martedì 14 ottobre 2014

Massimo Bossetti: per la pubblica opinione è colpevole a prescindere. Colpa delle favole mediatiche, delle (in)verosomiglianze, dei sillogismi induttivi e dell'effetto pigmalione...

Di Gilberto Migliorini


Nella favola di Barbablù, quella trascritta da Perrault, c’è quel senso dell’orrore e del sangue che fa parte delle fantasie ancestrali, dei retroscena torbidi, degli incubi inconfessati della nostra infanzia e che nella storia del sanguinario marito si materializzano in forma narrativa, affiorano nel conflitto tra es e super-ego, un po’ come per l’auriga platonico che deve governare due cavalli antagonisti. Le favole consentono ai bambini, ma anche agli adulti, di attingere al materiale profondo dell’inconscio con tutti i suoi fantasmi e di riappropriarsi in forma metaforica degli aspetti in conflitto. I meccanismi proiettivi sono quelli di un transfert carico di significati simbolici: come le macchie di sangue sulla piccola chiave che Barbablù aveva proibito di usare alla consorte. È l’occasione per dare sfogo a quelle fantasie a lungo represse, rievocare traumi infantili, materiale subliminale e contenuti rimossi in una proiezione fantasmatica con carattere liberatorio. La sublimazione comporta una proiezione e un investimento su un oggetto che rappresenta la nostra parte negativa, una controfigura da guardare senza timore. Il nostro inconscio necessita di un alter-ego, altrimenti verremmo impietriti dal volto di Medusa.

Il caso Bossetti ha tutti gli ingredienti per dare un volto a quell'inconscio infantile e per rappresentare un oggetto sul quale poter proiettare le nostre fantasie. Intanto c’è il tema del sangue e della vittima innocente, non solo la povera Yara e la sua famiglia che attendono giustizia, ma anche la nostra infanzia perduta che vuole finalmente riparazione. Poi c'è il Dna, che evoca la sostanza nefasta che nella morfologia della favola simboleggia un delitto (talvolta un patto o un incantesimo). Nell'immaginario collettivo ormai il Dna ha assunto una valenza simbolica che ricorda le sostanze venefiche delle streghe, gli unguenti degli untori e i sortilegi dei maghi, attraverso la mediazione del touch untuoso e malefico che svela la natura perversa del colpevole. Al Dna l’opinione pubblica attribuisce un valore indiscutibile di prova, non si tratta soltanto di un reperto biologico che di per sé, al di fuori di un preciso sistema di indizi, non significa ancora nulla di preciso. Si tratta di un fluido magico, di una malia che la strumentazione scientifica rileva infallibilmente come l’impronta del carnefice, del pedofilo e del violentatore. È il tema dell’orco e della strega che lasciano una firma indelebile e il loro marchio efferato. 

L’intreccio del sangue, (o comunque di una sostanza biologica) con quello di una sua attribuzione, viene vissuto in una dimensione fantasmatica, mobilitando angosce e paure che possono avere un effetto deformante, prefigurando aspettative e amplificando anche fatti per lo più insignificanti. Si costruiscono collegamenti e teoremi in forza di un immaginario che si nutre di quei contenuti inconsci con i loro nessi simbolici.

Può accadere che un innocente venga trasformato in un mostro, in un orco sotto l’azione delle fantasie e della grancassa mediatica che ne amplifica la forza e ne deforma il senso? Può accadere che fatti insignificanti acquistino la valenza di indizio, che le cose altrimenti normali assumano una luce sinistra, che perfino la quotidianità sia considerata rivelatrice di oscuri retroscena?

Nel caso Bossetti c’è un solo elemento a suo sfavore per quanto ci è dato sapere, il Dna. In quelle condizioni (all'aperto sotto le intemperie) avrebbe potuto ‘sopravvivere’ più di pochi giorni? Esiste il dubbio che si tratti di sostanza degradata (un po’ lo dicono anche i Ris?)? Oppure potrebbe essere un deposito biologico non coevo al delitto? Una contaminazione? Tutto il resto, un sistema indiziario evanescente, ha il peso delle illazioni rispetto a una persona che vive e lavora in quel circondario, di celle telefoniche che si intrecciano nell'etere tra casa e lavoro, tra luoghi distanti a un tiro di schioppo, di furgonati che transitano attorno al centro nevralgico di un comprensorio dove tanti lavoratori si muovono giornalmente, lungo le arterie principali e dove esistono servizi e attività economiche (come a Brembate attaccato al paese di Mapello).

