(al primo stabilirsi dell’URSS) le sfrutterà parecchio, senza in realtà riconoscerne la derivazione .
[4] Negli anni ’70, terminati i miei studi
universitari in pedagogia e storia della filosofia, mi dedicai tra le altre cose alla lettura
sistematica de “Il Capitale” nell’edizione degli Editori Riuniti di Roma,
in più volumi tascabili, nella Biblioteca Civica di Azzano Decimo (PN). Ebbene,
notai subito e lo riferii a mio padre allora vivente, che molte doppie pagine
erano bianche, segno evidente che nemmeno i tipografi di tale prestigiosa Casa
Editrice, non certo di estrema destra,
si curarono di verificare lo stato di ciascun volume che risultava così
incompleto. Non posso dire tuttavia in
onestà se tale fatto si fosse verificato in molte altre copie della stessa
edizione, oppure se fosse stato un
singolo caso isolato. Certo è che, se
quello era il modo di approfondire il pensiero marxista, si capisce anche perché vi fossero state
tante evoluzioni ed involuzioni di tale pensiero.
[5] Carattere essenziale del clericalismo è che
ogni potere viene da Dio, ma quale delega alla Chiesa sua “sposa” o “sposa di
Cristo” (in senso “mistico”, il cui
significato tuttavia non appare chiaro:
probabilmente si intende un rapporto di assoluta fedeltà tra Cristo e la
Chiesa), che dovrebbe decidere pertanto su tutto quanto avviene nel pianeta
secondo le proprie regole, leggi, consuetudini volontà. Ma la Chiesa è rappresentata dal papa o
pontefice massimo che, direttamente ispirato da Dio in forma di Trinità, esprime la volontà di Dio in ogni atto
ufficiale. Questo potere è, di fatto,
volutamente planetario, tendenzialmente universale, ovvero esteso a sistemi
stellari e costellazioni, nebulose, ecc. ,
e dunque rigetta qualsiasi confine interno che non sia quello da sé fissato e
potenzialmente dilatabile all’intero
Universo. Pertanto, nega ogni
definizione nazionale e statuale, sul piano giuridico e politico,
particolarmente - causa prossimità
territoriale - se tale definizione
riguarda l’Italia. La Chiesa Cattolica,
ad alto livello dirigenziale, non ha mai, infatti, digerito, accettato o realmente
condiviso il Risorgimento italiano e la formazione di uno Stato unitario
italiano, e il suo intimo, ardente
desiderio è la sparizione in qualunque forma di tale Stato.
[6] Il marxismo, come si è detto, soffre
perennemente di doglie, di spasmi, di crampi e di convulsioni di natura
dialettica. Può essere estremista,
moderato, riformista, revisionista, conservatore, rivoluzionario, pacifico e
violento, in uno stesso periodo storico.
Può negare la proprietà, ma anche ammetterla; può negare il profitto ed anche
ammetterlo. Odia ed ama il capitale,
tanto da formulare anche l’idea di uno Stato universalmente imprenditore e
proprietario di tutto. In una stessa
fase storica, come a cavallo tra XIX e XX secolo, possono sussistere, come si è
visto, decine di marxismi, ovvero di
interpretazioni o ermeneutiche marxiste.
Per qualcuno è il momento della Rivoluzione proletaria, per altri il
momento di modeste riforme; per taluno
conviene allearsi anche col nazismo (cfr.
Patto Ribbentrop – Molotov nel 1939), per altri conviene allearsi con Gran
Bretagna e USA, almeno finché dura, o per dirla con l’elegante terminologia
marxista, finché non si passa
all’antitesi dialettica. Ma su una cosa
il marxismo è, relativamente,
stabile: il suo spirito
antinazionale. Per il marxismo, la
Nazione è concetto borghese, nemico evidente della lotta di classe e
dell’affermazione proletaria. L’idea di
Nazione andò bene, ma provvisoriamente,
al marxismo, solo quando le armate della Wehrmacht e dei suoi alleati minacciarono di annientare il suo paradiso
sovietico, anche questo un singolo e raro “momento dialettico”.
Qualcuno
potrebbe motivatamente obiettarmi che anche altre ideologie organizzate si sono
dissolte: è vero, ma per ragioni non
iscritte nel loro DNA ideologico, ovvero nei loro princìpi. Faccio l’esempio più a me vicino, in quanto
mazziniano. Il PRI, dopo la
proclamazione della Repubblica, si assunse la responsabilità di alleanze con la
DC, pensando con la sua irrisoria percentuale di condizionarne la politica, ritenendosi l’ago della bilancia. Ma l’ago della bilancia indica il peso, però è
mosso dal peso che si pone sul piatto, non certo per la propria forza. Questa illusione assai ingenua non era connaturata all’idea repubblicana,
secondo le indicazioni di Mazzini e di Cattaneo, ma forse secondo quella di
Giuseppe Ferrari, passato da “filosofo della Rivoluzione”, a senatore del Regno
e professore universitario. Tanto
Mazzini che Cattaneo rifiutarono compromessi parlamentari o, ancor peggio,
governativi. Celebre è la motivazione
che il grande Carlo Cattaneo diede per il proprio rifiuto di accettare la
carica di deputato: “Voglio morire a culo vergine”. Cattaneo
morì esule nel Canton Ticino, Mazzini in
incognito a Pisa, dopo aver respinto l’amnistia regia. La
smania di partecipazione governativa del PRI, dopo il lungo digiuno
monarchico, lo portò prima ad un certo
rigonfiamento con Ugo La Malfa, quindi
allo sgonfiamento totale con gli
sgoverni Berlusconi prima, clerico-marxisti
del PD dopo. Ora neppure in Romagna, terra in cui era
abbastanza forte rivaleggiando con la sinistra social-comunista, conta qualcosa. Tutto ciò, però, non è conseguenza di
impostazioni teoriche, come nel marxismo,
bensì di ambizioni personali a cariche, poltrone, emolumenti. Compromettersi dà frutti immediati, ma poco durevoli e, alla
fine, controproducenti.
[7] L’idea di accostare democrazia a
cristianesimo (con Gerolamo Savonarola) e perfino l’idea sociale, come
uguaglianza in terra e non semplice fraternità in Paradiso (Saint-Simon, Buchez,
Leroux, Lamennais ed altri), è
logicamente parlando una contraddizione, un ossimoro. Infatti, se credo all’Uomo-Dio, ad un Dio
incarnatosi nell’uomo, se credo alla rivelazione di Dio agli uomini tramite un
Libro Sacro, se credo ad una classe sacerdotale che si vanta conoscitrice della
Verità Assoluta, se credo ad un uomo
infallibilmente ispirato da Dio, lo
spazio per la democrazia, ovvero per il governo di popolo per il popolo, che
compie le sue conquiste in tutto il processo storico, non sussiste né sul piano logico, né su
quello concreto, se non come espressione di confusione e di buone intenzioni
che tali rimangono. Ancor più dicasi per
la questione sociale: al Cristianesimo,
la distinzione tra ricchi e poveri è consustanziale. Senza i poveri a chi potrebbero far la carità
i ricchi, riuscendo a passare per la cruna dell’”ago” ? E se non vi fossero i ricchi, da chi potrebbero avere la carità i poveri
? La fraternità cristiana riguarda più
lo stato spirituale delle anime in Paradiso o al Purgatorio, che non l’uguaglianza o (meglio) la
proporzionalità nella distribuzione dei beni economici.
