Di Gilberto Migliorini
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Nella favola di Barbablù, quella trascritta da
Perrault, c’è quel senso dell’orrore e del sangue che fa parte delle fantasie
ancestrali, dei retroscena torbidi, degli incubi inconfessati della nostra
infanzia e che nella storia del sanguinario marito si materializzano in forma
narrativa, affiorano nel conflitto tra es
e super-ego, un po’ come per l’auriga
platonico che deve governare due cavalli antagonisti. Le favole consentono ai
bambini, ma anche agli adulti, di attingere al materiale profondo dell’inconscio
con tutti i suoi fantasmi e di riappropriarsi in forma metaforica degli aspetti
in conflitto. I meccanismi proiettivi sono quelli di un transfert carico di significati simbolici: come le macchie di sangue
sulla piccola chiave che Barbablù aveva proibito di usare alla consorte. È
l’occasione per dare sfogo a quelle fantasie a lungo represse, rievocare traumi
infantili, materiale subliminale e contenuti rimossi in una proiezione
fantasmatica con carattere liberatorio. La sublimazione comporta una proiezione
e un investimento su un oggetto che rappresenta la nostra parte negativa, una controfigura
da guardare senza timore. Il nostro inconscio necessita di un alter-ego, altrimenti verremmo
impietriti dal volto di Medusa.
Il caso Bossetti ha tutti gli
ingredienti per dare un volto a quell'inconscio infantile e per rappresentare
un oggetto sul quale poter proiettare le nostre fantasie. Intanto c’è il tema del
sangue e della vittima innocente, non solo la povera Yara e la sua famiglia che
attendono giustizia, ma anche la nostra infanzia perduta che vuole finalmente riparazione. Poi c'è il Dna, che evoca la sostanza nefasta che
nella morfologia della favola simboleggia un delitto (talvolta un patto o un incantesimo).
Nell'immaginario collettivo ormai il Dna
ha assunto una valenza simbolica che ricorda le sostanze venefiche delle
streghe, gli unguenti degli untori e i sortilegi dei maghi, attraverso la
mediazione del touch untuoso e
malefico che svela la natura perversa del colpevole. Al Dna l’opinione pubblica attribuisce un valore indiscutibile di
prova, non si tratta soltanto di un reperto biologico che di per sé, al di
fuori di un preciso sistema di indizi, non significa ancora nulla di preciso. Si
tratta di un fluido magico, di una malia che la strumentazione scientifica
rileva infallibilmente come l’impronta del carnefice, del pedofilo e del
violentatore. È il tema dell’orco e della strega che lasciano una firma
indelebile e il loro marchio efferato.
L’intreccio del sangue, (o comunque di
una sostanza biologica) con quello di una sua attribuzione, viene vissuto in
una dimensione fantasmatica, mobilitando angosce e paure che possono avere un
effetto deformante, prefigurando aspettative e amplificando anche fatti per lo più
insignificanti. Si costruiscono collegamenti e teoremi in forza di un
immaginario che si nutre di quei contenuti inconsci con i loro nessi simbolici.
Può
accadere che un innocente venga trasformato in un mostro, in un orco sotto
l’azione delle fantasie e della grancassa mediatica che ne amplifica la forza e
ne deforma il senso? Può accadere che fatti insignificanti acquistino la
valenza di indizio, che le cose altrimenti normali assumano una luce sinistra,
che perfino la quotidianità sia considerata rivelatrice di oscuri retroscena?
Nel caso Bossetti c’è un solo
elemento a suo sfavore per quanto ci è dato sapere, il
Dna. In quelle condizioni (all'aperto sotto le intemperie) avrebbe potuto ‘sopravvivere’ più di pochi giorni? Esiste
il dubbio che si tratti di sostanza degradata (un po’ lo dicono anche i Ris?)? Oppure
potrebbe essere un deposito biologico non coevo al delitto? Una contaminazione? Tutto il resto, un sistema indiziario evanescente,
ha il peso delle illazioni rispetto a una persona che vive e lavora in quel
circondario, di celle telefoniche che si intrecciano nell'etere tra casa e
lavoro, tra luoghi distanti a un tiro di schioppo, di furgonati che transitano
attorno al centro nevralgico di un comprensorio dove tanti lavoratori si muovono
giornalmente, lungo le arterie principali e dove esistono servizi e attività
economiche (come a Brembate attaccato
al paese di Mapello).