Facile imbastire nessi che all'apparenza sembrano possedere il peso di un indizio ma che da una analisi più attenta si rivelano circostanze che possono trovare spiegazioni del tutto naturali (comperare figurine, fare lampade solari, mangiare in trattoria, navigare in internet, andare dal fratello e dal commercialista, comprare sabbia e attrezzi professionali… ecc. ecc., e dove perfino i silenzi del telefonino, la discrezione e la riservatezza, eventuali e fisiologici litigi di coppia, divengono elementi sospetti, indizi di anomalie comportamentali). 

Si parla del furgone di Bossetti (transitato un’ora prima? E non è detto che sia il suo…) quando neppure si sa se la povera Yara è stata sequestrata su un furgone scoperto, su un cabinato, su un furgone chiuso, su un’auto, su una moto. Si parla di coltelli (cutter professionali, semplici oggetti di consumo per un carpentiere), senza sapere quale arma abbia prodotto le ferite. Si disquisisce di problemi di coppia sulla base di illazioni riguardo a cellulari che non registrano sms e telefonate tra coniugi che vivono sotto lo stesso tetto (e nel caso, per quanti giorni esatti la moglie debba dichiarare di non averlo fatto quando ha partorito e se magari qualche volta è accaduto che il marito dormisse dalla suocera). In quanti milioni di coppie esistono fatti che denotano solo la normale vita coniugale con i suoi eventuali alti e bassi, solo circostanze dovute a fatti contingenti e di forza maggiore? 

In un continuo stillicidio giornaliero i media costruiscono indizi improbabili e capziosi, formulano collegamenti tra i fatti usando la premessa di colpevolezza del Bossetti, cosa tutta da dimostrare, che consente di interpretare qualunque evento banale, irrilevante, accidentale e inconsistente, come corollario di un teorema. La vita privata viene scandagliata alla ricerca di un qualsiasi accidente, di una qualsivoglia quisquiglia da embricare come le tegole di un tetto in un fantasioso, suggestivo e arbitrario, collage criminologico. Una fallacia composizionis per la quale qualunque cosa Bossetti abbia fatto e detto gli si ritorce contro e lo incastra a viva forza nel delitto. Senza il preconcetto di colpevolezza, in base a quei nanogrammi di sostanza biologica (ancora da ‘pesare’ in un contraddittorio), una serie di circostanze sarebbero solo fatti insignificanti e stupide banalità giornaliere, cose senza rilievo e spessore. 

Per la procura Bossetti non parla del delitto dopo la scomparsa di Yara, e questo è la dimostrazione di un suo coinvolgimento. Scusate, ma se invece ne avesse parlato? Cosa avrebbero scritto i procuratori, che il suo interessarsi al caso era sinonimo di innocenza? Ma non c'è solo questo, perché anche se qualcuno dice di averlo visto al cimitero c'è chi parla di un grave indizio. E se l’avessero visto a far spesa al nuovo centro commerciale? In poche parole, se capovolgessimo tutti i segni più in segni meno il teorema non perderebbe comunque di credibilità agli occhi dei colpevolisti senza se e senza ma che continuerebbero a trovare riscontri, assiomi, postulati, corollari, lemmi; dimostrazioni costruttive, per assurdo, per induzione. Sillogismi sempre validi perché qualunque fatto alla luce di un indizio ancora da valutare in sede di contraddittorio (il Dna), risulta sempre a conferma. Se domani si venisse a sapere, per dire, che Bossetti una settimana prima del delitto ha mangiato lumache, qualcuno azzarderà che le ha raccolte proprio nel campo di Chignolo dove era andato in avanscoperta prima del delitto? Uno stillicidio di supposizioni criminologiche surreali e inverosimili che ricordano certi quadri di Magritte o di Salvator Dalì, un trompe l’oeil con uno spiccato illusionismo onirico. 

Come il famoso quadro dove le scarpe si tramutano nelle dita di un piede, nel nostro caso attrezzi da lavoro si trasformano in arma del delitto e diventano indizi i telefonini silenziosi che parlano della vita di coppia, i furgonati scoperti che trasportano metri cubi di sabbia, di certo per occultare cadaveri, e chi più ne ha ne metta. Una metamorfosi della realtà in rappresentazione, una mantica con accostamenti suggestivi per i quali si può configurare ed accostare qualunque cosa ad arbitrio.