[8] Il programma clerico-marxista, dominante
nell’attuale Partito Democratico (che copia quello USA perfino nell’uso di
camicie bianche senza cravatta, una forma di mimetica piaggeria ai limiti dell’osceno e del ridicolo, dopo
aver sventolato fazzoletti rossi e bandiere con falce e martello), ma non
soltanto, bensì anche in frange esterne spesso minuscole, è dunque esclusivamente negativo e dissolvente: concepisce il problema ecologico quale
millenarismo da prossima fine del mondo; non avendo più troppi timori, forse
più concreti tuttora, di guerre atomiche, ripesca l’Apocalisse giovannea ed
altre consimili in una forma pseudoscientifica
(se una pretesa temperatura media del pianeta, di fatto incalcolabile e
irreale, in quanto astrazione matematica, aumentasse di due soli gradi,
ciò - a loro assai sindacabile parere – provocherebbe
l’annullamento della vita umana, se non la vita tout court, come se mai il pianeta avesse avuto una temperatura
media costante, visto che, a seconda di zone e di stagioni, si va da 70° e più
sopra zero a 70° e 80° sotto zero); odia
la normale riproduzione della specie, come frutto del rapporto fisico tra
persone di sesso diverso, ma o non la vuole, o la vuole delegare alle
popolazioni immigrate, oppure realizzarla artificialmente come in un celebre
film di marca americana “Matrix” (ovvio…). Propone liberalizzazioni della droga, degli
aborti (una donna politica, oggi tanto apprezzata, quand’era giovane negli anni
’70, predicava procedure casalinghe di aborto con la pompa della bicicletta. Se
qualcuno non lo credesse, si riveda la
stampa di quegli anni).
Nella
medicina, propone la morte auto-anticipata come soluzione dei mali o della
vecchiaia, come se mai la morte potesse essere metodo di ricerca per la terapia
appropriata di mali oggi non curabili.
Per l’Italia in particolare, e per l’Europa in generale, propone la sommersione completa sul piano
etnico e culturale, da ogni parte del
pianeta, e, se fosse possibile, anche da forze extraterrestri. Insomma un genocidio intenzionalmente, ma non
realmente, eutanasico e rapidamente progressivo, di portata assai larga. In decenni, si è prima propagandata quotidianamente
una drastica riduzione delle nascite (fine anni ’60 – inizio ’70: ciò nonostante, ci si meraviglia se l’età
media degli Italiani oggi supera i 40 !!!);
poi si è alimentata la divisione interna, sgretolando quel po’ di
coscienza nazionale affermatasi in un secolo;
infine, si è aperto il vaso di Pandora delle invasioni, giustificato da
pretesa mancanza di volontà di lavorare degli Italiani ed ora, causa la crisi
finanziaria creata da loro stessi, per
motivi umanitari e persecuzioni politiche (perfino i neonati verrebbero
perseguitati politicamente !). Una
strategia distruttiva di lungo termine che ora sta arrivando alla dissoluzione,
progettata, voluta e bramata, di un intero popolo e di un’intera cultura .
[9] L’attuale disprezzo dichiarato verso le
ideologie, specialmente politiche, è puro disprezzo verso idee, sistemi di idee
ed ideali, tipico di pragmatismi tecnocratici e tecnolatrici di
marca anglosassone. Nondimeno, come si
può essere “filosofi” pur disprezzando la filosofia, così si può essere “ideologi” pur disprezzando le ideologie. Si tratta solo di sostituire ad ideologie
ordinate, logiche e coerenti, qualcosa di fumoso, contraddittorio,
improduttivo, disordinato. Proprio Marx,
dopo Napoleone Bonaparte, dette al termine
“ideologia” un significato negativo,
come qualcosa di astratto (cfr. la sua opera contro gli hegeliani tedeschi,
di destra o sinistra che fossero, è intitolata
“L’Ideologia Tedesca”). I risultati storici di certo disprezzo e della sottovalutazione della
natura progettuale e propositiva del pensiero,
si sono ben visti, ahinoi,
nell’intero secolo XX e inizi XXI.
[10] Una “sinistra” che va intesa nel suo significato puramente
topologico parlamentare, mentre sul piano delle idee economico-sociali costituisce solo la
“sinistra” di un’estrema destra retriva,
reazionaria, che trova le sue radici storiche nel feudalesimo e nel capitalismo
industriale del XVIII secolo in Gran Bretagna,
spacciata per nuova, mentre non lo è affatto.
[11] Sulla traccia di un Illuminismo ingenuo, la
Costituzione americana parla del diritto
alla “felicità” di ciascun
individuo. Dato per scontato che questo
termine aveva all’epoca un significato che non coincide esattamente con quello comunemente usato (che ricorda la
beatitudine paradisiaca delle religioni rivelate), il termine “felicità” alimenta
nell’uomo il desiderio di godimento fisico e psichico continuo ed
eterno. Ma l’uomo non può mai essere
eternamente felice, non solo per l’ovvia constatazione dei mali fisici e delle
delusioni, amarezze, dolori psicologici, che possono perseguitarlo, ma per la
sua spirituale e psicologica tendenza alla perenne insoddisfazione, come ben
segnalato già da S. Agostino, da
Severino Boezio e da Dante
Alighieri. La “felicità” è un orizzonte irraggiungibile, anche se può
costituire un motore per il progresso umano, in quanto, raggiunto un obiettivo, lo si vuole
superare ponendosene un altro. Come il personaggio disneyano di Paperon de’
Paperoni dimostra, l’enorme ricchezza,
pur raggiunta, non è sufficiente, anzi è oggetto di timori del perderla. Di qui, l’ansia, di qui ulteriore
sofferenza. Ciò vale pure per l’amore: conquistato l’amore di una persona, dopo
qualche tempo non basta più, e alla prima occasione si cercherà altra persona
più giovane, più bella, più entusiasmante.
Oppure, conquistato l’amore, si
avrà timore che la persona amata ci tradisca o non ci voglia più. L’unica contentezza che l’uomo può
raggiungere è quella di non essere mai contento, a condizione di esserne
consapevole.
[12] Il sistema di John Law, scozzese, ma operante
in Francia era fondato su una colossale
speculazione del XVIII secolo che mirava, attraverso una società per azioni, a
finanziarla con la ricerca di presunte
miniere d’oro della Louisiana, allora ben più vasta dell’attuale Stato USA e
colonia francese, ceduta da Napoleone agli Stati Uniti, come più tardi fece
l’Impero Russo dell’Alaska. Non avendo
una flotta abbastanza forte per battere quella inglese, e per non perdere del
tutto tale colonia, Napoleone preferì cederla agli USA in cambio di
denaro. Tornando allo scozzese Law, le sue azioni vennero acquisite
dal Regno di Francia appunto per ricercare quest’oro, che poi viceversa
si trovò prima in California, poi in Alaska.
Una volta che queste miniere d’oro non saltarono fuori, la Francia perse valanghe di denaro, in
cambio di carta straccia, il che, alla fine,
peggiorò quell’enorme crisi finanziaria conseguente alle varie guerre
degli ultimi tre Luigi re di Francia, dal XIV al XVI, e a sua volta condotta
alla convocazione degli Stati Generali del 1789, nel tentativo di trovare nuove
soluzioni. Ma gli Stati Generali, attraverso proteste sempre meno legali,
giunsero alla conseguente Rivoluzione Francese. Come
dimostra l’episodio del Law,
morto poi esule a Venezia nel 1728, gli
Anglosassoni hanno sempre avuto, quasi come un germe genetico, il pallino della
truffa finanziaria.