Facile imbastire nessi che
all'apparenza sembrano possedere il peso di un indizio ma che da una analisi
più attenta si rivelano circostanze che possono trovare spiegazioni del tutto
naturali (comperare figurine, fare lampade solari, mangiare in trattoria,
navigare in internet, andare dal fratello e dal commercialista, comprare sabbia
e attrezzi professionali… ecc. ecc., e dove perfino i silenzi del telefonino, la
discrezione e la riservatezza, eventuali e fisiologici litigi di coppia, divengono elementi sospetti, indizi di anomalie comportamentali).
Si parla del furgone di Bossetti (transitato
un’ora prima? E non è detto che sia il suo…) quando neppure si sa se la povera
Yara è stata sequestrata su un furgone scoperto, su un cabinato, su un furgone
chiuso, su un’auto, su una moto. Si parla di coltelli (cutter professionali,
semplici oggetti di consumo per un carpentiere), senza sapere quale arma
abbia prodotto le ferite. Si disquisisce di problemi di coppia sulla base di
illazioni riguardo a cellulari che non registrano sms e telefonate tra coniugi
che vivono sotto lo stesso tetto (e nel caso, per quanti giorni esatti la moglie debba dichiarare di non
averlo fatto quando ha partorito e se magari qualche volta è accaduto che il
marito dormisse dalla suocera). In quanti milioni di coppie esistono fatti che
denotano solo la normale vita coniugale con i suoi eventuali alti e bassi, solo circostanze dovute a fatti contingenti e di forza maggiore?
In un continuo stillicidio giornaliero i media costruiscono indizi improbabili e capziosi, formulano collegamenti tra i fatti usando la premessa di colpevolezza del Bossetti,
cosa tutta da dimostrare, che consente di interpretare qualunque evento banale,
irrilevante, accidentale e inconsistente, come corollario di un teorema. La vita
privata viene scandagliata alla ricerca di un qualsiasi accidente, di una qualsivoglia
quisquiglia da embricare come le tegole di un tetto in un fantasioso,
suggestivo e arbitrario, collage criminologico. Una fallacia composizionis per la quale qualunque cosa Bossetti abbia
fatto e detto gli si ritorce contro e lo incastra a viva forza nel delitto. Senza il preconcetto
di colpevolezza, in base a quei nanogrammi di sostanza biologica (ancora da ‘pesare’ in un contraddittorio), una serie
di circostanze sarebbero solo fatti insignificanti e stupide banalità giornaliere, cose senza rilievo e spessore.
Per la procura Bossetti non parla del delitto dopo la scomparsa di Yara, e questo è la dimostrazione di un suo coinvolgimento. Scusate, ma se invece ne avesse parlato? Cosa avrebbero scritto i procuratori, che il suo interessarsi al caso era sinonimo di innocenza? Ma non c'è solo questo, perché anche se qualcuno dice di averlo visto al cimitero c'è chi parla di un grave
indizio. E se l’avessero visto a far spesa al nuovo centro commerciale? In poche parole, se capovolgessimo
tutti i segni più in segni meno il teorema non perderebbe comunque di
credibilità agli occhi dei colpevolisti senza
se e senza ma che continuerebbero a trovare riscontri, assiomi, postulati,
corollari, lemmi; dimostrazioni costruttive,
per assurdo, per induzione. Sillogismi sempre validi perché qualunque fatto
alla luce di un indizio ancora da valutare in sede di contraddittorio (il Dna), risulta sempre a conferma. Se
domani si venisse a sapere, per dire, che Bossetti una settimana prima del
delitto ha mangiato lumache, qualcuno azzarderà che le ha raccolte proprio nel
campo di Chignolo dove era andato in avanscoperta prima del delitto? Uno
stillicidio di supposizioni criminologiche surreali e inverosimili che
ricordano certi quadri di Magritte o di Salvator Dalì, un trompe l’oeil con uno spiccato illusionismo
onirico.
Come il famoso quadro dove le scarpe si tramutano nelle dita di un
piede, nel nostro caso attrezzi da lavoro si trasformano in arma del
delitto e diventano indizi i telefonini silenziosi che parlano della vita di coppia, i furgonati scoperti
che trasportano metri cubi di sabbia, di certo per occultare cadaveri, e chi più ne ha ne
metta. Una metamorfosi della realtà in rappresentazione, una mantica con accostamenti suggestivi per
i quali si può configurare ed accostare qualunque cosa ad arbitrio.