Il Manzoni ha scritto un’opera (“La storia della Colonna infame”) che parla proprio di una situazione in cui la normalità in forza del sospetto e dello stress collettivo, la peste a Milano nel 1630, viene interpretata come ricerca di un capro espiatorio (si tratta del processo a Gian Giacomo Mora e Guglielmo Piazza). Pietro Verri lo aveva anticipato in quelle "Osservazioni sulla tortura", opera che aveva per oggetto appunto il processo agli untori, cioè coloro che la fantasia popolare e il pregiudizio, nato dalla suggestione collettiva, si riteneva propagassero la peste e altre pestilenze mediante unzioni.

Anche l’Italia di oggi è un paese sotto stress, un paese in una crisi che dura da troppo tempo e della quale non si riesce a vedere il fondo. Ed è proprio in situazioni di stress collettivo che affiorano i vissuti traumatici e si cerca di scaricare le tensioni con dei meccanismi di compensazione. Nei momenti di sconforto e di difficoltà l’idea di trovare un colpevole ci riconcilia, almeno in parte, con le quotidiane ingiustizie che dobbiamo subire. L’incipit del testo manzoniano ci porta in quella dimensione dove l’indizio è circonfuso di interpretazione e di sospetto nella situazione della peste portata dai lanzichenecchi:

La mattina del 21 di giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d'un cavalcavia (…) vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteua su le mani, che pareua che scrivesse. Le diede nell'occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo voltato il cantone, e che a luogo a luogo tiraua con le mani dietro al muro. All'hora, soggiunge, mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno de quelli che, a' giorni passati, andauano ongendo le muraglie. (Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame - capitolo I)

Qui abbiamo uno degli elementi che generalmente vengono chiamati indiziari. Di fatto, in un contesto particolare, eventi che altrimenti potrebbero risultare insignificanti suscitano il sospetto, diventano elementi di rilievo. L’azione di andar rasente a un muro e di scrivere su un pezzo di carta innesca una serie di illazioni che portano rapidamente a immaginare scenari criminosi. Qualsiasi azione, anche la più innocente, è suscettibile di una interpretazione sospetta, per non dire di prova di un delitto, quando il contesto la rende in qualche modo integrabile in una conclusione a cui si è giunti preventivamente. La convinzione di colpevolezza farà alla fine precipitare una serie di fatti irrilevanti come una cascata di elementi di prova alla luce di un teorema. L’elemento suggestivo in un contesto di stress (la peste) dove il testimone è anche parte lesa e dove l’influenza collettiva (le voci che corrono) rappresenta la pressione sociale sull'individuo.

La percezione di qualcosa è sempre pregna di interpretazioni. Gli stessi organi di senso sono impregnati di ‘teoria’, non siamo recettori passivi. Semmai è proprio la neutralità un processo di decantazione per il quale si riduce un fatto ai suoi elementi essenziali svincolati da qualsivoglia tentativo di darne un significato che ne travalica il senso. Non solo dissonanze cognitive per le quali, ad esempio, un testimone finisce per integrare i fatti all'interno di un contesto conoscitivo ed affettivo dove entrano in gioco valori e credenze, ma anche suggestioni e pulsioni che nell’immediato condizionano e indirizzano emotivamente. In certi casi il confine tra la realtà e l’immaginazione diviene labile e qualunque elemento, anche il più fantasioso e arzigogolato, funge da verifica di un sospetto.

Il concetto di verosimiglianza è uno dei più usati nelle formulazioni del diritto ed è un passe-partout universale, una forma pseudologica dove all'occorrenza si può dire tutto e tutto il contrario. Verosimile o simile al vero è probabilmente di derivazione sofistica e intrattiene rapporti molto stretti con quel principio di induzione che è alla base di molti paralogismi e di quel principio di verificazione messo alla berlina da Popper (e sostituito con il criterio di falsificazione). La base del principio di verosimiglianza è una sorta di luogo comune o di valore implicito, o ancora di un supposto buon senso che fa riferimento al senso comune. Sul piano logico una cosa o è vera o è falsa (ad eccezione di una logica fuzzy con valori intermedi tra 0 e 1), il verosimile (o simile al vero) è semplicemente un escamotage con il quale un asserto non viene messo in discussione in quanto indecidibile, ma viene bollato con una sorta di marchio di garanzia (verosimile) o con un marchio di contraffazione (inverosimile). L’inverosimiglianza è un valore indefinito che senza esporsi alla falsificazione logica può invalidare l’asserto di un testimone o di un imputato mediante una formula che suscita il sospetto e adombra la menzogna... senza avere però l’onere di dimostrarlo.