[13] Karl Marx,
“Il Capitale”, Libro I, IV
sezione, Cap. XIII, § 1 - ed.
it. Newton Compton, Roma, 2010,
Collana I Mammut, trad. e commento di Eugenio Sbardella, pag. 284 .
[14]
K. Marx, op. ed edizione citate, Libro I,
VII sezione, Cap XXII, § 4.,
pag. 436, nota 53 .
[15] Fichte
descrisse uno Stato non commercialmente chiuso, ovvero completamente
autarchico: anche a quei tempi, per una Nazione come la Germania in piena
Europa, ciò sarebbe stato impossibile.
Bensì, descrisse uno Stato in cui il commercio con l’estero fosse
controllato dallo stesso e non regolato da puri interessi privati. Per cui le importazioni, soprattutto,
dovevano essere regolate su necessità
obiettive e non per capricci di singoli.
Le proposte che egli fece in sede economica e sociale sono assai
interessanti, sia perché preludono a teorie successive, specialmente di marca
tedesca (intervento dello Stato nell’economia), sia sull’origine della
proprietà, che egli attribuisce al lavoro:
la proprietà privata infatti non riguarderebbe le cose, in senso
stretto, ma il lavoro stesso e i suoi frutti.
Un’idea condivisa poi da molti, in opposizione al liberismo ed anche
alla tradizione codicistica romana.
Cfr. “Lo Stato secondo ragione o lo Stato Commerciale Chiuso” (1800) - ed. it Fratelli Bocca (Milano, 1909), trad.
anonima. Può essere interessante
segnalare alcuni titoli dei capitoli: “Il mondo tutto come un grande Stato
commerciale”, “Rapporti fra le Nazioni nell’economia mondiale”, “Diritti dei
cittadini già liberamente partecipanti al commercio mondiale di fronte allo
Stato chiuso”. Non direi che c’è
bisogno di chiarimenti.
[16] Carlo Cattaneo, “La
China antica e moderna” (1861)
in “Scritti” ed. Sansoni
(Firenze, 1957), a cura di Franco Alessio,
pagg. 988 e 990. Cattaneo, una delle maggiori menti italiane
del secolo XIX, criticò anche il colonialismo britannico, proprio nei
confronti di India e Cina (probabilmente fu uno dei primi anticolonialisti),
per la sua violenza e distruttività.
Critica anche, nei confronti del filosofo Johann Gottfried Herder e di altri, il pregiudizio
dell’arretratezza e staticità dei
Cinesi, a cui viceversa attribuisce spirito d’iniziativa e grandi capacità di
lavoro.
[17] Stefano Jacini, “I
risultati dell’inchiesta agraria” (1884),
ed. Einaudi (Torino, 1976), con Introduzione di Giacomina
Nenci, Cap. IV, pag. 58.
[18] ibidem,
pagg. 59 - 76.
Ed ecco che qui si conferma quanto detto dieci anni prima da Stapleton,
Marx ed altri: “… imperocché se la mano d’opera nella China, nel Giappone e
nell’India si tiene ad un livello
tuttora favolosamente basso, i modi di produzione vi sono anche più imperfetti
dei nostri…” (pag. 75).
Ma
guarda, nel disprezzato Regno d’Italia (Italietta, dicevano i fascisti) del
1884, a soli 23 anni dall’unità, si capiva una cosa molto semplice che la
nostra tanto moderna e postmoderna Repubblica fondata sul lavoro non ha quasi mai capito: la
concorrenza non può essere fatta sui prezzi, vista anche l’esigenza di valanghe
di importazioni che ci occorrono, ma
sulla qualità dei prodotti, sulla ricerca scientifica, sul forte aumento della
cultura scientifica e tecnologica a livello di ogni semplice cittadino, non sul
sedicente “costo del lavoro”. Non è un
caso che Guglielmo Marconi cominci la sua opera in quegli anni, non certo oggi. E il Marconi dei nostri tempi, in Italia dove
si trova ? Oggi sappiamo solo usare la
sciacquatura della tecnologia USA e perfino cinese. E’
questa la nostra globalizzazione ?
Ingiuria e vergogna per il popolo italiano!
Di particolare interesse appare un’opera
dello scrittore austro-ungarico Maximilian Simon Suedfeld, più conosciuto in
quegli anni con lo pseudonimo di Max Nordau (da non confondere con l’anarchico
Max Nettlau), di famiglia ebraica ma personalmente laico e sionista, il quale
nel 1883 pubblicava un’opera “Le menzogne
convenzionali della nostra civiltà”, che può considerarsi un compendio
delle idee sociali e politiche del secolo XIX in senso anticapitalistico ed
antimonarchico. Ne seguirono i “Paradossi” del 1885 e,
soprattutto, “Degenerazione” (1893), un lavoro che, a quanto descritto da chi ha potuto leggerlo, è
una precisa previsione della decadenza dei costumi del “secolo breve” (che dura tuttora). Nelle “Menzogne
convenzionali…”, tra moltissime cose
interessanti, egli confronta la
sobrietà cinese col consumismo
occidentale: “… e l’Europa intera dovrebbe allora
nutrire 1.458 milioni, cioè un numero d’uomini che sarebbe sempre maggiore di
quello ora esistente nel mondo.
Prendiamo un altro esempio. La
China (propriamente detta) ha una superficie di 4.024.890 chilometri quadrati,
e 405 milioni d’abitanti. Ogni
chilometro quadrato dunque nutrisce più di 100 individui, e completamente, perché la China non solo non importa viveri,
ma esporta grandi quantità di riso, conserve, the, ecc. ecc. E la fame e la miseria in China, stando
all’unanime testimonianza dei viaggiatori, si hanno solo nelle annate di
insufficiente raccolto e si devono imputare non già ad una generale deficienza
di viveri in tutto l’impero, ma bensì agli scarsi mezzi di comunicazione. Dunque, se l’Europa fosse coltivata come la
China, potrebbe sempre nutrire 1000 milioni di individui, invece dei suoi 316
milioni, centinaia di migliaia dei quali emigrano ogni anno…” . Dovendo
citare da una vecchia copia mal rilegata e priva di svariate pagine, non posso
riportarne i dati di edizione, fuorché
la parte “La menzogna economica”, e il paragrafo “Controsensi economici”, alle pagg. 241 – 242. Prescindendo dai dati statistici riportati
dall’Autore (oggi ad es. l’estensione
territoriale corrisponde a 9.572.900 kmq, comprensivi però del Tibet e del
Sinkiang), ciò che mi importa qui
sottolineare che, ben diversamente da certo immaginario di Occidentali, la Cina ha rappresentato almeno da due
secoli una forza economica non
indifferente. L’isolamento nel periodo
tra 1948 e anni ’70, ovvero nel periodo
maoista, non deve far immaginare che la
Cina non avesse occupato un posto importante nell’economia mondiale già dal XIX
secolo.
[19]
Frase di Guido de Ruggiero, ricavabile nell’opera citata, nell’ed. Laterza (Bari, 1946), Parte II, pag. 102 .