Il Manzoni ha scritto un’opera (“La
storia della Colonna infame”) che parla proprio di una situazione in cui la
normalità in forza del sospetto e dello stress collettivo, la peste a Milano
nel 1630, viene interpretata come ricerca di un capro espiatorio (si tratta del processo a Gian Giacomo Mora e Guglielmo Piazza). Pietro Verri lo aveva anticipato in quelle "Osservazioni sulla tortura", opera che
aveva per oggetto appunto il processo agli untori,
cioè coloro che la fantasia popolare e il pregiudizio, nato dalla suggestione
collettiva, si riteneva propagassero la peste e altre pestilenze mediante unzioni.
Anche l’Italia di oggi è un
paese sotto stress, un paese in una crisi che dura da troppo tempo e della
quale non si riesce a vedere il fondo. Ed è proprio in situazioni di stress
collettivo che affiorano i vissuti traumatici e si cerca di scaricare le tensioni con dei meccanismi
di compensazione. Nei momenti di sconforto e di difficoltà l’idea di trovare
un colpevole ci riconcilia, almeno in parte, con le quotidiane ingiustizie che
dobbiamo subire. L’incipit del testo manzoniano ci porta in quella dimensione
dove l’indizio è circonfuso di interpretazione e di sospetto nella situazione
della peste portata dai lanzichenecchi:
La mattina del 21 di giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d'un cavalcavia (…) vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteua su le mani, che pareua che scrivesse. Le diede nell'occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo voltato il cantone, e che a luogo a luogo tiraua con le mani dietro al muro. All'hora, soggiunge, mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno de quelli che, a' giorni passati, andauano ongendo le muraglie. (Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame - capitolo I)
Qui
abbiamo uno degli elementi che generalmente vengono chiamati indiziari. Di
fatto, in un contesto particolare, eventi che altrimenti potrebbero risultare
insignificanti suscitano il sospetto, diventano elementi di rilievo. L’azione
di andar rasente a un muro e di scrivere su un pezzo di carta innesca una serie
di illazioni che portano rapidamente a immaginare scenari criminosi. Qualsiasi
azione, anche la più innocente, è suscettibile di una interpretazione sospetta,
per non dire di prova di un delitto, quando il contesto la rende in qualche
modo integrabile in una conclusione a cui si è giunti preventivamente. La
convinzione di colpevolezza farà alla fine precipitare una serie di fatti
irrilevanti come una cascata di elementi di prova alla luce di un teorema. L’elemento suggestivo in un contesto di stress
(la peste) dove il testimone è anche parte lesa e dove l’influenza collettiva
(le voci che corrono) rappresenta la pressione sociale sull'individuo.
La
percezione di qualcosa è sempre pregna di interpretazioni. Gli stessi organi di
senso sono impregnati di ‘teoria’, non siamo recettori passivi. Semmai è
proprio la neutralità un processo di decantazione per il quale si riduce un
fatto ai suoi elementi essenziali svincolati da qualsivoglia tentativo di darne
un significato che ne travalica il senso. Non solo dissonanze cognitive per le quali, ad esempio, un testimone finisce
per integrare i fatti all'interno di un contesto conoscitivo ed affettivo dove
entrano in gioco valori e credenze, ma anche suggestioni e pulsioni che
nell’immediato condizionano e indirizzano emotivamente. In certi casi il
confine tra la realtà e l’immaginazione diviene labile e qualunque elemento,
anche il più fantasioso e arzigogolato, funge da verifica di un sospetto.
Il
concetto di verosimiglianza è uno dei più usati nelle formulazioni del diritto
ed è un passe-partout universale, una forma pseudologica dove all'occorrenza si
può dire tutto e tutto il contrario. Verosimile o simile al vero è probabilmente
di derivazione sofistica e intrattiene rapporti molto stretti con quel principio di induzione che è alla base
di molti paralogismi e di quel principio di verificazione messo alla berlina da
Popper (e sostituito con il criterio
di falsificazione). La base del principio di verosimiglianza è una sorta di
luogo comune o di valore implicito, o ancora di un supposto buon senso che fa
riferimento al senso comune. Sul piano logico una cosa o è vera o è falsa (ad
eccezione di una logica fuzzy con
valori intermedi tra 0 e 1), il verosimile (o simile al vero) è semplicemente
un escamotage con il quale un asserto non viene messo in discussione in quanto
indecidibile, ma viene bollato con una sorta di marchio di garanzia (verosimile)
o con un marchio di contraffazione (inverosimile). L’inverosimiglianza è un
valore indefinito che senza esporsi alla falsificazione logica può
invalidare l’asserto di un testimone o di un imputato mediante una formula che
suscita il sospetto e adombra la menzogna... senza avere però l’onere di dimostrarlo.