Il termine verosimiglianza è anche sinonimo di probabilità (likelihood) e l’esempio classico viene dal famoso "testa o croce": “se lancio una moneta ed esce di seguito cento volte testa, qual è la verosimiglianza che quella moneta sia truccata?”. Direi nessuna, altrimenti la distribuzione statistica seguirebbe delle mere regolarità. La prova che quella moneta sia truccata (non una moneta ipotetica e astratta) è data soltanto da una analisi non statistica ma reale sulla moneta in oggetto. Insomma, prima di dire che è truccata ci vuole un collegio peritale che la analizzi. Se dovessimo basare i processi sulla statistica potremmo tranquillamente fare a meno delle prove, basterebbe fidarsi del calcolo delle probabilità con un margine di errore statisticamente nella norma.

Quella che poi viene definita bugia (non la menzogna), riguarda o l’equivoco concetto di verosimiglianza o la mera opinione di buon senso. Chiunque può avere qualche motivo per mentire su cose insignificanti e senza nessun interesse, sempre ammesso che si tratti davvero di bugie e non soltanto di errori della memoria (e dopo tre o quattro anni sfido chiunque a ricordare senza errori e contraddizioni quello che ha fatto il tal giorno alla tal ora). Si può mentire per pudore, per paura, per pigrizia, o semplicemente si può non dire il vero perché il fatto è senza interesse, senza rilievo, e non ci si rende neppure conto di dire qualcosa di sbagliato.

Quello che sappiamo è tutto lì, in pochi nanogrammi di materiale biologico (degradato? non coevo?). I test del  DNA di tipo “touch” possono risultare inaffidabili e fallibili, inclini a promuovere equivoci e a creare le premesse per incriminare innocenti? Innumerevoli articoli in varie lingue mettono in guardia dal mito dell’infallibilità del Dna, soprattutto se utilizzato come prova regina. Nel nostro paese anche sull'onda dei mass-media, sempre alla ricerca dello scoop, non sembra emergere nel pubblico mediatico la consapevolezza che il Dna è sì uno strumento di indagine, ma che va sempre inquadrato come dato da interpretare da parte dell’investigatore.

Il Dna, ancorché effettivamente in ottimo stato (cosa da verificare con controprova e da dimostrare in un contraddittorio), può trovare diverse spiegazioni se non suffragato da altri riscontri.  Non bisogna dimenticare che la sua attribuzione è di tipo probabilistico e non deterministico. Nessuno può condannare una persona per il solo rilievo del DNA sulla scena del delitto, anche con prove e controprove di laboratorio, soprattutto quando si tratta di tracce deteriorate e comunque suscettibili di interpretazioni difformi in merito alla loro presenza in loco. Da tempo lo slogan prova scientifica è diventato un mantra acritico. Alcuni sembrano affidarsi ciecamente a dei meri dati numerici che in quanto tali sono elementi neutrali (ancorché da verificare), cioè variamente interpretabili solo alla luce di un sistema indiziario consistente che permetta di inquadrare l’analisi genetica all'interno di una configurazione di inferenze e di consequenzialità non ricavate a posteriori come conferma del dato, ma in una premessa investigativa che inquadri l’analisi genetica in un contesto di indizi e di prove già ben formulato a priori con elementi concordanti e coerenti tra loro.

Il termine scientifico rischia di diventare l'orpello messo lì più che altro per impressionare quella vasta palude mediatica ingenua e sprovveduta, impressionabile per i soliti slogan e format divulgativi che parlano di scienza come se si trattasse di una bacchetta magica e non già di un sistema che pone proprio l’errore al centro della sua metodologia, soprattutto quando si tratta della realtà con tutte le sue contaminazioni e i suoi ingredienti sconosciuti ed indecidibili. Realtà che non sempre è rappresentabile nella situazione controllata del laboratorio. In aggiunta, occorre dire che più grande è il numero di prelievi e maggiore diventa non solo l’accuratezza predittiva, ma anche la possibile percentuale di errore umano. Compreso il ben noto meccanismo della profezia che si auto-adempie (o effetto Pigmalione: il peso delle aspettative in qualsiasi procedimento interpretativo e predittivo) per le influenze psicologiche e fisiologiche che finiscono col far credere di aver trovato quello che si cerca, soprattutto quando si viene criticati per anni e anni a causa di un’indagine costata molte risorse di tempo e troppo denaro.








Novità: Presto potrai ordinare e leggere "Outrage of Law", la versione americana de "La legge del Disprezzo".









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