[20] Che bella la lingua inglese,
soprattutto nella sua forma americana
! Gli onomatopeismi sono diffusissimi. Per dire “espansione o esplosione” si dice “boom”;
per dire “espansione dell’universo” si dice “big bang”; per dire un
corpo celeste dalla gravità fortissima, tanto da non far uscire la luce, lo si
chiama “buco nero”, quando invece è assolutamente pieno. Insomma, quest’uso, non certo solo popolare
ma scientifico, dimostra
nell’anglosassone una buona dose di infantilismo, perché è tipico dei
fanciulletti l’uso di onomatopee per
esprimere le cose ed i fenomeni. Da
una cronistoria della nostra felice Unione Europea, leggo la seguente serie di anni “critici”: 1965, 1971, 1972, 1973, 1974, 1975, 1978,
1979, 1980. Le crisi non sempre erano
economiche, talvolta solo finanziarie, ma con risvolti ovviamente economici,
relativamente all’intero Occidente o alla sola UE a dieci Stati: cfr. “Destinazione Europa - Cronologia della Comunità Europea”,
traduzione a cura della rivista “Storia
Illustrata” (Mondadori) da un testo tedesco del 1981.
[21] F. Engels,
“Antiduehring”, cit., pagg. 332 – 333 .
[22] K. Marx,
“Il Capitale”, cit. Libro I, IV Sezione, Cap. XIV, § 7, pagg. 334 -336 .
[23] Il mercantilismo, più che una teoria
determinata, è una prassi economica, esistente al primo ampliarsi dei Regni
europei, conseguente alle scoperte geografiche ed alle conseguenti conquiste. Ritiene che la potenza di uno Stato sia
economicamente fondata sull’acquisizione dell’oro (pensiamo ai conquistadores spagnoli), sugli scambi commerciali controllati da Stato e governi in senso prevalentemente protezionista, con
forte presenza di dazi anche all’interno di uno stesso Stato. Ne risentiva soprattutto il commercio agricolo
del frumento e delle biade, tanto che aggravava la carestia in molte zone: tutto ciò fu poi tema nel Settecento delle
prime proposte liberiste nel commercio dei grani (fisiocrazia). Era anche un’economia rivolta soprattutto ad
alimentare la potenza militare.
[24] Jobs Act,
dovrebbe significare, secondo il dizionario che ho in dotazione, un Atto di regolazione dell’attività di
lavoro, professionale ecc. Il punto è
che “lavoro” in inglese si dice in più modi, tra cui il celebre labour , da cui il nome del partito
inglese di sinistra moderata nato agli inizi del secolo. L’etimologia del termine mi è ignota, ma dal nome inglese di Giobbe, cioè Job,
ne deduco che i vari Jobs Act esigono dal lavoratore la pazienza di Giobbe,
il quale, a causa della scommessa tra Dio e Satana, dovette sopportare tutte le
possibili disgrazie personali e familiari. Siccome le sopportò senza eccessive
lamentele, fu poi premiato da Dio.
Questo nella Bibbia, ma temo che nel capitalismo questa pazienza non
sarà mai ricompensata in modo sufficiente.
[25] Non solo
la disoccupazione è congeniale al capitalismo privato: sia pure in forme moderate, lo è anche al
capitalismo statale, pubblico (modello URSS e consimili). In tal caso si può avere pure disoccupazione,
ma anche lavoro forzato, che costa appena quel tanto che serve a nutrire e
“vestire” il lavoratore con pigiamini a
righe blu (oppure, le arancioni di Guantanamo).
Se poi questo muore per gli stenti, poco importa: viene considerato solo una bocca in meno da
sfamare, tanto è sostituibile facilmente
con altri. Lo Stato, in tal caso,
concepisce un profitto a vantaggio dei suoi governanti, dei dirigenti,
ecc. La sola differenza è che eventuali
leggi potrebbero impedire (ma non ho mai capito se nell’URSS ciò fosse avvenuto)
l’ereditarietà dei beni goduti da un
qualunque capo del regime, mentre nel capitalismo privato l’individuo può sempre lasciare in eredità o
donare i beni di sua proprietà .
[26] K.
Marx, “Il Capitale”, Libro I, Sezione IV, ed. cit. pag. 302. Cfr. pure, la VII Sezione, cap. 23, § 3,
pagg. 457 – 459, e Libro III, III Sezione, cap. 15. § 3, pagg. 1083 –
1087, e nota 21 di p. 1086, assai
significativa per il rapporto tra “costo del lavoro” e disoccupazione : “E’ uno degli aspetti più evidenti e connaturati
al sistema capitalistico: con la
disoccupazione cresce l’offerta di lavoro e diminuisce il prezzo di
quest’ultimo, perché la massa dei disoccupati preme su coloro che hanno
un’occupazione. In termini più
realistici, l’operaio è alla mercè del capitalista, l’indigenza lo costringe a
lavorare sotto qualunque condizione, perché se non accettasse vi sarebbero
mille altri disposti a prendere il suo posto” .
[27] F.
Engels, “Antiduehring”, ed. cit., pag. 331. Va detto che non era per nulla una scoperta
dei due che l’automazione conducesse al decremento dell’occupazione. Già nel secolo XVIII, circa cent’anni prima di
queste opere, si era formato in Inghilterra il movimento dei luddisti i quali distruggevano i primi
macchinari a vapore, illudendosi che così avrebbero distolto gli imprenditori,
ma questi, alla faccia della “mano invisibile” di Adam Smith, del declamato
liberismo, ecc., chiesero al governo di intervenire reprimendo con la forza
militare queste rivolte. Ovviamente, gli
operai non potevano resistere alla superiorità dell’esercito.
[28] Jean
Jacques Rousseau, “Emilio”, Libro V, ed. Sansoni
(Firenze, 1972), a cura di Paolo Rossi, trad. Luigi De Anna, pag. 611 e sgg, particolarmente la
nota di Rousseau, pag. 615. Si veda pure
il “Progetto di Costituzione per la
Corsica”, ibidem, trad.
Benedetta Gentile, pag. 713 e
sg., particolarmente pag. 717 prima colonna.
Riguardo all’abbandono dei propri figli, tolti alla convivente Teresa,
vedi le “Confessioni”, trad. Valeria
Sottile Scaduto, Libro VII, pag. 942 seconda colonna, e Libro VIII pag.
949, dove alla seconda colonna nel testo ricorda di aver avuto da quella povera
donna ben cinque figli, tutti
abbandonati. Meglio così che se li
avesse fatti abortire o uccisi, ma Rousseau stesso ammette di non aver fatto
una bella figura per coerenza morale. A lui si potrebbe associare Pierre-Joseph Proudhon, il quale scrisse la celebre opera “La proprietà
è un furto”. Ma quando l’Accademia
di Besançon di conseguenza gli tolse la pensione che gli aveva donato a vita
quale premio letterario, egli protestò per l’alienazione di quello che
considerava un diritto acquisito, malgrado si fosse trattato di donazione, e non
di capitale da contributi di lavoro.
[29] Gian
Domenico Romagnosi, “Giurisprudenza
Teorica”, Libro VI, capo IV, § 2, riportato da Arcangelo Ghisleri, in “Le più belle pagine di Giandomenico
Romagnosi, ed. Garzanti (Milano, 1931) “Valore
della popolazione rispetto alla potenza degli Stati” (pagg. 233 – 234):
tema mercantilista questo, ripreso nel XX secolo soprattutto dalla
politica demografica espansiva di Mussolini, di cui riparlerò, con il motto “Il numero è potenza”.