Il termine
verosimiglianza è anche sinonimo di probabilità (likelihood) e l’esempio classico viene dal famoso "testa o croce": “se lancio una moneta ed esce di
seguito cento volte testa, qual è la verosimiglianza che quella moneta
sia truccata?”. Direi nessuna, altrimenti la distribuzione statistica
seguirebbe delle mere regolarità. La prova che quella moneta sia truccata (non
una moneta ipotetica e astratta) è data soltanto da una analisi non statistica
ma reale sulla moneta in oggetto. Insomma, prima di dire che è truccata ci vuole un collegio peritale che la analizzi. Se dovessimo basare i processi sulla
statistica potremmo tranquillamente fare a meno delle prove, basterebbe fidarsi
del calcolo delle probabilità con un margine di errore statisticamente nella
norma.
Quella
che poi viene definita bugia (non la
menzogna), riguarda o l’equivoco concetto di verosimiglianza o la mera opinione
di buon senso. Chiunque può avere qualche motivo per mentire su cose
insignificanti e senza nessun interesse, sempre ammesso che si tratti davvero di
bugie e non soltanto di errori della memoria (e dopo tre o quattro anni sfido
chiunque a ricordare senza errori e contraddizioni quello che ha fatto il tal
giorno alla tal ora). Si può mentire per pudore, per
paura, per pigrizia, o semplicemente si può non dire il vero perché il fatto è
senza interesse, senza rilievo, e non ci si rende neppure conto di dire qualcosa
di sbagliato.
Quello che sappiamo è tutto
lì, in pochi nanogrammi di materiale biologico (degradato? non coevo?). I
test del DNA di tipo “touch” possono risultare inaffidabili e fallibili, inclini a
promuovere equivoci e a creare le premesse per incriminare innocenti? Innumerevoli articoli in varie lingue mettono in guardia dal mito
dell’infallibilità del Dna, soprattutto se utilizzato come prova regina. Nel
nostro paese anche sull'onda dei mass-media, sempre alla ricerca dello scoop, non
sembra emergere nel pubblico mediatico la consapevolezza che il Dna è sì uno
strumento di indagine, ma che va sempre inquadrato come dato da interpretare da
parte dell’investigatore.
Il Dna, ancorché effettivamente
in ottimo stato (cosa da verificare
con controprova e da dimostrare in un contraddittorio), può trovare diverse
spiegazioni se non suffragato da altri riscontri. Non bisogna dimenticare che la sua
attribuzione è di tipo probabilistico e non deterministico. Nessuno può condannare una persona per il solo rilievo
del DNA sulla scena del delitto, anche con prove e controprove di laboratorio, soprattutto
quando si tratta di tracce deteriorate e comunque suscettibili di
interpretazioni difformi in merito alla loro presenza in loco. Da
tempo lo slogan prova scientifica è
diventato un mantra acritico. Alcuni sembrano affidarsi ciecamente a dei meri
dati numerici che in quanto tali sono elementi neutrali (ancorché da
verificare), cioè variamente interpretabili solo alla luce di un sistema indiziario
consistente che permetta di inquadrare l’analisi genetica all'interno di una
configurazione di inferenze e di consequenzialità non ricavate a posteriori
come conferma del dato, ma in una premessa investigativa che inquadri l’analisi
genetica in un contesto di indizi e di prove già ben formulato a priori con elementi
concordanti e coerenti tra loro.
Il termine scientifico rischia di diventare l'orpello messo lì più che altro per impressionare quella vasta palude mediatica
ingenua e sprovveduta, impressionabile per i soliti slogan e format divulgativi
che parlano di scienza come se si trattasse di una bacchetta magica e non già
di un sistema che pone proprio l’errore
al centro della sua metodologia, soprattutto quando si tratta della realtà con
tutte le sue contaminazioni e i suoi ingredienti
sconosciuti ed indecidibili. Realtà che non sempre è rappresentabile nella
situazione controllata del laboratorio. In aggiunta, occorre dire che più grande
è il numero di prelievi e maggiore diventa non solo l’accuratezza predittiva,
ma anche la possibile percentuale di errore umano. Compreso il ben noto
meccanismo della profezia che si auto-adempie (o effetto Pigmalione: il peso delle aspettative in qualsiasi
procedimento interpretativo e predittivo) per le influenze psicologiche e fisiologiche che finiscono col far credere di aver
trovato quello che si cerca, soprattutto quando si viene criticati per anni e anni a causa di un’indagine costata molte
risorse di tempo e troppo denaro.
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