[30] La
propaganda del tempo, e poi anche certa storia d’infima fattura (quella per cui
i vinti, in quanto tali, hanno sempre, comunque e solo torto), vogliono far credere che la Guerra di
Secessione, tra Unione nord-americana e Confederazione degli Stati del sud,
fosse dovuta al contrasto tra schiavismo e antischiavismo. Come ha dimostrato Raimondo Luraghi, i motivi di contrasto erano ben diversi: Abraham Lincoln e il Partito Repubblicano, che egli aveva fondato, erano sì antischiavisti, ma non in senso
primario. Anche il generale sudista Robert Lee era contrario alla schiavitù, e
coerentemente aveva messo in libertà i suoi schiavi. Il vero nodo della questione stava nel tipo
di istituzioni: al nord prevaleva il
federalismo, ovvero una concezione abbastanza centralizzata dell’Unione, con
divieto di secessione. Inoltre, essendo fortemente industrializzata, l’Unione
preferiva il protezionismo, onde difendersi dalla concorrenza britannica o
francese e poi anche tedesca; la
Confederazione puntava su una maggiore indipendenza tra Stati e, avendo
un’economia agricola di tipo latifondista, era orientata piuttosto al liberismo, onde vendere senza
ostacoli il proprio cotone. L’Europa
stette a guardare ammirata la lotta tra i due giganti (e tale fu anche la
Confederazione, pur con molti meno mezzi, e anche limitata dal blocco navale
dell’ammiraglio Farragut, ma che spesso
fu all’offensiva e resistette per quattro lunghi e devastanti anni), senza
accorgersi dell’insorgere della futura superpotenza americana, se non troppo
tardi quando Napoleone III inviò l’arciduca Massimiliano d’ Absburgo come imperatore del Messico (1867), nell’illusione di riuscire a fare di questo
Stato un contraltare agli USA vittoriosi su se stessi. Com’è noto, il povero Massimiliano fu
fucilato al Queretaro per ordine di Benito Juarez, aiutato ovviamente nella sua
insurrezione dagli USA. In tutta questa
storia, la schiavitù contò tanto poco, come si può pure leggere in “Via col vento” (a proposito, allora il Partito Democratico, che ai nostri
clerico-marxisti appare oggi come il massimo della democrazia, prevaleva al sud ed era schiavista), che al
sud gli schiavi vennero militarizzati dall’Esercito Confederale e la
proclamazione della loro libertà si ebbe al nord solo alla fine della guerra .
[31] Vediamo
ad esempio la Liberia, creata già nei primi decenni del XIX secolo, ad opera di
antischiavisti ed umanitari americani, i quali vollero riportare ex-schiavi
liberati nella loro presunta terra d’origine.
Basta una semplice ricerca per capire come questo Stato, che pure ha
almeno 150 anni di autonomia e pur con l’influenza e l’aiuto degli USA, non brilla certo per efficienza e serietà
organizzativa. La problematica dello
sviluppo civile e culturale di un popolo non si risolve certo in tempi storicamente
brevi, e richiede invece un lungo processo .
[32]
Cfr. Arcangelo Ghisleri, Le
Razze Umane e il Diritto nella questione coloniale”, ed. Istituto Italiano d’arti grafiche (Bergamo,
1896, ma la polemica risale a dieci anni
prima), Prefazione, pag. 7.
Cfr. pure le pagg. 96 e sgg. Alla nota 27, alle pagg. 97 – 98, citando
Roberto Ardigò, Ghisleri nega un Diritto
fondato sulla forza, e afferma quale fondamento del Diritto princìpi di ragione
e di giustizia, e li estende alla politica e al Diritto internazionali. L’uso della forza, infatti, deve essere
eccezione, da utilizzare solo per difesa e in modo proporzionato
all’attacco, non principio assoluto di
quegli azzeccagarbugli d’alto bordo, che parlano di Stato come monopolio della
forza e simili sciocchezze, causa solo di disastri. Come si è costretti a combattere una malattia
acuta o cronica con medicinali, ma non li usiamo se siamo sani, così l’uso della forza proporzionata serve a
ridurre e stroncare un male sociale o dell’umanità quale la guerra o altro, ma
non facciamo della guerra l’essenza dei rapporti tra i popoli, le Nazioni o gli
Stati . Cfr. per i nostri tempi Claude
Levi-Strauss “Razza e storia - Razza e cultura”, ed. it. Einaudi (Torino, 2002), trad. di Sergio
Arecco, Paolo Caruso e Primo Levi. Questi due saggi furono scritti e pubblicati
su richiesta dell’Unesco, per avere argomentazioni antropologiche e
sociologiche contro il razzismo, intenzioni molto lodevoli, ma con una
confusione di fondo tra l’unità della razza umana (anche di quelle
paleo-antropologiche, come l’uomo di Neandertal, che va considerato non
“scomparso”, ma fuso con il suo antagonista, il “sapiens
sapiens”, come potrebbero dimostrare più avanzate ricerche sul DNA ed altro
patrimonio genetico, quale l’RNA, ecc., nonché
l’osservazione di certi individui
- come l’ex-presidente UE Barroso -
per la loro struttura fisica piuttosto massiccia, il collo taurino e una
certa fisionomia) ed una parità
culturale tra civiltà diverse, come dire che essere antropofago e non esserlo
sia la medesima cosa; come se il vivere in città ed avere una letteratura
scritta sia la medesima cosa del non averli;
come se “nozze, tribunali ed are”,
per dirla con Vico e Foscolo, sia il
medesimo che la vita ferina su alberi o in grotte ; come se i sacrifici umani siano la stessa
cosa che riti pacifici e simbolici (come la Messa per i Cattolici); come se la schiavitù fosse apprezzabile quanto la sua assenza in
qualunque forma; come se avere una
grande arte e grandi scrittori fosse identico al non averli, ecc. ecc.:
è chiaro che una visione così infantile, sproloquiante e disinvolta,
nega alla radice l’essere progressivo
della specie umana, riduce quest’ultima soltanto ad una più malvagia e
distruttiva specie animale. E tutto
ciò, senza eliminare il razzismo come si vuole, conclude solo per negare ogni dovere umano di
progredire sul piano morale ed intellettuale, e si ha pure l’assurdo che l’essere
razzisti e il non esserlo alla fine costituiscono un medesimo livello di
cultura, come ogni altra abitudine o
consuetudine umane. Com’è noto, la via
per l’Inferno è lastricata di buone e lodevoli intenzioni.
[33] K.
Marx, “Il Capitale” Libro I, Sezione VI, Capitolo XVIII
(conclusione), ed. cit. pagg. 400
- 401
[34]
ibidem, VII Sezione, Capitolo XXI,
pag. 418 – 419 .
[35] Qualcuno
obietterà: “Ma come, secondo Lei, i
capitalisti sono tutti cattivi sfruttatori senza cuore ?”. No, di certo:
Engels, ad esempio, fu un capitalista rivoluzionario che aiutò particolarmente la
famiglia del suo amico Marx, che altrimenti non ci sarebbe neppure nota
oggi. Vi furono molti, tantissimi
filantropi capitalisti nel secolo XIX come nel XX (oggi, credo, molti di
meno…), ma nessuno di loro si impoverì
di molto per l’aiuto dato, in forma caritatevole o anche come cooperazione
sociale al lavoro, ai propri o altrui lavoratori. Alcuni hanno anche saputo fare affari anche
con la propria filantropia. Esistette
dunque anche una deprecata (da taluni) collaborazione di classe, ma non perché
sia possibile far cooperare insieme due classi (come auspicato dal
corporativismo cattolico nella Rerum
Novarum, da quello fascista o da quello nazista, che sarebbero null’altro
che forme di economia mista guidate da uno Stato autoritario). Esistette, o può esistere, una collaborazione
fra singoli individui ricchi e benestanti e la classe lavoratrice. Un esempio ben noto in Italia è quello di
Adriano Olivetti. Si tratta di eccezioni,
non di regola. I capitalisti che sono falliti, non fallirono per
filantropia, ma piuttosto per la spietata concorrenza di altri capitalisti. Essendo fondato sull’egocentrismo
individuale o di gruppo, il capitalismo
conosce solo asservimenti, più o meno mimetizzati, subordinazioni, concessioni provvisorie, mai collaborazioni,
che presuppongono parità fra i
collaboratori . Da
Guido de Ruggiero, nella raccolta sopra citata, leggo queste importanti e
significative considerazioni di Joseph Alois Schumpeter nel 1942, che
dimostrano un fatto “irreversibile” e “ineluttabile”, che non esiste l’irreversibilità e
l’ineluttabilità nella storia. E’ interessante notare come non certo un
marxista, ma un’economista liberale considerasse oltre 70 anni fa superato il
capitalismo, soprattutto dopo le tristissime esperienze del 1929:
“XIV.
PUO’ IL CAPITALISMO SOPRAVVIVERE
?
Uno dei libri più importanti pubblicati in tempo di guerra è quello di
J. A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democratie, che apparve la
prima volta in America nel 1942, ed è stato poi più volte ristampato in Inghilterra (ed. Allen &
Unwin). Schumpeter è un eminente
economista americano, professore nella Università di Harvard, e il suo libro ha fatto
un’impressione profonda nel mondo anglosassone.
Egli si propone il problema: può
il capitalismo sopravvivere ? La sua
risposta è negativa… la novità sta in
questo: che Schumpeter non è un
socialista, bensì uno scienziato, che segue con occhio freddo e distaccato il
processo storico del capitalismo e vi scopre le interne ragioni di crisi e di
dissolvimento… … lo Schumpeter dimostra che il
socialismo è già immanente all’odierno processo capitalistico…” G.
de Ruggiero, op, cit., pagg. 219 – 220.
Prosegue poi con ulteriori motivazioni.
All'opposto, un altro
economista, liberista, Ludwig von Mises,
americanizzato ma di origine austriaca, sostiene, due anni dopo Schumpeter, che
il male deriva dall’incompleta affermazione di liberismo e capitalismo, e non
dal superamento del capitalismo stesso.
Anzi esprime tutta la propria avversità ad ogni forma di
statalismo: lo Stato dovrebbe servire
solo a difendere gli interessi del capitalismo anche con l’uso della forza, se
necessario. Cfr. “Lo
Stato Onnipotente”, ed.it. Rusconi, Milano,
1995, trad. di Walter Marani,
specialmente la Conclusione
(pagg. 387 – 393). Assai interessanti, spiegabili con la guerra in corso, le
dichiarazioni di inimicizia totale verso Germania, Italia e Giappone; molto meno l’esaltazione per l’ormai defunto
Impero Austro-Ungarico, al quale l’autore tutto sommato si sente ancora di
appartenere.
[36] Giuseppe
Mazzini, “Note Autobiografiche” (si
tratta di prefazioni per gruppi di articoli e
saggi che egli scrisse nel corso della sua vita e della sua
battaglia, anticipate a ciascun volume
della prima grande raccolta di Scritti nell’edizione Daelli, importantissima,
perché fino ad allora la conoscenza, spesso vietata e talvolta causa perfino di
condanne a morte per chi li possedeva,
del suo pensiero era assai limitata e confusa, anche perfino tra i suoi
seguaci. Dopo la sua morte fu Aurelio Saffi, forlivese, già con lui triumviro della
Repubblica Romana, a continuare queste
presentazioni storiche, con la differenza che le sue erano “post-fazioni” come
si usa dire oggi, e non “prefazioni”), XV.
Riporto il testo dall’Edizione BUR (Milano, 1986), pagg. 309 – 310. A titolo di verifica, si vedano: “Agli
Italiani, e specialmente agli Operai Italiani” (1840), “Circolari dell’Unione degli Operai Italiani” (1841), “Scuola
Elementare Italiana Gratuita” (1842), “Necessità
dell’Ordinamento speciale degli Operai Italiani. Risposta ad un’obiezione”, testi riportati in “Scritti politici”, ed. UTET (Torino, ristampa 2005), a cura
di Terenzio Grandi e Augusto
Comba, pagg. 535 -
567 .
[37]
Cfr. S. Jacini,
“I risultati dell’inchiesta
agraria”, 1884, Cap. VI, ed. cit.,
pagg. 132 - 135 .
[38] Cfr. ad
esempio Guido de Ruggiero, negli anni Quaranta, scrisse nella sua raccolta di saggi “Il
Ritorno alla ragione” del 1946: “… I
liberali si sono resi conto che l’individualismo antistatale e il liberismo
economico, appropriati a una fase
transitoria della evoluzione storica, avevano fatto ormai il loro tempo… E’
sorto così il liberalismo sociale
di Green e di Hobson, che anch’esso si prolunga fino ad oggi con Beveridge…” (parte
III, “Orientamenti politici”, saggio su “Il
Pensiero politico europeo dalla Rivoluzione francese ad oggi”), ed. Laterza (Bari, 1946), pagg. 128 –
129. Chi conosce oggi Green, Hobson,
Beveridge ? Viceversa nulla si dice su
Keynes. Stranezze della storia: la fama è qualcosa che si evolve nel
tempo. Ma ciò non ha importanza: negli anni ’40 dello scorso secolo, e grosso
modo fino all’europeismo degli anni ’50,
si vedeva da taluni il liberismo come morto e sepolto. Invece rinacque all’interno del MEC, negli
USA (ovviamente), ri-sviluppandosi
mostruosamente negli anni ’80 e seguenti,
sotto l’altissima guida del duo Reagan-Tatcher.
Quando si dice che le cose sono “irreversibili”, di lì a qualche tempo,
la visione del mondo spesso si capovolge.
Per chi non sapesse chi fu Guido de Ruggiero, specifico che era liberaldemocratico, seguace
di Benedetto Croce, professore universitario (tra quelli che hanno giurato al
fascismo, non dimentichiamolo), tra i fondatori di “Giustizia e Libertà”, poi
del Partito d’Azione che, nato durante la guerra, sparì con l’avvento
della Repubblica, anche a causa dei diversi orientamenti al suo interno, da
quelli liberalmoderati a quelli parasocialisti.
Morì nel 1948, e non ebbe occasione di vedere come la nuova Repubblica
Italiana diventasse poi un vero Stato Pontificio d’Italia fondato sui ludi circenses, in mentite spoglie .
[39] Nel
significato giuridico usuale dei
termini, “profitto” e “lucro”
coincidono. Tuttavia, ciò è, a mio parere,
un errore: fin dall’aritmetica
elementare si sa che il ricavo dev’essere superiore al costo se il solito
negoziante vuol andare avanti. Quindi
dev’esserci un attivo adeguato nel suo bilancio. Nondimeno, se l’attivo si limita ad una
percentuale tale da consentirgli di vivere con agio, è un conto; ma se l’attivo supera lo stesso costo di
produzione o di acquisto all’ingrosso, ad esempio del 100 %, la situazione è
ben diversa. Ad esempio, se il costo di
fabbrica tutto compreso è di 10, il prezzo di vendita potrebbe essere al 110
%, al 150 %, al 200 % rispetto al costo totale, ovvero 11, 15, 20: direi quindi di considerare profitto
legittimo fino ad 11 o, secondo certe esigenze,
fino a 15; il 20 è già
lucro, ovvero profitto eccessivo a scapito del consumatore. Il non distinguere tra attivo in generale,
profitto e lucro, finisce per danneggiare gli onesti e favorire la formazione
del “capitale” eccessivo, ed è causa non
ultima del fallimento e cattivo funzionamento delle cooperative, le quali non
dovrebbero tanto essere caratterizzate dall’assenza di un profitto qualsivoglia
(senza il quale, col puro pareggio, andrebbero
presto in fallimento), quanto dal non avere dipendenti, lavoratori subordinati,
ma soltanto soci.
[40]
L’attività di lavoro, materiale o intellettuale che sia, produce dei
beni economicamente utili. Questi
ripagano già da sé chi dirige i lavoratori
(cosiddetto “datore di lavoro”, altro termine giuridicamente adoperato, ma
scorretto, in quanto chi dà il lavoro è il lavoratore, chi ne approfitta è colui che dirige
l’attività oppure che crea per proprio interesse occasioni, posti di lavoro),
essendo proprietà del dirigente stesso, e il cui prezzo sul mercato viene fissato da lui
stesso. In breve: il
lavoro si paga da sé, e ciò che
viene dato al lavoratore stesso, non è che un frammento variabile condizionato
da più fattori, residuo del “patto
leonino” che ha dovuto subire per
contratto .
[41] Vedi la
storia di una donna congolese del
Katanga che, invece di andare a studiare a Lovanio (Belgio), celebre Università
Cattolica, dove sarebbe stato logico farla studiare, è venuta in Italia accompagnata da un
cardinale (non so se come pacco postale, o in altro modo) a Piacenza (!!!), trovando anche un marito
calabrese (!!!), e diventando prima “ministra” nello sgoverno Monti, poi
deputata europea per il gruppo italiano dello (S)Partito (S)Democratico. Che diavolo ha mai avuto l’Italia a che fare
col Congo, poi Zaire, poi di nuovo Congo, se non il caso dei nostri aviatori
uccisi e quindi usati come alimento a Kindu nel 1960? Il Congo fu colonia belga, salvo una parte
già francese .
[42] I due discorsi
sono reperibili in videocassetta e in DVD.
Riferisco il testo come riportato nei fascicoli dell’istituto LUCE,
n. 6 del luglio 2000, pag. 9.
[43]
Ibidem, n. 7, luglio 2000, pag. 9
.
[44] Le mie
considerazioni che ai cattolici sembreranno certamente calunniose, si
riferiscono soprattutto alla politica perseguita dalla Chiesa Cattolica, fin
dall’età longobarda, quando l’Italia - prima
fra tutti degli Stati europei - avrebbe
potuto raggiungere un’unità territoriale dalle Alpi all’intera penisola, se non
alla Sicilia ed alla Sardegna, allora sotto dominio arabo, provvisoriamente
impossibili da conquistare per la forte presenza navale bizantina e invece
l’incapacità marinara del Regno Longobardo.
Quando ormai la forza bizantina dovette ridursi al Mediterraneo
orientale, i Longobardi avrebbero potuto prendere prima o poi anche le isole,
ma furono i papi a chiamare intanto l’aiuto dei Franchi di Pipino il Breve e di
Carlo Magno. Così il Regno Longobardo, non bene ancora
consolidato, fu spazzato via, salvo i
Ducati di Spoleto e di Benevento, successiva preda dei Normanni. A partire da Dante e Marsilio da Padova, a Machiavelli e
Guicciardini, per giungere a molti dei pensatori laici ed anticlericali dell’Ottocento, si dimostrò che la Chiesa Cattolica ebbe
sempre funzione anti-unitaria: sbagliava
così chi, come Petrarca o Cola di Rienzo,
volle il ritorno dei papi a
Roma: politicamente per l’Italia sarebbe
stato meglio che rimanessero ad Avignone.
Certo, la Chiesa ebbe un’indubbia funzione di conservazione e
rielaborazione della cultura classica, soprattutto romana, ma questo non in funzione italiana
unitaria, bensì con pretese
universalistiche. Così i meriti verso
questa cultura antica (conservata solo nei termini di interesse cattolico,
beninteso, perché il resto fu fatto sparire con decreti imperiali prima, con le
invasioni barbariche e altre persecuzioni poi)
divennero demeriti nei confronti
di una nuova cultura nazionale, che si ricollegasse all’antica, ma
superandone in modo rivoluzionario i vizi e le storture. Così grazie anche agli aspetti negativi
della tradizione classica (tardo-repubblicani ed imperiali), conserviamo una mentalità difettosa, vecchia
di 2000 anni.
[45] F.
Engels, “Antiduehring”, ed. cit., pag.
335.
[46] La
media aritmetica non esiste in natura, in qualunque settore la si applichi per pura
comodità di confronto statistico: la somma degli addendi e la divisione secondo
il numero di addendi (A + B + C) à (A + B + C): 3 = K, dà
un numero che non corrisponde affatto alla natura delle cose, ma è più pratico
da calcolare, che non la moda (quantità prevalente, mediante curva di Gauss),
che è invece più vicina alla realtà: es.
(A+ B + B + B + C) à
quantità prevalente = B .
[47] Faccio
due soli esempi di come si confondano le acque in sede scientifica. Gli scienziatucoli, ad esempio, inseriscono
nei loro adorati computers i dati riguardanti il seguente problema: se i ghiacciai delle due zone glaciali si
sciolgono, di quanto si alzi il livello
planetario delle acque marine. Dopo
alcuni strimpellamenti e digitazioni, il computer, che ha già i dati matematici inseriti, come lo specchio
della matrigna di Biancaneve, dirà con
certezza: “il livello delle acque marine
si alzerà di almeno un km”. Bene, così
si deduce facilmente che molte zone costiere verranno totalmente sommerse,
comprese certe isole coralline del
Pacifico che sono già a pelo d’acqua.
Ma nessuno chiede ai rispettivi magici computers: aumentando la temperatura atmosferica di 2° C, quanta acqua in più evaporerà nei sette mari
?
Altro
esempio: l’atmosfera terrestre è
composta per oltre il 70 % da azoto, gas
che, dal nome stesso, non ci consentirebbe di vivere, dal 20 % di ossigeno e il resto (minutaglia da altri
gas, compresa l’anidride carbonica, gas
che ogni essere vivente emette
respirando). Con un
antropocentrismo ridicolo in chi si dovrebbe occupare di cose scientifiche,
taluno di loro ha il coraggio di sostenere che, se non vi fosse l’azoto,
l’ossigeno accelererebbe troppo il processo respiratorio, dimenticando un dato
evidente: sono gli esseri viventi ad adattarsi all’ambiente, e non l’ambiente
che si adatta agli esseri viventi. Così,
sempre digitando sul computer dati già inseriti, si deduce che per ogni
molecola di CO2 in più la temperatura atmosferica salirà di 1000°
all’anno. Se ne deduce, pertanto, che moriremmo tutti arrostiti entro un certo
numero d’anni. Eppure questi
clima-meteorologici millenaristi, che impazzano nel mondo, dimenticano che gli
esseri viventi e l’intera chimica biologica si basa proprio sul carbonio, oltre
che su ossigeno ed idrogeno, e poco su altri elementi. C’è dunque una campagna
anti-carbonica ai limiti del ridicolo, perché ignora quanto il carbonio pesi
nella vita organica di tutti gli esseri viventi, mentre nell’atmosfera la sua
percentuale è irrisoria, tanto più se confrontata alle atmosfere marziana e
venusiana, dove la presenza di CO2
supera il 90 % . Tutto ciò mostra come la matematica oggi rischi di
essere adoperata non a fini scientifici, ma di pura propaganda a favore di
grandi imprese produttrici, interessate a vendere certi prodotti in concorrenza
con prodotti dello stesso settore, ma con energia diversa .
[48] Adam
Smith, “La Ricchezza delle Nazioni” (1776), Libro II, Sezione III -
ed. it. Newton Compton, I Mammut,
(2005), pag. 310 .
[49] Si
sostiene che esistano due sistemi pensionistici, quello contributivo e quello
retributivo. In realtà, il retributivo
non è che una facilitazione del calcolo del capitale versato in decenni, con
interessi annessi e connessi, non semplice
considerata la fortissima inflazione della lira italiana dal 1945 all’anno
di instaurazione effettiva dell’euro (2002), e la colossale truffa
dell’euro che ha calcolato gli stipendi col famoso rapporto 1: 1936, 27, mentre
tariffe, prezzi ecc. col rapporto 1 : 1.000 circa, con ciò deprezzando di fatto
non solo il debito pubblico, ma pure il
potere d’acquisto dei redditi fissi da lavoro dipendente. Il calcolo dagli ultimi anni di retribuzione, conveniente del resto solo per
coloro che avevano grossi incrementi negli ultimi anni, è solo un parziale recupero del valore della
rendita mensile o annua del capitale complessivamente versato. Dunque,
i metodi di calcolo, ideati ed applicati negli anni ’90 e seguenti, sono invece questi due: il
retributivo/contributivo o il refurtivo:
questo secondo si basa su un calcolo puramente aritmetico dei contributi
versati, senza tener conto dell’inflazione e degli interessi accumulati: una vera ladroneria, per cui risulterebbero
calcolate le sole ritenute versate nel tempo .
[50] Almeno a
partire da Carlo Cattaneo e Victor Hugo (1848), molti europeisti hanno proposto
per questo Stato Federale Europeo la
denominazione di Stati Uniti d’Europa, sul modello americano. Una simile denominazione non tiene conto che
le due situazioni sono inconfrontabili:
gli USA nascono, dopo le varie guerre europee del Settecento, sulla base
prevalente della comunità di lingua inglese,
con cultura protestante e con tendenze pragmatiche, tecnologiche, e
molti elementi di individualismo. Gli
USA non sono realmente uno Stato democratico,
bensì timocratico (ovvero:
fondato sul censo, sul reddito, tanto è vero che, per votare, si deve
pagare. Di qui le percentuali piuttosto
basse dei votanti effettivi, malgrado l’apparente suffragio universale).
Oggi gli USA, che hanno subito una devastante guerra
di secessione (1861 -1865), dotati di
una tecnologia militare potentissima e pure di un tecnologia economica
altrettanto potente, d’altro lato
sembrano basarsi su un instabile equilibrio di fanatismi contrapposti che si
reggono fin quando potranno, ma certamente non in eterno. Costituisce un incubo l’idea che gli USA
possano sgretolarsi, essendo forniti del maggior arsenale atomico del mondo. Nondimeno questo potrebbe avvenire. L’Europa ha tutt’altra storia e molto più
antica: di lotte e contrapposizioni
notevoli, e con una cultura di derivazione greco-romana, coibentata dal
Cristianesimo prima, dal laicismo razionalista del ‘700 e ‘800, dopo. L’unità dell’Europa deve fondarsi, non
sull’unità di lingua e mentalità, ma su quella delle leggi fondamentali
(Costituzione e Codici) e delle istituzioni, con ampio spazio dato anche alle
tradizioni nazionali e locali, alle culture specifiche, senza prevaricazioni
dei maggiori ex-Stati sui minori. Il tutto deve porsi sul proprio fondamento
storico che, malgrado guerre e contrapposizioni, è
tuttavia abbastanza unitario, in una concezione non tanto pragmatistica,
quanto spirituale e assiologica (di valori) di tale unificazione. L’Europa federale non può reggere se non
sulla base di un’ampia democrazia, socialmente avanzata che porti al
progressivo sviluppo di una società “egualitaria” (in senso proporzionale, non
assoluta) e solidale, dove la ricchezza sia equamente distribuita, tra un
minimo ed un massimo non troppo distanti tra loro. Quanto ai risvolti tecnologici, una Repubblica Federale Europea non deve creare idolatrie del mezzo (confuso col fine), ma il
senso dell’importanza del mezzo scientifico e tecnologico per una decorosa vita
moderna.
Solidale innanzitutto per i propri popoli, ma per quanto possibile anche per quelli
esterni o di altri continenti, a cui fare da modello positivo e liberamente
accettato, non violentemente o subdolamente imposto, come quello oggi dominante
nel mondo da parte degli USA.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Sansoni (Firenze, 1957).
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Sbardella .
7) Mazzini
Giuseppe, “Scritti Editi e inediti”, Edizione Nazionale delle Opere letterarie, filosofico-politiche ed
Epistolario a cura di Mario Menghini (Imola, 1905 e sgg), in generale; “Scritti
Politici”, ed. UTET (Torino, 2011) a cura di Terenzio Grandi e Augusto Comba, e “Note
Autobiografiche”, ed. BUR (Milano, 1986), a cura di Roberto
Pertici, più in particolare .
8) Mises
von Ludwig, “Lo Stato Onnipotente”, ed. it. Rusconi (Milano, 1995), trad. di
Walter Marani .
9) Mussolini
Benito, “Discorsi”, riportati
parzialmente a cura dell’Istituto Luce, in due fascicoli, nn. 6 e 7,
luglio 2000 .
10) Nordau
Max (pseudonimo di Maximilian Simon Suedfeld),
“Le Menzogne Convenzionali della
nostra civiltà”, ed. it. del 1883,
trad. ignoto .
11) Romagnosi
Giandomenico, “Giurisprudenza Teorica”, Libro VI, Capo III, § 2, in “Le più belle pagine di Giandomenico Romagnosi”, ed.
Garzanti (Milano, 1931), a cura di Arcangelo Ghisleri .
12) Rousseau Jean Jacques, “Opere”,
ed. it. Sansoni (Firenze, 1972), a cura di Paolo Rossi, traduttori vari
13) Ruggiero de Guido,
“Il Ritorno alla Ragione”,
saggi ed articoli - ed. Laterza (Bari,
1946) .
14) Smith
Adam, “La Ricchezza delle Nazioni” (1776),
ed. it. Newton Compton
(Roma, 2005), I Mammut,
traduttori e curatori vari .
15) Strauss
Levi Claude, “Razza e Storia - Razza e cultura” , ed. it. Einaudi (Torino, 2002), trad.
di Sergio Arecco .
16) Ufficio
Pubblicazioni delle Comunità Europee, “Destinazione Europa – Cronologia della
Comunità Europea” (Germania,
1981) -
Edizione straordinaria a cura di “Storia Illustrata” (ed. Mondadori, Milano) .
INDICE
Dedica, e Premessa:
Marx e i marxismi p. 1
1) La
Globalizzazione p. 4
2) Crisi
economiche e disoccupazione p. 8
3) Rapporto
tra questioni demografiche ed economia capitalista p. 16
4) L’immigrazione
in Italia p. 31
§ A Il
popolo italiano è ormai vecchio… p. 38
§ B Il popolo italiano non vuol più
lavorare… p. 40
§ C Gli
stranieri ci pagheranno le pensioni. Ovvero il rapporto tra
debito
pubblico e pensioni p. 41
§ D Con la crisi non ci sono più immigrati, ma
solo profughi e perseguitati politici p. 46
Conclusioni e proposte di soluzione p. 47
Note p. 49
Riferimenti bibliografici p. 65
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